Il tema del cibo nei Promessi sposi è da sempre stato oggetto di studio: critici della letteratura, linguisti e storici hanno a lungo ragionato sull’argomento, focalizzando le indagini non tanto sull’osservazione della varietà del cibo nel romanzo, quanto sulla povertà della tavola, dovuta all’assenza delle risorse.

Le pagine manzoniane, oltre a rendere al lettore le vicende dei due sposi promessi, restituiscono un quadro a tinte perlopiù fosche di una società indigente, affamata e privata dei bisogni primari: la macchina del realismo azionata da Manzoni porta a considerare infatti la crisi economica come crisi morale, dove la mancanza dei beni essenziali corrisponde all’assenza di un’identità sociale.

Nonostante a mancare siano proprio le risorse, i tentativi dei personaggi di raccogliersi attorno a un pasto caldo non mancano, come ben è mostrato dalle tavole di Francesco Gonin raccolte da Daniela Brogi nella sezione Interni di cucina, di sale da pranzo e di osterie del volume Un romanzo per gli occhi: Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo (2018). Tuttavia, perfino al lettore meno «provveduto» non sarà sfuggito che, anche nelle occasioni non diremo di convivio, ma di cibo “condiviso”, manca quell’atmosfera calda e accogliente che si crea attorno a un banchetto.

Assistiamo, per esempio, al frastuono di cose e parole al banchetto di don Rodrigo, in un crescendo «confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti» (Cap. V, 130), ma non certo allegro, o alla mestizia che caratterizza la cena a casa di Tonio: sono immagini che certamente evocano sensazioni di disordine, di impaccio, di malessere e di fame, ma nel contempo possono offrire a noi lettori uno spaccato di vita quotidiana, con uno sguardo curioso e attento alla varietà delle pietanze proposte sulla scena.

Proviamo quindi a sedere a tavola con i personaggi di Manzoni e a osservare alcune portate, note per le loro descrizioni povere, e a considerarle come quel tanto che di buono è concesso gustare a quegli sventurati commensali che, sedendo allo stesso desco, devono necessariamente condividere.

Non dobbiamo però liquidare con sdegno e superficialità, al pari di don Rodrigo e degli ospiti del suo banchetto, la carestia, «bandita e confinata in perpetuo da quel palazzo, dove siede e regna la splendidezza» (Cap. V, 370), che purtroppo ancora ai giorni nostri segna come un morbo insanabile il destino di molti uomini.

Ebbene, prendiamo posto a tavola e seguiamo il menù manzoniano, quale filo di nutrimento che scandisce le tappe importanti della narrazione (riprendo qui la suggestiva immagine del filo di parole, di seta e di farina con cui, in un recente saggio, Giuseppe Polimeni rilegge il romanzo; Polimeni 2020).

Il gran cavolo di Perpetua

Il primo alimento che compare sulla tavola manzoniana è un cavolo, «un gran cavolo»: a portarlo dall’orto, «sotto il braccio, e con la faccia tosta» è Perpetua, che Don Abbondio, stremato dalla veglia angosciosa della notte prima e dal colloquio del mattino con Renzo, chiama «con voce tremolante e stizzosa» (Cap. II, 255). La scena, resa tragicomica dai movimenti goffi del curato, appare quasi buffa dall’entrata di Perpetua con il cavolo sottobraccio. Questo ortaggio autunnale è la variante lombarda del cavolo verza ‘a foglie increspate, bollose e grinzose’ (cfr. GDLI s.v. cavolo), elemento base di abbondanti primi piatti, come le zuppe e le minestre della tradizione contadina (fra queste la tipica casoeula lombarda, termine la cui origine è ancora incerta: cfr. GDLI [2] s.v. cassola, e Suppl. s.v. casoeula, dal lomb. cassola ‘casseruola’, il tegame che contiene la zuppa), ma anche dei più calorici involtini di salsiccia, avvolti appunto in foglie di cavolo.

