Lingua Italiana

Edoardo Buroni

Edoardo Buroni insegna Lingua italiana e comunicazione e Lingua italiana e testi per musica presso l'Università degli Studi di Milano. Tra i suoi interessi di ricerca si segnalano l’italiano come lingua per musica (in particolare nel melodramma ma anche nella canzone), la comunicazione politica, la lingua della Chiesa, la lessicografia e la lingua dei mass media. Per alcuni anni ha studiato pianoforte e canto, sostenendo i relativi esami in Conservatorio. È variamente impegnato in attività di formazione dei giovani e in ambito civile; ha inoltre collaborato, o tuttora collabora, con editori quali Rizzoli e ITL Libri.

Pubblicazioni
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«Parole che fanno ardere i cuori»: lingue e comunicazione di papa Francesco

Ormai da diversi decenni la Chiesa cattolica ha compreso, e legittimato, l’importanza e l’efficacia dei mezzi di comunicazione di massa; una questione fondamentale per un’istituzione che ha per missione la diffusione di un evangelo «fino ai confini della terra» (At 1,8). Anche in conseguenza di questo, la personalità, l’immagine, la capacità comunicativa e le doti massmediatiche dei papi hanno rivestito un ruolo ancor più rilevante che in passato. Inoltre, al parallelo riconoscimento del valore degli idiomi locali anche per la liturgia e per la traduzione dei testi sacri (oltre che, storicamente, per la predicazione e la catechesi) si è più di recente aggiunta una novità che ha interrotto una prassi plurisecolare quasi priva di eccezioni: quella che vedeva succedersi sul soglio petrino solo pontefici di origine italiana.

 

Di papa in papa, la continuità

 

In tale quadro si inserisce la figura di papa Francesco, personalità dirompente che ad indubbie peculiarità associa tratti di continuità rispetto ai suoi più vicini predecessori, come in parte si è già potuto leggere dalle pagine di questo portale (Papale papale: la Parola da Giovanni XXIII a Francesco): Jorge Mario Bergoglio viene infatti spesso definito «papa del dialogo», espressione usata ad esempio per Paolo VI; così come l’umanità paterna di Francesco ricorda da vicino quella del «papa buono» (Giovanni XXIII) e del «papa del sorriso» (Giovanni Paolo I); o ancora, la meritata fama di essere un papa mediatico, che lo ha anche portato nel giugno 2015 ad istituire una Segreteria per la Comunicazione, ricalca quella analoga di Giovanni Paolo II. Assai meno marcate invece, almeno sotto questo profilo, le analogie con l’immediato predecessore Benedetto XVI.

 

Papa Francesco: la comunicazione efficace

 

Ad alcuni anni di distanza valgono ancora, e anzi sono state ulteriormente confermate, le parole che introducevano il ricordato speciale della Lingua Italiana Treccani, quando a proposito dell’allora neo-pontefice era possibile dare solo qualche prima impressione: «Papa Francesco ha colpito e continua a colpire tutti per il senso di autenticità e immediatezza che promana dai suoi gesti e dalle sue parole. Esplicito, chiaro, franco, diretto, papale papale…». Gesti e parole, tra loro complementari e inseparabili, sono dunque fondamentali per comprendere le modalità e l’efficacia della comunicazione di papa Francesco, come lui stesso ha sottolineato a inizio ottobre 2017 alla Piccole Sorelle di Gesù («questo amore di Dio deve esprimersi più nell’evangelizzazione dei gesti che delle parole»): i gesti fisici e simbolici, eloquenti anche in senso etimologico, improntati alla spontaneità, all’umiltà e alla cordialità (iniziando dall’inchino silenzioso per ricevere su di sé la benedizione e la preghiera dei fedeli di Piazza San Pietro al primo apparire dopo la “fumata bianca” del 13 marzo 2013), che si distinguono da quelli più calcolati e televisivi – ancorché ugualmente telegenici – di Giovanni Paolo II; e le parole che, seppur ricche di «misericordia» (sostantivo molto caro a papa Francesco) e di genuina semplicità per essere comprese dai più, all’occorrenza sanno innalzarsi stilisticamente o caricarsi del peso e della veemenza della denuncia per le «inequità» (forma più rara su cui il pontefice insiste molto già a partire dalla sua prima esortazione apostolica, Evangelii Gaudium, una sorta di “magna charta” del suo ministero) che affliggono l’umanità.

