Di varia natura sono i fattori culturali, storici, geopolitici, economici e sociali che frenarono in Italia l’imporsi di una lingua nazionale: il prestigio del latino e il suo influsso sulle varianti fonomorfologiche e sulla sintassi (ordo artificialis) del volgare scritto; il predominio della retorica sulla comunicazione pragmatica; la lentezza del processo unitario, compiutosi sei secoli dopo l’inizio della letteratura italiana; il succedersi delle varie potenze straniere (Spagna, Francia, Austria); l’assenza di una grande borghesia e di un libero mercato, elementi propri delle democrazie occidentali; il ritardo nello sviluppo industriale e, di conseguenza, nella formazione di un vero proletariato urbano; la chiusura del ceto intellettuale, costituitosi fin dall’Umanesimo in una casta rigidamente contrapposta all’odiato vulgus; la tardiva alfabetizzazione di massa; la questione meridionale, ancora non risolta. Nondimeno, nell’ultimo secolo di vita nazionale, a queste concause se ne aggiunge una, di tipo psicologico, a esse strettamente legata: la sensazione, comune a molti italiani, di non essere padroni della propria lingua. Tale idea, inconcepibile per le altre nazionalità europee, deriva, a mio avviso, dal conflitto tra il ruolo materno e quello paterno (ovvero tra l’affetto e l’autorità) nell’educazione linguistica della prole; dissidio che determina uno squilibrio tra spinte anarcoidi da un lato e incertezza ossessiva dall’altro.

Analizzando l’alta frequenza dei dubbi grammaticali, degli ipercorrettismi e dei lapsus (linguae e calami) nell’italiano contemporaneo, si possono trarre utili riflessioni sul rapporto nevrotico-ossessivo degli italofoni con il loro idioma, in una costante diffidenza verso la lingua dell’uso, tale da giustificare la fortuna del burocratese come modello di scrittura.

Così Laplanche e Pontalis definiscono la nevrosi ossessiva: «Nella forma più tipica, il conflitto psichico si manifesta con sintomi detti coatti: idee ossessive, coazione a compiere atti indesiderati, lotta contro questi pensieri e queste tendenze, riti di scongiuro, ecc., e con un modo di pensare che è caratterizzato soprattutto dalla ruminazione mentale, dal dubbio, dagli scrupoli e che provoca inibizioni del pensiero e dell’azione» (Jean Laplanche / Jean-Bertrand Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, a cura di Luciano Mecacci e Cynthia Puca, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 380-381). Benché possa sembrare azzardato, cercherò di chiarire questo nesso tra psiche e grammatica partendo da un’indagine sulla situazione odierna, grazie ai quesiti rivolti ai linguisti in rete.

L’omofonofobia

Non pericolosa come la deprecabile omofobia, che purtroppo funesta ancora l’Italia, l’omofonofobia (neologismo scherzoso, chiedo venia) è il fastidio nevrotico per le parole che presentano identica pronuncia (o quasi) ma significato diverso. Gli omofoni, soprattutto se omografi, turbano sonni e sogni di chi vorrebbe una lingua univoca, priva di sovrapposizioni tra significanti. Al contrario, l’italiano è ricco di parole equivoche, a cominciare dalla coniugazione del verbo essere: «Sono in casa»; una o più persone? Chi può dirlo? L’italiano antico ammetteva la distinzione tra sono ed ènno («ènno dannati i peccator’ carnali»), ma la forma analogica (cfr. hanno) rimase minoritaria e non si impose, a vantaggio dell’etimologico sono (< lat. sŬnt). Dobbiamo prenderne atto. Di certo il suddetto fraintendimento è più grave della bizzarra aequivocatio segnalata da un utente appassionato di magia e folklore:

«In questo caldo pomeriggio un dubbio mi tormenta. Stavo tranquillamente conversando con dei miei compagni e improvvisamente pongo a loro questa domanda, “che fate?”, cioè la seconda persona plurale del presente indicativo del verbo fare. Allo stesso tempo però sappiamo che esiste anche un’altra forma di questo lemma cioè: “fate”, sostantivo femminile, plurale di fata. A questo punto possiamo dare duplice significato al sintagma “che fate” *la classica domanda che fate? *un’espressione di stupore verso delle fate, che molto probabilmente non esisteranno, ma possiamo fare un semplice paragone con una persona, quando incontriamo una persona di una bellezza sbalorditiva possiamo paragonarla ad una fata, in questo caso incontrando un gruppo di persone molto belle possiamo dire “che fate!!!” In conclusione vorrei chiedervi se un giorno la forma “che facete” potrà diventare corretta, in modo tale da differenziare queste due espressioni» (Treccani, 1/9/2021).

Recuperare un dialettismo per onorare figure mitologiche può sembrare romantico, ma è triste che nel ventunesimo secolo si debba ancora ribadire un principio basilare della linguistica: «non si può stabilire a tavolino ciò che si può dire o non si può dire di nuovo in una lingua». Accettare l’identità di suono e di grafia tra parole diverse è un danno minore rispetto all’innovazione morfologica di un verbo appartenente al lessico fondamentale di una lingua.