La polenta bigia di Tonio

Seguendo la narrazione, il primo piatto che vediamo servito sulla tavola è la polenta, «una piccola polenta bigia, di grano saraceno» a casa di Tonio (Cap. VI, 275-295); certo, gli aggettivi usati per descrivere l’alimento non suscitano alcun particolare desiderio (la polenta è piccola ‘poca’ e bigia ‘grigia’, quasi ‘sbiadita’): solo nella descrizione dell’ambiente troviamo quel po’ di calore famigliare che è proprio del focolare domestico. Accanto «all’orlo d’un paiolo, messo sulle ceneri calde» siedono la madre, un fratello (Gervaso), la moglie di Tonio e «tre o quattro ragazzetti», in attesa che venga «il momento di scodellare» quella scarsa vivanda comune che sembra non bastare per il numero dei commensali. Ad interrompere il povero banchetto, dove manca la materia prima e anche «quell’allegria che la vista del desinare suol pur dare», è Renzo che, «barattati i saluti» con la famiglia riunita e rifiutato l’invito di restare a cena, si accorda con Tonio e Gervaso per cenare all’osteria del villaggio, dove potranno parlare con tutta libertà; una proposta «tanto più gradita, quanto meno aspettata», accolta dalle donne e dai bambini con velata contentezza perché, «sottratti alla polenta quei concorrent_i_», le porzioni scodellate sarebbero state più generose per tutti (cfr. GDLI s.v. scodellare; alcuni dizionari segnalano l’uso proprio con polenta, s.v. GB, Petrocchi Nòvo).

Le polpette prodigiose dell’oste

Renzo, Tonio e Gervaso giungono così all’osteria del villaggio, un «luogo di delizie», ma anche un luogo di passaggio che segna l’uscita dal mondo delle difficoltà verso una realtà dell’abbondanza, ma solo apparente: qui un oste grottesco, «con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano», porta un piatto di polpette prodigiose, che addirittura «farebbero resuscitare un morto» (Cap. VII, 410). Non possiamo sapere con precisione quali e quanti ingredienti l’oste abbia usato; è certo però che Manzoni ha ben in mente le mondeghili milanesi (cfr. Cherubini, s.v. mondeghili), polpette di carne con verdura, formaggio, pangrattato, cotte nel burro o fritte, talvolta avvolte nell’immancabile verza, il cui nome è un adattamento milanese del termine almondiguilla ‘polpetta’ importato dagli Spagnoli a Milano durante la loro dominazione (cfr. GDLI s.v. mondeghilia).

Lo stufato della Luna Piena

Sono proprio le osterie a scandire alcune tappe importanti del romanzo e a offrire, in quanto tali, termini propri del lessico della cucina. Queste locande, descritte da Manzoni come luoghi ambigui, sono luoghi frequentati perlopiù da popolani e villani, da avventori di ogni sorta e levatura sociale, che consumano pietanze rustiche e vini della casa, in cerca di un alloggio di fortuna. Come già notava Maria Corti nel mai dimenticato saggio Con Manzoni all’osteria della Luna Piena (Corti 1989), l’universo rappresentato dalle taverne costituisce uno spazio chiuso e rarefatto, ma pur sempre vero e autentico, quale perfetta rappresentazione della vita popolare contadina, cui corrisponde un fuori, la città, il palcoscenico artefatto di una realtà costruita, fatta di intermittenze tra luci e ombre (Brogi 2018).

La più nota delle tre osterie menzionate nel romanzo è certamente l’osteria della Luna Piena con il suo «usciaccio, sopra il quale pesava l’insegna» (Cap. XIV, 125), dove Renzo, che tra tutti è forse l’unico «buon figliolo», per «un gran bisogno di mangiare e riposarsi» trova riparo dopo il tumulto di San Martino: sedutosi a tavola, e allontanato il pensiero felice dell’ultimo pasto condiviso con Lucia e Agnese, Renzo è pronto, tra un bicchiere di vino e l’altro che «tracanna in un sorso», ad assaggiare lo stufato. È questo il piatto simbolo delle osterie, tipico della tradizione settentrionale, composto da carne anche poco pregiata ‘tagliata in pezzi, cotta secondo tale procedimento’ (cfr. GDLI s.v. stufato sm.), che al palato del giovane affamato risulta una prelibatezza, tanto che «ingoiando_ne_ un boccone» sorride «con maraviglia».

Il pane nel romanzo

E poi c’è quel filo bianco di farina che segna tutto il romanzo, che marca luoghi e momenti importanti della storia, e si materializza in forme diverse di pane, che da alimento si fa simbolo, non più della fame, ma della giustizia, della speranza e del perdono (Stella 2005): al grido di «pane e abbondanza» pronunciato da Antonio Ferrer, il popolo risponderà a gran voce «pane e giustizia», un binomio inscindibile dove le cose si caricano di valore simbolico e le parole le nobilitano.

