Lingua Italiana

Federigo Bambi

Federigo Bambi è professore associato a tempo pieno di storia del diritto medievale e moderno presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Firenze, dove insegna anche Lingua giuridica. È accademico corrispondente della Crusca e socio della SISD (Società italiana di storia del diritto), dell’ASLI (Associazione per la storia della lingua italiana) e dell’ASS.I.TERM (Associazione italiana per la terminologia). È componente del Comitato di direzione (e anche redattore) della rivista dell’Accademia della Crusca «Studi di lessicografia italiana» e del Consiglio di redazione dei «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno». Ha fatto parte del consiglio scientifico dell’Assiterm - Associazione italiana per la terminologia. È esperto formatore presso la Scuola superiore della magistratura. Si occupa prevalentemente di storia della lingua giuridica e di storia delle fonti. Le sue pubblicazioni riguardano l’italiano giuridico dalle sue origini fino all’età contemporanea. Tra le più recenti: “Una nuova lingua per il diritto. Il lessico volgare di Andrea Lancia nelle provvisioni fiorentine del 1355-57”, Milano, Giuffré, 2009; “La chiarezza della lingua del diritto”, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XLIII (2013), pp. 191-200; “La lingua delle Aule parlamentari. La lingua della Costituzione e la lingua della legge”, in «Osservatorio sulle fonti», 2015/3, http://www.osservatoriosullefonti.it; “Leggi, contratti, bilanci. Un italiano a norma?”, Roma, Accademia della Crusca - la Repubblica, 2017, pp. 1-116; “Scrivere in latino, leggere in volgare. Glossario dei testi notarili bilingui tra Due e Trecento”, Milano, Giuffrè, 2018, pp. 1-367; “Spigolature sulla lingua della Rettorica di Brunetto Latini”, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XLVIII (2019), pp. 103-121. Per l’Accademia della Crusca ha curato quattro libri: “L’italiano giuridico che cambia”, Atti del Convegno, Firenze, 1° ottobre 2010, Firenze, 2012 (con Barbara Pozzo); “Un secolo per la costituzione (1848-1948). Parole e concetti nello svolgersi del lessico costituzionale italiano”, Firenze, 2012; “Lingua e diritto. Scritto e parlato nelle professioni forensi” (Firenze, 9 marzo 2012), Pisa, 2013 (con Alarico Mariani Marini); “Lingua e processo. Le parole del diritto di fronte al giudice”, Atti del Convegno, Firenze, 4 aprile 2014, Firenze, 2016.

Pubblicazioni
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«All’onore di messer santo Iacopo apostolo». Mazzeo Bellebuoni e gli Statuti dell’Opera di San Iacopo (1313)

 

Giampaolo Francesconi, Giovanna Frosini, Simone Pregnolato, Stefano Zamponi

«All’onore di messer santo Iacopo apostolo». Mazzeo Bellebuoni e gli Statuti dell’Opera di San Iacopo (1313)

Pistoia, Società pistoiese di storia patria, 2022

 

Chi sarà mai? È una domanda che risuona spesso nella mente dello studioso degli statuti e dei loro volgarizzamenti. Talvolta si conosce la mano che ha redatto lo statuto latino, talvolta anche quella che lo ha tradotto in volgare in tutto o in parte, ma è un caso davvero singolare trovarsi di fronte a un notaio che abbia costruito il testo dello statuto latino e poi lo abbia anche tradotto. Così accadde a Pistoia fra il 5 e il 20 gennaio 1313 con la redazione e il volgarizzamento degli statuti dell’Opera di San Iacopo da parte di ser Mazzeo di ser Giovanni Bellebuoni. Risponde a una precisa scelta ed esigenza scientifica la pubblicazione dei due testi degli statuti messi a fronte, curata da quattro studiosi che hanno unito competenze e sensibilità diverse: quella paleografica di Stefano Zamponi che ha ricostruito le vicende e ha descritto le caratteristiche del manoscritto, individuando una minima diacronia tra le due versioni; quella storico-medievistica di Giampaolo Francesconi che ha collocato gli statuti nel quadro della società e delle istituzioni pistoiesi del tempo; quella storico-linguistica di Giovanna Frosini e di Simone Pregnolato che hanno lavorato sul testo bilingue; con l’aggiunta di un saggio sulle caratteristiche della lingua pistoiese del primo Trecento (e non solo) e di un ricchissimo glossario che si debbono all’acribia di Simone Pregnolato.