Anche se meno grossolano, in quanto non coinvolge parole del vocabolario di base, desta comunque perplessità l’obiezione di un lettore contrariato dall’omofonia di un aggettivo e di un sostantivo (da lui scambiato per aggettivo):

«Scusate, non è che la parola “scempio” quando significa ‘semplice’ va scritta senza la “c” derivando dal latino “simplex” mentre la “sc” di “scempio” che significa ‘rovinato, distrutto’ ecc.ecc., è un ricordo della “x” di “exemplum”?» (Treccani, 23/6/2021).

In questo caso l’omofonia dipende dalla coincidenza tra l’esito popolare del latino exemplum ‘pena esemplare’ (scempio ‘strazio’) e la palatalizzazione della sibilante sorda di sĬmplum (scempio ‘semplice, non raddoppiato’): l’evoluzione linguistica non procede secondo schemi razionali e prevedibili, e l’analogia influisce, insieme con le spinte fonologiche delle varie lingue di sostrato; pertanto chi ama il proprio idioma materno dovrebbe accogliere quelle che sembrano scomode anomalie, senza mettersi in testa di riparare la lingua imponendo forme sostitutive. A proposito di sempio, esso ricorre appena sette volte nell’archivio elettronico dell’OVI, di cui cinque in testi settentrionali, anche se non mancano attestazioni vernacolari successive.

Addirittura può irritare l’uso diverso della stessa voce verbale, come nella seguente proposta:

«Mi era sorto un dubbio circa la parola “fa”. Talvolta mi confondo in alcuni contesti specifici ad identificare il suo ruolo, cioè se ha funzione di avverbio di tempo (per esempio: sei giorni fa) o di voce verbale, terza persona singolare del presente indicativo di fare (per esempio: Silvio fa i compiti). Per una mia curiosità, non esiste un modo per differenziare le due forme aggiungendo un segno grafico (malgrado sappia che la forma accentata di “fa” è errata)? E secondo voi, sarebbe più conveniente la forma accentata su uno dei due casi?» (Treccani, 14/5/2018).

In realtà si tratta di una locuzione ellittica (fa sei giorni che...), anche se i lessicografi registrano il fa come avverbio; è impossibile che un italofono intenda il complemento di tempo come oggetto di fa.

L’omofonia entra in gioco anche con grafie diverse:

«Alcuni lettori ci chiedono se per indicare per esempio la posizione di un militare si debba dire che si trova di stanza in un certo luogo oppure d’istanza in quel luogo. Per un lettore il dubbio è invece tra di stanza e di stazza» (Crusca, 17/9/2021).

Delle tre parole l’unica associabile al concetto di ‘dimora’ è stanza, ovviamente, ma il dubbio si insinua a causa dell’ideologia burocratica: «Forse», ragiona il Super-Io, cultore della pubblica amministrazione, «il soldato ha inoltrato istanza di trasferimento». E stazza, quasi omofono di stanza? Qui interviene un meccanismo tipico delle scritture dei semicolti, ben rilevato nella risposta della Crusca («la caduta della nasale e l’allungamento della consonante seguente, secondo uno sviluppo non insolito nell’italiano scritto popolare»).

Perfino gli omofoni non omografi finiscono nel mirino dei paladini dell’univocità:

«Sono arrivati vari quesiti che riguardano la Repubblica Ceca [...] altre domande, infine, riguardano l’etnico ceco e avanzano proposte grafiche o addirittura nuove denominazioni alternative per evitare l’omofonia con cieco, che può causare fastidiosi equivoci» (Crusca, 9/9/2016).

Nella pronuncia standard entrambi gli aggettivi hanno la e aperta, ma c’è chi propone di introdurre un accento grafico che indichi «una pronuncia chiusa della e di ceco», in modo da evitare, anche nel parlato, qualsiasi fraintendimento; altri invece sarebbero favorevoli a «czeco o boemoravo (che peraltro lascerebbe fuori la porzione ceca della Slesia)», incuranti della «difficoltà di imporre a tavolino parole nuove e piuttosto complicate per il parlante italiano».

L’omofonofobo adora la precisione, odia i calembour ed è puntiglioso nel mettere gli accenti ovunque (prìncipi vs princìpi): nella sua visione le parole esistono a prescindere dal testo, in un iperuranio di cristallina semantica. L’aforisma «Il riso abbonda sulla bocca degli stolti» lo lascia interdetto: preferisce «Gli stolti ridono troppo».

La serie L’italiano sul lettino. Dubbi linguistici e nevrosi ossessive è curata e scritta da Luigi Spagnolo.

Gli interventi finora pubblicati:

Immagine: Sergio Castellitto e Maya Sansa in un frame della serie televisiva In treatment (2013-2017)

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