Il paradosso

Di tutti i mestieri legati alla pratica della scrittura quello del copywriter è il più paradossale. A iniziare dal nome: un anglismo – per significare ‘redattore di testi pubblicitari’ – che lascia un po’ delusi. Possibile che, per un’attività il cui oggetto è l’efficienza comunicativa, non esista parola italiana adeguata?

Tant’è. È al pascolo dei vocaboli d’oltremanica che pubblicitari e addetti alla commercializzazione dei prodotti (chiedo venia: guru del marketing!) si nutrono e abbeverano. Tanto più in Italia, paese permeabile come un colabrodo alla loquela albion maccheronica.

Ma non facciamo troppo gli snob, saltiamo a piè pari il fastidio per la terminologia d’importazione e andiamo al succo del paradosso, che è squisitamente tecnico. Eccolo: il copywriter è quello scrittore che quanto meno scrive, più fa il suo mestiere. Il principio che ne regola l’agire, infatti, gli impone di ottenere il massimo dalla minor quantità di parole possibile. E non vi è altra faccenda di carattere scrittorio che assegni questo mandato con la stessa insistenza.

Ciò consegue a fatti oggettivi: da una parte gli spazi pubblicitari sono esigui e costosi, dall’altra la quantità di attenzione che una persona è disposta a concedere a un messaggio con fini commerciali, per quanto creativa e avvincente possa esserne la stesura, è molto limitata.

Si deve dire in breve, insomma, sia nel registro verbale che in quello figurativo, e, altro aspetto da non sottovalutare, in quella brevità si deve colpire, essere incisivi. Poche parole, ma dense e memorabili, che non si perdano nel brusìo di sottofondo, dove tutto è indistinto; che non affoghino nel chiacchiericcio perdurante e monotono della comunicazione globale, così, senza lasciare traccia, come acqua versata nell’acqua.

Come fare? Il copywriter di primo pelo, angosciato dall’incombenza di partorire una frase corta e indimenticabile, ansioso, inoltre, di entrare nella storia della scrittura commerciale, non si scoraggi. Mal che vada può salire… sull’altalena.

Ora su, ora giù

L’arte del motto, dell’aforisma, della frase a effetto, alla quale la scrittura pubblicitaria si ispira, non sempre è fatta di contenuti fulminanti (come in Oscar Wilde, per dire) ma sempre – sempre – è fatta di forma. Il dir stringato lavora di cesello. La disposizione delle parole, e il ritmo da esse dettato, tendono verso la migliore realizzazione possibile, pena la vanifica nel dir fiacco. E ciò è ancora più vero qualora il contenuto da trasferire fosse banale, cosa che in pubblicità, non è una scoperta, accade con discreta frequenza.

Tra i vari modi di scegliere e disporre le parole c’è, dunque, l’altalena. Si tratta di un accorgimento stilistico piuttosto antico, in grado di dare verve a frasi che altrimenti non ne avrebbero alcuna, chiamato dai retori classici antitesi e dagli albionici (veri maestri di questa tecnica, come – ahinoi – vedremo) the contrasting pair.

Qui, non per vezzo, continueremo a dire altalena, perché il riferimento a una realtà concreta dà l’immagine precisa del lavoro retorico che questa struttura linguistica svolge, regalando una chiarezza irrintracciabile nell’astrattezza della definizione canonica.

Trasferiamoci allora nel mondo degli oggetti e immaginiamo un’altalena basculante, costituita da un asse di lunghezza variabile vincolato a un fulcro centrale piantato nel terreno. Agli estremi siedono due bambini. Il gioco consiste nell’andare ora su, ora giù, a turno.

Bene, immaginiamo che i bambini agli estremi opposti dell’altalena siano parole. Parole come? Parole opposte. Meglio: contrari.

Quando leggiamo una frase strutturata con due contrari, collocati secondo un ordine metrico preciso, saliamo su un’altalena basculante che funziona alla perfezione. Andiamo su e giù. Oscilliamo da una polarità all’altra. Viaggiamo dentro la frase, che emerge dallo sfondo nel quale altre frasi, più statiche, sfuocano. E non facciamo alcuna fatica, perché il congegno è stato realizzato bene, con i due contrari collocati nei punti giusti, simmetrici come i due bambini agli estremi dell’asse che li sostiene, e forti l’uno della spinta che gli dà l’altro.