 

La fede e la Parola

 

Una caratteristica della comunicazione verbale di papa Francesco è il ricorso a più varietà linguistiche e stilistiche, che vengono variamente declinate e mescolate a seconda del contesto, degli interlocutori e del medium di trasmissione. Per ciò che riguarda gli idiomi classici e biblici che fondano la teologia cattolica si può ricordare quanto l’attuale pontefice ha scritto “a quattro mani” insieme al suo predecessore, anche a dimostrazione del fatto che un ben diverso stile pastorale non è sinonimo di fratture sul piano dottrinale: «La fede è la risposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome. […] La fede capisce che la parola, una realtà apparentemente effimera e passeggera, quando è pronunciata dal Dio fedele diventa quanto di più sicuro e di più incrollabile possa esistere, ciò che rende possibile la continuità del nostro cammino nel tempo. La fede accoglie questa Parola come roccia sicura sulla quale si può costruire con solide fondamenta. Per questo nella Bibbia la fede è indicata con la parola ebraica ’emûnah, derivata dal verbo ’amàn, che nella sua radice significa “sostenere”. Il termine ’emûnah può significare sia la fedeltà di Dio, sia la fede dell’uomo. L’uomo fedele riceve la sua forza dall’affidarsi nelle mani del Dio fedele. Giocando sui due significati della parola – presenti anche nei termini corrispondenti in greco (pistós) e latino (fidelis) –, san Cirillo di Gerusalemme esalterà la dignità del cristiano, che riceve il nome stesso di Dio: ambedue sono chiamati “fedeli”» (Lumen Fidei, nn. 8 e 10).

 

Gesù con i discepoli di Èmmaus

 

A partire da questa convinzione anche metalinguistica, dunque, papa Francesco sfrutta ogni varietà di lingua, e di lingue, per tradurre la Parola della «gioia del Vangelo» nelle parole delle “pecorelle” che gli sono affidate; e come invita i pastori ad immergersi nelle proprie greggi per lasciarsi intridere del loro odore (cfr. EG, n. 24 e l’omelia del 2 aprile 2015), così li esorta a servirsi, sul modello di Gesù con i discepoli di Èmmaus (cfr. Lc 24,13-35), di «parole che fanno ardere i cuori» (cfr. EG, nn. 142-144), dando lui per primo l’esempio. Non è quindi una semplice captatio benevolentiae il ricorso, ad esempio, alle espressioni dialettali. Fin dal suo primo viaggio apostolico in terra italiana, a Lampedusa l’8 luglio del 2013, papa Francesco nell’omelia si è rivolto ai migranti musulmani con la formula «o’ scia’» (‘fiato mio, mio respiro’), il saluto vernacolare con cui sull’isola si esprime il più sincero e profondo affetto interpersonale; e solo quattro mesi più tardi, nel corso di un’udienza generale a Piazza San Pietro, per rimanere alla medesima varietà diatopica, il pontefice ha citato, in italiano, un proverbio siciliano («Megghio ’na vuota arrussicare ca cento vuote aggialliare», ‘meglio arrossire una sola volta che diventare gialli cento volte’), introducendolo con un affettivo e familiare «le nostre mamme e le nostre nonne dicevano».

 

Il cristiano non spuzza

 

Forse più autobiografico, considerate le origini di Bergoglio, quanto pronunciato all’udienza generale del 4 giugno 2014 rispetto ad un’errata idea di «pietà», in cui merita di essere sottolineato ancora l’uso della prima persona plurale: «in piemontese noi diciamo: fare la “mugna quacia”», ‘suora quatta’, espressione analoga alla «madonnina infilzata» di manzoniana memoria. Un sostrato dialettale emerso con un certo risalto mediatico e editoriale quando il papa, parlando a braccio a Scampia nel marzo 2015, si è soffermato anche metalinguisticamente ed enfaticamente su uno dei mali più diffusi della nostra società: «Quanta corruzione c’è nel mondo. È una parola che, se noi la studiamo un po’, è brutta, perché una cosa corrotta è una cosa sporca. Se noi troviamo lì un animale che è morto e si corrompe e è corrotto, è brutto; ma anche spuzza. La corruzione spuzza, e la società corrotta spuzza! Un cristiano che lascia entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano: spuzza!»; intervento concluso con l’augurio decisamente più partenopeo «’A Maronna v’accumpagne!».

 

Pensare in dialetto

 

Con diversa latitudine papa Francesco muta varietà dialettale ma non strategia comunicativa; è così infatti che nel marzo del 2017 ha ricordato al termine dell’Angelus in Piazza San Pietro l’appena conclusasi visita apostolica in terra ambrosiana: «Vi ringrazio tanto, cari milanesi, e vi dirò una cosa: ho constatato che è vero quello che si dice: “A Milan si riceve col coeur in man!”». Né il vescovo di Roma – così ha tenuto a definirsi il pontefice fin dal suo primo discorso – poteva tralasciare l’idioma della sua diocesi, che già aveva portato Giovanni Paolo II, nel febbraio del 2004, a pronunciare davanti ai parroci dell’Urbe qualche espressione in romanesco. Ma papa Francesco si è spinto oltre, considerando quella varietà linguistica (emblema per ogni altra) come uno strumento pastorale e spirituale: «La prima delle chiavi per entrare in questo tema ho voluto chiamarla “in romanesco”: il dialetto proprio dei romani. Non di rado cadiamo nella tentazione di pensare o riflettere sulle cose “in genere”, “in astratto”. Pensare ai problemi, alle situazioni, agli adolescenti… E così, senza accorgercene, cadiamo in pieno nel nominalismo. Vorremmo abbracciare tutto ma non arriviamo a nulla. Oggi su questo tema vi invito a pensare “in dialetto”. […] Non per rinchiudersi e ignorare il resto (siamo sempre italiani), ma per affrontare la riflessione, e persino i momenti di preghiera, con un sano e stimolante realismo. Niente astrazione, niente generalizzazione, niente nominalismo». Parole, dunque, che non siano puri significanti o concetti iperuranici, ma che si carichino di significato e di concretezza, vicino alla spontaneità e alla sfera affettiva dell’uomo.