 

Si potrebbe allora partire proprio dalla fine cioè dall’explicit dello statuto per cercare di rispondere a qualche domanda sui rapporti tra latino e volgare in questo genere particolare di testi. Simone Pregnolato a proposito del volgarizzamento dello statuto e delle sue modalità indica un’alternativa: ser Mazzeo scrive il 5 gennaio il latino, poi il 20 gennaio nel consiglio generale del popolo legge il testo e poi di seguito lo traduce all’impronta in volgare; oppure, nella stessa scansione temporale, Mazzeo scrive il latino, lo legge e poi legge la versione volgare che ha già predisposto. Plausibile senz’altro. Ma c’è un’altra possibilità: Mazzeo il 20 gennaio legge direttamente in volgare lo statuto latino che ha davanti (magari aiutandosi con degli appunti o con una minuta volgare che ha già preparato) secondo una prassi notarile consueta e diffusa. Insomma, quel «dicta statuta [...] lecta et vulgariçata per me Matheum ser Johannis Bellebuoni notarium dicte Opere» dell’explicit dello statuto sarebbe una sorta di endiadi.

 

Seguito su questa strada. La doppia edizione offre il destro per rispondere a una classica domanda quasi sempre senza risposta, se cioè sia nato prima l’uovo o la gallina, ovvero quali siano i rapporti nelle redazioni statutarie tra il volgare e il latino. Complessi e vari, in genere: alcune volte è il latino, in particolare quello delle fonti giuridiche romane, che prepotentemente influenza il volgare, altre volte è il volgare che segna il latino sia sotto l’aspetto lessicale, sia sotto quello sintattico. Di solito però, anche quando la direzione di marcia è volgare ➾ latino, il volgare ha comunque già assorbito dei caratteri latini tipici del pensar giuridico. L’esempio classico è il Breve di Montieri del 1219, minuta volgare per uno statuto latino da redigersi, che porta delle cicatrici caratteristiche della scrittura giuridica: non altrimenti spiegabili quel per se defendendo o quel per temporale che tradiscono nella mente dell’ignoto estensore un pro se defendendo o un pro tempore frequenti nel latino del diritto.

 

Di questi rapporti particolari fornisce begli esempi anche il nostro statuto. È pacifico direi che in un settore come quello delle misure dovesse essere il volgare a influenzare il latino con le sue nomenclature, se si voleva davvero essere capiti: i curatori, in particolare Giampaolo Francesconi, ben lo mettono in evidenza a testimonianza del carattere e della funzione civile e cittadina – e non meramente religiosa – dell’Opera di san Iacopo e del suo statuto. Un altro momento topico è la celebrazione della festa di San Iacopo, nella quale in omaggio al vescovo celebrante l’altare doveva essere abbellito da sei misteriosi travintoia di cera (la bella voce del glossario di Simone Pregnolato chiarisce che doveva trattarsi di ‘castelletti di cera’). Così Giovanna Frosini: «travintoia, esito di trauntorios medioduecentesco, viene ‘ri-latinizzato’ da Mazzeo nella stesura» dello statuto latino in travintoria, secondo dunque un percorso latino duecentesco ➾ volgare ➾ latino dello statuto (p. 24). Anche in questo caso: quello che contava era esser capiti (almeno allora: oggi con i travintoia per abbellir altari abbiamo perso consuetudine), ed è un altro bell’esempio di notaio che pensava in volgare.

 

Il divertente – per chi si diletta di queste facezie – è che nello statuto dell’Opera di San Iacopo ci sono certi cambi di direzione che toccano direttamente il cuore stesso del lessico giuridico. Come tutti gli uomini della sua generazione e di quelle precedenti e di molte successive, se voleva riferirsi al latino ius e alla sua sfera semantica, Mazzeo in volgare non diceva diritto, ma ragione: ragione è il traducente pressoché obbligato di ius dal volgare delle origini fino al XVII secolo, quando d’influenza francese e spagnola s’affermerà diritto, fino ad allora relegato a usi linguistici particolari.

 

Nello statuto dell’Opera di San Iacopo talvolta ragione traduce ratio, ma almeno in un caso tutto rimane perfettamente in linea con la sfera semantica delle parole perché in questi casi il significato è quello di ‘conto’: «Quod introitus et exitus scribantur pro ratione reddenda» (26r) = «Come l’entrate e l’uscite si debiano scrivere per rendere ragione» (43v). Del tutto naturale che ratio ‘conto’ venga etimologicamente tradotto con ragione. Non dimentichiamo chi siano ancora oggi i ragionieri: ‘coloro che fanno e tengono i conti’.

