[testo tratto da "L’esempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi. L’italiano e lo spagnolo a confronto" di Gabriele Valle]

Nel quarto centenario del Vocabolario degli Accademici della Crusca e del Tesoro de la lengua castellana o española può essere utile confrontare il diverso atteggiamento che italiano e spagnolo, lingue romanze “sorelle”, hanno di fronte all’influsso della lingua inglese e inglese-statunitense e alla ricezione degli anglicismi negli ultimi decenni. Alla comparazione, seguirà una proposta per intervenire sulla questione in Italia, attraverso una serie di strumenti e iniziative patrocinabili dallo Stato.

Più di quattrocento milioni di persone

Una cosa intendo subito anticipare: lo spagnolo, malgrado la sua enorme dispersione geografica e le varietà diatopiche che ne conseguono, conserva una vigorosa unità che si rivela proficua anche nel terreno della demarcazione delle frontiere con altre lingue.

Oggi è la seconda lingua di comunicazione internazionale. È la madrelingua di più di quattrocento milioni di persone. È parlata in ventidue nazioni, di cui diciassette la riconoscono come unica ufficiale. È la terza o la quarta al mondo per numero di parlanti nativi, a seconda della fonte. Ma che vuol dire “unità” nel caso di una lingua che si parla su una superficie planetaria di undici milioni di chilometri quadri? Vuol dire che il patrimonio linguistico comune a tutti i popoli ispanici è talmente dominante in ciascuno dei dialetti che le differenze tra questi, in proporzione, appaiono infime. «Il 99 per cento del nostro lessico si è conservato invariato, per non parlare della struttura grammaticale, che è forse più arcaica del lessico», sostiene Moreno de Alba. Se nelle strade l’omogeneità si frantuma in mille pezzi, altrove, si scopre una sbalorditiva unità. L’unità che formano lo spagnolo d’America e quello della Penisola iberica è di gran lunga superiore a quella che, rispetto alla lingua delle loro antiche metropoli, esiste tra il portoghese del Brasile, da un lato, e l’inglese degli Stati Uniti, dall’altro.

Prima il francese, poi l’inglese

La lingua spagnola che si espanse nel nuovo continente fu quella che vi portarono gradualmente i coloni a partire dal Seicento, quando la sua personalità era già configurata. Da allora in poi l’evoluzione dello spagnolo avviene contemporaneamente, sotto il segno della simbiosi, su ambo le sponde dell’oceano.

L’influenza della Francia sulla Spagna è stata davvero straordinaria. Dal secolo XI la lingua spagnola non ha smesso di arricchirsi di parole francesi. L’influsso si intensificò nel XVIII e proseguì con impeto nel XIX e nella prima metà del XX.

Il tempo passò e un giorno si udì la campana del Big Ben nel cielo della lingua spagnola. Rafael Lapesa, insigne storico della lingua spagnola, spiega che l’inglese britannico fece la sua comparsa prima per l’influsso della sua letteratura, poi per il suo prestigio sociale. Nell’Ottocento e nel primo Novecento, lo spagnolo diede forma a dandy, club, bisté. «Direttamente o attraverso il francese arrivarono vagón, tranvía, túnel, yate, bote, confort, mitin, líder, repórter o reportero, revólver, turista, fútbol, tenis, golf e tanti altri che vengono adoperati nel tecnicismo sportivo. La stessa voce deporte, obliata dal Medioevo, è risorta per influsso dell’inglese sport».

E poi aggiunge: _«_Nel secolo XX, l’anglicismo è cresciuto gradualmente in intensità, prima nei paesi ispanoamericani più strettamente interessati dall’espansione politica ed economica degli Stati Uniti (le Antille, il Messico, l’America Centrale) e dopo in tutto il mondo ispanofono, senza escludere la Spagna». Questo è tutto quanto in merito riferisce Rafael Lapesa, il più grande storico della lingua spagnola.