Osserviamo così il pane ritrovato da Renzo al rientro a Milano, che raccoglie seguendo delle «strisce bianche e soffici, come neve», un pane tondo e «bianchissimo» che «non era solito mangia_re_ che nelle solennità» (Cap. XI, 405); poi il «pane della provvidenza», il terzo e ultimo di quei pani sparsi durante i tumulti e raccolti sotto la croce di San Dionigi, che il giovane alza in aria come trofeo all’osteria della Luna Piena (Cap. XIV, 170); più avanti ancora, il pane della solidarietà che il fornaio di Monza porge a Renzo «sur una piccola pala» (Cap. XXXIII, 515).

Mi piace concludere con le parole di fra Cristoforo e l’immagine del suo pane, avuto come segno di perdono dal fratello del nobile che Lodovico, è questo il nome del frate prima di indossare la tonaca, uccide in duello: il pane del perdono quindi, di cui «serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo» (Cap. IV, 370), lo stesso che lui darà in dono a Renzo e Lucia nel Lazzaretto, alla conclusione del romanzo.

Fra Cristoforo si congeda così dai due futuri sposi, con quel pane prezioso, custode di giustizia, di perdono e di carità: «Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! e che preghino, anche loro, per il povero frate!» (Cap. XXXVI, 460).

Bibliografia

Brogi 2018 = Daniela Brogi, Un romanzo per gli occhi: Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo, Roma, Carocci, 2018.

Cherubini = Francesco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Milano, Dalla Regia Stamperia, 1839.

Corti 1989 = Maria Corti, Con Manzoni all’osteria della Luna Piena, in Leggere “I promessi sposi”, a cura di G. Manetti, Milano, Bompiani, 1989.

Frare 2014 = Pierantonio Frare, I luoghi del convito nei Promessi sposi, in Manzoni, il cibo, la fame, la storia, Atti del Convegno, Cormano 25 ottobre 2014, Comune di Cormano, 2014, pp. 11-17.

Frosini 2009 = Giovanna Frosini, L’italiano in tavola, in Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, Nuova edizione a cura di Pietro Trifone, Roma, Carocci, 2009 [2006] («Studi Superiori», 580), pp. 79-103.

Frosini 2015 = Giovanna Frosini, L’italiano del cibo: storie, parole, persistenze, novità, in Cultura del cibo, diretta da Alberto Capatti e Massimo Montanari, III. L’Italia del cibo, Torino, UTET («Grandi Opere»), 2015, pp. 477-91.

GDLI = Grande Dizionario della Lingua Italiana, fondato da Salvatore Battaglia, diretto da Giorgio Barberi Squarotti, 21 voll., Torino, UTET, 1961-2002.

Luperini-Brogi 2013 = Alessandro Manzoni, I promessi sposi: storia milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta, Romano Luperini – Daniela Brogi (a cura di), nuova ed. a cura di Nerella Botta, Milano, Einaudi scuola, 2013.

Polimeni 2020 = Giuseppe Polimeni, Fili di seta, strisce di farina. Il pane, il vino, la cultura materiale in Giuseppe Polimeni, Il filo della voce. Indagini sul pensiero linguistico di Manzoni e sui Promessi sposi, FrancoAngeli, Milano, 2020, pp. 95-112.

Robustelli-Frosini 2009 = Storia della lingua e storia della cucina. Parola e cibo: due linguaggi per la storia della società italiana. Atti del VI Convegno ASLI - Associazione per la Storia della Lingua Italiana (Modena, 20-22 settembre 2007), a cura di Cecilia Robustelli e Giovanna Frosini, Firenze, Franco Cesati Editore, 2009 («Associazione per la Storia della Lingua Italiana», 5).

Serianni 2009 = Luca Serianni, «Prontate una falsa di pivioni»: il lessico gastronomico dell’Ottocento, in Di cotte e di crude. Cibo, culture, comunità, Atti del convegno internazionale di studi (Vercelli-Pollenzo, 15-16-17 marzo 2007), a cura di Giovanni Tesio, con la collaborazione di Giulia Pennaroli, Torino, Centro di Studi Piemontesi, 2009, pp. 99-122.

Stella 2005 = Angelo Stella, «Povere cene» di Lombardia, in Gianluigi Beccaria, Angelo Stella, Ugo Vignuzzi, La linguistica in cucina. I nomi dei piatti tipici, Unicopli, Milano, 2005, pp. 25-101.

Il ciclo Percorsi di cose e parole nella lingua del cibo è curato da Giovanna Frosini. Qui sotto gli interventi già pubblicati.

Immagine: Willem van Herp, Poveri in cucina, 1633 (Public domain, via Wikimedia Commons)