Tra gli italiani meno giovani un pilastro dei ricordi infantili è Calimero, il pulcino protagonista di un cartone animato trasmesso a partire dal 1963 nel Carosello, celebre programma pubblicitario della Rai. Dopo essere caduto appena nato nel fango, diventa così nero da non essere riconosciuto neppure dalla mamma bianca. La chioccia lo respinge dopo aver chiarito che, se fosse stato candido come lei, lo avrebbe accettato come figlio. La società Mira Lanza lo aveva arruolato per fare pubblicità al detersivo Ava. Grazie a quest’ultimo, il pulcino – disperatamente solo, in cerca di affetto ed esposto a tanti pericoli – ridiventa bianco, col contributo di una bionda lavandaia olandese che gli dice: “Tu non sei nero, sei solo sporco!”. Così la madre lo riprende con sé.

Essere un Calimero

Non a caso, su Treccani.it, alla voce “Neologia”, il termine Calimero è citato come esempio di antonomasia: «“Chi è ingiustamente oggetto di scarsa considerazione”, dal nome del pulcino nero ideato per l’animazione pubblicitaria». In effetti, soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, si definiva una persona Calimero riferendosi a quel significato. Di certo, la storia del piccolo ha commosso generazioni di italiani; non è altrettanto certo che la commozione sia stata accompagnata dalla consapevolezza di essere in balìa di uno stereotipo razzista con radici millenarie. In che senso? È opportuno premettere che, per una persona che non si ritiene razzista, è facile accusare di razzismo chi esprime senza remore odio, xenofobia e intolleranza. Invece è molto difficile individuare i pregiudizi latenti; inclusi i nostri, anche quando ci riteniamo tolleranti. Sono quei pregiudizi che nascondono un razzismo invisibile e/o inconsapevole ma radicato.

Eco e l’Ur-Fascismo

C’è un fenomeno analogo descritto da Umberto Eco nel suo breve saggio Il fascismo eterno (uscito nel 1997 e tratto da una lezione tenuta il 25 aprile 1995 negli Usa alla Columbia University): a suo avviso, la mentalità fascista «è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: ‘Voglio riaprire Auschwitz!’ [...]. Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte del mondo». Eco prese in prestito dal tedesco il prefisso “Ur” (traducibile in “antichissimo” o “originale”, per traslazione “perenne”), sostenendo l'esistenza di un’idea di fascismo che non coincide con la nostalgia per il partito mussoliniano o col desiderio di ricostituirlo; semmai è «un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e insondabili pulsioni».

Loro e noi

Ovviamente viene spontaneo associare il fascismo al razzismo, dato che quest’ultimo era connaturato col regime che ha oppresso per vent’anni l’Italia. Eppure possiamo adottare un pensiero razzista anche quando siamo convinti di esserne immuni; magari lo facciamo adottando atteggiamenti di superiorità camuffata da solidarietà oppure usando termini e luoghi comuni che sono impregnati di suprematismo razziale. Gli stessi mass media, a prescindere dal contesto politico-culturale cui appartengono, si trasformano in incubatori di pregiudizi, come è stato esposto di recente su Treccani.it. Per esempio, sul fronte delle migrazioni, anche quando giornalisti e politici cosiddetti progressisti indicano la causa del “problema” nelle violenze e nelle forme di discriminazione e razzismo generalizzato di cui sono vittime i migranti, il contesto offerto al pubblico spesso resta solo quello emergenziale. Cosicché l'approccio “di sinistra” al fenomeno migratorio ha in comune con quello “di destra” la rappresentazione negativa di “loro”, contrapposta a quella positiva di “noi”; favorendo narrazioni che legittimano discriminazione ed esclusione sociale.

A sud degli antichi Greci

Tuttavia ci sono pure narrazioni – diffuse, spesso da secoli, nel mondo occidentale – che vengono usate quasi sempre, al giorno d’oggi, nell’inconsapevolezza del messaggio discriminatorio che implicano. Alla costruzione dell’immaginario razzista ha appena dedicato un libro il linguista Federico Faloppa, professore di Italian Studies and Linguistics nel Department of Cultures and Languages dell’Università di Reading, nel Regno Unito (e autore anche di alcuni articoli pubblicati da Treccani - Lingua Italiana). Il volume, edito da Utet, s’intitola Sbiancare un etiope, già uscito in una prima versione nel 2013 e ora riproposto ampliato e aggiornato. Il titolo riprende un motivo/modo dire che in più di due millenni si è radicato in molte culture, non solo europee, spesso con la sostituzione dell’ultima parola con moro o nero (d’altra parte dal VII-VI secolo a.C. la forma plurale di Aith__í__opsAith__í__opes – diventò in greco il nome collettivo dei popoli che vivevano a sud del Sahara). L’espressione ha il significato di ‘fare uno sforzo inutile’ o di ‘tentare un’impresa impossibile’.

