Molti genitori seguono l’istinto irrefrenabile di dare un nome al nascituro prima che venga al mondo. A loro insaputa, imitano le divinità demiurgiche che creano e nominano in un atto unico e inscindibile: dalla Bibbia alla mitologia delle isole polinesiane, i racconti della creazione sono accomunati dalla narrazione di un creatore che nomina il creato. Quando hanno un nome le cose possono sorgere, quindi esisterefiat lux. Il nome è il primo colpo di scalpello che plasma l’identità.

Il paesaggio si è arricchito di spazi fisici e virtuali: i luoghi dell’innovazione. Con essi il panorama si affolla di parole orecchiabili usate con disinvoltura – innovation hub, park, lab – un pullulare che, pur facendo accapponare la pelle ai puristi, è del tutto inarrestabile data la sua ragion d’essere nella rivoluzione digitale importata da oltreoceano. Mentre la geografia si arricchisce di luoghi disegnati per ospitare l’innovazione, si allarga di pari passo il paesaggio linguistico e antropologico. Ogni luogo ha, infatti, il proprio linguaggio, fatto di codici e sotto-codici precisi, che delimita i confini di appartenenza alla comunità. E ogni linguaggio, nato in un contesto specifico, presuppone “usi e costumi” ben definiti. Spesso però si assimila il nome, ma non il modello comportamentale, rendendo l’adozione linguistica poco consapevole.

Se da un lato nessuno pensa davvero che il destino sia racchiuso tutto nel nome di individui o luoghi – nomen omen – dall’altro sembra ancora radicata l’idea che i nomi svelino l’essenza o alcune qualità della cosa o della persona denominatanomina sunt consequentia rerum come ricordava Dante (Vita Nuova XIII, 4). È proprio questo, difatti, il principio vigente nel marketing per la creazione di marchi: il nome è il principale tassello nella costruzione della brand identity, poiché comunica più di ogni altro elemento l’essenza del prodotto, del marchio e dell’azienda. Anche gli architetti applicano la stessa logica quando scelgono il nome dell’edificio per rifletterne l’essenza concettuale – si pensi al Nuovo Centro Congressi di Roma noto come “La Nuvola” o al Bosco Verticale di Milano il cui nome ne ha suggellato la notorietà.

La ricognizione dei luoghi dell’innovazione parte inevitabilmente dalle decine di incubatori e acceleratori di startup, termine che genera confusione linguistica e culturale (le forme start up o start-up non sono equivalenti a startup, in cui il processo di agglutinazione produce una voce lessicale indipendente – come ovvero, sebbene o accanto). Nell’elenco ricorrono nomi nati nel mondo anglosassone. Il problema non sono gli anglicismi in sé, ma piuttosto il fatto che di questi si ignorino etimologia, semantica e coordinate culturali. A ben vedere, a volte si tratta persino di pseudoanglicismi, come smart working: falsi prestiti, termini inesistenti nella lingua inglese oppure esistenti ma con un significato differente. Insomma, un corto circuito semantico.

Prendendo i vocabolari come cartina di tornasole culturale, l’assenza più eclatante è proprio ecosistema. In inglese la diffusissima locuzione startup ecosystem, presente da tempo nei vocabolari, non può essere semanticamente svincolata da pratiche e valori precisi, rivelando l’identità e le caratteristiche delle comunità che popolano i luoghi dell’innovazione – mentalità open source, agilità di processi, attitudine al rischio, adattabilità. Eppure, nonostante l’uso ormai esteso anche tra i non addetti ai lavori, ecosistema compare nei vocabolari italiani senza alcun cenno al mondo startup, a riprova che i paletti culturali della nuova imprenditoria non sono ancora saldi.

Hub è in testa alla classifica dei nomi in voga, ma benché sia tra i più ricorrenti, rivela una serie di anomalie. La voce hub è presente nei vocabolari solo nell’accezione di “snodo aereoportuale”, fuori dal contesto dell’innovazione. Inoltre, malgrado la diffusione di questo termine, in realtà pochi sanno indicarne il significato preciso. Quali immagini evoca il termine hub nei parlanti italiani? Difficile dirlo. Con certezza i più ne ignorano l’etimologia che deriva dall’architettura delle reti informatiche. Essere (e farsi) innovation hub dovrebbe significare innanzitutto somigliare a tali reti – aperte e aggreganti, reti che collegano elementi multipli, fatte di nodi che amplificano e inviano segnali. Può un luogo avere un’identità consapevole laddove manca coerenza tra forma e sostanza, tra contenitore e contenuto?

