(La letteratura invita) a guardare nel fondo della parola sino a ritrovarvi il suo linguaggio della prossimità̀ e a sentirne l’eco profonda che invade ognuno di noi, come presenza di un corpo vivo in un mondo vivo. (Ezio Raimondi)

Molti testi letterari sono innervati e ispirati dal diritto (specie del processo penale) e hanno come protagonisti figure giuridiche (cfr. Lubello 2021: 105-108): un esempio per tutti, tra i più noti, è Il processo di Franz Kafka.

Nell’imbarazzo della scelta mi soffermo qui, variamente, su quattro autori.

Parola di Dante

Anche senza una specifica formazione giuridica, Dante ebbe a che fare con questioni giuridiche, avendo ricoperto cariche importanti nella sua città, e aria giuridica respirò anche nella cerchia delle sue frequentazioni: tra i suoi amici e conoscenti il suo maestro Brunetto Latini fu notaio, come anche notaio fu il poeta e amico Lapo Gianni, mentre Cino da Pistoia insegnò diritto e fu anche giudice.

Ci siamo già soffermati su alcune parole del diritto in Dante (cfr. la terza puntata). Vediamone un’altra, una parola tipica degli statuti in volgare: cancellare ‘annullare un atto giuridico’ (‘cassare una carta con tratti di penna’, attestata in documenti senesi e fiorentini del terzultimo decennio del Duecento, cfr. TLIO, s.v.) e usata per la prima volta in poesia da Dante, in costruzione intransitiva, nel Paradiso; ecco i due passi (rispettivamente Paradiso V, 46 e XVIII, 130):

Quest’ultima già mai non si cancella / se non servata; e intorno di lei / sì preciso di sopra si favella …

Ma tu che sol per cancellare scrivi, / pensa che Pietro e Paulo, che moriro / per la vigna che guasti, ancor son vivi.

Come viene spiegato nel Vocabolario dantesco (la voce è di Veronica Ricotta) il significato contestuale di ‘annullare’, che proviene dal senso proprio di ‘cassare uno scritto con tratti di penna in verticale e in orizzontale’, fa riferimento probabilmente alla cancellazione di un beneficio ecclesiastico (da parte di Giovanni xxii) accordato dal predecessore (Clemente V), se non alla revoca di una scomunica. Vari i sinonimi offerti dalle glosse, per es. ‘permutare et dispensare’ dell’Ottimo al verso 46 del V canto del Paradiso oppure, ‘despensare né commutare’ di Jacopo della Lana e ‘accecare et annullare’ di Francesco da Buti al verso 130 del XVIII canto della stessa cantica.

Sulla fortuna di espressioni e locuzioni giuridiche usate da Dante, Cupelloni (in stampa) segnala la sequenza per arra di + pronome dimostrativo (arra ‘parte di pagamento anticipata versata a garanzia di adempimento di un impegno, caparra’, la cui prima attestazione è in Ugo di Perso, cfr. TLIO s.v.):

E creder de' ciascun che già, per arra / di questo, Niccosïa e Famagosta / per la lor bestia si lamenti e garra (Par. XIX vv. 145-7).

Tale locuzione viene poi ripresa da un autore fiorentino del Trecento, Antonio Pucci, che spesso usa (e riusa, anche ironicamente) moduli ed espressioni dantesche (nel prologo in prosa del Centiloquio: e quello gli fu dato a possedere per arra di quello dove si vede il sommo bene, il quale ogni razionale creatura vedere disidera).

Il veneto stil di Carlo Goldoni

«La fama del linguaggio giuridico e politico della Repubblica di Venezia inizia a diffondersi perlomeno in età rinascimentale (cioè in coincidenza con una fase decisiva dello sviluppo del mito di Venezia nella cultura europea) e si consolida, nel corso degli ultimi due secoli di vita della Repubblica manifestandosi ancora, in modi peculiari, in vari autori ottocenteschi» (Tomasin 2009: 85).

È noto che il diritto, l’azione legale e la giustizia hanno avuto un ruolo di rilievo nell’opera di Carlo Goldoni, peraltro affezionato al suo titolo di ‘avvocato veneto‘: abbondante è il lessico forense presente nelle commedie goldoniane, a volte chiosato e glossato dall’autore stesso.

