Il linguaggio trattiene in sé molto di più di quello che possiamo immaginare. Riesce infatti a caricarsi delle tracce, più o meno esplicite, del cambiamento intorno a noi, che costituisce la fibra primaria della lingua e della nostra comunicazione.
Il futuro non è binario, è fluido
Addentrarmi nel mondo della Generazione Z mi ha permesso di capire le nuove sfumature del cambiamento, soprattutto per quanto riguarda il concetto di genere. Un passaggio per me fondamentale, dopo il precedente articolo sul vocabolario dell’intimità, del corpo e del sesso, è affrontare l’immaginario della non-identificazione binaria dei generi, che caratterizza prepotentemente gli Z. Il cosiddetto concetto di fluidità (di genere), già in partenza, è difficile da definire, perché va contro la semantica stessa della parola. Prima di tutto, la parola fluido fa riferimento a un cambiamento che attraversa in modo trasversale il mondo Z, ovvero al labile confine che intercorre tra la comunicazione in rete (online) e la vita reale, materiale e analogica (offline), che il filosofo Luciano Floridi nel 2015 aveva definito con il neologismo onlife, un’esperienza di vita ibrida che scorre legata a dispositivi interattivi. Anche se, come ho sostenuto più volte in questa indagine, il digitale è uno dei fattori che ha permesso allo slang giovanile della Generazione Z di arricchirsi ed evolversi, la parola-chiave che ci lega al discorso di genere è confine. I termini fluido e confine infatti hanno uno stretto rapporto di corrispondenza. In senso generico, la fluidità ha la forma del passaggio, della capacità di scorrere da uno stato all’altro, nel linguaggio specifico della fisica e della chimica è l’opposto della viscosità. Anche se il suo movimento viene ricondotto all’instabilità e a una provvisoria mancanza di coesione, fu lo stesso Bauman nel saggio Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi (Laterza, 2018) ad affermare che «l’uomo deve essere fluido, flessibile, capace di adattarsi al contenitore sociale che di volta in volta assume forme diverse». Per i giovani Zedders, la parola fluido va ricondotta non solo, come sostiene Domitilla Pirro, direttrice creativa dell’Osservatorio sulla Gender Equality di Fronte del Borgo presso la Scuola Holden, alle «rivendicazioni libertarie assolutamente compatibili, per intensità, a quelle delle generazioni precedenti, rivendicazioni dopate però dalla tecnoliquidità», ma soprattutto a «una indiscussa fame di classificazione che ha poco a che vedere col Catch'em all (per chi si ricorda i Pokémon, la traduzione è “prendili tutti!”) e tutto a che vedere con la ricerca identitaria». Gran parte degli adolescenti sta dunque sfidando il significato e i tradizionali vincoli di genere, ovvero le norme binarie e patriarcali della divisione sessuale e dell’identità in due categorie distinte: se «la generazione precedente ha avuto bisogno di creare categorie che hanno implicato delle aspettative sul proprio ruolo in società», mi spiega il team Loveducation di EDUXO, organizzazione no profit che svolge attività su tutto il territorio nazionale e ha grande seguito anche online, soprattutto sui social, «ad oggi, queste aspettative risultano cristallizzate in etichette. Non definirsi o utilizzare categorie dinamiche e modificabili permette di riconoscersi e quindi di esistere, senza necessariamente assumere un ruolo in società e senza rispondere ad alcuna aspettativa. Negli Z c’è una maggiore consapevolezza delle sfumature e delle variabili che riguardano l’identità di genere e l’orientamento sessuale, e questo li porta a riempire il vuoto nella narrazione linguistica e iconica, ereditata dalla generazione precedente e dalle strutture sociali che ci richiedono di definirci». Come aggiunge la sociolinguista Vera Gheno, negli ultimi anni c'è stata un'evoluzione del significato del termine fluido in rapporto all’identità di genere promossa dalla Generazione Z: «è come se si fosse passati dalla visione di questi aspetti della vita delle persone come un gradatum (o sei etero o omo, o sei cis, abbreviazione di cisgender, persona la cui identità di genere corrisponde al sesso assegnato alla nascita, o sei trans) a una visione come continuum (ci sono molte cose al di là di etero e omo e di cis e trans)». Gli Z per comunicare questa posizione usano infatti il termine genderfluid, spesso presente nella biografia di Instagram o come hashtag nei post: per Elia Bonci, classe '96, autore di Diphylleia. Solo l'amore può distruggere l'omofobia (Caravaggio Editore, 2019), «la parola genderfluid fa riferimento a quelle persone le quali percepiscono la loro identità di genere come fluida, la quale può variare nel tempo. Possono identificarsi come uomini, donne, entrambi o nessuno dei due. In genere preferiscono che vengano utilizzati nei loro confronti dei pronomi neutri (come they/them) che purtroppo in italiano non esistono». Ecco spiegata anche l’abbondanza di anglicismi in questo vocabolario di genere, che accanto a genderfluid trova il termine nonbinary (o non-binary): l’inglese, per parlare della fluidità, sembra l’unica lingua ammessa.
