12 luglio 2018

L’inglese e l’italiano: alternativa? No. Arricchimento: sì

 

Premessa. Nella definizione dell'"uomo" la presenza del linguaggio (verbale) non costituisce una variabile secondaria o aggiuntiva alla sua caratterizzazione. L'"uomo" è "uomo" solo perché può disporre di un linguaggio verbale, quale che esso sia. Le parole che lui usa, che ha acquisito e appreso nell'ambiente in cui è nato e cresciuto, gli consentono di categorizzare la realtà, di conoscere gli altri e sé stesso. Senza le parole la realtà per lui non esisterebbe, anzi non esisterebbe neppure lui. Disponendo delle parole egli è quindi potenzialmente in grado di poter capire e dire tutto. Ma la sua verbalizzazione, quale che sia la lingua di cui dispone, sarà tuttavia sempre imperfetta, e nello stesso tempo perfettibile, all'infinito. Lo dimostrano gli scrittori, per definizione campioni nell'uso della lingua, che hanno scritto e riscritto i loro capolavori (la esemplificazione al riguardo, italiana e straniera, è fin troppo facile) fermandosi magari perché la vita non è eterna.

Per dirla con un autore come Louis Hjelmslev (1936), sulla scia saussuriana, «La lingua è la forma del pensiero. Senza la lingua, il pensiero sarebbe una massa amorfa e noi, tramite il pensiero, non saremmo in grado di dare forma all’esistenza».

Sulla stessa onda qualche anno prima Lev S. Vygotskij (1934) osservava: «Per la sua struttura il linguaggio non è un semplice riflesso speculare della struttura del pensiero. Perciò non può vestire il pensiero come un abito confezionato. Il linguaggio non serve come espressione di un pensiero già bello e pronto. Il pensiero trasformandosi nel linguaggio, si riorganizza e si modifica. Il pensiero non si esprime, ma si realizza in una parola».

 

La lingua al servizio dei parlanti

 

Dinanzi agli imprevedibili bisogni espressivi, comunicativi e cognitivi dei singoli parlanti ogni lingua è sempre in grado di rispondere adeguatamente a tutto ciò sulla base della sua dotazione patrimoniale, ereditata, arricchendola all'occorrenza di parole e costrutti nuovi (neologismi e neoformazioni), ricorrendo a estensioni semantiche e analogiche di forme già presenti, e importando, variamente adattati o tradotti (doni/prestiti) quanto altre lingue e nazioni diverse hanno saputo creare nei diversi ambiti della cultura.

Alla fine, per riprendere le parole del citato L. Hjelmslev, «la lingua come istituzione è, in sé e per sé, uno strumento perfetto per il pensiero come istituzione». Il "buon uso" della lingua dipende in conclusione dall'utente.

 

I "doni" delle altre lingue

 

Dati i su accennati limiti intrinseci di ogni individuo al momento della verbalizzazione dei propri pensieri, rifiutare aprioristicamente il ricorso alle parole straniere, donate dalle altre lingue e comunità, contro un suo presunto "inquinamento" o "corruzione" (categorie impertinenti per un'analisi linguistica), ci sembra invero una posizione un po’ masochistica. Semplicemente, sosteniamo che le parole straniere, adattate o meno, o variamente tradotte, possano essere usate quando il parlante lo ritiene opportuno, per rendere più chiaro e/o convincente il proprio pensiero tenendo conto degli interlocutori, dei loro livelli culturali, dei rapporti sociali, della situazione. Nella attuale situazione il problema dei "doni" linguistici riguarda, com'è noto, gli angli(ci)smi e/o anglo-americanismi presenti non solo in italiano, ma nelle varie lingue del mondo, in considerazione dell'"imperialismo" politico-economico-militare-culturale degli USA.

 La tappoletiana distinzione tra "prestiti necessari", che colmano vuoti lessicali di una lingua, per lo più tecnicismi, e "prestiti di lusso", recentemente giudicati, da Claudio Marazzini nell'istruttivo L'italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua (Rizzoli 2018), "inutili" se non "stupidi" e anche "sciocchi" perché facilmente sostituibili da voci italiane, si rivela sostanzialmente "logicistica". Le parole, accanto a un significato referenziale, presentano anche una particolare connotazione, o aura semantica che il parlante può ritenere soggettivamente essenziale. Da qui la sua legittimità ad usare gli stranierismi che altri, con pari legittimità, possono trovare "inutili". È il caso di step, mission, food, visual food, street food, food art, location, competitor, endorsement, convention, dress code, fake news, ecc., su cui si è soffermato Marazzini (pp. 48-56).

