Evento chiave e fulcro della mitologia fascista, la Marcia su Roma non vide, com’è noto, una partecipazione diretta da parte di Benito Mussolini, pronto piuttosto ad agire e a spostarsi in base a come le circostanze e le opportunità del momento gli avrebbero consigliato; ed è significativo che a questa sua assenza fisica ne corrisponda – se si fa eccezione per i due Proclami firmati dal Quadriumvirato fascista pubblicati il 29 e il 31 ottobre 1922 – una verbale sull’organo di stampa ufficiale del Partito Nazionale Fascista fondato e diretto da Mussolini stesso: Il Popolo d’Italia. Astuto e abile uomo politico e giornalista, il Duce volle evidentemente calibrare con la massima accortezza la sua esposizione mediatica in un momento tanto delicato, che poteva determinare – come poi purtroppo fu – il trionfo del suo progetto ma anche il definitivo fallimento dello stesso.
È allora interessante rileggere le parole pronunciate da Mussolini alla vigilia della Marcia su Roma e riportate appunto sul Popolo d’Italia, integrandole, all’occorrenza, con il primo successivo discorso del Duce comparso su quella testata qualche giorno dopo: si tratta, nel primo caso, del comizio tenuto da Mussolini in occasione della grande adunata delle Camicie nere svoltasi a Napoli il 24 ottobre 1922 (prova generale e preludio di quanto sarebbe avvenuto nella capitale) e, nel secondo, dell’intervento (passato poi alla storia come il «discorso del bivacco») pronunciato alla Camera dei Deputati il 16 novembre per la presentazione del nuovo Governo. Più che aspetti linguistico-grammaticali specifici, meritano di essere rilevate talune strategie retoriche e talune argomentazioni che emergono da tali parole: da un lato Mussolini, specie prima della marcia, intendeva fornire di sé e del suo movimento un’immagine anche rassicurante; ma dall’altro lato non nascondeva la portata già chiaramente autoritaria e illiberale del regime che voleva instaurare.
«Quella vana modestia che qualche volta è il paravento degli imbecilli»
Mussolini, pur ben consapevole del contrario e delle sue indubbie doti al riguardo, si presentò agli uditori napoletani quasi in tono dimesso, simulando una semplicità del dire che non corrispondeva a quello per cui egli si era già da tempo distinto quale militare, politico socialista, giornalista e trascinatore di folle:
«Può darsi, anzi è quasi certo, che il mio genere di eloquenza determini in voi un senso di delusione, in voi che siete abituati alla foga immaginosa e ricca della vostra oratoria. Ma io, da quando mi sono accorto che era impossibile torcere il collo alla eloquenza, mi sono detto che era necessario ridurla alle sue linee schematiche ed essenziali. […] Voi certamente non potete pretendere da me quello che si continua a chiamare il grande discorso politico. Ne ho fatto uno a Udine, un altro a Cremona, un terzo a Milano. Ho quasi vergogna di parlare ancora».
In quella circostanza le metafore, le allusioni e le espressioni figurate impiegate dall’oratore risultarono in effetti talvolta abbastanza comuni e poco ricercate, sebbene non prive di chiarezza e di efficacia: «Insomma noi siamo al punto in cui la freccia si parte dall’arco, o la corda troppo tesa dell’arco si spezza», «Noi, fascisti, non intendiamo di andare al potere per la porta di servizio», «vedo il fascismo che raccoglie e coordina tutte queste energie, che disinfetta certi ambienti», o anche, con rimando veterotestamentario, «noi, fascisti, non intendiamo di rinunciare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un piatto di lenticchie ministeriali». Ma, a dimostrazione del fatto che la declaratio humilitatis iniziale era un mero stratagemma retorico, e non rinunciando anzi a scagliarsi contro «quella vana modestia che qualche volta è il paravento degli imbecilli», a Napoli Mussolini si esibì anche in passaggi contraddistinti dalla sua preclara enfasi oratoria, speculativa e sintattica, con suggestioni misticheggianti:
«Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà nel fatto che è un pungolo, che è speranza, che è fede, che è coraggio. Il nostro mito è la Nazione, il nostro mito è la grandezza della Nazione. E a questo mito, a questa grandezza, che noi vogliamo tradurre in una realtà completa, noi subordiniamo tutto il resto. Per noi la nazione è soprattutto spirito e non è soltanto territorio».
«Facciamo del bene a chi ci fa del bene, del male a chi ci fa del male»
Con l’intento di non allarmare oltre misura certa opinione pubblica e certa classe dirigente (compresi naturalmente la monarchia e gli alti gradi dell’esercito regolare), Mussolini offriva una narrazione che raccontava fatti e intenzioni dello squadrismo come fossero mossi da obiettivi pacifici e pacificatori. Già a Napoli il Duce aveva esortato i convenuti affinché non si scatenasse «nessun incidente, neppure minimo, […], poiché, oltre che delittuoso, sarebbe anche enormemente stupido»; ma più ancora nel primo discorso parlamentare in veste di capo del Governo Mussolini presentò la sua azione eversiva in termini di assennatezza e perfino di benevola moderazione:
«Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non vi abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo [assai significativa questa chiosa…], voluto. Gli avversari sono rimasti nei loro rifugi: ne sono tranquillamente usciti, ed hanno ottenuto libera circolazione».