Opposti e contrari

Opposti e contrari non sono esattamente la stessa cosa. Ce lo ricorda Annamaria Testa (l’articolo si può leggere, per intero, qui): «Gli opposti definiscono i confini di un ambito (i due poli opposti… gli opposti estremi di un segmento, i lati opposti di una stanza). I contrari, invece, sembrano non prevedere gradazioni intermedie. E, se considerate l’uno, escludete l’altro (o parti, o torni. O sopra, o sotto. O acceso, o spento. O parli, o taci…)».

Comunque sia, opposti o contrari che dir si voglia, la tensione che si crea quando li si accosta – tensione in senso positivo, come un’elettricità – è buona sia per le parole che per il pensiero.

Eraclito costruì un’intera filosofia sull’energia che scorre tra i contrari, sempre sé stessi fino a che non si rovesciano nella negazione che li contesta: il giorno nella notte, la luce nel buio… e viceversa. Poli in opposizione mai autonomi, reali solo nella presenza vivificante dell’altro.

E Cesare Pavese, ne Il mestiere di vivere, scrive: «Tutta l’arte è un problema di equilibrio fra due opposti». Vale per l’arte, e vale anche per la frase, che del copywriter è la piccola, ma significativa, opera d’ingegno.

Si diceva: il copywriter è quello scrittore che quanto meno scrive, più fa il suo mestiere. È un’altalena. Non a caso, ovviamente. E anche: ottenere il massimo dalla minor quantità di parole possibile. Altra altalena. Non sono queste le frasi che più rimangono in mente, di quanto scritto fin qui? La struttura regala una possibile memorabilità. A dispetto dell’apparente puerilità del meccanismo, la sua intelligente applicazione produce asserzioni di grande potenza. Come mai? C’è una tensione ossimorica che si esprime, dove però gli opposti sono al servizio di un concetto e non si metaforizzano l’un l’altro come nell’ossimoro vero e proprio. Detto in altro modo: i due contrari brillano, l’uno specchiandosi nel contrasto con l’altro.

Consigli per gli acquisti

“Più lo mandi giù e più ti tira su”. Qualcuno, anagraficamente attrezzato, ricorderà lo slogan per il caffè Lavazza recitato da Nino Manfredi in innumerevoli spot (uno fra i tanti si può vedere qui). Ebbe vita lunga, entrò nel linguaggio comune, divenne un tormentone, come si dice in gergo.

In pubblicità le altalene sono molto diffuse.

Tanti anni fa scrissi un annuncio per Digital, azienda informatica americana poi assorbita da Hewlett & Packard. Il cliente chiedeva di dire a chiare lettere che l’azienda era la migliore produttrice di hardware del mondo, ma si raccomandava di non apparire troppo arroganti (sic!). Ne venni fuori con questo titolo: “Siamo i migliori produttori di hardware del pianeta. Scusate, non conosciamo un modo più soft per dirvelo”.

A volte le altalene sono potenti come uno schiaffo, altre volte sono un po’ fruste, come “+ casse, – tasse”, per birra Bavaria. In generale, quelle basate sugli avverbi – più/meno, giù/su – sono più deboli di quelle che lavorano su termini primari come giorno/notte, luce/buio, soprattutto quando questi termini sono usati con valore metaforico: “It’s what you do in the dark, that puts you in the light” è lo splendido claim che chiude una serie di spot per la marca di abbigliamento sportivo Under Armour (da vedere: qui lo spot dedicato alle ginnaste e qui quello con Michael Phelps).

In un altro lavoro – non visto, purtroppo, dal grande pubblico, perché realizzato nell’ambito di un concorso interno al Festival dell’Advertising di Cannes – si raccontano i patimenti subiti da un profugo appena giunto in Europa. Si può vedere qui. Il claim potentissimo che lo chiude recita: “If this is what they came for, imagine what they came from”.

In inglese le altalene vengono molto bene. L’avevamo anticipato, più sopra. Molti degli aforismi attribuiti a Wiston Churchill, per dirne una, si presentano in questa forma. Che siano loro i maestri in questa tecnica, da quando qualcuno ha scritto to be or not to be?

Ciò non alimenti la nostra già endemica esterofilia. Piuttosto ci insegni che la prova migliore della riuscita di un’altalena verbale consiste nella sua perfetta traducibilità. Se il primo uomo sulla Luna poté dire That’s one small step for a man, one giant leap for a mankind, la forza originale della sua affermazione non perde nulla nella traduzione: “Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”. E il famoso detto di Mies van der Rohe, less is more, rimane intatto se lo trasformiamo in “nel meno c’è il più”.

Una forza inesauribile

Eugenio Montale si cimentò anche con la pittura (chi è interessato faccia un salto qui) e in un breve componimento intitolato L’arte povera scrisse: «(...) del nulla ch’era in me / del tutto ch’eri tu».

