Non c’è bisogno di ricordare che per i figli l’esempio dei genitori è fondamentale. Inutile che il genitore strabuzzi gli occhi e ordini al pargolo di non dire mai più quella brutta parola, pena ceffoni e sgridate, se poi il suddetto genitore smoccola da mane a sera in presenza della prole. Verrebbe da dire che la stessa cosa vale anche per i cittadini italiani in rapporto con chi dovrebbe rappresentarli al meglio nelle alte sedi istituzionali elettive, e non soltanto nelle istanze e negli interessi, bensì anche nei comportamenti e nei modi, incluse le espressioni linguistiche atte a veicolare tali comportamenti e a estrinsecare tali modi. Invece, malalingua impera. E malo pensiero retrostante, per forza. Lassù e, dunque, quaggiù. In Parlamento e a Palazzo Chigi come per strada. Nei salotti politico-televisivi come nei salotti di casa. Lassù e quaggiù: ha poi senso esprimersi in questi termini? E il deputato o senatore o ministro è, metaforicamente, ancora nostro padre o nostra madre o non, piuttosto, nostro ammiccante compagno di bevute e di rotti (rutti al Nord)? Sì, ma poi perché mai noi cittadini dovremmo desiderare di essere considerati come parlatori da trivio e frequentatori di bordelli verbali? In quale misura siamo davvero come veniamo pensati da chi si rivolge anche a noi (oltre che ai propri avversari politici) a lingua sciolta, attraverso gli altoparlanti dei media?

«Ce ne freghiamo»

«Oggi è politicamente corretto il dileggio, l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni. […] I cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli ma sudditi, anzi come plebe. Cosicché le posizioni sono ormai rovesciate. Proprio il linguaggio plebeo è diventato quel “politicamente corretto” dal quale dobbiamo liberarci, ritrovando l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti».

La lunga citazione è stralciata dalla conclusione dell’aureo pamphlet di Gustavo Zagrebelsky Sulla lingua del tempo presente (Einaudi, 2010), condivisibile sia nell’analisi, sia nell’esortazione finale, così signorilmente efficace nell’elencazione avverbiale in -mente (un richiamo al modo; e ai modi, di cui scrivevo appena più su). [Per un esempio recente di «aggressione verbale», si ricordi almeno l’alata dichiarazione di Denis Verdini del Pdl, a proposito delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, in caso di crisi di Governo: «si innesca una polemica perché noi andiamo a toccare le prerogative del Capo dello Stato. Noi sappiamo che le ha ma ce ne freghiamo, cioè politicamente riteniamo che non possa accadere questo» http://www.corriere.it/politica/10_dicembre_03/; come al solito, dopo le inevitabili contestazioni subìte, il politico si difende attaccando i giornali che distorcono ed estrapolano dal contesto, gli avversari che strumentalizzano, ecc. Si tira il sasso, ma non si nasconde la mano, anzi: si pretende di convincere che è pulita e innocente].

Ma così parla la gente!

Di fronte al dubbio se davvero assomigliamo a come i politici si e ci dipingono a palate di male parole, ecco l’analisi recisa di Gian Enrico Rusconi: «Ci avviamo verso una repubblica del volgo. Lo si sente dal linguaggio ormai corrente dei suoi esponenti politici più in vista, un linguaggio volgare, nel senso letterale del volgo, appunto. Quando chiedete la ragione dell’indecenza delle battute di molti politici, sentite rispondere: “Ma così parla la gente!”. I politici parlano (finalmente) come la gente al bar o sotto l’ombrellone. In realtà è un inganno: più la politica non sa argomentare e affrontare i grandi problemi, più aggredisce con la finta intimità dello scurrile» (http://www.lastampa.it/_web/). Il che non scioglie il dubbio, poiché una strategia, per quanto becera, riesce tanto più efficace se affonda le radici in un humus fertile. Il problema, però, non è l’aggressività verbale in sé. Che è comprensibile e accettabile – se non proprio legittima – in certi contesti e situazioni particolari (se mi do una martellata sul pollice; se il tipo mi taglia pericolosamente la strada in macchina o rischia di accopparmi mentre attraverso sulle strisce…). Il problema è, per l’appunto, quando e con quale costanza si esercitano l’aggressività verbale e la volgarità dell’attacco irrispettoso.

Il ritorno di George Orwell

Ogni parola al suo posto e nella circostanza adeguata, dovrebbe essere il motto. Invece, qui siamo nei paraggi della Neolingua orwelliana, nella quale le parole non stanno per niente al loro posto. Ce lo suggeriscono Zagrebelsky nel suo libriccino e Gianrico Carofiglio nella sua indagine tra letteratura, politica ed etica, intitolata La manomissione delle parole (Rizzoli, 2010), entrambi solidali nell’indicare alcuni riferimenti bibliografici significativi (Orwell, ma anche il saggio del filologo tedesco Viktor Klemperer LTI. La lingua del Terzo Reich, Giuntina, Firenze 1998).

Scopriamo, accompagnati dai due autori italiani, che perfino il plebeismo verbale adoperato come arma offensiva diventa soltanto uno degli aspetti – il più appariscente e scontato, ma non il più malato, forse – di un uso distorto e distorsivo della lingua, rivoltata come un calzino nei significati delle singole parole, le quali, pur mantenendo l’involucro esteriore intatto, sono svuotate del significato proprio e farcite di significati nuovi, al limite opposti a quello originario, come accade nel romanzo 1984 di George Orwell. Un secondo elemento costitutivo della Neolingua immaginata, potenziale o in atto è «il contrarsi del linguaggio [che] ha per effetto prima l’impoverimento, poi una vera e propria inibizione del pensiero» (Carofiglio, p. 26).

La ripetizione ostinata, il martellamento propagandistico di parole «consuete» (Zagrebelsky, p. 9) riplasmate dalle icone del potere e rilanciate seduttive dai suoi megafoni mediatici ricordano l’orwelliano «ministero della Verità che poteva rovesciare il significato delle parole, a seconda delle necessità: la pace in guerra, l’amore in odio, e così via» (Zagrebelsky, p. 8). Zagrebelsky intitola ogni capitoletto del suo saggio alle moderne parole del potere: scendere (in politica), contratto (con gli Italiani), assolutamente, fare-lavorare-decidere, le tasche degli Italiani. E amore, naturalmente: capeggiato dal leader salvifico, v’è il partito dell’amore, il quale, per il solo fatto di identificarsi come “parte”, presuppone un partito dell’odio contrapposto (anche qui il richiamo al ministero dell’amore orwelliano è d’obbligo http://espresso.repubblica.it/dettaglio/).

Naturalmente (e per fortuna), non esiste oggi in Italia un regime totalitario dotato di autorità centrali legiferanti in materia di lingua. Esiste però un uso a vocazione totalitaria della lingua che si diffonde pervasivamente attraverso i circuiti stratificati della comunicazione e dell’intrattenimento. Qui la politica che usa la lingua a fini politici si allarga a macchia d’olio. In modo capillare, penetra nelle menti ed è dalle menti (e dalle lingue) rimasticata e digerita in forma di buon senso comune. Il confine tra democrazia e demofagia si fa incerto. Tra invettive e adulazioni, si spezza il pane dei sermoni aggressivi e si distribuiscono alla plebe le coesive barzellette circensi. Tenta, anche in questi modi, di compiersi l’unione mistica tra la mente e il linguaggio del leader elettrico e i galvanizzati adepti, suggellata dalle schede deposte nella sacra urna votiva. Alleluja.