Ci sono due categorie che nella campagna elettorale non hanno avuto le stesse possibilità di lavoro delle volte precedenti: i giovani, spesso stranieri, che, in una fase di calo vistoso del numero di militanti, venivano assoldati per attaccare manifesti e distribuire volantini nelle cassette delle lettere, e i linguisti e semiologi che studiavano il linguaggio della propaganda elettorale.
Non so se alla base della scarsa presenza di manifesti sugli spazi predisposti per contenerli ci siano i problemi burocratici (come qualcuno ha ipotizzato), le ristrettezze economiche o la scomparsa definitiva dei volontari dell'attacchinaggio; non so se la drastica riduzione dei comizi in piazza vada imputata alla stagione ancora invernale, al timore di flop vistosi, alla forte focalizzazione sui leader nazionali (che non dispongono del dono dell'ubiquità e non possono essere presenti nelle mille piazze d'Italia). So, però, che mai una campagna elettorale è stata così parca di discorsi, di dibattiti, di confronti tra politici di idee opposte. E così piatta e banale sul piano linguistico.
Love actually e odio da tastiera
Certo, la propaganda si è trasferita, molto più che nelle occasioni precedenti, nelle televisioni e, soprattutto, nei social network o in rete. Con diverse conseguenze. La prima è il trionfo della comunicazione breve, stereotipa, che utilizza slogan per loro natura ripetitivi ("prima gli italiani" – con le innumerevoli varianti regionali: "prima i sardi", "prima i trentini", e via dicendo; "via le tasse universitarie"; "con la flat tax riparte l'Italia"; "mandiamoli tutti a casa", "vota l'Europa (o la scienza, o la cultura…). Scegli il Pd"). Fuori dagli slogan, la miniaturizzazione del discorso (coerente con la frequente diffusione dei messaggi attraverso i social network) produce video come quello che vede contrapposte Laura Boldrini e Giorgia Meloni: le due politiche si contrastano sfogliando cartelli alla maniera di Love Actually, la prima sul tema "Sciogliere le organizzazioni fasciste", la seconda con la risposta "Radical chic in miniera". Questa tendenza alla riduzione del discorso politico ha fatto dire a Claudio Marazzini, Presidente dell'Accademia della Crusca, che quella del 2018 è «la campagna elettorale linguisticamente più povera di tutti i tempi». È in questo quadro linguisticamente povero che può avere sviluppo, e brillare sullo sfondo nebbioso, lo slogan tagliente, la violenza verbale esibita attraverso lo schermo (da "leoni da tastiera"), la retorica intrisa d'odio.
La vittoria del monologo
Ma c'è una seconda conseguenza, molto più rilevante: l'abbandono del dialogo a favore del monologo. Il fatto è evidente in televisione, dove è chiaramente tramontata l'era dei talk show (ormai relegati nelle emittenti locali), i faccia a faccia nei quali gli avversari politici sovrapponevano la propria voce, a volume sempre più alto, a quella dell'antagonista, si azzuffavano, ma insomma si confrontavano. Oggi, le sfide, anche quando qualcuno (come Renzi) le lancia, non vengono raccolte e i leader preferiscono comparire solitari sul video, autoreferenziali, intervistati da giornalisti quasi mai incalzanti. Con un corollario: in televisione compaiono quasi solo i leader, con le loro caratteristiche comunicative e linguistiche personali: quelle ormai arcaiche di un Berlusconi, che replica la scena della firma del contratto con gli italiani, e di un Bersani, o di un Grasso, che ripropongono stili comunicativi dei decenni scorsi; la predisposizione di Renzi a occupare, da solo e con foga, il palcoscenico, in un dialogo, fittizio naturalmente (mancando il contraddittorio), con i propri interlocutori e con le loro immaginarie obiezioni; il tono misurato, da buon ragazzo, ma macchiato da strafalcioni, di Di Maio, che ha abbandonato il culto di Beppe Grillo per la parola iperbolica; l'atteggiamento linguistico istituzionale di Emma Bonino, che a sua volta contrasta così tanto con quello volutamente trasgressivo di Marco Pannella (e della stessa Bonino d'antan); la violenza verbale di Giorgia Meloni da una parte e di Matteo Salvini da un'altra.
I social media e il consenso dei già consenzienti
Nella vita reale, poi, al comizio si sostituiscono le passeggiate nei quartieri e nei mercati, dove di solito i leader e i candidati, anche quelli locali, raccolgono il consenso dei fan e la dignitosa indifferenza degli avversari. Ed è, quest'ultima, la terza conseguenza, in assoluto la più rilevante: le esibizioni solitarie e il presenzialismo sui social media fanno sì che i politici parlino quasi esclusivamente alla cerchia di chi già li appoggia (o, nei social, anche alla cerchia degli oppositori a prescindere, quelli che popolano i profili social per ribattere, con astio e acrimonia, all'avversario, senza sviluppare argomentazioni più o meno elaborate, ma rilanciando luoghi comuni, slogan, insulti anche personali). Del resto si sa che il mondo dei social network, che ci appare come un'ampia platea democratica, forse la più ampia che esista, mette prevalentemente in contatto chi ha idee e interessi simili: l'uso dei social media aiuta molto, quindi, a rafforzare il consenso dei già consenzienti, ma ha uno ruolo limitato nel convincere non dico gli avversari, ma gli indecisi, che a tutt'oggi compongono il raggruppamento elettorale di maggioranza relativa. Non è un caso che, esaminando l'andamento delle medie dei rilevamenti, ci si accorge che nel periodo della campagna elettorale monitorabile attraverso sondaggi pubblici, gli scostamenti del consenso di ogni coalizione sono stati minimi.
Uno vale uno
Dal punto di vista linguistico, una campagna elettorale così piatta appare espressione di quell'iper-rispecchiamento della lingua dell'elettorato che avevamo già notato pochi mesi fa in questo sito. La conseguenza è proprio quella indicata da Claudio Marazzini: dietro l'italiano ipersemplificato, con punte sempre maggiori di imprecisione, che cerca di suscitare l'immedesimazione dell'elettore, si nasconde la vittoria dell'antipolitica, l'abbassamento del livello dell'argomentazione. È il trionfo, anche nel campo della lingua (e delle regole che ne reggono il funzionamento condiviso), di quel «uno vale uno», che si è esteso dal terreno di prima coltura, quello del Movimento Cinque Stelle, all'intero campo della politica italiana.