Istrionico fino all’ultimo, l’anchorman Gianfranco Funari se n’è andato pochi giorni fa chiedendo di essere sepolto insieme con le sue sigarette, le fiches e il telecomando: come un faraone egiziano, Funari porta con sé gli oggetti strumento e simbolo di un’intera esistenza, che, forse, prima del momento estremo, ha immaginato di replicare in un aldilà pronto a riceverlo prima come croupier, poi come cabarettista, televenditore e, infine, conduttore televisivo interprete di uno stile e di un linguaggio che, prima di lui, sostanzialmente, in televisione non esistevano.

Il futuro secondo il “giornalaio”

Prima di lui, per esempio, non era concepibile che un anchorman, guardando dritto, protettivo e protervo insieme, verso il destinatario virtuale seduto a casa davanti al televisore, dicesse, nell’inaugurare una nuova trasmissione (nella fattispecie Punto di svolta, nell’ottobre del ’93, su Retequattro): «Vojo mette il dito nel culo del futuro». Che cosa intendeva, precisamente, con questa colorita espressione il romanaccio che, di lì a poco (nel ’94), si sarebbe auto-proclamato giornalaio (e non giornalista) commentatore di notizie di attualità politica (a partire dal programma Funarinews)? Efficace nell’uso della cadenza e dei modi del dialetto, cui diede la forza di grimaldello plebeistico per arrivare dritto al cuore del pubblico, Funari stava prenotando il posto di prestigiatore mediatico della Seconda Repubblica, anticipatore in qualche modo dell’attuale antipolitica: il suo «futuro» era quello dell’intrattenitore che, dopo aver contribuito a modellare un nuovo tipo di rapporto tra mezzo televisivo e pubblico, a quel pubblico avrebbe consegnato un nuovo tipo di politico.

A bocca (molto, molto) aperta

Qualcuno ha acutamente scritto che Funari ha preparato il terreno a Berlusconi. In che senso? Prendiamo Aboccaperta, il programma di Funari più significativo per l’impatto che ebbe e per gli effetti che produsse, trasmesso per alcuni anni su Telemontecarlo e poi, visto il successo, ripreso dal 1984 al 1989 su Raidue. In studio, ora moderando, ora aizzando, Funari sta al centro, tra due emicicli che si fronteggiano e dai quali, per la prima volta in tv, a un pubblico di sconosciuti suddiviso in due ideali fazioni è consentito di uscire dal mutismo, di prendere la parola, di dire la propria, infine di scatenarsi e di scagliarsi contro chi la pensa in modo differente sull’argomento scelto come tema di discussione e di scontro. «Permettereste alla vostra donna di esibirsi in topless?»: questa è una delle capitali questioni al centro del nuovo protagonismo televisivo di massa promosso da Funari. Ed è chiaro l’intento, riuscito, di Funari e poi, a seguire, di altri anchorman come Michele Santoro e Giuliano Ferrara: trasformare l’anonima gente in categoria sociologica e categoria estetica e in entità politicamente pertinente. Se si rileggono o riascoltano i discorsi Berlusconi politico, soprattutto il primo, ci si avvedrà della pregnanza politica che alla parola gente, continuamente evocata, viene attribuita, dichiarando di fatto obsolete le categorie sociologiche della politica tradizionale (non esistono più classi o ceti). Scrivono ggente molti giornalisti, rendendo di fatto un omaggio alla pronuncia romana di Funari. Di «gentese che batte politichese» scriverà il «Corriere della sera» dopo le elezioni politiche del ’94, che consegnano il governo a Berlusconi e ai suoi alleati.