 

Il MIUR e l'inglese

 

Con riferimento al testo su "Educazione all’imprenditorialità. Sillabo per la scuola secondaria di secondo grado", diffuso dal MIUR, è intervenuto il "Gruppo Incipit". Che, animato soprattutto da Annamaria Testa, si propone, com'è noto, di rimpiazzare "forestierismi ‘incipienti’" con "sostituenti italiani". In questo caso però il Gruppo ha, con qualche incoerenza, "rinuncia(to) a proposte di traducenti italiani". Il ministro da parte sua nella sua risposta ha potuto osservare l'incoerenza della scelta del latinismo "Incipit" ricco di connotazioni prive in un possibile traducente quale "Inizio". Nel valutare l'efficacia comunicativa della settantina di anglicismi, per lo più settorialismi, e magari diffusi, presenti in un testo "composto da 3.124 parole" (precisa il ministro), in percentuale il 2,2% dunque, anche sulla base del contesto la comprensione è invero assicurata. Il testo può anche risultare "difficile" in virtù del suo contenuto tecnico, e magari criticabile contenutisticamente per il modello culturale di tipo aziendale proposto per la scuola italiana.

Insomma, come ha recentemente osservato Vittorio Coletti ne L'italiano scomparso. Grammatica della lingua che non c'è più (il Mulino 2018), «Come i corpi, se non sottoposti a cambiamenti e mescolanze, rischiano di deperire e morire (si pensi alla fragilità genetica dei gruppi sociali troppo ristretti ed endogamici), così la lingua per vivere bene ha bisogno di cambiare, di entrare in contatto con altre, di perdere e acquistare tratti ed elementi» (p. 252).

 

L'inglese in alternativa all'italiano?

 

Nel rapporto tra lingue e comunità diverse se gli scambi di "doni" sono normali e sintomo di vitalità in quanto garantiscono la sopravvivenza come nel caso dell'esogamia, rispetto alla chiusura, con rischio dell'autarchia e dell'estero- o xenofobia, il rischio è però costituito dall'uso di una lingua straniera al posto della propria, iniziando in contesti culturalmente rilevanti.

Per ritornare al MIUR, l'uso facoltativo dell'italiano accanto all'uso obbligatorio dell'inglese richiesto nell'ultimo bando PRIN, ovvero "Progetto di Ricerca d'Interesse Nazionale" riservato alle Università italiane, non può invece essere, per conto nostro, condiviso perché implica di fatto subordinare la lingua nazionale a una lingua straniera, qual è l'inglese, relegando così l'italiano a idioma di serie B. Se l'obbligatorietà dell'inglese può essere giustificata dalla presenza di possibili giudici stranieri dei progetti (della cui competenza sarebbe anche lecito dubitare se non in grado di leggere un testo italiano che si occupi di ricerca italiana), non si capisce come si possa giustificare il carattere facoltativo dell'uso dell'italiano nella redazione della domanda per un bando nazionale. Non possiamo quindi non condividere la posizione dell'Accademia della Crusca e del suo presidente, Claudio Marazzini, che nel citato volume (pp. 74-82) ha denunciato tale scelta. Su cui ci eravamo già espressi nel sito di ROARS, in La guerra dell’inglese. Ovvero, quando la tecnica sopravanza la Politica (10 gennaio 2018). Analoga denuncia da parte di Marazzini ha riguardato l'iniziativa dell'uso esclusivo dell'inglese nei dottorati e nei corsi di laurea magistrale avviata nel 2012 dal Politecnico di Milano (pp. 95-96), con successiva sentenza definitiva del Consiglio di stato. Su cui era 'insorta' l'Accademia della Crusca, Fuori l'italiano dall'Università?. Inglese, internalizzazione, politica linguistica, a cura di N. Maraschio - D. De Martino, Roma-Bari, Laterza 2012.

Marazzini ritiene ancora «un altro attacco all'italiano» (pp. 98-104) il CLIL ovvero il "Content and Language Integrated Learning" e cioè l'insegnamento, nelle scuole superiori, di una disciplina non-linguistica (storia, geografia, scienze, filosofia ecc.) nella lingua straniera (solitamente l'inglese).

 

Scomparsa dell'italiano?

 

Tutte queste innovazioni hanno solo l'effetto di indebolire strutturalmente la lingua nazionale. Se non adoperata nei contesti culturali alti una lingua si impoverisce. E riducendosi via via tali occasioni d'uso, essa finisce con l'essere rimpiazzata dalla lingua più "forte", di una comunità culturalmente superiore.

Ricordiamo, infine, il citato Hjelmslev (1934), che anche in questo caso riprende una precedente riflessione saussuriana del 1897: «La extinción de una lengua está en relación con el hecho de que el pueblo por uno u otro motivo pierde el interés por hablar esa lengua y prefiere otra que parece más valiosa frecuentemente porque es portadora de una cultura más elevada».

 

 

 

Immagine: By Edward Orde [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], from Wikimedia Commons


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