05 marzo 2021

Il diritto quotidiano

Il diritto da vicino: parole (giuridiche) per un anno

Il diritto non è mai una nuvola che

galleggia sopra un paesaggio storico.

È esso stesso paesaggio, o, se

vogliamo, sua componente

fondamentale e tipizzante.

Paolo Grossi (2003: 43)

 

 

Parole di tutti i giorni

 

Tra tutti i linguaggi specialistici il linguaggio giuridico «è forse quello che più si ‘sporca’ con la lingua comune, capace come una spugna di assorbire linfa da ogni fonte terminologica» (Gualdo 2011: 411). Esso attinge molti termini dalla lingua d’uso, anche generici (bene, cosa, fatto, persona, parte), che però usati in contesti giuridici assumono significati precisi, più circoscritti (Lubello 2021: 59 e 65).

Alcune parole vengono da lontano, hanno magari due o più significati già in latino e ne perdono (o acquistano) qualcuno strada facendo. Un esempio: il termine querela aveva anticamente, come già in latino, due significati principali (cfr. TLIO s.v.) che coesistono fin dal Due- e Trecento: il primo, soprattutto dello scritto letterario, ‘lamento, lagnanza; manifestazione di contrarietà’ arriva fino alla metà del Novecento, mentre il secondo, oggi vivo, è quello giuridico (del diritto penale) ‘atto con cui la persona offesa da un reato manifesta, nei casi previsti dalla legge, la volontà che il colpevole venga processato’. Della prima accezione leggiamo un’occorrenza nello Zibaldone, in cui il 7 gennaio 1827 Leopardi da Recanati annotava a proposito, diremmo, di un luogo comune (si cita dalla BIZ):

 

Egli è pur certo che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune che i mezzi tempi non vi sono più, e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno.

 

Tra le ultime tracce querela ‘lamento, voce lamentosa’ compare in una lirica del 1949 della sezione Madrigali privati di La bufera e altro di Eugenio Montale, Le processioni del 1949, vv. 3-5: «poi un alone anche peggiore, un bombito / di ruote e di querele dalle prime / rampe della collina».

Ci sono parole originariamente, etimologicamente giuridiche che diventano di larga diffusione e disponibilità: il termine ingiuria è il latino iniuria dall’agg. iniurius ‘ingiusto’, composto da in- con valore negativo e ius iuris ‘diritto’, e indica quindi ‘ogni azione che viola le norme giuridiche, contro il diritto’. Nell’uso comune ingiuria vale anche senza il riferimento giuridico come ‘offesa all’onore, al nome, al decoro altrui con atti o parole oltraggiosi’ e anche in varie accezioni più estese e figurate, soprattutto nello scritto letterario: ‘offesa; lesione; danno provocato dalle forze naturali; dal trascorrere del tempo ecc.” (cfr. GDLI, s.v.).

 

Tra le pieghe delle parole … e della fraseologia

 

Se da una parte è costituito da molte parole della lingua d’uso, il linguaggio giuridico fornisce al contempo locuzioni e termini che sono diventati presto d’uso comune.

Si pensi a un’espressione che viene da lontano, ma molto presto penetrata nella fraseologia comune ancora oggi in uso, un cosiddetto exemplum fictum del celebre giurista Irnerio (1060-1130 ca.), uno dei fondatori della scuola di diritto bolognese, che fu il primo a introdurre la triade di tre persone ipotetiche nella esemplificazione giuridica Titius, Caius, Sempronius poi ripresa dai glossatori antichi e da lì passata all’uso comune diffuso per indicare persone indeterminate, generiche: Tizio, Caio e Sempronio.

O ancora la locuzione diffusa con beneficio d’inventario: si tratta di un’espressione attinente alla successione e cioè l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario (Codice civile, articolo 490) che significa confermare l’accettazione di un’eredità (o respingerla) solo dopo aver effettuato un bilancio accurato dei beni, crediti e debiti lasciati in eredità, con la conseguenza che non si è tenuti al pagamento dei debiti eventualmente ereditati; da lì l’espressione passa a indicare genericamente ‘fare delle riserve, non accettando per buono tutto quanto viene detto o proposto’.