I clubes e i bares

Lo spagnolo usa strumenti che sono familiari all’italiano nel catturare i forestierismi. Non c’è dubbio che la bocca ispanica sia naturalmente incline ad assorbire gli anglicismi con risorse proprie. Questa tendenza, a mio avviso, è favorita dal vantaggio di possedere un lessico le cui parole terminano le une in vocale e le altre in consonante, il che consente un passaggio impercettibile, limitato talvolta al mutamento d’accento (club, bar, radar, transistor, sono già prestiti integrati che si comportano come qualsiasi nome del sistema. Volti al plurale diventano clubes, bares, radares, transistores). E se tale tendenza è favorita dalla doppia uscita delle parole, essa è stata rafforzata da due potenti fattori: l’industria del doppiaggio televisivo e le accademie della lingua. Lo sviluppo della prima e il lavoro delle ultime prestano un encomiabile servizio all’integrità dell’idioma.

Diccionario e Accademia

L’aspirazione universale degli accademici raggiunse la sua vetta più alta nella compilazione del Diccionario panhispánico de dudas (dizionario panispanico dei dubbi), apparso nel 2005. Esso dichiara il suo carattere normativo per una lingua soprannazionale senza perdere di vista le (scarse) differenze che corrono nell’espressione colta delle diverse nazioni. Ha trionfato l’idea che lo spagnolo sia una cultura “pluricentrica”. E ha trionfato la moderazione in ambito normativo.

Vale la pena riferire che, quando il menzionato dizionario fu presentato, a Madrid, vi furono presenti i responsabili di quasi tutti i giornali importanti in lingua spagnola, i quali sottoscrissero un accordo in cui si stabiliva: «Consci della responsabilità che nell’uso della lingua ci impone il potere di influenza dei mezzi di comunicazione, ci impegniamo ad adottare come norma fondamentale di riferimento quella che è stata fissata da tutte le accademie nel Dizionario panispanico dei dubbi, e incoraggiamo altri mezzi affinché aderiscano a questa iniziativa».

La Real Academia Española patrocina anche un consultorio linguistico: la Fundación del Español Urgente (Fundéu BBVA), un istituto senza fini di lucro il cui precipuo obiettivo è quello di promuovere il buon uso della lingua. È nato dall’accordo tra l’agenzia di notizie Efe e una banca privata e fa tesoro dell’esperienza accumulata per più di vent’anni da un precedente consultorio.

Questo “pronto soccorso lingua” è alla portata di chiunque entri nel suo portale, ma si è rivelato particolarmente prezioso per i giornalisti del vasto mondo ispanico, che spesso vi si rivolgono, assillati da anglicismi elusivi. È cura dei consulenti produrne adattamenti o calchi nella lingua d’arrivo. Molte di queste forme ispanizzate esistono già, in un qualche punto della mappa ispanica, e vengono poi consigliate all’uso generale.

Italiano, la responsabilità dei media

La questione della lingua italiana è, rispetto a quella spagnola, più antica, più ricca e forse più travagliata. La questione degli anglicismi, in particolare, ha prodotto una torrenziale letteratura scientifica, scritta da studiosi insigni che hanno sviscerato il fenomeno. Il loro atteggiamento però è lungi dall’essere unanime. C’è chi contempla il fatto con preoccupazione augurandosi che l’italiano possa rimettersi sulla strada che per mille anni ha seguito. C’è chi, condividendo l’inquietudine, assume un’attitudine rassegnata, convinto che il dado ormai sia tratto. C’è chi loda senza riserve la nuova tendenza. C’è chi vede nella posizione liberale un segno di “amore intelligente”. C’è chi prende la cosa con indifferenza, persuaso che l’integrità della lingua non sia minacciata da tale afflusso, visto come marginale o passeggero. Gli osservatori esterni che, nel latte materno, si sono nutriti di una diversa lingua romanza, restano perplessi davanti all’anglicismo dilagante che esiste nella sorella italica.

L’inglese si sta diffondendo sempre di più seguendo una tendenza crescente. Esso si propaga in quasi tutti gli angoli della lingua italiana, non è più confinato in determinate sfere. Èrivelatore che, nei media, chi ha il potere della parola impieghi spesso voci inglesi. Che il gergo del settore ne trabocchi è cosa naturale che non stupisce nessuno che abbia imparato la lingua italiana negli ultimi quarant’anni. Il profluvio di anglicismi è talmente comune da condannare alla condizione di minoranza indifesa coloro che, udendoli o leggendoli, si sentono smarriti.

