Icastica, fortemente evocativa, la locuzione anni di piombo deve la sua consacrazione al film del 1981 Die bleierne Zeit di Margarethe Von Trotta, Leone d’Oro alla 38a Mostra del Cinema di Venezia. Ispirata alla storia di Christiane e Gudrun Esslin (quest’ultima militante della Rote Armee Fraktion – letteralmente Frazione dell’Armata Rossa –, morta nel carcere di Stammheim nel 1977), l’opera si pone come una sorta di grado zero dell’immaginario poiché ha il merito di fissare i contorni sfuggenti e tutt’altro che pacificati della rappresentazione artistica, discorsiva e mentale del terrorismo. Al di là dalle suggestioni derivatene, l’occhio cinematografico della Von Trotta si appunta con evidente precisione sull’atmosfera stagnante e cinerea della Germania del dopoguerra, epoca di «conformismo opprimente» che dell’insurrezione fu il terreno di coltura e l’antecedente più immediato (Orioles, 2002).
L’era "plumbea" in Hölderlin
Lo stesso titolo, a ben vedere, è ripresa infedele ma non distorta di un verso di Friederich Hölderlin contenuto nella lirica Der Gäng aufs Land: «Mir es scheinen, es sei, als in der bleiernen Zeit» («Mi sembra che sia come nell’era del piombo»). La traduzione italiana, che ancora una volta preferisce rendere l’aggettivo “plumbeo” con un riferimento alla concretezza del materiale, conserva comunque intatta l’intensità allegorica della composizione hölderliniana, a sua volta ispirata – nel verso che qui interessa – alle Quattro Ere narrate da Ovidio nel poema delle Metamorfosi. È certamente fondata l’ipotesi di Reitani secondo cui Hölderlin renderebbe con “bleiern” il carattere dell’età che segue il bronzo, a sottolineare così la drammatica, incontrovertibile esplosione di empietà del proprio tempo (Reitani, 2001). Appare significativa, tuttavia, la scelta di sostituire il riferimento al “ferro” («De duro est ultima ferro» v. 127) con un’espressione dai sovratoni semantici tutt’altro che marginali. La carica allusiva dell’aggettivo “plumbeo” fotografa efficacemente una situazione di clima opprimente, una cappa d’insostenibile peso e dalle cupe implicazioni. Tale valore è senz’altro ereditato da Von Trotta, tesa a rappresentare i «freddi e tetri anni» del dopoguerra (Seiter, 1985) in un fermo immagine che procede all’indietro sancendo pertanto – tramite il sapiente intreccio di pubblico e privato – una corrispondenza tra passato e presente direttamente rispondente al desiderio di contestualizzazione.
Una traduzione molto (troppo?) infedele
Gran parte di questi aspetti si perdono nel passaggio alla versione italiana. La discordanza semantica tra Anni di piombo e Die bleierne Zeit solleva questioni di carattere linguistico che non possono essere disgiunte dall’ambito ideologico-politico, quest’ultimo ancora segnato da una «sintassi difettosa» (Moro, 2007) e da categorie interpretative parziali. Il primo, profondo scarto che la traduzione italiana reca con sé «riguarda l’enfasi posta sull’accezione materiale di piombo, con trasparente riferimento alle armi da fuoco» (Orioles). Tale scelta, oltre a occultare la pregnanza evocatrice dell’archetipo “bleiern”, innesca un cortocircuito dalle conseguenze dannose, censurando «le bombe neofasciste» (Vitello, 2013) e riconducendo in un unico fenomeno tutte le sigle della galassia armata dei Settanta, dalle Brigate rosse ai Nar. Ne deriva un’immagine del decennio drammaticamente mutila, che appiattisce «sull’esplosione della violenza politica e sul grande impatto del fenomeno terroristico un’esperienza più complessa, che vide coesistere molteplici forme di partecipazione, intervento e militanza, spesso radicalmente distanti da quelle dei gruppi armati» (Gagliardi, 2017).
La scelta del Festival di Venezia
In quest’ottica, anche la scelta di anni in luogo di Zeit si rivela significativa. Ricorda De Luna che al Festival di Venezia l’opera di Von Trotta fu presentata con due titoli in alternativa: Tempi di piombo e Gli anni plumbei, che all’uscita nelle sale divenne Anni di piombo (De Luna, 2009). Tutte e tre le forme eludono le implicazioni emotive del modello, ma la traduzione definitiva – non a caso offerta al grande pubblico – fissa gli estremi di una periodizzazione sino a quel momento intentata, resa difficile dall’attualità degli eventi e dall’immediatezza dei ricordi. Tempo, in italiano, compendia due termini che il tedesco scinde in Zeit e Wetter, attribuendo al primo valore cronologico e al secondo significato meteorologico-atmosferico. Se nelle intenzioni di Von Trotta la scansione temporale si accompagna a un aggettivo dall’efficace senso figurato (bleiern, appunto), l’equivalente italiano cancella ogni residuo “climatico” e polarizza l’attenzione sull’intervallo cronologico da definire e delimitare. Il risultato è il rapido accoglimento del sintagma da parte della stampa, sintomo di un’urgenza espressiva fino ad allora frustrata.