 

Materno ed ecclesiale

 

Non si tratta peraltro di una novità, perché già nell’Evangelii Gaudium (nn. 139-140) papa Francesco aveva espresso considerazioni analoghe, che a partire dal dato linguistico si rivestivano di una forte valenza pastorale: «Come a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna, così anche nella fede, ci piace che ci si parli in chiave di “cultura materna”, in chiave di dialetto materno (cfr. 2Mac 7,21.27), e il cuore si dispone ad ascoltare meglio. Questa lingua è una tonalità che trasmette coraggio, respiro, forza, impulso. […] Questo ambito materno-ecclesiale in cui si sviluppa il dialogo del Signore con il suo popolo si deve favorire e coltivare mediante la vicinanza cordiale del predicatore, il calore del suo tono di voce, la mansuetudine dello stile delle sue frasi, la gioia dei suoi gesti». Una raccomandazione che il pastore gesuita “padre Bergoglio” si sforza di mettere in pratica per primo.

 

La lingua italiana per la Chiesa nel mondo

 

È significativo anche il rapporto tra la lingua italiana e gli altri idiomi in occasione di eventi internazionali. Anzitutto si rilevano alcune differenze rispetto ai predecessori: ad esempio nel 2015 all’assemblea generale dell’ONU papa Francesco è intervenuto nel “suo” spagnolo, diversamente dall’inglese scelto da Benedetto XVI nel 2008; e mentre Giovanni Paolo II nel 1995 si rivolse in francese ai membri del parlamento europeo, nel 2014 papa Francesco ha optato per l’italiano, lingua con cui comunica anche in altre visite apostoliche presso Paesi di ben diverso idioma: un caso su tutti l’intervento politico-istituzionale del novembre 2017 in Myanmar. Si tratta di scelte analoghe a quelle che l’attuale successore di Pietro effettua quando si rivolge ad interlocutori di diverse nazionalità ma in contesti più squisitamente religiosi. A puro titolo esemplificativo si possono considerare le ultime giornate mondiali della gioventù: mentre a Rio de Janeiro, nel luglio del 2013, papa Francesco ha pronunciato il discorso della veglia e l’omelia in portoghese (altra lingua neolatina), nell’estate del 2016 a Cracovia il pontefice ha optato per l’italiano, riconosciuto evidentemente come la lingua “dell’uso” della Chiesa nel mondo contemporaneo, mentre al latino è ormai attribuita una funzione più tradizionale, istituzionale-liturgica e legata ai documenti pontifici ufficiali. Non è forse azzardato vedere in questo un’affinità con il santo di cui il papa ha scelto il nome, che ha avuto un ruolo non irrilevante proprio nella diffusione di un volgare italiano anche grazie a quel Cantico delle creature a cui l’attuale pontefice si è ispirato per l’enciclica del 2015 (Laudato si’).

 

Cor ad cor loquitur

 

Un poliglottismo e un’attenzione alla nostra lingua che papa Francesco condivide dunque con i suoi immediati predecessori stranieri (sempre che l’aggettivo sia pertinente in riferimento al pastore della Chiesa universale); così come con essi condivide, quando parla in italiano, un’assai percepibile, ma non imbarazzata, cadenza intonativa e fonetica che ne palesa la provenienza. Ma tutto ciò non è sfruttato per sfoggio di erudizione, quanto piuttosto per ricondurre ad unità pentecostale, o almeno ad un unico fine, la molteplicità babelica delle lingue e della cultura umane, come spiegato dallo stesso pontefice agli studenti e al mondo universitario di Bologna nell’ottobre 2017, ancora una volta con un’esplicita sottolineatura etimologica: «Cultura – lo dice la parola – è ciò che coltiva, che fa crescere l’umano. E davanti a tanto lamento e clamore che ci circonda, oggi non abbiamo bisogno di chi si sfoga strillando, ma di chi promuove buona cultura. Ci servono parole che raggiungano le menti e dispongano i cuori, non urla dirette allo stomaco. Non accontentiamoci di assecondare l’audience; non seguiamo i teatrini dell’indignazione che spesso nascondono grandi egoismi; dedichiamoci con passione all’educazione, cioè a “trarre fuori” il meglio da ciascuno per il bene di tutti».

Una comunicazione, dunque, improntata al dialogo e alla prossimità umana, in cui lo scambio reciproco di parole pronunciate e ascoltate è reso chiaro e fecondo perché basato sull’unica lingua universale, quella del cuore: cor ad cor loquitur, secondo l’espressione di un santo omonimo dell’assisiate, Francesco di Sales, dottore della Chiesa e patrono di diversi professionisti legati al mondo della comunicazione; oltre che del Piemonte, la regione originaria della famiglia Bergoglio.

