08 giugno 2022

L’irriverente sacralità della bestemmia

A proposito del saggio Brutte sporche e cattive. Le parolacce nella lingua italiana di Pietro Trifone (Carocci ed.)

A quanto pare, in Italia c’è un’abitudine in declino, nonostante abbia radici secolari: si bestemmia sempre meno. L’occasione per riflettere su questo fenomeno viene offerta, tra tantissimi altri spunti, da un recentissimo libro firmato dal linguista Pietro Trifone (Università di Roma “Tor Vergata”): Brutte, sporche e cattive. Le parolacce della lingua italiana, edito da Carocci. Al caso il professore dedica un paragrafo, “L’irriverente sacralità del blasfemo”, dove, oltre ad analizzare l’etimologia di bestemmia, segnala anche «una sensibile riduzione del vizio di tirare moccoli», offrendo, come vedremo, un’ipotesi sulle cause. La decrescita certamente fa piacere alla stragrande maggioranza delle persone, a prescindere dal tasso di religiosità, non credenti compresi; allo stesso tempo, ovviamente, non frena la campagna della Chiesa cattolica per arginare una casistica che ritiene ancora assai diffusa, nonostante il secondo comandamento.

 

La volgarità permane

Prima di tutto, va sottolineato che il calo del linguaggio blasfemo segnalato dal linguista non è accompagnato dalla flessione del tasso di volgarità generale. Semmai quel decremento contrasta con un altro fenomeno: il boom delle cosiddette parolacce. Scrive Trifone: «Dal GRADIT (il Grande dizionario italiano dell'uso, su cui l’autore si è basato molto nella ricerca) risulta che le parole volgari attestate per la prima volta nella lingua italiana tra il 1900 e il 2004 sono circa il 60% del totale, contro il 40% di tutti i secoli precedenti»; ciò «può attribuirsi essenzialmente al progressivo affermarsi di modelli di comportamento e di nuove forme di comunicazione. Il fenomeno ha assunto una maggiore evidenza nella seconda metà del secolo scorso e fa registrare uno sviluppo enorme negli ultimi decenni. Appare decisivo, in tale direzione, il successo planetario dei social media».

 

Violentemente social

In effetti oggi c’è un luogo virtuale in cui gli insulti di ogni genere hanno trovato terreno fertile per crescere in modo esponenziale, a livello quantitativo e “qualitativo”: è il Web e, in particolare, le sue “reti sociali”. Come ha scritto la linguista Giovanna Alfonzetti (Università di Catania), i social rappresentano «il luogo privilegiato in cui dare sfogo alle manifestazioni di violenza verbale»; tanto che la professoressa, in un’analisi dei graffiti scritti tra 2007 e 2019 nei locali dell’ateneo di Catania e della Sapienza di Roma, sottolinea: «La diffusione alluvionale dei social media ha ridotto drasticamente la produzione di graffiti di ogni genere… e in particolare di quelli ingiuriosi». Su Internet l’unico caso di “successo” è stato la pubblicazione indebita per mezzo di YouTube di alcune sfuriate fuorionda di un giornalista televisivo veneto, scomparso alcuni anni fa e noto per la sua sobrietà in pubblico; cercò di bloccarne la diffusione, invano (tuttora i video sono reperibili sulla piattaforma).

 

La tv espelle

Eccezioni a parte, perché il linguaggio blasfemo attecchisce meno, nel mondo reale e in quello virtuale (sempre più connessi e, per certi, versi indistinguibili)? Di certo, le persone non sono intimidite dal vago rischio di punizioni da parte delle autorità: bestemmiare non è più un reato (peraltro rarissimamente punito) dal 30 dicembre 1999 (decreto-legge 55/1999); sui social come nella sfera pubblica si può incorrere in una sanzione amministrativa (tra 51 e 309 euro). Nel frattempo neppure le pene previste per i reati veri commessi sul Web da utenti comuni (è il caso di cyberstalking, revenge porn, cyberbullismo, pedopornografia, diffamazione, per citarne alcuni) non sembrano scoraggiare i tanti che li commettono. L’unico contesto in cui chi bestemmia rischia l’espulsione è quello televisivo, dove si può dire e fare di tutto (incluse risse e insulti in diretta) ma non imprecare in quel modo. È una regola che resiste a qualsiasi cambiamento. Come ha scritto il magazine «Rolling Stone», il 4 aprile 2022, in una Storia di tutte le bestemmie (e relative espulsioni) nella tv italiana, uno degli ultimi casi è stato quello del «batterista della storica band I Cugini di Campagna, escluso dall’Isola dei famosi subito dopo il suo sbarco sulla spiaggia di Cayo Cochinos».

 

Blasphemia e bestia

Qual è l’opinione del professor Trifone? Sgombriamo subito il campo sul fronte etimologico. Nel caso delle parole bestemmiare e bestemmia («grecismi già accolti nel latino ecclesiastico – blasphemare, blasphemia – e da qui trasmessi alle lingue romanze», scrive) Trifone propende, riferendosi alla forma attuale, per l’ipotesi avanzata dal glottologo e linguista Giacomo Devoto (1897-1974): l’«incrocio, nella mente dei parlanti del verbo biastemmiare con il nome bestia». Questa evoluzione «è stata favorita in modo determinante da un istintivo collegamento… che ha portato a interpretare la parola in questione come ‘folle imprecazione contro la divinità, che degrada l’uomo al livello di una bestia’». Inoltre può esserci stato «un meccanismo simile a quello della metonimia: poiché l’elemento ingiurioso di molte locuzioni blasfeme è costituito proprio dal nome di un animale». Di certo, il verbo usato oggi è già attestato «nel Duecento e anche il sostantivo compare anticamente tanto in prosa (Boccaccio) quanto in poesia (Dante)». Il linguista cita altre fonti letterarie – per esempio, sul fronte fiorentino, Carlo Collodi, nel XIX secolo – come testimoni della grande e persistente «diffusione della bestemmia» fino a un recente passato, praticata in tutta Italia «dovunque e per qualsiasi motivo, dal più grave al più futile… perfino in mancanza di qualsiasi problema, a titolo di semplice intercalare desemantizzato».