Mettere al posto giusto i termini è cruciale. È grazie all’ordine loro imposto che il contrasto, invece di affogare nel rumore di fondo delle altre parole, emerge netto. Del nulla ch’era in me, del tutto ch’eri tu: qui gli opposti suonano come un colpo di rullante che si ripete nella stessa posizione, battuta dopo battuta (i due segmenti di frase che vanno allo stesso ritmo), in una musica in cinque quarti (del-nulla-ch’e-rain-me / del-tutto-ch’e-ri-tu).

Oppure. «Pace non trovo, et non ò da far guerra» scrive Petrarca, forse per mostrarci come lavorano bene i contrari posizionati in perfetta simmetria sui lati opposti dell’altalena.

Ma non è tutto qui. Incredibilmente, questo meccanismo linguistico, all’apparenza ben circoscritto e delimitato dagli accorgimenti rivelati finora, riserva ancora qualche sorpresa, e induce al sospetto che la sua forza generativa sia inesauribile.

Prendiamo l’origine dell’essere, per esempio. La religione la racconta così: fiat lux (Che la luce sia!). E la scienza così: big bang! Non sono altalene anche queste? Quando leggiamo “Sia fatta la luce!”, nella nostra mente non vediamo forse la tenebra totale che tutto avvolge e che precede, opponendosi a esso, il momento della creazione? E quando diciamo “Big bang”, non si crea nella nostra mente il puntino infinitesimale, tra essere e non essere, che precede, opponendosi a essa, l’espansione istantanea dell’universo nella grande esplosione?

Certe parole, certe formule, evocano immagini così forti che trascinano con sé, implicitamente, il proprio non detto, l’opposto e il contrario che vivono e prosperano nelle pieghe di quelle stesse parole o formule, e che si manifestano nei risvolti delle immagini che esse suscitano.

Tra testo e immagine

C’è uno spettacolare, quanto drammatico, annuncio del 1992 (sul tema protezione dei minori, è visibile qui) che a prima vista non c’entra nulla con i nostri temi. La struttura verbale, di per sé, non è un’altalena. Eppure. Leggiamo il titolo: “Come ci si sente a essere stuprati all’età di 3 anni? Una vittima spiega”. Poi, guardiamo l’immagine: un uomo di circa sessant’anni. E la polarità si innesca. Tre anni versus sessanta. L’altalena è tra testo e immagine (si può fare anche questo!) che insieme creano un sottotesto che dice giovane/vecchio. Ma non si tratta di un gioco visivo/verbale fine a sé stesso. È al servizio di un concetto. Ci dice, senza esplicitarla, una cosa terribile: per chi è stato stuprato da bambino, il tempo non passa mai. Quel segno rimane per sempre. Tre anni o sessanta, è la stessa cosa.

Più leggera, decisamente, la campagna per SwissLife, che propone una variante dove opposti e contrari non sono i termini impiegati, ma i contenuti espressi, i quali basculano sul fulcro verbale che hanno in comune. Davvero originale (è visibile qui e qui).

Ancora: è possibile fare altalene puramente visive? René Magritte, con il suo L’impero delle luci, un quadro dove sono presenti il giorno e la notte contemporaneamente, ci è riuscito.

E, per chiudere: l’ultimo suggerimento al copywriter in ansia da prestazione. Agli albori di Internet, IBM firmava i propri annunci con questo slogan: “Soluzioni per un piccolo pianeta”. Apparentemente non ci sono opposti o contrari a prendersi a pugni. Ma l’opposizione di ‘piccolo’ a ‘pianeta’, oggetto della realtà che contiene in sé l’idea di ‘grande’, è più che sufficiente a creare tensione all’interno della frase. Un’altalena indiretta, quindi, dove i due termini in contrasto sono, per così dire, velati, può essere addirittura più potente di un’altalena esplicita, e meno scontata.

Lo sa bene Nike che, agli inizi della pandemia da Covid-19, produsse un annuncio (visibile qui) che diceva: “Gioca nella tua cameretta, gioca per il mondo”. ‘Inside’ e ‘world’ non sono, linguisticamente, né opposti né contrari. Ma l’idea di chiuso nel piccolo e di spalancato nel grande che contengono sono più che sufficienti per creare quella polarità tipica delle frasi di grande impatto e memorabilità.

Che ne avesse contezza anche il Sommo Poeta, quando decise di iniziare le sue cantiche con “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura”? La selva oscura, nella simbolica dantesca, non contiene forse in sé quell’idea di morte nel peccato che è la negazione della vita?

Immagine: L’impero delle luci

Crediti immagine: René Magritte