Per colpa di un accento, / un tale di Santhià / credeva d’essere alla meta / ed era appena a metà. Così iniziava molto tempo fa una nota filastrocca di Gianni Rodari, di cui si celebra quest’anno il centenario della nascita. Ma ancora oggi l’accento è uno dei crucci più comuni di chi scrive in italiano: chi non è stato, almeno una volta, in dubbio se scrivere sto o stò, qua o quà, su o ? Vale dunque la pena di capire meglio quando va usato, e perché, l’accento in italiano.

Un po’ di storia

La storia dell’accento (dal latino ad cantus, per indicare l’intensificazione della voce) inizia per tradizione tra il III e il II secolo a.C. con Aristofane di Bisanzio, grammatico e bibliotecario alessandrino, che lo introduce in greco per agevolare le operazioni di lettura. Di qui passa al latino, dove è impiegato dapprima per indicare il timbro grave o acuto della voce, e in seguito – a partire dal II secolo d.C. – per segnalare la vocale da pronunciare con maggiore vigore, vale a dire con la funzione “intensiva” che conserva ancora oggi.

Nei manoscritti in volgare risulta attestato già prima del XII secolo, mentre in un testo a stampa compare per la prima volta nel 1496, nel trattato De Aetna di Pietro Bembo. L’uso è però oscillante e prima di arrivare agli impieghi attuali bisognerà aspettare molto tempo: per esempio nell’opera di Daniello Bartoli Dell’ortografia italiana, pubblicata nel 1670, l’accento è ancora facoltativo su più e giù (dove diventerà obbligatorio solo in pieno Settecento, per opera di Salvatore Corticelli).

Il sistema di regole d’uso dell’accento che conosciamo oggi si stabilizza solo verso la metà del Novecento (cfr. Cignetti & Demartini 2014 e Demartini 2010).

I tipi di accento

Esistono diversi tipi di accento. Per prima cosa, bisogna distinguere il fenomeno prosodico (l’accento come rilievo sonoro su una sillaba) dal segno grafico (il segno che si aggiunge a una lettera), di cui parliamo in questo contributo. Ma anche in questo caso si parla di più accenti: in italiano infatti l’accento grafico più essere acuto (´) o grave (`).

Quello acuto, che indica il timbro chiuso, va usato nei composti di -che, come perché, poiché, benché, affinché e su poche altre parole come trentatré e viceré; quello grave, che indica il timbro aperto, in tutti gli altri casi. È possibile però imbattersi in convenzioni grafiche alternative, come quella della casa editrice Einaudi, che impiega l’accento acuto anche su i e su u.

In testi non recentissimi è inoltre possibile incontrare l’accento circonflesso (ˆ), che veniva usato in passato per segnalare la doppia i alla fine di parola (come per esempio in principî), ma che oggi si può considerare estinto.

Usi e funzioni

La funzione dell’accento cambia a seconda che compaia su parole di due o più sillabe oppure su parole di una sillaba sola. Nei polisillabi, l’accento segnala la vocale sulla quale cade il rilievo sonoro nella pronuncia, ed è obbligatorio se questa è nella sillaba finale, come in città, caffè, supplì, pedalò e caucciù.

Nei monosillabi, ha invece una funzione distintiva (detta anche diacritica), serve cioè a distinguere due parole altrimenti scritte nello stesso modo (ossia omografe), come per esempio la forma verbale (Buon seme dà buoni frutti) e la preposizione da (Impara l’arte e mettila da parte) o l’affermazione (Forse che sì, forse che no) e il pronome si (Al cuor non si comanda).

Con le note musicali, tuttavia, poiché la loro presenza è circoscritta entro un ambito settoriale riconoscibile, l’accento non si usa mai: si scrive dunque do (omografo di do, da dare), re (omografo di re, nome), mi (omografo di mi, pronome), fa (omografo di fa, da fare), sol (omografo di sole con troncamento vocalico), la (omografo di la, articolo).

Quando l’accento non è obbligatorio

L’accento può avere valore distintivo anche sulle parole omografe con più sillabe, senza però, questa volta, essere obbligatorio.

In questi casi la funzione distintiva può intervenire per posizione, come nelle coppie àncora/ancòra o càpitano/capitàno, oppure per grado di apertura delle vocali accentate, come in pésca/pèsca o bòtte/bótte.

Tra i numerosi esempi di coppie di parole distinte da accento per posizione ricordiamo àgito (verbo agitare)/agìto (verbo agire), àmbito (nome)/ambìto (verbo ambire), àrbitri (plurale di arbitro)/arbìtri (plurale di arbitrio), bàlia (bambinaia)/balìa (autorità), benèfici (aggettivo)/benefìci (nome), nòcciolo (parte del seme)/nocciòlo (pianta), prèsidi (plurale di preside)/presìdi (plurale di presidio), prìncipi (plurale di principe)/princìpi (plurale di principio), vìola (verbo violare)/viòla (nome).

Esempi di coppie di parole distinte da accento per apertura sono invece accètta (verbo accettare)/accétta (nome), affètto (nome)/affétto (verbo, da affettare), accòrsi (verbo accorgere)/accórsi (verbo accorrere), chièse (nome)/chiése (verbo chiedere), collèga (nome)/colléga (verbo collegare), còlto (verbo cogliere)/cólto (aggettivo), còppa (trofeo)/cóppa (salume), lègge (verbo leggere)/légge (nome), mènto (verbo mentire)/ménto (nome), vènti (soffi d’aria)/vénti (numero).