Il corpo e la parola

Come parla la gente che Funari trasforma in protagonista? «Parla come magna», ebbe a dire, naturalmente, lo stesso Funari. Funari dà legittimità al senso comune dei ragionamenti da bar, alle trivialità di cui si nutre l’egoismo e l’individualismo atavico presente in tutti i men in the street (e nelle women, le donne che in studio Funari blandiva in qualità di sempiterne casalinghe: «A signo’, quand’è che me fa assaggià ste favolose fettuccine che solo lei sa cucinare?»), allo sfogo dei risentimenti qualunquistici di quelli che «diritti gnente e in saccoccia du’ lire per campà». Naturalmente, anche l’anchorman decide di scendere al gradino, più basso, occupato dal pubblico che si è scelto. Coniando un neologismo che conferma l’importanza del personaggio, il critico televisivo Aldo Grasso definisce così il funarismo (sul «Corriere della sera», 10 novembre 1991): «È la volgarità genuina, casereccia, fuori porta: un ruttino in diretta, parla come mangi, il bullo del quartiere. È l’opposto dello “sgarbismo”, cioè dell’arroganza cosciente, di testa, firmata». Sempre Grasso, nella sua Enciclopedia della televisione (Garzanti, 2003), sottolineando la novità della violenta corporalità espressa da Funari in scena, in rottura col paradigma del presentatore impeccabile e ingessato, alla Baudo, coglie la novità semiotica del “segno”-Funari nel codice comunicazionale televisivo: «La sua sintassi espressiva non passa attraverso l’eloquio, ma attraverso la mimica corporea: soppesa gli argomenti, li accarezza, li schiaccia, li modella, li acciacca. Per questo ama le pause che diventano abile preparazione dell’effetto dirompente delle sue dichiarazioni e adora smodatamente le televendite, dove attraverso il prodotto lo schermo può diventare palpabile, fisico».

Educazione del politico in maniche di camicia

Il Berlusconi appena sceso nell’agone politico dichiarava la necessità di «farla finita con una politica di chiacchiere incomprensibili». Funari, in questo, è stato maestro. Ancor di più: ha costretto i politici a fare palestra con gli attrezzi di una nuova retorica, necessaria alla politica spettacolarizzata, leaderistica e populistica, i cui tempi, modi e stili comunicativi sono imposti dalla televisione, col suo circuito di salotti o arene pronti alla telerissa (neologismo del 1981, coniato con riferimento a Aboccaperta di Funari). È Funari che invita i politici a partecipare ai suoi programmi, senza la tradizionale rete protettiva costituita dal pubblico condiscendente e dal manipolo di giornalisti seri e seriosi in studio, esponendoli all’impatto diretto con la stessa tipologia di platea brada di Aboccaperta, conscia della propria legittimità a presidiare lo schermo e a rapportarsi con chiunque, foss’anche un famoso politico, sulla base di un’agenda che autorizza curiosità, emozioni, sentimenti primari. Ben presto il politico si adatta al nuovo stile della tv-spazzatura. Fa a gara per essere ospite di Funari (e degli altri), convinto che per aumentare la propria popolarità e raccogliere consensi, ci si debba rispecchiare nella gente, abbandonando l’usitata ostentazione di superiorità e il linguaggio astruso per vestire, viceversa, la camicia dalle maniche arrotolate, adoperare l’eloquio più diretto, farsi apprezzare come uomo qualunque (cuoco, giardiniere, padre di famiglia, ecc.). Non sa, non immagina che, in questo modo, dà l’avvio a un processo irreversibile di disgregazione della propria autorevolezza di personaggio pubblico e di rappresentante delle istituzioni. Si sa come andranno le cose: dalla «paralizzante oscurità» della retorica politica d’antan si passa alla pratica dell’«alzare la voce più dell’avversario, interrompendolo continuamente per impedirgli di parlare» (Riccardo Gualdo e Maria Vittoria Dell’Anna, La faconda Repubblica, Manni, 2004), all’«invettiva personale» e agli «accorati richiami agli endòxa» (Giuseppe Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione, Il Mulino, 2007), cioè ai più banali luoghi comuni largamente condivisi da tutti, da tutta la gente. In qualche modo, è la vittoria della Repubblica di Funari.

Immagine: Gianfranco Funari. Crediti: https://tvzap.kataweb.it/news/232741/dieci-anni-senza-gianfranco-funari-insostituibile-scorretto/