Seconde generazioni e audiodescrizioni
Una sala piena di bambini che, alla fine della proiezione, fanno domande al regista e interrompono la frase in tedesco senza avvertire troppo la commutazione di codice: «Vabbè, te lo dico in italiano». Hanno visto Le proprietà dei metalli, film di Antonio Bigini con protagonista un adolescente che parlava la lingua dei loro genitori; o forse lo hanno sentito, intuendone le immagini grazie alla voce fuori campo che rendeva la pellicola accessibile a chiunque potesse ascoltare e comprendere il tedesco, non solo a chi era in grado di capire l’italiano o leggere e decodificare i sottotitoli in lingua inglese. Siamo al Filmtheater am Friedrichshain, un cinema costruito intorno al 1925 e rimasto sostanzialmente in piedi nella Berlino Est, con la stessa facciata neoclassica che negli anni Trenta faceva da sipario ai film di propaganda nazista.
Il Filmtheater era una delle venti sedi del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, che in questa 73° edizione – la quarta sotto la direzione artistica dell’italiano Carlo Chatrian –, oltre al problema dell’accessibilità linguistica per le persone straniere, si poneva quello dell’inclusione delle persone con disabilità: non solo attraverso la considerazione delle barriere architettoniche tuttora esistenti e degli spazi per le sedie a rotelle, ma anche mediante misure come la traduzione nella lingua dei segni di incontri e conferenze, o come la app che ha offerto alle persone non vedenti o ipovedenti le audiodescrizioni di alcune delle pellicole in programma.
Realtà e rappresentazioni
Per più di 31.000 italiani censiti nella capitale – stando a un report diffuso dall’Ufficio Statistiche del Brandeburgo nel 2020, quella italiana sarebbe la quarta comunità di stranieri in città – la Berlinale rappresenta un’occasione per mantenere il contatto linguistico e culturale con l’Italia attraverso il grande schermo. In questo e nei prossimi due contributi per il Magazine Lingua Italiana, però, cercheremo di mantenere una domanda di fondo: quali rappresentazioni del Bel Paese sono state proposte allo spettatore non italiano?
Il pubblico era il fulcro del progetto di Claudia Schramke, autrice delle grafiche che hanno cominciato a segnare il paesaggio urbano della capitale tedesca nelle settimane antecedenti al red carpet di apertura. Dopo due annate limitate da mascherine, proiezioni estive all’aperto e poltrone a scacchiera, il festival ha registrato un ritorno di massa degli spettatori: 320.000 biglietti venduti e 20.000 accreditati provenienti da 132 parti del globo, per una rassegna di più di 200 film che invitavano – così nel testo introduttivo del programma – a «confrontarsi con ambienti, stili di vita e attitudini altamente contrastanti» e a «testare i propri giudizi e pregiudizi».
L’edizione 2023 ha privilegiato il genere cinematografico in cui la pretesa di nesso fra realtà e rappresentazione si fa più forte, e cioè il documentario (agli italiani Le mura di Bergamo e a Laggiù qualcuno mi ama dedicheremo i prossimi articoli): nelle parole di Carlo Chatrian, «la migliore ricetta per una società sana: un luogo dove le contraddizioni non vengono nascoste, ma piuttosto mostrate in quanto occasioni per abbracciare la diversità». Nello specifico, il programma sceglieva di mettere a fuoco la realtà di due scenari geopolitici precisi – l’Ucraina e l’Iran – con una selezione mirata di pellicole. Nel complesso, la Berlinale ha riconfermato la sua intenzione di farsi «luogo di scambio interculturale» e «piattaforma per un’esplorazione cinematografica critica di questioni sociali».
Déshabillez-vous!