Errori e i dubbi più comuni

Gli errori dell’uso dell’accento riguardano non solo l’assenza di accento, ma anche l’impiego indebito.

Ad esempio, l’accento non è previsto su forme verbali monosillabiche come fa, sta, sto, va, sto, fu; non deve essere inoltre essere usato su parole come po’ (troncamento di poco) o su forme verbali all’imperativo come sta’, da’ o va’, dove è invece richiesto l’apostrofo, né quando si usano lettere maiuscole, errore purtroppo frequente nella scrittura “digitata” (la grafia corretta ma È e non E’).

Infine, per le parole di origine straniera, se la parola in italiano è ormai entrata nell’uso comune in genere l’accento cade (come in hotel o in biberon), se invece è ancora percepita come straniera, mantiene l’accento della lingua di provenienza (élite, maître).

Sé stesso o se stesso?

Un interrogativo abbastanza comune, da ultimo, riguarda l’uso dell’accento su seguito da stesso (e stessa, stessi, stesse). A questo proposito, la norma si limita a dire che richiede l’accento quando è pronome riflessivo (Chi fa da sé fa per tre), per evitare equivoci con il se usato come congiunzione (Non domandare all’oste se ha buon vino): un normale caso di accento diacritico su un monosillabo, dunque.

Nel tempo si è però affermata, per convenzione scolastica, un’eccezione che prevede per la caduta dell’accento quando precede stesso, poiché in questo caso il rischio di ambiguità verrebbe meno. Esistono tuttavia impieghi in cui se seguito da stesse o stessi non ha valore pronominale, come nelle frasi Mi hanno detto di chiamare il pronto soccorso se stessi male o Se stesse meglio potrebbe uscire, per le quali la possibilità di equivoco permane.

Per questo motivo – ma anche, a maggior ragione, per rispetto della coerenza interna al sistema – le forme sé stesso, sé stessi e sé stesse non sono errori, ma, anzi, andrebbero preferite a quelle non accentate (cfr. Serianni 1988 e Serianni & Antonelli 2011, p. 242).

In tempi di regole sempre più incerte, a volte, sarebbe il caso di fare a meno anche di qualche eccezione.

Riferimenti bibliografici

Bartoli, D. (1670), Dell’ortografia italiana, Roma, A spese d’Ignatio de Lazari.

Castellani, A. (1985), Problemi di lingua, di grafia, di interpunzione nell’allestimento dell’edizione critica, in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno (Lecce, 22-26 ottobre 1984), Roma, Salerno Editrice, pp. 229-254.

Castellani, A. (1995), Sulla formazione del sistema paragrafematico moderno, «Studi linguistici italiani» 21, 1, pp. 3-47.

Cignetti, L. (2011), Paragrafematici, segni, in R. Simone, a c. di, Enciclopedia dell’italiano, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 2, pp. 1033-1034.

Cignetti, L. (2016), Tipologie e frequenza degli errori di ortografia nella scrittura degli apprendenti, in L. Cignetti, S. Demartini e S. Fornara (a c. di) (2016), Come TIscrivo? La scrittura a scuola tra teoria e didattica, Roma, Aracne, pp. 19-36.

Cignetti, L. & Demartini, S. (2016), L’ortografia, Roma, Carocci.

Cignetti, L. e Fornara, S. (2014), Il piacere di scrivere. Guida all’italiano del terzo millennio, Roma, Carocci.

Corticelli, S. (1745), Regole ed osservazioni della lingua toscana ridotte a metodo ed in tre libri distribuite, Torino, Stamperia di Lelio della Volpe.

Demartini, S. (2010), Accento grave e acuto, in R. Simone, a c. di, Enciclopedia dell’italiano, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 1, pp. 9-10.

Demartini, S. (2011), Ortografia, in R. Simone, a c. di, Enciclopedia dell’italiano, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 2, pp. 1012-1017.

Mortara Garavelli, B. (a cura di) (2008), Storia della punteggiatura in Europa, Roma-Bari, Laterza.

Migliorini, B. (1957), Note sulla grafia italiana nel Rinascimento, in Id., Saggi linguistici, Firenze, Le Monnier, pp. 197-225 (già in «Studi di filologia italiana» 13, 1955, pp. 259-296).

Richardson, B. (2008), Dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento, in Storia della punteggiatura in Europa, a cura di B. Mortara Garavelli, Roma - Bari, Laterza, pp. 99-121.

Serianni, L. (1988), Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria. Suoni, forme, costrutti, con la collaborazione di A. Castelvecchi, Torino, UTET.

Serianni, L. (1997), Italiano. Grammatica, sintassi, dubbi, con la collaborazione di A. Castelvecchi; glossario di G. Patota, Milano, Garzanti.

Serianni, L. & Antonelli, G. (2011), Manuale di linguistica italiana. Storia, attualità, grammatica, Milano, Bruno Mondadori.

I punti della situazione. Viaggio nella punteggiatura dell’italiano di oggi

(a cura di Luca Cignetti)

1. La presentazione della serie – Luca Cignetti

2. Il punto – Angela Ferrari

3. La virgola – Angela Ferrari

4. La virgola splice – Silvia Demartini

5. Il punto interrogativo – Simone Fornara

6. Il punto esclamativo – Elisa Désirée Manetti

7. I due punti – Letizia Lala

8. I puntini di sospensione – Filippo Pecorari

9. Le parentesi (tonde) – Luca Cignetti

10. Lineette doppie e lineetta singola – Fiammetta Longo

11. Le virgolette – Luca Cignetti

Immagine: Accento in rosa

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