Ma la visione del bene e del male, e dunque una loro possibile mediazione, restava unilaterale e autoreferenziale, compendiata da un’affermazione che contraddiceva il principio evangelico di Lc 6,27-36 e che richiamava piuttosto la più antica legge del taglione: «facciamo del bene a chi ci fa del bene, del male a chi ci fa del male»; «noi siamo per la pacificazione, noi vorremmo vedere tutti gli italiani adottare il minimo comune denominatore che rende possibile la convivenza civile; ma d’altra parte non possiamo sacrificare i nostri diritti, gli interessi della Nazione, l’avvenire della Nazione a dei criteri soltanto di pacificazione che noi proponiamo con lealtà, ma che non sono accettati con altrettanta lealtà dalla parte avversa. Pace con coloro che vogliono veramente pace; ma con coloro che insidiano noi, e, soprattutto, insidiano la Nazione, non ci può essere pace se non dopo la vittoria».
Non per nulla, alla fine, il terreno di scontro su cui confrontarsi e per cui vincere non era quello dell’idealità e della democrazia, ma quello della violenza e delle formazioni armate che esulavano da quelle ufficiali dello Stato: «tutte le volte nella storia, quando si determinano dei forti contrasti di interessi e d’idee, è la forza che all’ultimo decide. Ecco perché noi abbiamo raccolte e potentemente inquadrate e ferreamente disciplinate le nostre legioni: perché se l’urto dovesse decidersi sul terreno della forza, la vittoria tocchi a noi».
«Ciò che ci divide dalla democrazia è la nostra mentalità, è il nostro metodo»
Una tale concezione politica e dialettica non poteva che basarsi sulla delegittimazione e sullo screditamento aprioristico degli avversari e di tutto ciò che non collimava con il pensiero e la prassi del fascismo; abbondano infatti a Napoli parole, espressioni e frasi come «solo la concezione assurdamente e falsamente democratica della guerra poté impedire che i nostri battaglioni vittoriosi sfilassero sul ring di Vienna e per le arterie di Budapest», «ostilità sorda e sotterranea che traeva le sue origini dagli equivoci e dalle infamie che caratterizzano l’indeterminato mondo politico della capitale», «paralisi completa dello Stato italiano», «il deficiente Governo che siede a Roma, ove accanto al galantomismo bonario ed inutile dell’on. Facta stanno tre anime nere della reazione antifascista… alludo ai signori Taddei, Amendola ed Alessio… questo Governo mette il problema sul terreno della pubblica sicurezza e dell’ordine pubblico», «Abbiamo chiesto che lo Stato esca dalla sua neutralità grottesca, conservata fra le forze della Nazione e le forze dell’antinazione», «Che cosa si è risposto? Nulla! Peggio ancora, si è risposto in un modo ridicolo. […] Si è fatto un computo meschino delle nostre forze, […] come se ciò, dopo le prove più o meno miserevoli della guerra, non fosse il colmo di ogni umano e politico assurdo», «incrostazioni parassitarie del passato», «Questa mitologia della bassa letteratura socialista noi la respingiamo», «E allora si comprende perfettamente che i governanti di Roma cerchino di creare degli equivoci e dei diversivi». Fino ad arrivare a criticare, durante il discorso di novembre alla Camera, le «stracche arterie dello Stato parlamentare» e chi avrebbe potuto più che legittimamente eccepire in merito a come era stato costituito il nuovo Governo: «Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo, il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò».
Ma la legittimazione dell’avversario e il confronto civile in seno alle istituzioni rappresentative della volontà popolare sono alla base del sistema democratico; un sistema a cui però fin dal discorso di Napoli Mussolini dichiarò di non sentirsi vincolato (fingendo invece così, scaltramente, di non mettere in discussione la monarchia sabauda), usando al riguardo anche i suoi tipici toni denigratori:
«Il Parlamento, o signori, e tutto l’armamentario della democrazia, non hanno niente a che vedere con l’istituto monarchico. Non solo, ma si aggiunga che noi non vogliamo togliere al popolo il suo giocattolo (il Parlamento). Diciamo giocattolo perché gran parte del popolo italiano lo stima per tale. Mi sapete voi dire, per esempio, perché su undici milioni di elettori ce ne sono sei che se ne infischiano di votare? Potrebbe darsi, però, che se domani si strappasse loro il giocattolo, se ne mostrerebbero dispiacenti. Ma noi non lo strapperemo. In fondo ciò che ci divide dalla democrazia è la nostra mentalità, è il nostro metodo. La democrazia crede che i principii siano immutabili in quanto che siano applicabili in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni evenienza. Noi non crediamo che la storia si ripeta, noi non crediamo che la storia sia un itinerario obbligato, noi non crediamo che dopo la democrazia debba venire la superdemocrazia. Se la democrazia è stata utile ed efficace per la Nazione nel secolo XIX, può darsi che nel secolo XX sia qualche altra forma politica che potenzii di più la comunione della società nazionale».
Parole che se da un lato evocano l’arguta e tuttora valida affermazione pronunciata da chi Mussolini lo sconfisse (Winston Churchill, l’11 novembre 1947 alla Camera dei Comuni), dall’altro sgombrano il campo, se ancora ce ne fosse bisogno, dall’equivoco o dall’intento revisionista secondo cui inizialmente il fascismo avrebbe inteso proporsi come una forza politica rispettosa del sistema democratico. Ma, ancor più, sono parole che servono tuttora come monito affinché non venga meno la salvaguardia delle nostre istituzioni parlamentari e repubblicane (ben più serie e fragili di un «giocattolo» o di un «armamentario» d’impaccio), pur fisiologicamente sempre imperfette e mai definitive, così che l’incessante “marcia della democrazia” non subisca pericolosi arresti o arretramenti.
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Immagine: Il congresso fascista a Napoli, via Wikimedia Commons
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