Sul podio al fianco di hub va messo lab, la cui assonanza con il primo termine però confonde le già torbide acque semantiche. Lab, certo di più facile comprensione, è il luogo per eccellenza della ricerca e sviluppo. Ma quanti innovation lab sono davvero gli spazi liberi di sperimentazione continua, simbiotica ed ecosistemica che sono chiamati ad essere? Nonostante la fortuna del termine, lab (forma ridotta) non compare alla voce laboratorio (forma piena), pur facilmente inseribile per analogia con altre riduzioni comuni – foto per fotografia, moto per motocicletta. La parola è in uso da tempo: nel 2013 c’erano già i Fab Lab e dal 2015 in poi sono spuntati in tutta Italia i Contamination Lab per ridurre il divario tra mondo accademico e innovazione. Ufficializzare il termine lab lo renderebbe un’entità a se stante, meno sacra e remota, staccata dai laboratori universitari o industriali spesso templi inviolabili. Il lab avvicina e apre mondi, si avvicina e si apre al mondo.

Ci sono nomi, invece, che chiudono. Nomi dalla perimetrazione rigida – quartiere, distretto, centro – che mal si coniugano semanticamente con l’innovazione odierna. Esistono vari innovation district; tuttavia, questo nome ricorda i distretti industriali dell’imprenditoria tradizionale che da sempre aggrega per omogeneità. Le comunità di innovazione esigono invece disomogeneità e porosità. Innovation district sembra quindi un ossimoro che inconsapevolmente dà recinti all’innovazione. Altri nomi mantengono legami semantici antichi, come factory (simbolo della rivoluzione industriale ottocentesca) e park (richiama i business park o i science park che hanno altri scopi e dinamiche). Oggi l’innovazione distrugge la verticalità, abbatte i compartimenti stagni e i silos – altro termine assente nei vocabolari nell’accezione in ambito aziendale.

Di contro, alcuni nomi rimangono vincolati al nuovo mondo. Garage, ad esempio, è molto diffuso, ma è forse il termine meno neutro di tutti, in quanto ha incollato addosso il contesto socio-culturale e geo-politico di quel leggendario garage in cui nacque la Apple negli anni ’70, il luogo su cui si fonda tutta la mitologia della Silicon Valley. Un’icona con un’eredità pesante. Legatissimo allo stesso contesto, ma meno iconico, è il termine cluster che però non gode di troppa fortuna in Italia e, quindi, non sorprende trovarlo nei vocabolari solo come termine tecnico-scientifico.

Un ultimo aspetto, la rosa ridotta di nomi. Solo alcuni sanno allontanarsi dalle formule preconfezionate: in testa il noto Kilometro Rosso (che potrebbe liberarsi dalla definizione limitante district) e pochi che osano svincolarsi dai cliché, come l’Innovation Playground. Altri provano ad interpretare il territorio in cui si calano, come fa bene H-Farm o come i vari innovation village e borghi digitali, questi ultimi spuntati di recente ma non ancora ecosistemi maturi. Mancano del tutto nomi focalizzati sulla dimensione pubblica tipica italiana (l’esatto contrario di garage), magari con interessanti ibridazioni – potremmo aspettarci innovation piazza, invece non esiste ancora. Luoghi di incontro e scambio di idee, le piazze hanno un tratto caratterizzante degli ecosistemi startup: permettono prossimità tra soggetti differenti in relazione simbiotica e creano serendipità.

Complessivamente, sono rari i tentativi di instaurare una relazione cosciente tra nome e luogo dell’innovazione. Questa relazione, seppur complessa, è essenziale. Non a caso è fonte di dibattiti millenari a partire dal Cratilo di Platone, sottotitolato “Sulla giustezza dei nomi”, in cui si affronta il rapporto tra nomi e realtà in un dialogo che indaga la questione della correttezza dei nomi da un punto di vista conoscitivo. Esiste un prezioso Dizionario che cura le parole proprio perché “per le parole occorre avere riguardo, prestare loro attenzione, mantenerle bene. E farlo sia come singoli sia come comunità.” Nasceranno altri luoghi dell’innovazione: la cura dei loro nomi è un atto necessario per creare consapevolezza diffusa e collettiva.

Bibliografia

Casoni, G. , Franzini D. (2011). I luoghi dell’innovazione. Complessità management progetto. Maggioli Editore, Torino.

De Mauro, T. (1982/2007). Minisemantica. Roma-Bari, Laterza.

De Mauro, T. (2010). La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani. Laterza, Roma-Bari.

Migliorini, B. (1929). Agglutinazione, Enciclopedia Italiana. Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani.

Tortoroglio, A. (2019).  Dizionario che cura le parole. Edizioni SuiGeneris, Torino.

Immagine: Nuovo Centro Congressi "La Nuvola" a Roma

Crediti immagine: Raptchatre, Public domain, via Wikimedia Commons

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