Helenio Herrera, argentino naturalizzato francese e considerato uno dei migliori allenatori della storia del calcio, oltre ai vari trofei che conquistò durante la sua permanenza in Italia, ci regalò anche lo slogan “Taca la bala”, una versione un po’ maccheronica del francese “Attaquez le ballon” (Biografie online). Questo motto, espressione del gioco veloce che Herrera voleva inculcare nei suoi giocatori, è anche il paradigma di un calcio che già negli anni Cinquanta preannunciava il nuovo assetto idiomatico del calcio globale. Prima di arrivare in Italia, Herrera aveva già allenato in Francia, in Spagna e in Portogallo.

In questa sede, si intende ripercorrere succintamente la storia dell’immigrazione calcistica in Italia illustrando le principali dinamiche linguistiche che ne derivano.

Breve storia dell’immigrazione dei calciatori stranieri in Italia

La presenza straniera nell’ultimo secolo, inizialmente molto limitata e progressivamente sempre più importante, è stata condizionata da diverse norme e decisioni che riassumiamo in cinque punti principali (cfr. Siebetcheu 2012).

1. La Carta di Viareggio (2 agosto 1926). Questo documento, che organizzò il mondo del calcio a livello nazionale, istituì, tra le altre cose, il primo blocco degli stranieri (in vigore dal 1928), che determinò i soli 7 stranieri presenti nella stagione 1929-1930. Per aggirare queste norme, all’indomani della Carta di Viareggio, iniziarono in modo sistematico i flussi organizzati degli oriundi italiani, specialmente dall’America latina (tra questi, ricordiamo almeno Raimundo Orsi detto “Mumo”, giocatore della Juventus che indossò prima la maglia della nazionale argentina, poi quella della nazionale italiana, infine, nuovamente, quella albiceleste). Ricordiamo che questi oriundi fornirono un grande contributo alle due vittorie mondiali della nazionale nel 1934 e nel 1938. Astengo (2019) ricorda inoltre che dal campionato 1939-1940, dopo l’occupazione militare e la trasformazione del Paese delle Aquile in Protettorato italiano, era stato consentito anche il tesseramento di giocatori albanesi.

2. Prima riapertura del mercato agli stranieri. Nella stagione 1946-1947, fu riaperto il tesseramento di calciatori stranieri (2 per squadra). Dalla stagione 1946-1947, dopo la fascistizzazione del pallone, si trovavano così nella struttura demografica del campionato italiano tre tipi di giocatori provenienti dall’estero: oriundi arrivati negli anni ’30; albanesi rimasti in Italia; acquisti di nuovo conio, arrivati grazie alla modifica del regolamento. Dal 1946 al 1950 furono ben 115 gli stranieri che sbarcarono nel Belpaese (Astengo 2019).

3. Il Veto Andreotti. «Il presidente della Federcalcio Ottorino Barassi chiese al governo – e per esso a me sottosegretario alla presidenza del Consiglio – di bloccare le immigrazioni di stranieri» (Andreotti 1986): varato il 17 maggio 1953, il cosiddetto “Veto Andreotti” (comunicato al Coni con un telegramma) vietò il soggiorno in Italia ai calciatori stranieri professionisti. Dopo la nuova riapertura del campionato agli oriundi nella stagione 1956-1957, le prestazioni deludenti della nazionale italiana nei Mondiali del 1958 in Svezia (prima edizione a cui l’Italia non riuscì a qualificarsi perché eliminata nelle qualificazioni dopo una partita persa contro l’Irlanda del Nord) e soprattutto del 1966 in Inghilterra (eliminazione ai gironi, dopo l’inaspettata sconfitta contro la Corea del Nord) ebbero come conseguenza il blocco definitivo delle frontiere. «[L]a chiusura agli stranieri portò al quasi totale eclissamento dei nostri club in Europa» (Pagani 2016).