Dalle radici più remote

A proposito di consapevolezza, nella nota introduttiva Faloppa chiarisce che leggendo il suo libro si incontra spesso la nword (“la parola con la N”) nelle sue varie forme: quella parola, usata in inglese per riferirsi al termine che in italiano corrisponde a negro, è al centro di un dibattito molto delicato pure nel nostro Paese, seppure in misura minore rispetto al mondo anglosassone, per le sue connotazioni offensive e spregiative. L’autore sottolinea di aver imparato che pronunciarla «anche con intenti antirazzisti o semplicemente metalinguistici (durante una lezione o una conferenza), può ferire chi ascolta». Quindi propone il suo studio, svolto nella successione del tempo partendo dalle radici più antiche dello pseudosinonimo etiope e dalle favola attribuita a Esopo (il servo “nero” lavato e sfregato dal proprio padrone); per arrivare ai giorni nostri, cosicché, tra gli altri esempi, c’è pure Calimero.

Il binomio pulizia/civiltà

Vien da chiedersi: anche le disavventure di quel pulcino possono ferire chi si sente chiamato in causa? Per rispondere, bisognerebbe mettersi nei panni di un africano o di un discendente di africani che vede associare il colore della sua pelle al rifiuto di una mamma nell’accettare un figlio. Di certo, quando Calimero arrivò nella tv italiana non c’era, da parte dei “bianchi” orgogliosi del loro presunto candore, la sensibilità che oggi c’è o dovrebbe esserci. È altrettanto vero che la figura retorica dell’etiope da “sbiancare” si è diffusa tra XIX e XX secolo in Italia, nella pubblicità e nella satira di stampo colonialista, spesso parallelamente alla diffusione dell’igiene domestica. Scrive Faloppa: «Il binomio pulizia/civiltà trovò terreno fertile durante il regime fascista, che lo abbinò alla propaganda coloniale [...]. Lo stereotipo è comunque sopravvissuto intatto anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, entrando nell’immaginario delle nuove generazioni con la figura di Calimero, il pulcino nero che tornava a essere bianco lavandosi col detersivo». Fino ad arrivare al novembre del 2017, quando una pubblicità «mostrava una ragazza nera [...] la quale – grazie all’azione del bagnoschiuma Dove – si trasformava come d'incanto in una donna bianca». Cinque anni fa, in una società più consapevole, questo spot fu ritirato, «con tanto di scuse dell’azienda su Twitter per le ‘offese arrecate’», dopo i messaggi sdegnati sui social di migliaia di persone che «ne lamentavano il razzismo, neanche tanto implicito». Tuttavia il nostro immaginario e il nostro vocabolario sono ancora influenzati da stereotipi razzisti.

La parola con la N

Faloppa spiega a Treccani.it che nel nostro Paese «negli ultimi decenni si è diffusa la consapevolezza che certe espressioni, come la parola con la N, non vanno pronunciate perché sono discriminatorie, evocano violenze e soprusi, possono offendere e ferire persone africane o discendenti di africani. Sui media italiani, tranne pochi (Libero Quotidiano, per esempio, ndr), non si usa più, mentre negli anni Sessanta o Settanta era diffusissima». Semmai, aggiunge, «sul fronte della comunicazione, mediatica e politica, quella parola e altre simili sono usate proprio per attirare l’attenzione di una parte dei cittadini, per provocare e per polarizzare il dibattito. Inoltre, a livello di opinione pubblica e non solo, è ancora radicata l’opinione, del tutto infondata, che l’uso della parola con la N nella lingua italiana sia meno grave o offensivo rispetto all’utilizzo in inglese perché legata al latino etimologicamente». Secondo il professore, comunque, «oggi ci sono altre parole usate spessissimo e a sproposito – come clandestino – che sono entrate nel lessico con significato discriminatorio e offensivo». Insomma, c’è ancora molta strada da fare per ripulire il linguaggio e l’immaginario da stereotipi razzisti usati in modo più o meno consapevole. Nel frattempo, tutti dovremmo assumerci la responsabilità delle parole che usiamo e delle storie che raccontiamo; senza dimenticare che persino il bistrattato Calimero nero può insegnarci qualcosa.

Bibliografia e sitografia

Marco Brando, Incubatori di pregiudizi. I media e i migranti, in Lingua italiana-Treccani.it, 24 ottobre 2022.

Umberto Eco, Il fascismo eterno, La Nave di Teseo, Milano 2018.

Federico Faloppa, #ODIO. Manuale di resistenza alla violenza delle parole, UTET, Milano 2020.

Federico Faloppa, Sbiancare un etiope. La pelle cangiante di un tòpos antico, Aracne, Roma 2013.

Grazia Naletto, Clandestino, in Lingua italiana-Treccani.it, 12 dicembre 2013.

Immagine: Tratta dalla copertina del libro