 

Ma c’è un’altra ragione che viene resa agli operai ‘amministratori’ dell’opera, è quella prevista dalla rubrica IX: «potestas, ançiani et vexillifer iustitie et ipsorum et cuiusque ipsorum iudices et familiares [...] teneantur et debeant tali operario sive notario facere et reddere summariam rationem contra quoscumque debentes dare, reddere, solvere vel restituere aliquid Opere suprascripte» (27r) = «lla Podestà e li Ançiani e ’l Gonfalonieri della giustitia e li loro e giudici e famiglali [...] siano tenuti e debbiano a quelli cotali operari overo notaio fare e rendere sommaria ragione contra tutti coloro li quali dovessero dare, rendere, pagare, overo restituire alcuna cosa alla ditta Opera» (43v-44r). Anche qui ragione corrisponde a ratio e non a ius, ma non vuol dire ‘conto’, bensì ‘giustizia’, cioè esprime uno dei significati tipici di ius. Due possibilità: o è l’antico ratio ‘diritto’ dell’alto medioevo e di certe fonti giustinianee che è sopravvissuto; oppure è il volgare ragione che ha influenzato il pensiero traduttivo del notaio inducendolo a usare in latino ratio in un contesto di solito riservato a ius. E ciò accade in un’espressione il cui significato non è proprio quello “classico” di ‘diritto soggettivo’, ‘diritto oggettivo’, ‘titolo giuridico’, ambiti semanticamente tipici di ius, ma quello più generico di ‘giustizia in senso concreto’; dove inoltre ben poteva valere l’influenza dell’altro rendere ragione, quello che significa ‘rendere il conto’. Se è così, allora si deve concludere che talvolta il volgare è più forte e prepotente del latino, addirittura nel cuore del lessico del diritto.

 

Queste inezie lessicali – che però servono a ben individuare il corretto significato delle parole – si scoprono solo attraverso il metodo scientifico adottato dai curatori: il confronto diretto tra il latino e il volgare, oltretutto frutto della testa di un unico autore, quel ser Mazzeo che scrive lo statuto latino e poi lo volgarizza. Tra i tanti, è proprio questa scelta metodologica il pregio maggiore dell’edizione.

 

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Il linguaggio amministrativo. Principi e pratiche di modernizzazione

 

Michele A. Cortelazzo

Il linguaggio amministrativo. Principi e pratiche di modernizzazione

Roma, Carocci, 2021

 

Fortunatamente ha cambiato opinione Michele Attilio Cortelazzo, il quale apre il suo libro con un’osservazione sconsolata: «Ho sempre immaginato che questa attività [cioè quella volta al miglioramento della scrittura amministrativa] non fosse altro che una parentesi nel mio lavoro di studioso e che ben presto l’impegno per promuovere una scrittura amministrativa chiara e semplice si sarebbe esaurito grazie a un sostanziale raggiungimento dell’obiettivo. Questa convinzione era frutto di pura ingenuità» (p. 11). L’ha cambiata, almeno in parte, perché dalla sua voce le mie orecchie hanno sentito altro, quando pochi giorni fa l’autore ha fatto la sua tradizionale lezione al nostro corso fiorentino di perfezionamento post lauream «Professioni legali e scrittura del diritto»: che in particolare almeno certe buone pratiche di riscrittura di testi destinati a larga diffusione sono state introdotte; l’ISTAT ha migliorato la comprensibilità delle istruzioni per il censimento; lo stesso si può dire per i bollettini postali; molti testi in linea dei comuni hanno adottato una struttura comunicativamente molto più efficace. Almeno per questi aspetti dunque l’attività di chi si è speso nell’ultimo trentennio per il miglioramento della lingua dell’amministrazione non è stata vana.

 

Ma già all’interno del volume – al di là dell’affermazione iniziale, volutamente provocatoria o fatta per naturale pudore – questa convinzione emerge con chiarezza, in una struttura sistematica nella quale si alternano luci e ombre sulle vicende della scrittura dell’amministrazione.