Alcuni di questi passaggi sono più recenti: per es. la locuzione tipica del linguaggio giuridico e burocratico, nelle more ‘nell’intervallo di tempo che intercorre tra l’avvio di un iter burocratico-giuridico e la sua conclusione’ (dal significato originario di mora ‘indugio’) che conosce oggi una circolazione fuori dall’ambito tecnico grazie al linguaggio giornalistico (e non solo) nel significato più generico di ‘in attesa di, nel frattempo’ (Nelle more di un eventuale aiuto promesso, La Repubblica 12 agosto 2020; cfr. Frati e Iannizzotto).

Insomma anche dietro alcuni fraseologismi, locuzioni e frasi fatte, può adombrarsi un’origine giuridica, che è diventata opaca nel tempo: «come quando osserviamo dei fossili imprigionati nell’ambra, possiamo osservare relitti di parole e regole risalenti a fasi antiche della nostra lingua» (Palermo 2020: 108).

 

Transfert e altre dislocazioni 

 

Tra i vari passaggi e transfert, il linguaggio giuridico può essere un serbatoio di termini anche per altri linguaggi specialistici e settoriali.

In una interessante e rapida expertise Pier Vincenzo Mengaldo (2014: 191) ha individuato nella lingua di Gianfranco Contini critico un manipolo di termini propri del linguaggio giuridico, come per es. il caso (Cardarelli), dossier, incartamento, allegato, a carico, inchiesta, indizio, connivente, recidivo, adire, comminare ecc.

Nel linguaggio medico è ben noto il tecnicismo collaterale (su cui torneremo in un’altra puntata) accusare per ‘lamentare, manifestare un sintomo, riferire (detto di un paziente)’ già diffuso dal Settecento; di un paziente che si lamenta per il mal di testa: un medico scriverebbe, in un referto o in una prescrizione o in una cartella clinica, «il paziente accusa cefalea».

Oggi, come si vedrà più avanti, sono spesso i media a fare da cassa di risonanza nella diffusione di termini specialistici, che diventano di dominio comune (fenomeno, questo, che abbiamo esperito fin dall’inizio della pandemia, da quando cioè vari termini specialistici, perlopiù della medicina, sono diventati, purtroppo, noti e di uso comune): un termine come fideiussione è sconosciuto a chiunque non abbia una minima cultura giuridica, mentre oggi sono ben noti a tutti la sigla DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) e la ben nota (e cangiante) autocertificazione.

 

Diritto, media e neosemie

 

I percorsi e l’uso delle parole sono spesso imprevedibili. Prendiamo delitto, parola chiave di un trattato celebre, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, una pietra miliare del diritto penale scritto nel clima del pieno illuminismo nella Milano del secondo Settecento. Ecco un passo centrale dal cap. II. Diritto di punire (Lubello 2017: 212-219):

 

Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere più generale così: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore umano e in esso troveremo i principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti, poiché non è da sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale se ella non sia fondata su i sentimenti indelebili dell’uomo. Qualunque legge devii da questi incontrerà sempre una resistenza contraria che vince alla fine, in quella maniera che una forza benché minima, se sia continuamente applicata, vince qualunque violento moto comunicato ad un corpo.

 

E la parola delitto nei media oggi? Non è raro che la rete sia veicolo di neosemie, cioè di nuovi significati (cfr. per es. Lombardi Vallauri 2015) che possono nascere per motivi vari, anche di banalizzazione, di fraintendimento, di incomprensione semantica, per paraetimologia; è il caso segnalato da Paolo D’Achille (2016: 184) di delitto nel senso di ‘assassinio’, in contesti come «il delitto di Yara Gambirasio» nei quali la preposizione di introduce il nome della vittima e non quello dell’omicida.

Un altro esempio è il verbo giustiziare che significa ‘sottoporre a esecuzione capitale, in seguito a regolare condanna penale e più genericamente in esecuzione di una condanna a morte’, e non, come talvolta erroneamente si legge in qualche giornale, ‘uccidere, assassinare’ (non a caso il Vocabolario Treccani segnala tale uso erroneo).  

