Parole tabù

Il 17 giugno si è svolta a Torino una sfilata, variopinta e vivace, di  omosessuali, rivendicanti una serie di diritti ancora non riconosciuti in Italia - a differenza di quanto è accaduto in altri Paesi europei - intitolata al gay pride, cioè all'orgoglio omosessuale.
La giornalista Miriam Mafai, sul quotidiano «La Repubblica» del 18 giugno, commentando il successo della manifestazione, si sofferma a riflettere su parole tabù come gay pride o Pacs, acronimo di Patto civile di solidarietà, che - insieme ai contenuti politici che veicolano, naturalmente - suscitano ancora reazioni piccate o risentite all'interno dello stesso schieramento che ha sostenuto il programma di governo di Prodi. Reazioni inattese, nota la giornalista, perché in quel programma condiviso si sostiene: «L'Unione proporrà il riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà alle persone che fanno parte delle unioni di fatto». Si sta parlando dei Pacs, in buona sostanza, pur senza nominarli. Ergo, si sta affermando che l'Unione, una volta diventata forza di governo, si batterà perché a grandi linee siano accolte le richieste di coloro che, dalla fine degli anni Novanta, in Italia sfilano per le strade delle città all'insegna del gay pride-orgoglio omosessuale, sulla scia di ben più datati modelli statunitensi (la prima manifestazione, quasi clandestina, risale al 1972) ed europei. Perché dunque menare scandalo del fatto che due ministri del governo Prodi siano presenti alla manifestazione di una Torino dominata dalla Mole che per l'occasione viene illuminata di rosa?
La provocazione politico-linguistica della Mafai mira a denudare i re vestiti d'ipocrisia e ci aiuta a riflettere sulla funzione del detto e del non detto in politica. La politica come arte della mediazione e della gestione di alleanze composite abbisogna per l'appunto del non detto non meno, anzi, probabilmente, più di quanto necessiti del detto. L'annuncio programmatico citato ha il pregio di dire alcune cose per chi ha orecchi per intendere e sceglie accuratamente e lecitamente una definizione iperonimica, ampia, vasta, come unioni di fatto, che riassume la condizione di coppie sia eterosessuali, sia omosessuali; ma ha l'accortezza di non entrare in un pur minimo dettaglio delle fattispecie iponimiche, perché citare esplicitamente omosessuale o coppia omosessuale o evocare direttamente i Pacs porterebbe allo scoperto e colpirebbe proprio con la forza linguistica della pietra dello scandalo il senso del decoro linguistico, normativo, dunque morale, di parte del mondo cattolico e moderato interno all'Unione.

Ennesimo derby

Nella lingua italiana d'oggi, spesso si gioca uno speciale derby tra parole e locuzioni nuove di conio inglese, soprattutto anglo-americano, e corrispettive, reali o virtuali, parole e locuzioni autoctone, italiane come mamma le ha o le avrebbe potute fare. Spesso, sospinte dal prestigio della lingua di comunicazione internazionale, finiscono col prevalere le prime. Nel caso di gay pride e orgoglio omosessuale assistiamo a una partita che, a giudicare dalle occorrenze reperibili sui giornali, sembra effettivamente volgere a favore, almeno nel breve termine, dell'espressione inglese, in attesa che i dizionari della lingua dell'uso censiscano l'una o l'altra locuzione (o tutt'e due). Come succede in altri casi (pensiamo a non profit rispetto a senza fini di lucro), l'inglese sembra conquistare favori anche per la sua svelta concisione, preferita innanzi tutto dal linguaggio giornalistico. Non è un caso che già da qualche anno si possa leggere nella pubblicistica italiana anche Pride, versione scorciata di Gay pride 'sfilata, manifestazione degli omosessuali': «E ieri, nella giornata del Pride di Torino, l'assessore comunale Gramaglia è intervenuta al convegno torinese [...]» («La Repubblica», 18 giugno 2006, cronaca di Roma, p. 1). Occorre però distinguere. Mentre nel significato originario di 'orgoglio omosessuale, dignità e fierezza dell'essere omosessuale', ereditato dall'inglese agli inizi degli anni Novanta, gay pride e orgoglio gay (più che orgoglio omosessuale) si alternano nell'uso, sebbene tenda a prevalere nettamente il prestito integrale rispetto al semi-adattamento italianizzante, nel caso dell'accezione 'manifestazione pubblica, in forma di sfilata, dell'orgoglio omosessuale', Gay pride non ha rivali. In questo significato Gay pride è uno pseudo-anglicismo semantico, perché la lessicografia angloamericana «sembra confermare che il significato originario è quello relativo all'autostima e all'autoaffermazione degli omosessuali; l'identificazione con le sfilate è quindi tutta italiana» (C. Giovanardi-R. Gualdo, Inglese-Italiano 1 a 1, Manni editore, s.v. Gay pride-orgoglio gay). Come 'orgoglio omosessuale', abbiamo detto, gay pride sopravanza per quantità di occorrenze orgoglio gay, mentre l'inventività dei giornalisti nostrani ha avuto modo di esprimersi anche in occasionalismi effimeri come omo-orgoglio, censito da G. Adamo e V. Della Valle nel loro dizionario Neologismi quotidiani (Olschki editore). Orgoglio gay va a inserirsi nella serie cospicua determinato+determinante di coppia gay, cinema gay, icona gay, scrittore gay, spettacolo gay, in cui gay acquista in italiano un pieno valore aggettivale.

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