4. Nuova riapertura agli stranieri. Nei primi anni Ottanta, grazie in particolare alla volontà dei club, il calcio italiano riaprì le frontiere agli stranieri nella speranza di dare nuova linfa a tutto il movimento, all’epoca ingrigito dallo scandalo scommesse e bisognoso di fantasia e competitività. Le squadre italiane di serie A poterono tesserare un calciatore straniero nel campionato 1980-1981, due a partire dal 1982-1983, tre dal 1988-1989. Il vincolo dei tre stranieri in campo restò invariato, sia per il campionato di serie A sia per le competizioni continentali, malgrado l’istituzione dell’Unione europea (1992) e le precedenti direttive comunitarie che, in base all’art. 48 del Trattato CEE (1957), ingiungevano di abolire, anche nello sport professionistico, «qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri».

5. La Sentenza Bosman. Tutto cambiò con la cosiddetta Sentenza Bosman, provvedimento adottato dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel 1995 in relazione al caso del calciatore belga Jean-Marc Bosman: da quel momento in poi le federazioni nazionali ebbero soltanto la possibilità di imporre limitazioni al tesseramento di calciatori non comunitari, che la FIGC stabilì allora nel numero di due per squadra. Tale sentenza rivitalizzò il flusso dei calciatori stranieri in Italia in quanto si passò dai 72 calciatori nella stagione “pre-Bosman” ai 145 dell’anno successivo.

6. Nuova restrizione e nuova riapertura. Dopo i campionati mondiali di Sudafrica 2010, dove l’Italia, detentrice del titolo, fu eliminata al primo turno, il Consiglio federale della FIGC, nel rispetto del quadro normativo fissato dalla Bossi-Fini e in sintonia con le linee di politica sportiva dettate dal Coni, decise di ridurre la quota degli stranieri non comunitari da 2 a 1 giocatore a partire dalla stagione 2010-2011. Tale limite, tuttavia, fu nuovamente modificato l’anno successivo, quando il numero dei calciatori non comunitari tornò ad essere di 2 per squadra. Per aggirare queste quote, molti giocatori non comunitari optarono per l’acquisizione della cittadinanza di un Paese dell’UE.

Profilo attuale dei calciatori e delle calciatrici stranieri/e in Italia

Gli studi condotti nell’ultimo decennio dall’Osservatorio linguistico permanente dell’italiano diffuso fra stranieri e delle lingue immigrate in Italia dell’Università per Stranieri di Siena hanno evidenziato cinque indicatori per definire e analizzare il profilo demografico dei calciatori stranieri in Italia: indicatori di presenza, incidenza, provenienza, dominanza e eterogeneità geografica. Proponiamo una tabella riassuntiva che illustra i primi tre indicatori in riferimento alla stagione 2020-2021 della serie A maschile e femminile.Immagine 0

Se nella serie A maschile l’Udinese è al primo posto rispetto alla presenza (27) e l’incidenza (84,37%) più alta di stranieri, nella serie A femminile per gli stessi indicatori primeggia invece il Napoli rispettivamente con 16 presenze che corrispondono ad un’incidenza del 45,71%.

È opportuno sottolineare che la presenza straniera nel calcio italiano non può essere considerata solo come un fenomeno passeggero, un via vai di calciatori legato alle logiche del calciomercato. In realtà, secondo il Report Calcio 2020, 53 dei 594 calciatori e calciatrici convocati per le rappresentative nazionali italiane nella stagione 2018-2019 sono di origine straniera. Un dato, questo, che corrisponde al 9% del totale. Questi/e calciatori/trici di origini straniere convocati/e nelle nazionali italiane provengono da 22 paesi del mondo, tra cui il Brasile (18), la Costa d’Avorio (6), l’Albania (3), la Germania (3), il Ghana (3) e il Camerun (3). Aggiungiamo inoltre che dal 1920 ad oggi, una sessantina di oriundi, provenienti da una decina di paesi, ha giocato nelle varie nazionali italiane. L’Argentina, con una trentina di giocatori, è il paese che ha fornito il maggior numero di oriundi nel calcio italiano (Siebetcheu 2015).