E la lista sarebbe lunga (proprio pochi giorni fa, il 18 febbraio, sempre su Treccani / Lingua italiana, Marco Brando si è soffermato su Combinato disposto, locuzione uscita dai confini della terminologia giuridica progressivamente e che grazie al web si legge, anche inappropriatamente, in vari contesti scritti).

Ci si aspetterebbe che almeno i giornalisti e le agenzie d’informazione sappiano usare le parole in modo corretto, ma non è sempre così. Ce lo ha raccontato alcuni anni fa brillantemente Michele Loporcaro, da cui riprendo solo pochi esempi; lascio al lettore un po’ di esercizio, e di divertimento, a scovare la parola che non torna, come invito, ancora una volta, a prendersi cura delle parole:

 

- (CdS, 24.12.2003): costante levitazione delle dimensioni delle operazioni Parmalat nascoste al mercato

- (CdS, 11.3.2004): Ma Adriano Sofri non sarà oggi al Duomo di Milano: decanterà i brani dello scrittore inglese [Oscar Wilde] per La7 dal penitenziario di Pisa

- (Rep., 24.12.1993): (di una reazione stizzita dell’intervistato): […] dice Sasso con una punta di acribia

- (L’Unità, 29.8.1995): gli album di famiglia dai quali traspirano i sorrisi di Maria Teresa di Lorena, di Napoleone III, di Leopoldo di Baviera

- (Magazine del CdS 7.10.2004): La verde mania dilaga […]. E i corsi di giardinaggio prolificano.

 

 

Riferimenti bibliografici

BIZ = Bibl. Italiana Zanichelli, testi a cura di P. Stoppelli, Bologna, 2010.

 

D’Achille 2016 = Paolo D’Achille, Architettura dell’italiano di oggi e linee di tendenza, in S. Lubello (a cura di), Manuale di linguistica italiana, Berlin-Boston, de Gruyter, pp. 165-189.

 

Frati / Iannizzotto 2010 = Angela Frati, Stefania Iannizzotto, Nelle more di capire.

 

GDLI = Grande Dizionario della Lingua Italiana, fondato da S. Battaglia e poi diretto da G. Barberi Squarotti, 21 voll., Torino, Utet, 1961-2002.

 

Grossi 2003 = Paolo Grossi Prima lezione di diritto, Roma-Bari, Laterza.

 

Gualdo 2011 = Riccardo Gualdo, Il linguaggio giuridico, in R. Gualdo / S. Stelve, Linguaggi specialistici dell’italiano, pp. 411-477.

 

Lombardi Vallauri 2015 = Edoardo Lombardi Vallauri, Neosemie nell’italiano contemporaneo: per un’eziologia parziale, in R. Nikodinovska (a cura), Parallelismi linguistici, letterari e culturali, Skopje, Skopje University Press, pp. 341-361.

 

Loporcaro 2006 = Michele Loporcaro, Cattive notizie. La retorica senza lumi dei mass media italiani, Milano, Feltrinelli.

 

Lubello 2017 = Sergio Lubello, L’italiano del diritto e dell’amministrazione, Bologna, il Mulino.

 

Lubello 2021 = Sergio Lubello, L’italiano del diritto, Roma, Carocci.

 

Mengaldo 1994 = Pier Vincenzo Mengaldo, Il Novecento, Bologna, il Mulino.

 

Palermo 20202 = Massimo Palermo, Linguistica italiana, il Mulino, Bologna.

 

TLIO = Tesoro della Lingua Italiana delle Origini.

 

Vocabolario Treccani on line.

 

 Il diritto da vicino: parole (giuridiche) per un anno è un ciclo curato e scritto da Sergio Lubello. Le puntate precedenti:

1. Le parole giuste

 

 

Immagine: Antonio Perego, L'Accademia dei Pugni. Da sinistra a destra: Alfonso Longo (di spalle), Alessandro Verri, Giambattista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi, Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto

 

Crediti immagine: Creator: Antonio Perego, Public domain, via Wikimedia Commons


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