 

Letture

Per gli scritti e gli interventi ufficiali di papa Francesco si rimanda al sito www.vatican.va, ma anche ai relativi video privi delle correzioni e delle modifiche della mediazione editoriale.

Daniela Saresella (a cura di), La lingua italiana nel mondo attraverso l’opera delle Congregazioni religiose, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001.

Rosarita Digregorio, Contributi alla ricostruzione della politica linguistica della Chiesa cattolica italiana postconciliare, in «Studi linguistici italiani», 29, 2003, pp. 49-117.

Massimo Arcangeli (a cura di), L’italiano nella Chiesa fra passato e presente, Torino, Allemandi, 2010.

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Franco Pierno, Chiesa cattolica e politiche linguistiche post-conciliari, ivi, pp. 357-376.

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AA.VV., Papale papale. La Parola da Giovanni XXIII a Francesco, speciale «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line.

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Claudio Marazzini, La lingua italiana. Storia, testi, strumenti, Bologna, il Mulino, 20152.

Tommaso Stenico, Il vocabolario di papa Francesco, Reggio Emilia, Imprimatur, 2015.

Lodovica Maria Zanet, Le parole di papa Francesco, Bologna, EDB, 2015.

Antonio Carriero (a cura di), Il vocabolario di papa Francesco, Torino, Elledici, 2016, 2 voll.

Salvatore Claudio Sgroi, Il linguaggio di papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2016.

Dario Edoardo Viganò, Fratelli e sorelle, buonasera. Papa Francesco e la comunicazione, Roma, Carocci, 2016.

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Colpa, vendetta, passione e sacrificio: la lingua e la caratterizzazione drammaturgica di Norma

 

Per scrivere il libretto dell’opera che avrebbe inaugurato la nuova stagione del Teatro alla Scala di Milano nel dicembre del 1831, Vincenzo Bellini decise di rivolgersi ancora al suo librettista di fiducia, Felice Romani, con cui aveva iniziato a collaborare nel 1827 per Il pirata e con cui aveva, in quello stesso 1831 e sempre a Milano, ottenuto un nuovo successo con La sonnambula. Romani, attivo da quasi un ventennio, godeva già di ottima fama come poeta per musica, e per questo i suoi libretti erano già stati e poi ancora sarebbero stati commissionati e musicati dai più importanti teatri e dai più noti compositori dell’epoca.

Di formazione classicista, Romani contrastò apertamente l’avvento del Romanticismo, restandone però profondamente (e forse inconsapevolmente) influenzato: è per questo che se da un lato i suoi melodrammi esprimono passioni, delineano personaggi e ritraggono ambientazioni che sono già a pieno titolo ascrivibili alla nuova corrente artistico-culturale ottocentesca, dall’altro lato lo stile poetico elevato e il rispetto di alcune prassi drammaturgiche risentono ancora appieno del retaggio della tradizione letteraria precedente. In questo, Norma non costituisce un’eccezione.

 

Sacro e profano

La sacerdotessa del dio gallico Irminsul mostra subito agli spettatori, nella quarta scena del primo atto, la sua sfaccettata caratterizzazione interiore e sociale. Dapprima si pone in modo ieratico e autorevole, quasi autoritario, per frenare i desideri bellicosi e vendicativi dei druidi e del loro popolo sottomesso ai Romani; e lo fa – nel recitativo – servendosi di una lingua fortemente aulica e sostenuta, imbevuta di arcaismi e di preziosismi poetico-retorici: lo si constata già a partire dal primo settenario, Sedizïose voci, dove l’aggettivo non solo contempla la presenza della dieresi, ma è anche riconducibile a un registro più ricercato e precede il sostantivo; sostantivo che viene ripreso all’inizio dell’endecasillabo seguente, creando così un’anadiplosi. Iuncturae letterarie analoghe di sostantivo e aggettivo (o viceversa) sono poi, sempre in questo recitativo, fato arcano, sicambre scuri (con cui Norma si riferisce alle armi dei Galli, contrapposte ai più forti pili romani), superba Roma, ora fatal, gran decreto.

Anche i livelli della morfosintassi e della sintassi si attestano sul medesimo piano stilistico: il destino e la città di Roma vengono personificati e designati con le forme pronominali soggetto Ei ed Ella, al posto del verbo ‘esserci’ si preferisce le forma v’ha, e per il verbo ‘avere’ si opta per la forma enclitica avvi; le inversioni poetiche e latineggianti coinvolgono poi sia singoli elementi logici sia la più ampia struttura delle frasi (Ancor non sono / Della nostra vendetta i dì maturi; in pagine di morte / Della superba Roma è scritto il nome). O ancora, la protagonista inizialmente fa riferimento a se stessa e alla sua autorità religiosa impiegando la terza persona singolare col nome proprio e la carica sacra ricoperta (veggente Norma), per poi passare a una prima persona singolare che attraverso l’uso non necessario del pronome io (nel secondo caso pleonastico anche dal punto di vista metrico) vuole marcare a chi spetta far conoscere e far rispettare gli ordini impartiti dagli dèi.