Dal titolo alla lingua giornalistica
Al di là del successo del film, ciò che consente di accreditare il titolo come locuzione autonoma è, difatti, «la capacità di questo di adattarsi ad una determinata esperienza del momento storico, di modo da poterla riassumere e comunicare sostituendo, nella lingua, con la propria novità assoluta o parziale, moduli insufficienti o inadatti» (Saulini, 1987). Il caso di Anni di piombo s’inserisce in un procedimento linguistico ampiamente studiato, ossia quello del ricorso ai titoli di film nel registro giornalistico. L’antonomasia è senz’altro facilitata dalla «fattiva interdipendenza tra linguaggio dell’immagine e linguaggio vero e proprio» (Medici – Cappelluzzo Spingolo, 1991) ma la fortuna immediata del nostro titolo-locuzione risponde soprattutto alle esigenze di una società in crisi in un determinato momento storico, cui «corrisponde una lingua fortemente accelerata che ne costituisce un quadro speculare globale» (Medici, 1984). Non appena il titolo penetra nei testi degli articoli, la perdita di contatto con l’originale è netta e definitiva. Lo slittamento dalla valenza metaforica all’accezione concreta del piombo si evince da un rapido sguardo alle prime attestazioni: «Gli anni di piombo milanesi quando la morte era un gioco» (La Repubblica, 21 febbraio 1982); «Nel traffico d’armi molte risposte agli “anni di piombo”» (Avanti!, 20 luglio 1983); «In primavera un altro processo ai protagonisti degli anni di piombo. Tra gli imputati, i capi del grande partito armato» (Corriere della sera, 14 agosto 1984). Significativi due articoli apparsi nella Stampa rispettivamente il 25 giugno 1983 e il 18 gennaio 1988: «D’oro, non di piombo gli anni Settanta» e «I 50 anni di piombo della pistola “P 38”», indicata esplicitamente come «simbolo del terrorismo negli Anni Settanta» a istituire un legame diretto tra periodo e arma da fuoco.
Il rame di Erri De Luca
Provocatoriamente, è proprio sull’attenzione al materiale che si appuntano alcune delle risposte più critiche dei protagonisti del tempo. Vale la pena rievocare almeno quanto scritto da Erri De Luca: «Un giornalismo scadente ha definito di piombo il settimo e l’ottavo decennio del secolo scorso. Neanche hanno inventato la formula, avendola presa dal titolo di un film, per giunta tedesco […]. A doversi inventare un minerale, scelgo il rame, elemento adatto a trasportare energia elettrica» (2019). L’intenzione dell’autore è quella di opporre all’idea di morte implicitamente sottesa al piombo la forza della «corrente politica» condotta «ai più lontani angoli d’Italia». Senza arrivare a considerare la definizione “anni di piombo” uno stigma dei vinti, è pur vero che la sua assunzione a modulo locutivo comune segue un tracciato viziato da stereotipi e mere esigenze d’effetto, oggi ulteriormente gravate da giudizi etico-morali. Il giornalismo, in tal senso, ha svolto un ruolo fondamentale, ponendosi sin dall’inizio come diffusore – e costruttore – di memoria, intercettando zone dell’immaginario deputate all’elaborazione di forme e miti. Se richiamare un titolo filmico significa «servirsi del già noto [per] accreditare ciò che si dice» (Saulini), dall’altro lato il lettore è emotivamente coinvolto se ad essere stimolato è un patrimonio figurativo non ancora depositato – soggetto, pertanto, a trovare un punto di coagulazione attorno a cui raccogliersi. Anni di piombo si trasforma così in un sintagma ben noto e immediatamente riconoscibile, gettato nell’«arena dell’uso pubblico della storia» (De Luna) dove tutt’ora permane col suo carattere improprio e costantemente passibile di sofisticate «operazioni semantiche» (come riconosciuto da Francesco Cossiga).
Bibliografia
De Luca E., Anni di rame, Milano, Feltrinelli, 2019.
De Luna G., Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Milano, Feltrinelli, 2009.
Gagliardi A., «Stagione dei movimenti» e «anni di piombo»? Storia e storiografia dell’Italia degli anni settanta, “Storica”, XXIII, 67-68, 2017.
Medici M., Sintassi fra i linguaggi, “Cinemasessanta”, II, 156, marzo-aprile 1984.
Medici M. – Cappelluzzo Springolo S., Il titolo dei film nella lingua comune, Roma, Bulzoni, 1991.
Moro G., Anni Settanta, Torino, Einaudi, 2007.
Orioles V., Percorsi di parole, Roma, il Calamo, 2002.
Saulini M., Il titolo dei film diventa modulo locutivo comune, in “Cultura e Scuola”, XXVI, 102, aprile-giugno 1981.
Seiter E., The political is personal. Margarethe Von Trotta’s Marianne and Juliane, “Journal of Film and Video”, II, 37, Spring 1985.
Vitello G., L’album di famiglia: gli anni di piombo nella narrativa italiana, Massa, Transeuropa, 2013.
Immagine: Die bleierne Zeit (1981), regia di M. Von Trotta