Crush, queer e femboy
La questione linguistica del termine crush, di cui ho parlato nel secondo articolo dell’indagine, offre un’ulteriore traccia per analizzare le modalità con cui i GenZ stanno costruendo nuovi vocaboli ed espressioni per comunicare non solo la propria identità ma anche quella degli altri. Come mi fa notare Elena Pepponi, dottoranda all’Università di Udine che si sta occupando di una ricerca sulle parole della comunità LGBT, il termine, letteralmente “cotta”, è un neutro, cioè privo di articolo, e potrebbe rientrare proprio in questa maggiore apertura e appunto fluidità di genere: «mi sembra significativo che di tutti i mille modi con cui si può definire la persona che in quel momento ti interessa (come “il mio frequentante”) si è scelto un termine inglese neutro dal punto di vista del genere, che elimina l'eteronormatività. Letteralmente potrebbe significare ogni tipo di persona». Le giovani generazioni non sentono dunque il dovere di specificare di che genere sia la persona su cui fantasticano sentimentalmente. Un’altra parola su cui occorre soffermarsi, a proposito di strategie linguistiche non binarie in evoluzione, è queer, definibile come un “termine-ombrello”: «anche se queer era inizialmente interpretato come un termine negativo (“sono queer" nel senso di “son un po' lo strambo della compagnia”)», mi ricorda Elena Pepponi, «nel tempo ha assunto una semantica-ombrello, che ingloba chiunque non si riconosca in un qualcosa di predefinito o sia ancora in esplorazione della propria identità di genere o sessualità e tende a preferire queer perché è una parola positiva, molto breve e molto vaga. Ti permette di stare in un grande calderone senza per forza definirti. Queer possiamo considerarlo come il papà di non-binary/genderfluid». La proliferazione di termini legati alla fluidità di genere ha poi messo in luce il rischio di cadere nella rete che paradossalmente si tenta di annullare: l’etichetta, appunto. «C’è una vasta polemica intorno a una serie di etichette più o meno ironiche, di fatto potenzialmente bifobiche, come lesbica bi / eteroflessibile / omoflessibile / etero ascendente bi / con tendenze bi: nella percezione diffusa, chi utilizza simili espressioni lo fa solo — cito testualmente — “per moda”. Nel senso che sono tutte espressioni che appunto ammiccano alla bisessualità senza però avere il coraggio di rivendicarla per sé, e di fatto invalidando lesbiche e bisessuali allo stesso tempo. Il che porta a bi-erasure, cancellazione, invisibilità. Stessa accusa è mossa all'etichetta pan». Pansessuale è un altro termine che ricorre nel vocabolario della fluidità di genere (non solo Z) e rimanda a un individuo che è attratto dalle altre persone indipendentemente dal genere e che si differenzia da chi si definisce bisessuale perché non considera come un fattore discriminante il fatto che la persona abbia sesso femminile o maschile, ma si sente attratto dall’altro solamente in quanto persona, indipendentemente dai caratteri sessuali.