Quattro effetti

La penetrazione degli anglicismi ha ripercussioni molto più gravi sul sistema. Vediamone alcune:

Il primo effetto è la creolizzazione della lingua. Venticinque anni or sono un “patologo” rilevò nell’italiano la causa del morbus anglicus:un virus che «agisce in profondità attaccando gli organi essenziali». La prognosi di Arrigo Castellani era favorevole ma, preveniva, «un medico prudente parlerebbe piuttosto di prognosi riservata». La sua tesi è notissima: gli «angloamericanismi non adattati minacciano le strutture stesse della lingua». Io non sono sicuro che le strutture siano in pericolo, perché l’ossatura sintattica è salda, ma mi pare ovvio che l’inglese stia deformando foneticamente e morfologicamente l’italiano, le cui parole terminano in vocale. Se l’italiano non si sta creolizzando, almeno sembra avviato in quella direzione.

Un secondo effetto è l’errata pronuncia delle parole straniere, secondo Gian Luigi Beccaria, il quale ha richiamato l’attenzione su un lato poco osservato della questione: per influenza dell’inglese, spiega, il parlante italiano tende ad arretrare l’accentazione dei nomi stranieri, propri e comuni: «non lieve colpa hanno presentatori e speaker quando ‛autorevolmente’ anglicizzano i nomi propri, i nomi di luogo, ritraendone l’accento o pronunciando come se fossero inglesi parole di lingue diverse…». Io ardirei formulare un’ipotesi alternativa, che rivaleggia con quella dell’autore senza confutarla. È possibile che la prima sia vera senza che la seconda sia falsa. Mi pare che la lingua italiana sia affetta dall’horror consonantis: il parlante, in presenza di una consonante in fin di parola, ne ritrae l’accento. Le parole elencati di seguito sono tutte tronche nella loro lingua originale: camion, nobel, hangar, autobus, islam, mais, ananas, alcatraz, labrador. E che dire delle inglesi report, record o Milan?

Un terzo effetto è l’impoverimento del lessico. Molte voci italiane sono state spazzate via dall’inglese: diporto da sport, panfilo da yacht, elaboratore da computer, motoretta da scooter, rivoltella da revolver, segnapassi da pacemaker, matta da jolly, locutore da speaker, circolo da club, ecc. Molte altre concorrono ancora con l’equivalente straniero e il loro esito è imprevedibile. L’inglese cresce in due modi: cresce moltiplicando il numero delle sue parole nella lingua standard media e cresce vegetativamente, perché nel contempo il lessico dell’italiano (per più di un motivo) tende a ridursi. Il depauperamento dell’italiano è un fenomeno che va di pari passo con l’espansione dell’inglese, elevandone la percentuale nell’universo statistico. Nella miscela bollente dell’eloquio vivo, l’inglese s’ispessisce a discapito dell’italiano, che si diluisce.

L’ultimo effetto è il più allarmante. Innumerevoli anglicismi non sono capiti dall’utente medio. Pare che i media non tengano presente che la maggior parte degli italiani non padroneggia l’inglese. I giornalisti danno per scontato che tutti abbiano dimestichezza con il loro gergo ibrido, e se non l’hanno dovrebbero averla. Ignorano spesso la regola d’oro che Indro Montanelli aveva imparato negli Stati Uniti: una cronaca deve essere compresa da tutti, anche dal “lattaio dell’Ohio”. Comunque i professionisti della comunicazione seminano confusione, ambiguità e disagio.

Un Prosalini per lo Stato

La lingua colloquiale è profondamente (inter)ferita dall’inglese. Il divario tra il sermo nobilis e il sermo urbanus può giungere a un punto irreversibile.

Lo Stato, prendendo la situazione in mano, dovrebbe dare impulso a un vero e proprio “Programma per la salvaguardia della lingua italiana” (Prosalini, d’ora in poi).

L’ora d’italiano. Il piano scolastico per le scuole medie potrebbe prevedere un brevissimo modulo dedicato al rapporto tra l’italiano e le lingue straniere, elogiandone l’apporto. Sulla lavagna, in una tabella a due colonne, andrebbero riportati da una parte i forestierismi storici nella loro forma originaria, e dall’altra nella loro veste italiana. Sarebbe formativo che gli studenti ne avvertissero il contrasto e conoscessero il calco e l’adattamento come strumenti di conversione. A ciò andrebbe aggiunto dall’insegnante che la lingua italiana li aveva sempre utilizzati per secoli e secoli finché, in pieno secolo XX, si fermò e cominciò a raccogliere, senza toccarle, le voci inglesi che successivamente sarebbero affluite a frotte, con una frequenza sempre maggiore. Il problema attuale, andrebbe sottolineato, non è che le parole inglesi entrano; il problema è in quale modo entrano. Gli anglicismi sono benvenuti poiché generalmente necessari.