L’unico film italiano in competizione non era un documentario, ma piuttosto una visione allucinata, fatta di sequenze virate e primi piani ipnotici, una trance proposta come unica fuga da una realtà intollerabile. Disco Boy, opera prima del tarantino Giacomo Abruzzese – nonché Orso d’Argento per il contributo artistico della fotografa Hélène Louvart – ha scelto il modo paradossalmente più lucido per raccontare i drammi che si consumano quotidianamente nell’Europa dell’inclusione. Di italiano contiene solo un «grazie mille» pronunciato scherzosamente dentro un taxi parigino: è girato in polacco, inglese, igbo e francese, ma a ben guardare la lingua è una sola, quella dei poveri, che resta la stessa dall’Europa dell’Est al Sud del mondo, dalla Bielorussia al delta del Niger. La realtà in questione, infatti, è quella dei «sans papiers», migranti senza documenti, giovani nati nel posto sbagliato che, malgrado il sorriso sdentato, sanno ancora sognare l’opportunità di una vita migliore, e per una nuova cittadinanza sono disposti a tutto: a perdere il nome o la vita durante il viaggio e farsi numeri, a denudarsi per obbedire alla disciplina della Legione Straniera e a mettere la faccia del fango, prima di ritrovarsi a rimpiangere tutto, senza che Edith Piaf possa alleviargli il tormento. Un lungometraggio che alterna il canto delle cicale nigeriane alla musica elettronica di Vitalic, che mescola silenzi e frastuoni puntando sul linguaggio del corpo – indimenticabili le danze speculari di Leatitia Ky e Franz Rogowski –, che fa dialogare l’Europa degli ultimi e l’Africa, il bianco e il nero, sovraimprimendoli sullo stesso volto.
Meine Stadt
Tra i lungometraggi in concorso, Ingeborg Bachmann. Viaggio nel deserto era un film non italiano, ma con tanto italiano dentro. Provando a mettere a fuoco la travagliata esistenza della poetessa austriaca che tradusse Giuseppe Ungaretti in tedesco e che scelse Roma come propria città d’adozione («Meine Stadt», la mia città, la chiama, «l’unica città in cui non mi sento sola»), Margarethe von Trotta ha dovuto portare sullo schermo personaggi che alternano le due lingue, introducendo nella colonna sonora le note di Casta diva e quelle di Malafemmena. «Solo chi ha il dono della poesia può tradurre un poeta», dice il «Maestro Ungaretti» a Ingeborg nella scena dedicata al loro incontro, rammaricandosi di non poterla tradurre in italiano a causa della sua scarsa conoscenza del tedesco. Ha fatto ridere, alla Berlinale, la scena in cui la scrittrice porta il compagno – lo scrittore svizzero Max Frisch – in un negozio d’abbigliamento italiano, causandone l’ennesima esplosione: «mi stai trasformando in un dandy!». L’interesse di von Trotta non era evidentemente quello di approfondire i legami della poetessa con l’Italia (Miglio, 2012), ma piuttosto quello di consegnare alla sceneggiatura le massime («in una relazione tutti parlano al passato e ognuno è solo con i propri pensieri intraducibili») di una donna capace di analizzare il linguaggio spesso violento dei rapporti uomo-donna come dato transculturale: «il fascismo – recita la brava Vicky Krieps – è il primo elemento nelle relazioni tra uomo e donna».
La parmigiana non m’aggrada
Se il film di apertura della Berlinale sfidava anche l’abitudine di pensare l’italiano come lingua dell’opera (She came to me di Rebecca Miller racconta la comicissima genesi di un’opera in lingua inglese, e del mondo dell’opera ride con l’aria Lascia ch’io pianga in sottofondo), non si può dire che tutto il programma andasse in direzione contraria agli stereotipi sull’Italia e l’italianità.
Film come L’ultima notte d’amore hanno sostanzialmente veicolato – a discapito di sforzi evidenti come le scene notturne girate in autostrade bloccate per l’occasione, malgrado l’ottimo cast e nonostante le bellissime colonne sonore – l’immagine di un’Italia in cui la mafia ha automaticamente l’accento calabrese, in cui i cattivi a Milano sono sempre meridionali o cinesi, e alle donne del Sud non resta molto altro che fare la parmigiana o chiedere «Ma come parli?» a chi osa un «Non m’aggrada».
