Universalismo o parzialità?

Dopo i primi burrascosi decenni di convivenza tra il nuovo Stato italiano e le gerarchie ecclesiastiche vaticane, queste ultime, sulla spinta di un forte movimento di base e intimorite da una possibile avanzata socialista nel quadro del rinnovato sistema elettorale proporzionale a suffragio sostanzialmente universale, benché ancora solo maschile, si rassegnarono ad accettare che si costituisse anche in Italia un partito di massa di ispirazione cattolica.

Principale artefice di questa operazione fu don Luigi Sturzo, il quale, nella sua finezza di pensiero che sapeva non confondere i pur tangenti piani spirituale e temporale, chiarì subito perché il Partito Popolare Italiano non potesse e non dovesse configurarsi come una forza politica squisitamente confessionale e clericale, ma si proponesse quale formazione desiderosa di concorrere al perseguimento del bene comune nazionale all’interno del perimetro di istituzioni democratiche e liberali moderne; così il sacerdote siciliano si espresse nel giugno del 1919, all’atto di nascita ufficiale del PPI, mettendo bene in luce quanto la nominatio rerum avesse forti ricadute pratiche e ideali: «È superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici; il cattolicismo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, ed abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione».

La «grave ora» del tempo presente

L’assunto trovava piena rispondenza nello storico «appello» lanciato pochi mesi prima, il 18 gennaio 1919 in concomitanza con l’aprirsi della conferenza di pace di Parigi, «a tutti gli uomini liberi e forti […] senza pregiudizi né preconcetti»: questa duplice dittologia – figura retorica ampiamente impiegata nel documento – da un lato intende far subito leva sulla strategia comunicativa dell’avvicinamento attanziale (perseguito anche col forte legame all’hic et nunc e con la ricerca di un rapporto diretto tra mittenti e destinatari: «in questa grave ora […] facciamo appello»), e dall’altro definisce la disposizione intellettuale che ci si aspetta dagli interlocutori.

Se a prima vista può sembrare un’allocuzione selettiva, a ben vedere è vero piuttosto il contrario, giacché le uniche persone che sarebbero rimaste (auto)escluse dall’«appello» sarebbero state quelle mentalmente sottomesse alle ideologie e dunque indisponibili ad ogni confronto e ragionamento di merito, e quelle troppo tiepide e pavide per raccogliere una simile sollecitazione in un momento così critico come quello postbellico: in sostanza i mittenti, che sagacemente all’inizio non si identificano e non si presentano con precisione perché ricorrono ad una più efficace e inclusiva prima persona plurale, si rivolgono a tutti coloro che oggi definiremmo, sempre per restare ad espressioni di matrice religiosa, «uomini di buona volontà». Una strategia comunicativa che infatti viene ribadita, a mo’ di cornice ideale e retorica, alla fine del documento: «A tutti gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti, a quanti nell’amore alla patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano internazionalismo, a quanti apprezzano e rispettano le virtù morali del nostro popolo, a nome del partito popolare italiano facciamo appello e domandiamo l’adesione al nostro programma» che, in dodici punti, seguiva l’«appello» stesso.

Contro «una sistematica lotta di classe» e i «nuovi imperialismi»

Un programma ancora oggi per molti versi sorprendente e attuale, che declinava i valori di ispirazione cristiana – ovviamente non sottaciuta e anzi più volte esplicitata – tenendo presenti alcuni ideali civili e morali di base ma che si sostanziava in proposte concrete. È molto interessante da questo punto di vista osservare il lessico impiegato, che si innesta in un tessuto sintattico formale e articolato, e in un impianto retorico aulico e solenne: se è vero infatti che il popolarismo intendeva distinguersi tanto dalle «democrazie socialiste che tentano la materializzazione di ogni idealità» quanto dai «vecchi liberalismi settari che nella forza dell’organismo statale centralizzato resistono alle nuove correnti affrancatrici», è però altrettanto vero che delle une e degli altri esso assumeva parole e concetti, o perché conformi alla dottrina sociale cristiana o perché li reinterpretava e li circoscriveva magari attraverso l’uso di opportuni determinanti (per altro in tutto l’«appello» abbondano le locuzioni aggettivali e avverbiali).