Contemporaneamente l’orario d’inglese andrebbe prolungato. Detto sia en passant, una cosa che favorirebbe molto la competenza passiva in inglese, fuori dalle aule, sarebbe la proiezione in lingua originale, con sottotitoli, del cinema straniero.

Una campagna pubblicitaria. Lo Stato potrebbe mettere a disposizione del Prosalini il suo apparato comunicativo per attuare una campagna tesa a sensibilizzare tutta la nazione. Il progetto intenderebbe abbracciare tutti quanti. La campagna intenderebbe incoraggiare i media ad aderire al Prosalini, il cui successo dipende in larga misura dal loro coinvolgimento, che sarebbe imprescindibile.

La lingua dello Stato. Si predica con l’esempio. È inaccettabile che una legge approvata dal Parlamento rechi, nel titolo breve, il nome di stalking. Sembra uno scherzo che, nell’esame di maturità del 2009, una delle tracce del tema d’italiano si intitolasse: Social network, internet, new media. I poteri pubblici dovrebbero imporre ai loro funzionari di comunicare con chiarezza nella lingua nazionale; dovrebbero fare in modo che gli enti statali non abusassero degli anglicismi nei loro documenti; dovrebbero trasformare la televisione pubblica in un modello idiomatico di prestigio; dovrebbero obbligare i controlli tecnici sulla qualità degli apparecchi importati a estenderla sui manuali che li spiegano; dovrebbero stanziare più risorse alle accademie e proporre ai privati di finanziarle. Ricordiamo che la Fundéu BBVA è sponsorizzata da una banca privata, il cui nome figura in quello della fondazione che sostiene il consultorio.

La “lideranza” della Crusca. L’illustre Accademia fiorentina potrebbe svolgere una funzione di eccezionale importanza nel Prosalini. Ha già in rete, a disposizione di tutti, un pregevole consultorio linguistico, che andrebbe ripotenziato per tenere il passo delle esigenze che sorgessero. In questo modo, l’Accademia potrebbe fare per la lingua italiana ciò che la Fundéu fa per la sorella spagnola. Il suo portale potrebbe trarre ispirazione da quello iberico, che ad esempio spedisce, tramite posta elettronica, il “consiglio del giorno” a chiunque lo richieda. Se il Prosalini dovesse prosperare, il “pronto soccorso italiano” si vedrebbe indaffarato con le domande delle redazioni.

Se il progetto sopra abbozzato fosse messo in atto ma non riuscisse a conquistare, con il tempo, l’indispensabile adesione sociale che gli serve per riscuotere successo; se i parlanti alla fin fine optassero per l’itanglish dilapidando in quel modo il capitale più unificante che posseggono, almeno la loro scelta sarebbe consapevole. Nell’uso, diceva Orazio, risiede “l’arbitrio, il diritto e la norma” dell’idioma. Ad ogni modo la lingua sarà data in eredità alle generazioni successive e divulgata attraverso la Società Dante e gli Istituti Italiani di Cultura, attivi in molti Paesi.

Testi citati

Moreno de Alba, José G., El español en América, 2ª ed., México, Fondo de Cultura Económica, 1993, 2000, p. 107. La traduzione del passo citato è di Gabriel Valle.

Lapesa, Rafael, Historia de la lengua española, 8ª edición, Madrid, Editorial Gredos, S.A., 1981, 2008, pp. 383-384. La traduzione del passo citato è di Gabriel Valle.

Castellani, Arrigo, “Morbus anglicus”, in: «Studi Linguistici Italiani», vol. XIII, fascicolo 1, Roma, Salerno Editrice, 1987, pp. 137-153.

Beccaria, Gian Luigi, Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi, Milano, Garzanti Libri s.p.a., 2006, 2008, p. 112.

Immagine: Combinazione delle bandiere degli Stati Uniti e del Regno Unito che rappresenta la lingua inglese

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