Scorrendo alcuni profili degli Z sui social, soprattutto su TikTok, spesso mi sono imbattuta anche nel termine femboy, che rimanda, sempre secondo una definizione del team di EDUXO «a una persona biologicamente di sesso maschile, che spesso (ma non sempre) ama utilizzare accessori tipicamente rivolti alle persone di genere femminile. Si presenta esteticamente come donna, in alcuni momenti della sua vita o potenzialmente tutto il tempo. L’essere femboy non dà alcuna informazione sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Il termine riguarda invece l’espressione di genere». Trovo interessante che il termine possa essere considerato anche un insulto, o meglio uno slur (o slurring term) contro le donne trans*, dove per slur s’intende un epiteto denigratorio e discriminatorio che offende un individuo in quanto appartenente a un gruppo per ragioni etniche, religiose, di orientamento sessuale ecc. Le persone che si definiscono femboy possono essere eterosessuali, omosessuali, bisessuali, pansessuali, asessuali o qualunque altro orientamento.
Cross-dressing e nuove norme per un linguaggio inclusivo
Da un po’ di tempo mi chiedo: perché Harry Styles, l’ex componente più famoso degli One Direction, piace così tanto agli adolescenti Z? Mi sono fatta un’idea a seguito di una bufera mediatica che ha coinvolto la giornalista Caterina Collovati nel programma “Ogni mattina” su TV8. In una puntata dei primi di dicembre era stata chiamata come opinionista a proposito di alcuni outfit nel mondo dello spettacolo, e alla vista dell’ultima copertina di Vogue che ritraeva Harry con abiti femminili, avrebbe riportato le seguenti parole: «Non c’entra niente l’identità sessuale, anzi, con questo fenomeno si sta svilendo la battaglia dell’identità sessuale. Io dico che ridicolizzare un maschio, come Harry Styles, mettendolo in abiti femminili è fuorviante, è un messaggio circense, mi viene in mente il pagliaccio del circo». La polemica sui social, che si è scatenata a suon di hashtag su Twitter con #ognimattinaisoverparty da parte dei GenZ, non è scaturita tanto dalla espressione di un’opinione — legittima —, ma dall’incapacità della giornalista di riconoscere il contesto in cui l’artista agisce e di aver comunicato in modo inclusivo il proprio pensiero: Harry Style è considerato infatti un’icona della Generazione Z soprattutto per il suo impegno nello sradicare i pregiudizi e l’identità di genere, nella sua battaglia per la diffusione del cross-dressing, letteralmente “travestimento”, una pratica (non nuova sotto il sole) che riguarda chi ha l’abitudine di indossare alternativamente vestiti comunemente associati in un ambito socio-culturale al ruolo di genere opposto al proprio, senza che questo veicoli un messaggio sull'identità di genere o sull'orientamento sessuale. Un’altra forte influenza in questo senso va ricondotta al pop coreano, il K-Pop, il cui immaginario estetico è caratterizzato da un labile confine tra abbigliamento femminile e maschile. Gli Z, a proposito di questo episodio mediatico, hanno manifestato la più totale disillusione nel vedere riconosciuta e rispettata la loro bandiera. Per questo non è insolito imbattersi in biografie social che contengono alcune indicazioni e norme linguistiche inclusive per la comunicazione con l’utente. Come mi conferma il team di EDUXO, «si specifica il pronome con il quale rivolgersi alle persone, in base all’identità di genere percepita. Vengono tendenzialmente usati i pronomi inglesi her, him oppure lei, lui in italiano. Per le persone che non si identificano né nel genere maschile, né in quello femminile, oppure in entrambi, si usa they, them, loro. Si predilige l’uso del linguaggio inclusivo, evitando di utilizzare i maschili plurali per indicare le moltitudini e prediligendo l’asterisco * e/o lo schwa (ǝ), e inoltre si tende a svincolare e separare orientamento sessuale, identità di genere, espressione di genere e attrazione romantica. “Romanticismo”, per esempio, si usa per indicare l’attrazione sentimentale e il desiderio di creare una relazione intima con un’altra persona svincolata dal rapporto sessuale. Ad esempio, si può essere donna transgender, eteroromantic* e asessual*».
Il ciclo dedicato a modi, lingua e linguaggi della Generazione Z è ideato, curato e scritto da Beatrice Cristalli.
3 Parlare del corpo e del sesso
Immagine: Harry Styles: Live on Tour - Opening
Crediti immagine: Ksaziz, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons