Virale , nel linguaggio della comunicazione in rete, si dice di uno spezzone di informazione che, grazie al passaparola (o al... passatastiera), si diffonde rapidamente. L'oggetto (testo, immagine, video) della comunicazione di successo, di solito reimmesso in un contesto differente da quello originario, viene chiamato meme (qui un esempio di meme: l'immagine rielaborata scherzosamente del calciatore Balotelli in posa scultorea, dopo una rete segnata agli Europei, quest'estate). Nello spazio esterno alla rete – già, questo spazio esiste, e da sempre, meglio non dimenticarlo – si possono immaginare come oggetti virali la parola, la locuzione, il modo di dire che dalla lingua parlata in un certo ambito, situazione o luogo, ottengono a mano a mano un gradimento crescente, fino a presentarsi come potenziali innovazioni con diritto di esistenza generalizzato. Certo, i meme più famosi in rete sono tormentoni perlopiù effimeri. Mentre non tutte le parole e locuzioni che s'affacciano alla ribalta sono destinate a cadere; certo, però, che molte sono caduche come i meme virali più leggerini.
Oltre gli spauracchi
In un Paese come il nostro, amante della lingua madre come pochi (almeno, a parole), impegnato in discussioni accanite su blog e forum creati ad hoc, sui siti dell'Accademia della Crusca e della Treccani, capace di tempestare di mail le rubriche di lettere al direttore per stigmatizzare, magari, l'ignoranza grammaticale di questo o di quel personaggio pubblico, sembra che gli spauracchi peggiori siano la temuta invasione delle parole straniere (cioè, al 99.99%, degli anglicismi made in Usa) e la temutissima, spesso data come già avvenuta, morte del congiuntivo. Minore attenzione si fa all'Italia come Paese dell'italiano parlato dagli italiani, in questa o quella regione, dal Nord al Sud e alle isole, passando per il Centro. Fa meno notizia. Lingua ormai davvero unitaria nell'uso vivo parlato, l'italiano, nonostante sia padroneggiato con difficoltà dagli studenti (e poi dagli adulti) per ragionare e argomentare, specialmente per iscritto, circola di bocca in bocca traendo da dentro la propria fucina in costante ebollizione le gocce fiammanti di nuovi modi e usi. Il modello non è più la lingua degli scrittori, recapitata un tempo nelle aule e nelle case dalla scuola e dalla tv del maestro Manzi: è, invece, la lingua ormai unificata, consapevole di sé e dinamica che ha fede nelle proprie risorse interne. Il parlante di Vicenza, come il parlante di Latina o quello di Brindisi, trae a sé le espressioni che l'italiano regionale mette a disposizione. L'italiano regionale si nutre spesso del dialetto, certo, ma anche delle relazioni che la lingua nazionale colloquiale intrattiene con la lingua radicata nel territorio specifico, mentre nell'intreccio di relazioni non manca mai il nodo del confronto e dell'eventuale rispecchiamento con i tanti “italiani” parlati che la tv e i media rimandano all'orecchio come un delta tracimante di possibilità.
Ascolti di prima mano
Altra questione è poi se le innovazioni nate qui e là per l'Italia abbiano la forza propulsiva per diffondersi e, perfino, per proporsi come strumenti accettabili nell'italiano parlato dalle Alpi al Lilibeo (il gestore di sistema dello scritto è un altro e bisogna comunque dare tempo al tempo). Intanto, in pochi sanno da quale largo pulpito regionale vengono predicate certe espressioni che hanno preso piede anche di là dal confine locale nel quale erano inizialmente ristrette. Pochi sanno, anche perché non è facile rintracciare l'origine di molti modi di dire che volano per l'aere e soltanto dopo un certo tempo si trovano stampati sulla carta di un giornale o di un libro o impressi come pixel sullo schermo di un testo in rete. Oggi, un linguista come Lorenzo Renzi, per esempio, nel suo Come cambia la lingua. L'italiano in movimento (Il Mulino, 2012) fa molto spesso riferimento alla propria esperienza personale – a ciò che dice lui o, meglio ancora, ciò che egli ascolta di prima mano. Anche Stefano Bartezzaghi si fida del suo orecchio: in Non se ne può più. Il libro dei tormentoni (Mondadori, 2010), per esempio, afferma: «Io, nel 1996, “Non me ne può fregare di meno” l'avevo [...] sentito da una signora (insomma) romana; “Piuttosto che” mi sembra dilagare ovunque, anche se non posso escludere che l'epicentro dell'irradiazione sia lombardo» (p. 15).
Non me ne può fregare di meno (Roma)
Già, non me ne può fregare di meno è l'eccezione che conferma la regola. Ce l'ha scritto addosso che viene dritto dritto da nun me ne pò fregà de meno, cioè dal romanaccio de Roma rilanciato dalle commedie cinematografiche (Athina Cenci a Carlo Verdone in Compagni di scuola, 1988: «Senti Patata, nun me ne pò fregà de meno…»). E i non romani l'hanno adottato facilmente, anche in versioni miste. Anche ad alti livelli, perché, si sa, ormai si tende a parlare un po' tutti in maniche di camicia. Il politico modenese Carlo Giovanardi, interpellato nel giugno 2011 su Radio 24 circa il probabile abbandono della Rai da parte di Michele Santoro, commenta: «Come dicono a Roma, non me ne può fregà de meno». Prende le distanze dal motto, ma lo usa. Invece, il fiorentino Matteo Renzi fa sua la locuzione dialettaleggiante: «Per usare un tecnicismo, a me dell’articolo 18 non me ne pò fregà de meno» (a Radio 24, marzo 2012). Ironizza, ma non sulla natura dialettale dell'espressione, di quella nun gliene pò ecc.
Un successo da avanspettacolo televisivo, che si conferma sulle bocche di tutti gli italiani in situazioni informali, scherzose o polemiche. Difficile immaginare che la frase possa accomodarsi nei dizionari, ma senz'altro trova ogni giorno posto nella lingua parlata spontanea.
Piuttosto che... piuttosto che... (Italia nord-occidentale, Milano)
Bartezzaghi accennava anche al sempre più diffuso piuttosto che usato come correlativo disgiuntivo, cioè in un modo che vent'anni fa sarebbe stato impensabile. Non bastava e avanzava il buon vecchio o... o... o...? No, oggi si sentono spesso assai frasi come questa: «La sera mi piace andare a ballare, piuttosto che prendere una pizza con gli amici, piuttosto che fare un giro in moto, piuttosto che...», intendendo che l'una o l'altra delle soluzioni è possibile e non, come vorrebbe la norma, che una (e una sola) è alternativa a un'altra (sola). «Preferirei andare in treno, piuttosto che in macchina» significa che preferisco il primo e, potendo, rifiuto la seconda.
Ornella Castellani Pollidori ha individuato la probabile radice locale e sociale di questo uso: «Si tratta [...] di una voga d'origine settentrionale, sbocciata in un linguaggio certo non popolare e probabilmente venato di snobismo […] Dalla ribalta televisiva il nuovo modulo ha fatto presto a scendere sulle pagine dei giornali: ormai non c'è lettura di quotidiano o di rivista in cui non si abbia occasione d'incontrarlo. E purtroppo la discutibile voga ha cominciato a infiltrarsi anche in usi e scritture a priori insospettabili (d'altra parte, se ha prontamente contagiato gli studenti universitari, come pensare che i docenti, in particolare i meno anziani, ne restino indenni?)». Secondo Renzi – non Matteo, bensì Lorenzo – (cit., p. 66), l'origine dell'uso è milanese.
Mentre da moda socio-geograficamente connotata il piuttosto che disgiuntivo è diventato un modo diffuso attraverso tante labbra (e penne e tastiere) per tutt'Italia, varrà la pena dire che converrebbe tenersi il “vecchio” piuttosto che e basta, a causa delle ambiguità semantiche che il “nuovo” piuttosto che può generare. «Mi piace camminare, piuttosto che correre»... Che si fa: si lascia a casa la tuta o la si indossa?
Che dolce! Com'è dolce! Quant'è dolce! (Nord, Toscana, Centro-Sud)
Pensiamo a due ragazze che chiacchierano. Una parla all'altra del suo ragazzo. Se siamo a Torino, lei dirà: «Che dolce!»; anzi, probabilmente, «Che dolce che è!». Se siamo a Firenze, dirà: «Com'è dolce!» (in accordo spontaneo con la tradizione letteraria). Da Roma in giù, dirà: «Quant'è dolce!». Simpatica questa variazione “tricolore” e, a dire il vero, innocua: qualsiasi formula si usi, la comprensione è sempre assicurata. Diciamo che la forma brevis settentrionale(che + aggettivo) è in espansione lungo l'autostrada del Sole, in direzione Sud, mentre la forma extensa (che + aggettivo + che + verbo essere) è ancora percepita, sotto il Po, come strana, buffa. Anche se... anche se... magari ci si mette la tv... Che tempo che fa, titolo molto “settentrionale” di una nota trasmissione, che a un palermitano, un aquilano o un perugino all'inizio avrà fatto sorridere come il verso di una filastrocca di Rodari, oggi è dato per “normale” da tutti. Forse un giorno anche a Catanzaro, affacciandosi alla finestra, qualcuno (che non abbia ancora consultato meteo.it), dirà tranquillamente «chissà oggi che tempo che fa».
Immagine: Che tempo che fa (logo). Crediti: fotogramma tratto dal programma RAI Che tempo che fa.