Al repertorio più tradizionalmente di sinistra si possono così ricondurre voci ed espressioni, all’occorrenza appunto parzialmente ridefinite, come «giustizia sociale», «pacifico progresso della società», «rigettiamo gli imperialismi», «uguaglianza del lavoro», «migliore avvenire», «Stato veramente popolare», «elevazione delle classi lavoratrici», «voto femminile», «sviluppo progressivo», «sovranità popolare», «riforme», «organizzazione di classe nell’unità sindacale», «pieno diritto al lavoro», «conflitti anche collettivi del lavoro industriale e agricolo», «capitale», «previdenza sociale» e «libertà popolari». Ben rappresentato anche il lessico di estrazione conservatrice, nazionalista e liberale: «Patria», «diritti nazionali», «libertà» (di varia natura economico-sociale), «coscienza nazionale», «terreno costituzionale», «personalità individuale», «istituto parlamentare», «monopoli statali», «formazione e tutela della piccola proprietà», «conservazione», «iniziative private», «colonizzazione interna del latifondo», «provincie redente», «tradizioni della nazione» e «politica coloniale».

La terza via

A ciò il Partito Popolare Italiano aggiungeva proposte programmatiche, e dunque parole, più peculiarmente “sue”, o discendenti direttamente dall’ispirazione al magistero cattolico o informate alla visione di società da esso derivante. Se non stupisce imbattersi in vocaboli o sintagmi come «programma politico-morale patrimonio delle genti cristiane», «libertà religiosa», «saldi principî del cristianesimo che consacrò la grande missione civilizzatrice dell’Italia», «integrità della famiglia» e «libertà ed indipendenza della Chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale», più rilevanti sono i riferimenti ai rapporti e alle strutture da instaurare nel nuovo assetto nazionale e internazionale: meritano attenzione in particolare «l’autonomia comunale», «il più largo decentramento nelle unità regionali» e la «libertà e autonomia degli enti pubblici locali» di matrice federalista, «il collegio plurinominale a larga base con rappresentanza proporzionale» e «il senato elettivo» per un impianto istituzionale pienamente democratico, la «riorganizzazione della beneficenza e dell’assistenza» tanto pubbliche quanto private per coniugare solidarietà e sussidiarietà.

Una delle dittologie chiave che apre l’«appello» riguarda «nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà» (e si ricordi per inciso che il movimento antifascista denominato con questi due ultimi sostantivi nacque una decina d’anni più tardi in ambienti non cattolici): ideali raggiungibili solo tramite il tenace perseguimento «insieme della sovranità popolare e della collaborazione sociale». Questo avrebbe portato a consolidare «una pace giusta e durevole», sia per ricomporre le diverse istanze interne sia, soprattutto, rispetto al quadro internazionale: e proprio qui il PPI segna un’altra specificità, appoggiando dichiaratamente i Quattordici punti di Wilson (che poi non ignoravano gli spunti contenuti nella Lettera del Santo Padre Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti dell’1 agosto 1917, la «parola augusta» di cui si fa menzione nell’«appello»), promuovendo il «vincolo solenne della “società delle nazioni”», riconoscendo l’esistenza di «supremi interessi internazionali», fino a richiedere l’«abolizione dei trattati segreti e della coscrizione obbligatoria» e il «disarmo universale». Un tema, quello della pace da conseguire tramite l’attività politica, che da Benedetto XV ad oggi è emerso nel magistero di diversi pontefici, come dimostra anche il recente messaggio di papa Francesco per la LII giornata mondiale della pace (1° gennaio 2019).

Il quarto incomodo

Ma quasi nulla di tutto ciò ebbe seguito, malgrado i primi risultati positivi ottenuti dal Partito Popolare Italiano nelle elezioni del 1919 e del 1921: questi, infatti, sono anche gli anni in cui si costituirono dapprima i Fasci di combattimento e poi, da essi, il Partito Nazionale Fascista. Una novità nel panorama politico che molti popolari in un primo tempo non compresero e sottovalutarono, tanto da non negare inizialmente (su pressione delle gerarchie vaticane) l’appoggio al governo Mussolini, inutilmente contrastato da don Sturzo che si dimise dalla segreteria del partito e che fu poi “indotto” ad un sostanziale esilio. Con l’infamia del delitto Matteotti e col successivo “Aventino” il PPI prese definitivamente le distanze dal fascismo, ma ormai ogni azione di contrasto risultava inefficace: il partito venne sciolto, insieme agli altri contrari al regime, nel 1926.

Si era instaurata una dittatura che condusse l’Italia in una direzione diametralmente opposta a quella sognata da Sturzo e a quella prefigurata nell’«appello» del 18 gennaio 1919: per circa un ventennio non sarebbe stato più lecito essere uomini liberi, l’unica vera forza sarebbe stata quella della violenza squadrista, sulla giustizia sarebbe prevalso l’arbitrio, invece di mantenerlo sulla via della pace si sarebbe lanciato il Paese in grottesche guerre “imperiali” oltre che in uno sciagurato conflitto mondiale, al posto della coesione sociale si sarebbero promossi il razzismo e la delazione, sul popolarismo avrebbe avuto la meglio il populismo. Altri appelli, altre parole d’ordine.

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