Ben più pacato è il linguaggio di Norma quando, nella celeberrima Casta Diva, la sacerdotessa si rivolge in preghiera alla luna; ma già quel vocativo d’attacco per riferirsi al corpo celeste dimostra come lo stile resti poetico e ricercato. Un registro confermato da altri elementi linguistici come, sotto il profilo lessicale, l’impiego del verbo parasintetico inargenti o dell’espressione già ad esempio dantesca bel sembiante (con sostantivo di origine provenzale), o come, dal punto di vista fonomorfologico, l’opzione per la tradizionale forma monottongata cori, o ancora, per ciò che concerne l’elaborazione retorico-sintattica, la dittologia aggettivale di sacre antiche piante, la coppia Senza nube e senza vel e l’anafora tra l’ultimo verso della prima quartina e il primo della seconda strofa sempre di ottonari dell’imperativo Tempra. Dopo il breve dialogo col coro che subito segue e in cui ritorna la Norma altera vista all’inizio (non si può qui fare a meno di citare il sintagma altamente poetico druïdico delubro, con cui la protagonista denomina il tempio dei Galli), il personaggio vira verso tutt’altro sentimento, tenuto però nascosto agli interlocutori: la breve cabaletta in settenari che chiude la scena è infatti incentrata sul fido amor primiero che Norma prova per il Proconsole romano (l’amante segreto Pollione) e che provoca un’antitesi tra la dichiarazione pubblica della donna Sì, cadrà… punirlo io posso… e ciò che invece essa realmente prova (Ma punirlo il cor non sa. […] E contro il mondo intiero / Difesa a te sarò).

 

Rivali, ingannate e solidali

Nell’ottava scena del primo atto e nella terza del secondo il personaggio eponimo interloquisce a quattr’occhi con Adalgisa, una più giovane ministra del tempio di Irminsul, nuova fiamma (corrisposta) del fedifrago Pollione, senza però naturalmente che le due donne siano già al corrente di questo spiacevole intrico. Durante il primo dialogo Adalgisa confessa a Norma la propria fragilità e il proprio turbamento, sentendosi rivolgere degli accenti di compassione e di affetto sin qui non ancora uditi dalla bocca della protagonista, che in quel racconto rivive il suo stesso innamoramento: lo dimostrano, tra l’altro, il vocativo con vezzeggiativo o giovinetta, l’imperativo (con pronome proclitico, secondo l’uso più poetico) Mi abbraccia, l’esclamazione di compartecipazione Ahi! sventurata!, fino alla dichiarazione Ah! Tergi il pianto: / Alma non trovi di pietade avara (dove ancora emergono le scelte stilistiche iperletterarie dei diversi livelli della lingua), a cui segue la promessa da parte della sacerdotessa di liberare la giovane da ogni vincolo religioso perché Perdono e ti compiango. Peccato che, una volta svelato chi sia l’uomo coinvolto in tale amore, la furia di Norma si scateni verso di lui, nel frattempo giunto in scena, in modo violento e brutale.

Nel secondo dialogo tra le donne i ruoli si invertono. Riprendendo in anadiplosi l’ultima parola della domanda di Adalgisa (Qual ti copre il volto / Tristo pallor?), Norma esprime la sua condizione facendo ricorso a parallelismi e allusioni, oltre che alle ormai consuete scelte linguistiche elevate: Pallor di morte. Io tutta / L’onta mia ti rivelo. A me prostrata / Eri tu dianzi… a te mi prostro adesso, / E questi figli… e sai di chi son figli… / Nelle tue braccia io pongo. La preoccupazione della protagonista è tutta rivolta ai figli, per i quali Norma implora la protezione di Adalgisa – che immagina in partenza per Roma insieme a Pollione – con ripetizioni e forme di accumulo: Deh! con te, con te li prendi… / Li sostieni, li difendi… [ancora con l’imperativo proclitico, dunque] […] Prego sol che i miei non lasci / Schiavi, abbietti, abbandonati. Ma Adalgisa, ormai delusa da Pollione, riesce a far desistere Norma dal suo proposito e le due, da iniziali inconsapevoli e incolpevoli rivali, finiscono per dichiararsi reciproco sostegno in una stretta di settenari in cui ancora abbondano inversioni, scelte sinonimiche culte, opzioni fonomorfologiche poetiche ed enfasi retorica: Sì, fino all’ore estreme / Compagna tua m’avrai: / Per ricovrarci insieme / Ampia è la terra assai. / Teco del Fato all’onte / Ferma opporrò la fronte, / Finché il mio core a battere / Io senta sul tuo cor.