 

L’incipit è una precisa fotografia delle caratteristiche lessicali e sintattiche dell’italiano amministrativo, con riferimenti anche all’interpunzione (argomento spesso trascurato): «si registrano alcuni usi inconsueti, che nascono probabilmente da un dominio solo parziale delle tendenze dell’interpunzione italiana, comune a molti scriventi» (p. 42); a conferma si potrebbe aggiungere che certe virgole che inopinatamente compaiono tra soggetto e verbo si osservano anche in testi base per la semplificazione della scrittura amministrativa (ma non in Cortelazzo).

 

La lontananza della lingua «aulica, astratta, complessa» dell’amministrazione da quella dei cittadini dipende da vari fattori, ma soprattutto dal fatto che manca una specifica formazione alla scrittura nel personale – a partire dalle “figure apicali” – e che non è chiaro al pubblico dipendente che scrive chi sia il destinatario della comunicazione: non solo il superiore, ma soprattutto il cittadino comune; e proprio su questi due elementi dovrà essere tracciata la via per il futuro.

 

Non è neppure un fuor d’opera il capitolo destinato alla scrittura della legge, considerata l’influenza che i testi legislativi hanno su quelli amministrativi e il necessario effetto a cascata: l’oscurità della legge pare tradursi inevitabilmente nell’oscurità della lingua dell’amministrazione; e ha ragione l’autore a criticare chi, partendo dal presupposto che la legge sia necessariamente “difficile”, alza le mani in segno di resa e ritiene che debba sempre essere affiancata da una spiegazione in lingua facile. Ma così «l’onere dell’accessibilità del testo» si sposta «dal momento della redazione della legge, e quindi dall’ambito legislativo, a quello della sua comunicazione, cioè all’ambito amministrativo. Un’inversione dei ruoli che non riesco a condividere» (p. 88). E io nemmeno: ben vengano testi divulgativi per i cittadini, ma a partire da un testo normativo ben costruito; il problema è che assai spesso la legge non è facilmente comprensibile neppure ai giuristi, e Cortelazzo ne porta diversi esempi.

 

E poi «i mostri linguistici» e «le buone pratiche». Lasciando perdere i primi, meglio concentrarsi sulle seconde. La rassegna vuole mostrare che è possibile migliorare il linguaggio dell’amministrazione, modernizzandolo, cioè rendendolo più chiaro; lo scopo è anche «dare a tutte le amministrazioni dei buoni esempi da imitare e anche da copiare» (p. 111). Non si tratta però di pratiche generalizzate, e anche le amministrazioni che le hanno intraprese spesso in altri settori od occasioni hanno fatto marcia indietro.

 

E allora la strada da seguire per modernizzare il linguaggio amministrativo, cioè appunto per renderlo chiaro, percorre diversi tornanti. Non bastano le linee guida, anche se certo rimane fondamentale seguire quei principi che da (quasi) sempre vengono indicati per raggiungere l’obiettivo: usare parole comuni, concrete e quelle tecniche solo quando è strettamente necessario; scrivere frasi brevi, che contengano una sola informazione, legate possibilmente dal nesso della coordinazione (ma all’occorrenza lo scrittore “amministrativo” dovrà essere abile nell’usare la subordinazione che è la struttura sintattica necessaria per costruire ragionamenti complessi di fronte a questioni complesse); e le altre regolette che nel volume sono indicate fino al raggiungere il numero di 30.

 

Ma lo strumento fondamentale dovrà essere quello di infondere il principio della chiarezza (e anche della sinteticità) nella preparazione culturale del personale dell’amministrazione attraverso una formazione linguistica mirata, magari fin dal tempo dell’università, e soprattutto poi attraverso corsi di formazione professionale (che vengono di solito seguiti con entusiasmo), per diffondere una nuova consapevolezza: «in questo consiste davvero il processo di adozione di una scrittura chiara e semplice: richiedere all’emittente un maggiore impegno nella produzione dei testi, per permettere al destinatario un impegno più ridotto nella loro comprensione» (p. 167). E infine sarà necessario coinvolgere direttamente il cittadino, il destinatario della comunicazione per verificare se l’obiettivo è stato davvero raggiunto.

 

Un buon recensore – si dice – non dovrebbe mai leggere il libro da recensire: per non farsi influenzare dal pensiero dell’autore, naturalmente... Questa volta io ho contravvenuto alla regola e non me ne pento: il libro è intelligentemente utile (non solo ai pubblici dipendenti), e c’è da scommettere che servirà allo scopo, almeno per chi ha buona volontà.