Ci ricorda Leonardo Rossi nella sua Breve storia della lingua italiana per parole (Le Monnier, Firenze, 2005, pp. 80-81) che uno stupefacente estro semantico effuso dalla anonima e collettiva matrice delle lingue storico-naturali fa derivare l’inglese glamour dal latino gram(m)atica. Grammatica, già in tempi remoti, significava certamente, come oggi, ‘scienza che studia gli elementi costitutivi di una lingua’; ma significava anche ‘correttezza nella propria lingua’ e, per metonimia, ‘latino’ (così per Dante nel De vulgari eloquentia). Siccome però l’avere a che fare col latino scritto, già nel medioevo lingua che era appannaggio dei soli dotti, e l’impegnarsi negli studi che lo riguardavano vennero sempre più visti dalla gente incolta come manifestazione di sofistica pedanteria, ben presto grammatico e grammatica furono sommersi dall’onda della degradazione semantica. «Grammatica, dall’idea di libro scritto in latino e quindi incomprensibile, ostico – scrive Rossi –, passò a quella di libro scritto con segni misteriosi, cabalistici del francese grimoire “libro di stregoneria”. Di qui il termine passò in Scozia mutato in glamour (con glamer “incantesimo”), parola che compare nei romanzi di Walter Scott come tocco di colore locale. E si sa: il fascino, lo charme, la malìa sono una forza (magica?) capace di stregare». Comprensibile, quindi, come il tratto semantico negativo del fascino “nero” si sia potuto pian piano indebolire, fino a mutare di segno, passando a connotare altri tipi di fascino, da quello femminile (all’inizio carico ancora di ambiguità morale, poi sempre più frivolo) a quello della moda e delle cose che di moda vanno.

Un fascino che cattura gli italiani

Oggi la divaricazione tra la parola originaria, che si prosegue nella grammatica campeggiante sulla copertina di generazioni e generazioni di testi scolastici italiani, e il glamour delle sfilate e della pubblicità si restringe e si converte entro i poli di una reciproca attrazione magnetica. Il glamour della grammatica, il fascino della norma che tutto pone e tutto sa, la seduzione della matita rossa e blu da impugnare per punire chi tradisce la correttezza e la purezza della lingua mai hanno avuto tanto presa sugli italiani come in questi ultimi quarant’anni, come testimonia il successo dei molti repertori sul buon uso della lingua e sui più comuni errori da evitare. Si parte dalla Lingua in rivoluzione di Franco Fochi (siamo alla fine degli anni Sessanta), si passa per i libri degli esperti capaci di tono colloquiale come Bolelli e Satta, si incappa nei puristi più solidi come Gabrielli e in quelli meno affidabili, ma più popolari, come Cesare Marchi, per finire con i giornalisti brillanti alla Beppe Severgnini (www.beppesevergnini.com). Bisogna risalire al purismo autarchico e xenofobo fascista e al purismo antifrancese e antitecnicistico ottocentesco per trovare fasi storiche accomunabili alla presente nell’anelito alla difesa della “purezza” della lingua italiana. Con un paio di novità, rispetto al passato: l’italiano è nel frattempo diventato davvero la lingua di (quasi) tutti gli italiani (un tempo quasi tutti esclusivamente dialettofoni) e l’interesse per la grammatica, unito alla ricerca di risposte certe e univoche ai dubbi sugli usi della lingua, è ora patrimonio di vasti strati di parlanti e non più recinto di dispute tra specialisti o eruditi.

Gli italiani che si rivolgono ai giornali, che affollano i forum in rete, che scrivono ai siti dell’Accademia della Crusca (www.accademiadellacrusca.it) e della Treccani, manifestando intransigenza e desiderio di regole, valide sempre e per sempre, sono sensibili, naturalmente, all’autorità di dizionari e grammatiche, «ma in primo luogo […] alla norma linguistica interiorizzata, così com’è andata stratificandosi non tanto sulla base della propria esperienza di parlante, quanto sull’immagine di lingua che si è formata soprattutto negli anni della scuola» (Luca Serianni, Il sentimento della norma linguistica nell’Italia di oggi, in «Studi Linguistici Italiani», vol. XXX, fasc. 1, anno 2004, pp. 85-103, p. 98). Con tipico atteggiamento di matrice scolastica, chi chiede lumi vuole risposte nette, che vadano ben oltre il noto atteggiamento descrittivo e non prescrittivo di chi studia il linguaggio; a tale atteggiamento, quasi con implicito senso di sfida, il parlante contrappone il proprio, «iper-razionalistico, fondato sull’idea che la lingua sia un sistema che non ammette ridondanze né registri diversi, e nel quale si possa sempre tracciare il confine giusto-sbagliato sul fondamento di un’astratta idea della norma, sottratta alla variabilità degli usi concreti» (Serianni, cit., p. 95).