 

Un’eroina tra Medea e Didone

Prima di questi ultimi avvenimenti però, all’inizio del secondo atto, l’intenzione di Norma era ben altra. Convinta della pessima sorte che i figli avrebbero subìto sia che fossero rimasti con lei in Gallia sia che fossero partiti con Pollione (da cui il parallelismo, con tanto di forma poetica del condizionale e di conclusione in un’essenziale sintagma nominale: Qui supplizio, e in Roma / Obbrobrio avrian, peggior supplizio assai… / Schiavi d’una matrigna), il suo obiettivo sarebbe stato quello di eliminarli. Il travaglio psicologico di un momento così drammatico è stato reso da Romani con grande sottigliezza poetica: la presa di coscienza da parte di Norma di quanto lei stessa avrebbe compiuto passa da un generico e quasi argomentativo Viver non ponno ad un esortativo che non esplicita né il soggetto né l’agente dell’azione Muoiano, sì, per poi sfociare nella consapevolezza della prima persona singolare I figli uccido! […] Io, io li svenerò!. Solo l’idea della vendetta fa per un attimo retrocedere Norma verso il proposito iniziale (Di Pollïon son figli: / Ecco il delitto. Essi per me son morti; / Muojan per lui: n’abbia rimorso il crudo); ma alla fine nemmeno l’uso di una prima persona plurale poetica tramite la quale la donna sembra non voler assumere su sé sola la responsabilità di tanta crudeltà (Feriam…, appunto con dei puntini di sospensione e non con un più deciso punto esclamativo) può dissimulare e giustificare quanto sta per accadere: ed è allora, solo alla fine di tutto, che, con un’inorridita esclamazione in chiasmo, Norma pronuncia le parole chiave di questa lunga e intensissima scena interamente svolta in forma di recitativo: Ah! no… son figli miei!... miei figli!. E infatti, proprio per rimuovere dalla sua mente la verità ed esorcizzare così il gesto inumano che avrebbe voluto compiere, in questo passo la protagonista pronuncia la parola figli solo a partire dall’ottavo verso, riferendosi prima ad essi esclusivamente con delle generiche terze persone plurali.

Avvicinandosi la conclusione dell’opera, nella scena decima del secondo atto, Norma svela a Pollione quanto stava per compiere e si dice pronta a trovare ancora il coraggio per farlo; ma gli ottonari sintatticamente franti e nel complesso semplici che pronuncia non sembrano esprimere un’effettiva determinazione in tal senso, quanto piuttosto un misto di furore, confusione e titubanza: Sì, sovr’essi alzai la punta… / Vedi… vedi… a che son giunta!… / Non ferii, ma tosto… adesso / Consumar poss’io l’eccesso… / Un istante… e d’esser madre / Mi poss’io dimenticar. Infine, al momento estremo del sacrificio, quando Norma si autoaccusa pubblicamente (assolvendo così Adalgisa) e si appresta a espiare la sua colpa gettandosi nel rogo purificatore, viene di nuovo assalita dalla preoccupazione per le sue creature: quelli che inizialmente vengono menzionati come Cielo! e i miei figli?, al verso successivo – dopo la reazione accorata di Pollione che solo tardivamente si ravvede – diventano I nostri figli; già, perché a quel punto la protagonista deve anche confessare a tutti, e soprattutto al padre, costernato, Son madre, onde non lasciare abbandonata la propria prole. Ma per convincere il riluttante Oroveso a prendersi cura di quei bambini deve essere di nuovo rimossa la figura del loro padre straniero, nemico, sacrilego e fedifrago: Clotilde ha i figli miei… / Tu li raccogli… e ai barbari / L’invola insiem con lei…; ed è solamente facendo leva sulla forza naturale dell’amore per la propria discendenza che Norma, servendosi di una ripetizione in chiasmo, ottiene da Oroveso che questo suo desiderio venga esaudito: Pensa che son tuo sangue… / Del sangue tuo pietà. Solo a quel punto la sacerdotessa può dirigersi serenamente al suicidio, nella speranza che da esso possa finalmente scaturire – con formula tipica della langue melodrammatica – un eterno amor.

 

Bibliografia

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Fabio Rossi, L’opera italiana: lingua e linguaggio, Carocci, Roma, 2018.

Fabrizio Della Seta, Bellini, Il Saggiatore, Milano, 2022.

 

 

Immagine: Scenografia conservata al Museo Belliniano, via Wikimedia Commons

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Semiramide: regina, moglie e madre tra passioni, dolori, colpe e riscatto

 

Basato sulla tragedia di Voltaire, il libretto di Semiramide che Gaetano Rossi scrisse per Gioachino Rossini in vista della messinscena veneziana del 1823 sviluppa alcuni tratti della regina assira facendo di essa un personaggio psicologicamente e drammaturgicamente sfaccettato: una complessità maggiore non solo rispetto ad altre riduzioni che prediligevano solamente uno dei diversi (e non univoci) elementi della tradizione storico-narrativa legati a questa figura femminile, ma, soprattutto, rispetto alla più comune prassi del teatro melodrammatico dell’epoca. In particolare, analizzando le scene IX-XI del primo atto e le scene III e VII del secondo è possibile, anche mediante un approccio linguistico, seguire l’evoluzione dei sentimenti e la caratterizzazione drammaturgica di questo personaggio.