I dati illustrati nei paragrafi precedenti mostrano che l’immigrazione nel calcio italiano non può e non deve essere dissociata dall’immigrazione in generale, nonostante il divario determinato dal profilo economico dei calciatori professionisti. Non a caso Valeri (2005: 382) considera il calcio come una buona cartina al tornasole di ciò che avviene, più in generale, a livello sociale. Riflettendo in modo specifico sul ruolo del calcio in contesto migratorio, Gasparini (2013) osserva che si tratta di un terreno di studio particolarmente interessante per riflettere sulle espressioni identitarie e ripensare l’integrazione dei migranti attraverso lo sport. È anche per questo motivo che Porro (2008) sottolinea che il calcio ha cessato da molto tempo di rappresentare soltanto un gioco in quanto oggi costituisce un vero e proprio sistema culturale.

Il plurilinguismo nel calcio italiano

Secondo la Commissione europea, «alla conoscenza delle lingue è attribuita una certa aura di genialità. […] Moltissime celebrità europee sono plurilingui. Prendiamo ad esempio il calcio, uno sport che tradizionalmente non viene associato alla competenza linguistica, ma che pullula di giocatori che parlano in più lingue correttamente e correntemente» (Commissione europea, 2010: 6). Partendo da questa constatazione, i vari modelli di rilevazione del plurilinguismo nel calcio italiano che proponiamo consentono di analizzare il plurilinguismo in diverse sfaccettature.

In primo luogo la ricognizione delle lingue si può basare sulle nazionalità presenti nei campionati (modello Toscane Favelle versione Albero di Natale). Secondo questo modello, nell’attuale stagione 2020-2021, lo spagnolo è la lingua con il maggior numero di potenziali locutori (86). Nella serie A femminile, è invece l’inglese la lingua ufficiale con il maggior numero di locutrici visto che se ne contano 21. Queste lingue sono sicuramente le prime su cui investire per agevolare l’integrazione degli stranieri e delle straniere nel nostro calcio. Un’integrazione che, a nostro avviso, deve tener conto tanto dei diritti linguistici dei calciatori, attraverso la valorizzazione delle loro lingue, quanto dei loro doveri linguistici, tramite l’insegnamento dell’italiano. Ricordiamo che se nella serie A maschile sono presenti 42 lingue riconosciute come ufficiali nei paesi di provenienza dei calciatori, nella serie A femminile ne contiamo 26.

In secondo luogo, il plurilinguismo nel calcio può essere determinato dalle autodichiarazioni dei calciatori e delle calciatrici. In realtà, il plurilinguismo non si limita soltanto alla somma delle lingue ufficiali dei paesi rappresentati nei nostri campionati, ma anche, come suggerisce il modello Pentecoste in Campo, alle lingue apprese e usate in vari contesti (scuola, famiglia, carriera calcistica, ecc.). In questi casi, a prescindere dalla competenza linguistica, che può chiaramente variare da una lingua ad un’altra, i giocatori e le giocatrici sono invitati ad indicare tutte le lingue che fanno parte del loro repertorio linguistico. Nell’attuale campionato di serie A, Lukaku non è solo uno dei marcatori più prolifici, ma è anche uno dei calciatori che conosce più lingue visto che ne parla ben 8 lingue: lingala, francese, fiammingo, inglese, portoghese, tedesco, spagnolo e italiano (cfr. Siebetcheu 2020). Nel calcio femminile, Sara Gama, capitana della Juventus e della Nazionale Azzurra, che ci permettiamo di citare in questa sede in quanto italiana con padre congolese, dichiara di conoscere quattro lingue: francese, italiano, inglese e spagnolo. Se, grazie alle loro doti tecniche, questi calciatori possono gestire il gioco imponendo il possesso palla a favore delle loro squadre, le loro competenze linguistiche garantiscono varie combinazioni e scelte linguistiche prima, durante e dopo le gare.