Il garbo dell’ironia

A fronteggiare astrattismi logicistici, luoghi comuni e idee ricevute, regole della nonna senza reale fondamento, radicatissimi e immotivatissimi tic scolastici e altre truppe cammellate che pure danno passo frenetico a tanta «salutare sensibilità – o ipersensibilità – nei confronti della lingua nazionale» (Luca Serianni, Prima lezione di grammatica, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 58) manca forse la parola autorevole di qualche esperto di lingua italiana che sia anche un bravo comunicatore e divulgatore? Un esperto che sia in grado di rivolgersi ai suoi interlocutori con chiarezza e semplicità, spargendo il sale del ragionamento e del dubbio senza paura di combattere stereotipi (la vicina morte del congiuntivo, il divieto di cominciare una frase con e o ma, il divieto di dislocazione, la pena di morte per a me mi , ecc.) e di prendere posizione anche contro corrente (io e te si può dire; gli ‘a loro’ si può dire e scrivere, il libro gliel’ho dato è legittimo, in quanto ha un altro significato rispetto a gli ho dato il libro)? A dire il vero, negli ultimi quindici anni abbiamo avuto la serie dei Salva… (il Salvalingua, il Salvastile, il Salvatema, il Salvaitaliano) di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, due docenti universitari, che si sono dedicati senza timore a traversare anche la «zona grigia della norma linguistica» (Serianni, Il sentimento, cit., p. 90), con non infrequenti, ma moderate, osservazioni puristiche che mantengono lo stesso faceto garbo riservato ad ammorbidire i ferrei lettori, consigliati ad adottare alternative ugualmente ammissibili anziché fossilizzarsi nella ricerca dell’unica soluzione “giusta” che escluda tutte le altre. Il volume Malalingua (Il Mulino, Bologna 2007), di Pietro Trifone (un altro docente), strutturato per brevi saggi, si rivolge a un pubblico colto e curioso, alla ricerca dell’italiano scorretto da Dante a oggi, proprio per smitizzare l’idea che certi fenomeni percepiti come “sgrammaticati” siano farina del sacco dell’oggi e come tali segno di una moderna decadenza della lingua (e dei costumi). La Prima lezione di grammatica (cit.) di Luca Serianni e le densissime pagine (da 39 a 58) dedicate a Norma e normalità da Giuseppe Antonelli nel suo saggio L’italiano nella società della comunicazione (Il Mulino, Bologna 2007) gettano fondamenta solidissime per una interpretazione dinamica e aggiornata della norma, permettendo di situare la grammatica all’interno della continua tensione fra tradizione e uso, con il secondo che tende continuamente a spostare altrove gli orizzonti del lecito, prima di tutto nel parlato, poi nello scritto.

Val più la pratica

Infine, arriva l’agile saggio di un linguista e giornalista free lance (ma con pregresse esperienze accademiche), Andrea De Benedetti, Val più la pratica. Piccola grammatica immorale della lingua italiana (Laterza, Roma-Bari 2009), che, con il timbro personale proprio degli eccellenti divulgatori, raccoglie l’indicazione della leggerezza di stile e la propensione al sorriso dei Salva… e costruisce intelligentemente sulle fondamenta suddette e su quanto è stato prodotto negli ultimi anni dalla migliore saggistica scientifica descrittiva del funzionamento della lingua. De Benedetti seleziona con accortezza i fenomeni grammaticali sui quali con determinazione si spende l’offensiva di quelli che lui chiama neo-crusc (neo-cruscanti), richiamando con ironia certa inossidabile fede militante (neo-con, teo-dem). Da subito, l’autore è chiaro: la grammatica scientifica «non si preoccupa tanto di prescrivere, quanto di descrivere, analizza cioè come i parlanti si comportano nei fatti, non come dovrebbero comportarsi» (p. 8). La domanda giusta da porre allo studioso, dunque, è «come funziona?» o «perché funziona così?». Soltanto in un secondo momento l’esperto può permettersi di dare anche un consiglio d’uso. Attività cui De Benedetti, nel corso del libro, non si sottrae, inquadrando sempre con precisione il fenomeno esaminato prima nell’ambito del dominio della lingua parlata, poi in quello della lingua scritta (dominî, come si sa, che interferiscono ma soltanto in parte si sovrappongono). Per capire come funziona la macchina descrittiva e narrativa di De Benedetti, prendiamo questo brano, che cade a fagiolo come esemplificazione del discorso su scritto e parlato: «“c’ho la macchina nuova” o “ho la macchina nuova”? […] la prima versione gioca in casa nella lingua parlata mentre la seconda dovrebbe avere la meglio in quella scritta, anche per via della problematica resa grafica della combinazione “ci” + verbo “avere” (tra le varianti spurie segnalo almeno “ciò”, “c’ò”, “ci ho”). In ogni caso dipende sempre da che tipo di scritto si tratta: se c’è scritto-scritto, non sussistono dubbi. Ma se è uno scritto che cerca di imitare il parlato, allora la trasgressione diventa inevitabile. Peraltro mi sembra giusto ricordare che esiste almeno un caso in cui il “ci” con il verbo “avere” è obbligatorio, ed è quando a domanda (ad esempio: “hai l’abbonamento?”) si risponde con un pronome (“sì, ce l’ho”)» (p. 61).

Dicevo della macchina “narrativa” messa in pista da De Benedetti. Ebbene sì, un bravo divulgatore deve saper fare ricorso a un universo figurale e concettuale noto e frequentato dal lettore cui aspira rivolgersi. E siccome De Benedetti, per parlare di posizione del soggetto, dislocazioni, uso dei pronomi personali (egli/lui, gli ‘loro’ ecc.), che polivalente, (lontana) morte del congiuntivo, punteggiatura, difficilese, definizioni grammaticali antiquate (per esempio, del verbo), fallacie dell’analisi logica tradizionale ricorre a metafore, analogie e similitudini che mettono in gioco il mondo del calcio (un capitolo si intitola significativamente Trappole per Trap, inteso come Trapattoni, l’allenatore), della musica (specialmente quella pop – Baglioni e Jovanotti, per esempio –), dell’esperienza comune e ordinaria di ciascuno di noi, si capisce che ha l’ambizione di scrivere un manuale, ragionato e ragionevole, consultabile da tutte le persone scolarizzate e appassionate dei fatti della lingua. Con lui, il glamour della grammatica funziona bene.

Crediti immagine: copertina del libro Val più la pratica. Piccola grammatica della lingua italiana, Andrea De Benedetti, Laterza.