 

Non si dà follia maggiore dell’amare un solo oggetto

Nonostante l’ovvia importanza di Semiramide nell’opera, il suo primo intervento in scena non è particolarmente significativo, perché condiviso con altri personaggi. Spetta dunque al suo primo (e unico) brano solistico presentare la regina assira, in un momento di passaggio emotivo tra due sentimenti contrastanti: vengono infatti lasciati alle spalle il duol, il terror e il tormento precedenti (associati all’alma che, in perfetto tricolon all’interno di un intero verso, gemè, tremò, languì) per dare invece spazio alla speme, al piacer, alla calma dell’amor che il ritorno di Arsace fa vivere metaforicamente a Semiramide come un bel raggio lusinghier. Ma merita di essere sottolineata soprattutto l’espressione ambigua pura voluttà, in parte già anticipata dal coro introduttivo della scena: essa può essere considerata ossimorica, se all’aggettivo si attribuisce un’accezione di morigeratezza, o – forse più probabilmente – come un cenno esplicito, anche se non troppo enfatizzato nel corso dell’opera, alla lussuria per cui è rimasta appunto famosa colei «che – per dirla con Dante – libito fé licito in sua legge», dato che anche a quell’altezza cronologica il sostantivo era ricondotto in primo luogo al piacere sessuale (ne è un esempio emblematico la Violetta verdiana).

Sotto il profilo metrico è da segnalare per la prima parte della scena e dell’aria l’influenza dell’esempio cesarottiano, sia per quanto riguarda una più libera estensione delle strofe, sia, soprattutto, per i quinari tronchi a fine strofa che, distinguendosi dai settenari in cui si inseriscono, danno maggior enfasi al concetto chiave del ritorno di Arsace (Qui/Sì, a te/me verrà); e tronchi sono anche tutti i settenari cantati prima dalla sola Semiramide e poi da lei insieme con il coro. Più tradizionale invece la cabaletta, che si sviluppa su due quartine di quinari i quali si chiudono con la coppia di rimanti (per altro già comparsa poco sopra) più inflazionata di sempre, non solo in ambito librettistico: quella dei sostantivi cor (col monottongo poetico trecentesco) e amor.

 

L’equivoco stravagante

Dopo un momento di iniziale timore e turbamento per il possibile responso dell’atteso oracolo divino reso da una sintassi franta, breve, talvolta nominale e paratattica con insistenza sulla congiunzione copulativa e sui puntini di sospensione associati al punto esclamativo (La mano, il cor mi tremano – e se mai!… / E se quell’ombra!… e se novelli orrori!… / E il ciel! – da tanta angustia escasi omai), Semiramide incontra finalmente Arsace. Le didascalie di espressione segnalate nel libretto (sempre con marcata dolcezza, marcata e tenera, marcata, con tenerezza, con espressione per lei, con pena, con forza, con gioja, timido, con entusiasmo, con foco per lui) mostrano esplicitamente gli atteggiamenti dei personaggi, ma anche il fatto che essi non si trovano sulla stessa lunghezza d’onda e che si stanno reciprocamente fraintendendo.

Del resto il loro dialogo si avvia chiarendo proprio un’incomprensione, che contrappone alle frasi titubanti e discrete di Arsace le più dirette esortazioni di Semiramide: A.: La più bella speranza / Lusingava il mio cor… Ma! – S.: A che t’arresti?, A.: Odo […] Che in tal giorno / Da te nomato un successore… – S.: Ebbene!. Poi la regina interviene interrompendo, completando o ribattendo alle affermazioni del suo interlocutore: A.: Ah! Dunque lo conosci? – S.: E il vuò punire. – A.: Oh! Se così d’Arsace / Tu conoscessi il core! – S.: Io ne conosco già la fè, il candore… – A.: Ma non son che un guerriero! – S.: E un guerrier qual tu sei di quest’impero / È il più nobil sostengo, A.: Saprò morir per te. – S.: No: tu per me vivrai… Ma nel momento del dialogo in cui sarebbe opportuno essere espliciti, i due personaggi si servono di una pragmatica comunicativa fatta di sottintesi, allusioni, reticenze e interpretazioni soggettive del pensiero altrui: ecco allora che nasce l’equivoco per cui Semiramide si convince di essere contraccambiata nell’amore da Arsace, mentre questi presume che la regina gli concederà la mano dell’amata Azema. Da qui il paradosso: il duetto si conclude con i due personaggi che intonano gli stessi versi, illudendosi di coronare presto ciascuno il proprio sogno come fosse anche quello altrui; si tratta di una sestina di settenari con versi dispari sdruccioli in cui singoli vocaboli, iuncturae ed espressioni (in qualche caso tradizionali) esprimono tutto il languore estatico del momento: care immagini, di pace e di contento, s’abbandona l’anima, bel momento, dolci palpiti.