Le scelte linguistiche in campo

In relazione alle scelte linguistiche dei giocatori stranieri, è ovvio come esse, per garantire la comprensione in campo ma anche per creare i presupposti per vincere una partita («una squadra vince solo se la comunicazione funziona», Lavric/Steiner 2012: 15), debbano essere oggetto costante di mediazione. Focalizziamo l’attenzione su alcune di queste scelte linguistiche.

Come noto, l’inglese è attualmente indicata come la principale lingua di comunicazione internazionale, ma in ambito calcistico una sola lingua franca per la comunicazione non può bastare. A dimostrarlo sono le parole del giocatore olandese De Vrij, appena arrivato alla Lazio: «Chiedo ai compagni di parlare inglese ma non mi danno retta» (Gazzetta dello Sport, 3 settembre 2014: http://tinyurl.com/kfnyby3). Un rifiuto probabilmente legato al fatto che nella stagione in cui De Vrij arrivò nella squadra capitolina (2013-14), i giocatori erano prevalentemente italofoni, ispanofoni e francofoni.

Durante le partite o gli allenamenti la lingua viene scelta anche su base “democratica”, cioè gli allenatori possono optare per la lingua parlata dal maggior numero di giocatori. La forte presenza di giocatori ispanofoni (12 su 17 stranieri, tra cui 10 argentini) nel Catania nella stagione 2010-11 portava spesso l’allenatore Diego Simeone a usare lo spagnolo. Questa “scelta democratica” non è sempre ben accettata, quando la “lingua di maggioranza” non è quella dei giocatori nativi. Esemplare il caso della squadra del Paris Saint-Germain, quando alla guida tecnica c’era l’italiano Carlo Ancelotti e dove l’uso dell’italiano, lingua della maggioranza dei giocatori della squadra francese e dello stesso allenatore, poteva venire percepito come discriminatorio, perché «se sei francese, hai meno chance di giocare» (cfr. Siebetcheu 2017).

Le scelte linguistiche possono essere “tattiche” quando coinvolgono le scelte degli allenatori per agevolare la comunicazione in campo. In questo senso, l’allenatore Delio Rossi, quando era alla guida tecnica del Palermo (stagione 2010-11) osservò che: «Il problema è sempre il solito, se alleni sette persone in sette lingue diverse è difficile. Ormai viviamo con gli interpreti» (https://www.mediagol.it). Questa internazionalizzazione del calcio, che fa riferimento a nuove figure quali interpreti, docenti di lingua e altre ancora, è confermata dalle dichiarazioni dell’ex calciatore dell’Inter Samuel Eto’o, al suo arrivo nella squadra dell’Anži in Russia: «Tutti quelli che non sono russi hanno un interprete personale, ognuno della sua lingua: quando l’allenatore deve spiegare un esercizio, a volte entrano in campo in sei-sette tutti insieme, fa molto ridere» (Gazzetta dello Sport, 26 settembre 2011: 15).

Il calcio strumento di educazione linguistica e di promozione al plurilinguismo?

Nonostante gli ostacoli linguistici che incontrano allenatori e giocatori, soprattutto all’inizio della loro esperienza nel nuovo paese, sembra evidente che il plurilinguismo fornisca più vantaggi che problemi. La media di 3 o 4 lingue parlate dai calciatori stranieri in Italia può in effetti essere una sfida a tifosi e comuni cittadini per rispondere all’appello della Commissione europea (2008) che esorta i cittadini europei a parlare almeno tre lingue.

Bibliografia

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Il ciclo Un treno di parole verso gli Europei di calcio 2021 è curato da Rocco Luigi Nichil

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Oceano Mura. Note sul lessico di Rocco Luigi Nichil

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Immagine: Centro Sportivo "La Pinetina", Appiano Gentile (Como), 1973. Da sinistra: il calciatore italiano Alessandro "Sandro" Mazzola e l'allenatore franco-argentino Helenio Herrera in allenamento all'Inter nella stagione 1973-74

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