Sull’onda delle Fimmine ribelli omaggiate da Francesco Costabile nella precedente edizione, anche quest’anno la Berlinale ha dato voce alle donne che si ribellano alla mafia dall’interno. Muovendosi ancora tra Milano e la Calabria, The Good Mothers – co-produzione italo-inglese diretta da Elisa Amoruso e Julian Jarrold, Orso d’Oro per la miglior serie televisiva – ha certamente il merito di trasporre al cinema tutto quel repertorio di frasi che contribuiscono a mantenere la donna di mafia in uno stato di doppia oppressione («Statti muta», «Parri troppu assai», «A gente parra»), ma non riesce ad andare molto oltre la rappresentazione di un Sud fatto di pecore per strada e tamburelli ai diciottesimi.
Il babbo ha i debiti
Molto più convincente il lavoro di Antonio Bigini di cui si diceva in apertura, che spostava l’asse sull’Appennino riminese e riusciva non soltanto a parlare di intimidazioni («Hanno ammazzato le galline. Il babbo ha i debiti») e omicidi attraverso una semplice porta socchiusa, ma anche a fare poesia con un banale specchietto e un raggio di sole. Le proprietà dei metalli ha riportato in auge il termine minigeller: è la storia di uno di quei bambini che, dopo aver visto l’illusionista israeliano Uri Geller in televisione, hanno cominciato a piegare coltelli e cucchiai, diventando oggetto di qualche ricerca scientifica. In questo caso la ricerca viene condotta da un docente italo-americano («Ma perché parli così?», gli chiede il protagonista, incuriosito dal suo accento), e a essere piegato, più che il metallo, è il senso comune della lingua: di un martello si dice che «è freddo, è caldo, ma anche nero... sa di bruciato... sembra un gatto!». È un film realizzato con pochissimi oggetti metallici d’uso quotidiano, che riporta all’Italia rurale degli anni Settanta, con le nonne che lasciano il piatto delle tagliatelle coperto e i bambini che giocano fra le sterpaglie e si impolverano le gambe, mentre i padri fanno fatica a pagare le bollette e sognano i premi americani.
Maglia azzurra e cemento
L’ultimo film contenente lingua italiana su cui è giusto spendere qualche parola è Sonne und Beton (Sole e cemento), opera del regista tedesco David Wnendt. Come Das Lehrerzimmer (L’aula insegnanti) di Ilker Çatak – altro titolo in programma – è un film che utilizza un registro non solo serio ma anche tragico per parlare di scuola e di insegnanti, e non a caso non è italiano (Sandrucci, 2012). Tratto dall’omonimo romanzo (ma i giovani attori hanno dichiarato di non averlo letto e di essere riusciti ad ascoltare solo il podcast) del comico berlinese Felix Lobrecht, è ambientato nella capitale tedesca – precisamente nel quartiere di Gropiusstadt, una delle aree più degradate di Neukölln – e ha per protagonisti quattro adolescenti che organizzano un piano per migliorare le loro vite: rubare i computer appena arrivati a scuola. Sono i figli di genitori che lavorano full time per 800 euro al mese, e che sanno come accogliere il deputato all’Istruzione che si reca nella loro scuola a promettergli brillanti carriere. Parlano in tedesco, in arabo e in mandarino, ma uno di loro – il piccolo Gino – indossa la maglia azzurra. A casa sua si parla tedesco, e l’italiano salta fuori solo quando il padre picchia la madre.
Bibliografia
I. Bachmann, Giuseppe Ungaretti, Gedichte, Übertragung und Nachwort von Ingeborg Bachmann, Frankfurt am Mein, Suhrkamp Verlag, 1961
F. Lobrecht, Sonne und Beton, Berlin, Ullstein, 2017.
C. Miglio, La terra del morso. L'Italia ctonia di Ingeborg Bachmann, Macerata, Quodlibet, 2012.
R. Sandrucci, La scuola sotto il genere della commedia, Pisa, ETS, 2012.
Immagine: ©Internationale Filmestspiele Berlin / Claudia Schramke, Berlin