Una testimonianza dell’uso pubblico del veneziano praticato nel foro, «caratterizzato da una patina più colta» (Matarrese 273), si trova nella commedia L’avvocato veneziano, scritta nel 1749 e messa in scena la prima volta a Venezia durante il Carnevale del 1750. Il protagonista è l’avvocato veneziano Alberto Casaboni che difende nel tribunale di Rovigo i diritti di un suo assistito in una contestazione di autorità. Dopo aver ascoltato l’avvocato bolognese Balanzoni della controparte, Casaboni inizia la disputa. L’italiano è mescolato con tratti di veneziano, anche nel lessico giuridico di tradizione veneziano come per es. ponto de rason, tradotto a parte con ‘articolo legale’. La commedia è un bell‘esempio della capacità di «trapassare senza soluzione di continuità dal dialetto “sporco” al dialetto “pulito” alla “lingua”, propria della viva realtà del veneziano parlato» (Folena 1983: 98).

Ecco un estratto (si cita da Matarrese 1993: 274):

Gran apparato de dottrine, gran eleganza de termini ha messo in campo el mio reverito avversario; ma, se me permetta de dir, gran disputa confusa, gran fiacchi argomenti, o per dire meggio, sofismi. Responderò col mio veneto stil, segondo la pratica del nostro foro, che va a dir col nostro nativo idioma, che equival nella forza dei termini e dell’espression ai più colti e ai più puliti del mondo. Responderò colla lezze alla man, colla lezze del nostro Statuto, che equival a tutto el codice e a tutti i digesti de Giustinian, perché fonda sul jus de natura, dal qual son derivade tutte le leggi del mondo.

Pirandello, ovvero dei molti volti del diritto

Nell’opera di Luigi Pirandello il diritto e il tema della giustizia si dispiegano variabilmente anche come parte funzionale dell’intreccio e come motore che avvia e condiziona l’ideazione, dallo schema generale ai particolari della trama. Numerosi personaggi sono giudici e avvocati, soprattutto nelle Novelle per un anno (va ricordato che Pirandello prima della Facoltà di Lettere a Roma aveva frequentato e presto interrotto quella di Giurisprudenza a Palermo). Pirandello ricorre a figure di legge (e a molto lessico giuridico) per mostrare il non senso di situazioni grottesche, paradossali, talvolta permette ai propri personaggi di andare oltre la giustizia per interpretare a modo loro le leggi: nel Dovere del medico l’autore siciliano annota la capacità dell’avvocato Camillo Cimetta di «abbattere i confini formalistici del tristo ambiente giudiziario» perché vi spiri un’aura di vita, mentre i suoi colleghi si presentano «armati di cavilli, abbottati di procedura». L’avvocato e professore di diritto protagonista (anonimo) della Carriola compie un gesto stravagante per uscire dalla gabbia della sua professione. Nella novella La patente il dato sociale ha bisogno della forma legale e quindi ritorna la necessità del formalismo ma in una situazione paradossale: la funzione giuridica della legge deve essere messa al servizio e piegata a un uso improprio e contrario all’ordinamento (Malinconico 2008: 47-48) ed è così che lo iettatore Chiàrcaro pretende che la sua patente sociale abbia anche un riconosciuto status giuridico.

Il diritto insomma, con i suoi conflitti e i vari inghippi, è una sorta di «ammasso incandescente» (Malinconico 2008: 141) che fa muovere il riso, la pietà, il grottesco, a volte anche nella confusione tra vittime e carnefici: nella Verità – si tratta del caso di un omicidio d’onore per tradimento – il presidente della Corte d’Assise fa di tutto per poter tenere sotto controllo le risa del pubblico durante la deposizione di un contadino analfabeta.

Significativa è la novella La giara, in cui il formalismo giuridico si scontra con il grottesco della situazione; la contesa tra Zi’ Dima Licasi e Don Lollò Zirafa è fulcro del racconto in cui si susseguono effetti comici, satirici, drammatici: Don Lollò scopre che una giara di coccio smaltato, comprata da poco per conservarvi l’olio d’annata, si è rotta in due e incarica Zi’ Dima, inventore di un potente mastice, di ripararla, ma l’artigiano, nel cucire la giara, vi rimane imprigionato dentro. Su Don Lollò, sempre pronto a fare gli atti (‘intentare un’azione legale) e impregnato di diritto, ecco due pennellate dal testo:

Per ogni nonnulla, anche per una pietru__z__za caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d’onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s’era mezzo rovinato.

Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare.

Dagli all’untore! Attualità della tesi del malefizio

Nel racconto della pandemia da Covid-19 è stata spesso richiamata alla memoria la descrizione della peste di Milano del 1630 descritta in alcuni capitoli dei Promessi Sposi di Manzoni; ed è stata richiamata anche la tesi, allora come oggi diffusa, del ‘malefizio’ come l’estrema difesa di chi cerca un complotto e non vuol guardare in faccia la realtà: proprio il rifiuto dell’epidemia è «un terrore violento che ha generato molto spesso odio e istinti aggressivi nei confronti di categorie individuate come responsabili» (Prosperi 2021: 75). Anche a Milano ci fu il sospetto di una ‘peste manufatta’, fabbricata da nemici occulti, opera dei cosiddetti untori, a proposito dei quali Manzoni scrisse nella prima versione del romanzo, il Fermo e Lucia: «il bisogno creò allora il vocabolo». E così con il termine untore durante la peste venne indicato chi era sospettato di diffondere il contagio ungendo persone e cose (le porte delle abitazioni, le panche delle chiese, ecc.) con unguenti malefici. Contro gli untori ci furono anche persecuzioni giudiziarie come il processo intentato dal Governo di Milano nel 1630 contro gli sventurati Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, processo che Manzoni trattò a parte nel saggio storico Storia della colonna infame.

La parola untore (dal latino unctor ‘chi unge, ungitore’) è diventata «nel tempo manzoniana quant’altre mai, basta pensare all’espressione “povero untorello” per definire qualcuno di innocuo suo malgrado e soprattutto al proverbiale “Dagli all’untore!” per denunciare l’ingiusta persecuzione di qualcuno additato come capro espiatorio» (Antonelli, 2020: 29). Ma non si trattava certo di una parola nuova anche se si diffonde soprattutto con la peste del 1630: già due secoli prima untore indicava chi era addetto a ungere la lana tosata; e di unguentum come miscuglio velenoso preparato per diffondere la peste si parlava già nel Medioevo.

Quali che siano la causa (peste o altra epidemia), il contesto e l’epoca, si conferma sempre, come ci dimostra la pandemia da Covid-19, la stessa psicologia della folla, quella del Dagli all’untore!. Come osserva acutamente Adriano Prosperi (2021: 81):

il sospetto di una peste fabbricata da nemici occulti (“untori”, parole antiche sempre nuove) è stato il primo a diffondersi quasi immediatamente su scala globale e a prendere forma nei contesti più diversi, calandosi in tutte le culture e colorandosi delle più diverse componenti.

Riferimenti bibliografici

Antonelli 2020 = Giuseppe Antonelli, L‘influenza delle parole, Milano, I solferini.

Cupelloni, in stampa = Francesca Cupelloni, Lessico letterario e linguaggio giuridico: sondaggi nell’opera di Antonio Pucci, in «Lingua italiana. Storia, strutture, testi», in stampa.

Folena 1983 = Gianfranco Folena, L’italiano in Europa, Torino, Einaudi.

Lubello 2021 = Sergio Lubello, L’italiano del diritto, Roma, Carocci.

Malinconico 2008 = Alfonso Malinconico, Diritto e letteratura. Manzoni e Pirandello, Roma, Empirìa.

Matarrese 1993 = Tina Matarrese, Il Settecento, Bologna, il Mulino.

Prosperi 2021 = Adriano Prosperi, Tremare è umano. Una breve storia della paura, Milano, Solferino.

TLIO = Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (consultabile al link: http://tlio.ovi. cnr.it/TLIO/).

Tomasin 2009 = Lorenzo Tomasin, Fortuna e sfortuna letteraria del linguaggio giuridico veneziano, in Carla Marcato (a cura di), Lessico colto, lessico popolare, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pp. 85-99.

Il diritto da vicino: parole (giuridiche) per un anno è un ciclo curato e scritto da Sergio Lubello. Le puntate precedenti:

Immagine: Screenshot dal film Le Procès (1962) di O. Welles, tratto dal romanzo omonimo di Franz Kafka