 

In una società religiosa

Per spiegare il progressivo declino del linguaggio blasfemo, il professore premette: «Si potrebbe sostenere… che la bestemmia non è affatto un sintomo di irreligiosità, ma è anzi l’espressione di una religiosità esasperata e disperata, che impreca contro l’essere supremo a cui attribuisce la causa di un male, riconoscendone così l’onnipotenza e insieme manifestandogli un bisogno di attenzione. Non si insulta chi non esiste o non interessa, e perciò bestemmiare ha veramente senso solo in una società religiosa». Però scrive Trifone: «Oggi il dilagare del turpiloquio si accompagna a un forte declino del vizio di tirare moccoli».

Perché? È giunto il momento per svelare la soluzione del giallo, secondo il professore.

 

Laicismo e indebolimento del tabù

Visto che l’attuale diluvio di parolacce «non depone certo a favore di un calo della maleducazione», egli scrive che il decremento delle bestemmie «si spiegherà piuttosto con il fondamentale laicismo di una società che, una volta liquidata la nozione stessa di peccato, ha perso anche gran parte del bisogno e del gusto di bestemmiare. Se un tabù perde forza e attualità, inevitabilmente la sua violazione diventa meno corrosiva e meno stuzzicante, quindi anche meno praticata. Il fenomeno, a ben vedere, si inserisce nel processo di “‘desacralizzazione’ generale del linguaggio orale familiare” illustrato con un'ampia documentazione nel volume Sicuterat di Gian Luigi Beccaria» (linguista, professore emerito all’Università di Torino).

 

Le conclusioni di Trifone? «La persistente sanzione sociale da un lato e la diffusa crisi della religiosità dall'altro collaborano nel ridurre l'uso della bestemmia, in quanto la rendono un'“arma proibita” e al tempo stesso spuntata o depotenziata, uno strumento tutto sommato poco funzionale in termini, per così dire, di rapporto costo-benefici. Evidentemente la pratica dell’insulto blasfemo – come quella delle altre forme di insulto ma con una maggiore profondità simbolica – risente delle variazioni che il sistema di valori di una società presenta nelle diverse epoche, confermando la tesi di Peter Burke (storico britannico, professore emerito di Cultural History all’Università di Cambridge, ndr), secondo cui gli insulti sono una chiave efficace per comprendere l'evoluzione della mentalità».

 

Turpiloquio e politica

Il saggio di Pietro Trifone offre molti altri spunti per esaminare la genesi, la persistenza e l’evoluzione, dal Medioevo fino ai giorni nostri, delle parolacce nella lingua italiana; lo fa con grande professionalità ma anche con vivace ironia, senza risparmiare lo sdoganamento del turpiloquio sui mass media professionali (dai quotidiani cartacei e digitali alla tv) e nel discorso politico. A quest’ultimo proposito – citando, per esempio, il celodurismo di Bossi, il gesto delle corna di Berlusconi durante un summit europeo o i Vaffa-Day di grillina memoria – sottolinea che «il turpiloquio è la più immediata e appariscente proiezione simbolica del malessere sociale di cui si nutre il populismo».

 

Contro la democrazia

«Purtroppo», aggiunge Trifone, «questa progressiva tendenza al ribasso del discorso politico risveglia o alimenta impulsi viscerali e istinti aggressivi che fanno regredire la coscienza critica degli elettori... Si tratta di una deriva pericolosa… Una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe sentire l'esigenza di essere anche modello e non solo specchio di un paese». Tuttavia – come ha scritto il linguista Giuseppe Antonelli (Università di Pavia) nel volume Volgare eloquenza – «la parolaccia fa guadagnare voti». Quindi Trifone bacchetta i politici, che dovrebbero «saper rinunciare a parole e atti sconvenienti in sedi pubbliche o addirittura istituzionali». Insomma il professore sembra volerci dire che ci sono le bestemmie contro la religione ma anche quelle, molto pericolose, contro la democrazia.

 

 

Bibliografia

 

GRADIT = Grande dizionario italiano dell’uso, ideato e diretto da Tullio De Mauro, Utet, Torino 1999-2007.

 

Giovanna Alfonzetti, "Fuck Prof Ke lezione di merda". Insultare sui muri dell'università, in Quaderns d’Italià 25/2020, pag. 103-134, Universitat Autònoma de Barcelona, Barcellona 2020.

 

Giuseppe Antonelli, Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica, Laterza, Roma-Bari 2017.

 

Gian Luigi Beccaria, Sicuterat. Il latino di chi non lo sa: Bibbia e liturgia nell'italiano e nei dialetti, Garzanti, MIlano 1999.

 

Pietro Trifone, Brutte sporche e cattive. Le parolacce nella lingua italiana, Carocci editore, Roma 2022.

 

Immagine: Il cosiddetto graffito di Alessameno, al museo sul colle Palatino a Roma, graffito pagano del secondo secolo che ritrae un uomo che adora un asino crocifisso, presumibile presa in gioco di un soldato cristiano, via Wikimedia Commons

 

 


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