 

Cessa di più resistere

Un ben diverso tratto caratteriale di Semiramide emerge nello scontro che la regina ingaggia col protervo e ambizioso Assur, già suo complice nell’uccisione del marito Nino e per un breve periodo suo amante, e convinto per questo di essere ricompensato con un matrimonio che gli avrebbe garantito anche il potere. Qui la protagonista sfoggia tutta la sua risolutezza e la piena consapevolezza delle proprie prerogative regali: si incontrano imperativi ed esortazioni (Taci!, Va[], t’invola, con la tipica forma proclitica del pronome in stile tragico, dei tremarne, adora, senti, trema), si apostrofa l’interlocutore con epiteti spregiativi (perfido, traditor, spietato), si menzionano le bassezze morali dell’interlocutore (l’arti tue vili, e fallaci), fino ad arrivare a formulare minacce esplicite (Regina, e guerriera / Punirti saprò, Tu, trema, spietato, / Cader ti vedrò).

Il tutto si svolge con una sostenutezza di dettato che pervade ogni livello della lingua poetica. A puro titolo dimostrativo basterà citare l’insistenza dei passati remoti (compresa la forma, già dantesca, del perfetto etimologico e del fiorentino antico fur per ‘furono’) riferiti anche ad azioni vicine nel tempo e le cui conseguenze sono ancora ben vive nel presente, la predilezione per varianti lessicali sinonimiche più auliche e ricercate (paventi, ardisci, talamo, soglio, pingevi, perì, t’invola, consorte, infra, ognor, concenti, primiera, bramato), le opzioni fonomorfologiche e morfosintattiche più poeticamente marcate (l’ellissi dell’articolo in morte versasti e in t’invola a sguardi miei, il pronome soggetto di terza persona singolare ei, il pronome oggetto anteposto proclitico me e il dileguo della labiodentale in seduceano, il pronome interrogativo neutro che), le inversioni sintattiche più o meno insistite (Me di Nino / Dal talamo, dal soglio / Già scacciata pingevi, Al figlio mio del mondo / L’impero io cederei, Ma, implacabile di Nino / Non è l’ombra, né il destino, con concordanza a senso data dalla posposizione dei due soggetti), alcuni preziosismi metrici come l’enjambement di ombra / irritata o le rime in recitativo allora / ancora e cederei / perdei (rimalmezzo), oltre alle numerose coppie (sacri, irrevocabili, la vedesti pur… l’udisti l’ombra con dislocazione a destra, vili, e fallaci, dal talamo, dal soglio, Notte terribile! Notte di morte! in sintassi nominale, Questa gioja!… que’ concenti! ancora in stile nominale, del mio sposo, del tuo re, regina, e guerriera, felice, bramato) che si ampliano ulteriormente nell’accumulo I miei spaventi… / I miei tormenti, / Le angoscie, i palpiti.

 

No, che il morir non è sì barbaro per me, se moro per amor

Nel secondo dialogo tra Semiramide e Arsace vengono messe in luce entrambe le caratteristiche della regina viste nelle scene precedenti: da un lato la passione amorosa (sia, inizialmente, sponsale e carnale, sia, quando poi avviene l’agnizione, materna) fatta di tenerezza e premura, dall’altro lato la determinazione che svela la forza imperiosa ma anche il coraggio della protagonista. In una scena che si apre come in medias res, proseguendo uno scambio verbale già avviato e con la perentorietà della negazione (No: non ti lascio. – Invano / Cerchi fuggirmi), risaltano ancora gli imperativi e gli esortativi o gli ottativi di Semiramide, sia quelli pronunciati per rabbonire l’agitato Arsace e per indurlo a ottemperare ai suoi nuovi doveri di marito e di sovrano (ti mostra, ti miri, frema, calmati), sia quelli con cui la regina impone la sua volontà nei confronti dell’interlocutore (porgilo, obbedisci: lo voglio), sia quelli che – una volta scoperta la vera identità di Arsace, ovvero del figlio Ninia – costituiscono la marca drammaturgico-poetica su cui è intessuto l’avvio del duetto vero e proprio, durante il quale la protagonista ammette le sue colpe atroci ed è disposta a trarne le conseguenze: Ebbene… a te: ferisci: / Compi il voler d’un Dio: / Spegni nel sangue mio / Un esecrato amor: / Vendica il genitor; e poi ancora subito dopo, incontrata la resistenza del figlio, M’odia… lo merto: / […] Io già m’abborro – Svenami.

In Ninia però prevale l’amore filiale, e i due personaggi si abbracciano cantando ancora gli stessi versi, come visto nel primo atto, ma qui senza più fraintendimenti: le due strofe di quinari si aprono con un’antitesi nominale tipicamente melodrammatica (Giorno d’orrore!… / E di contento!), per sciogliersi in un momento di commozione che, senza dimenticare i dolori sofferti e la criticità della situazione (rigore, terribile fatalità in enjambement), esprime con un’affermazione quasi gnomica e in tricolon la pace di un ritrovato equilibrio emotivo (È dolce al misero / Che oppresso geme, / Il duol dividere, / Piangere insieme, / In cor sensibile / Trovar pietà). Ma di nuovo, poi, Semiramide e Ninia procedono con obiettivi diversi e con reciproche incomprensioni, pur nell’impiego di parole analoghe, di medesimi rimanti e di un ultimo distico cantato assieme: per cui mentre lui si accinge ad andare a uccidere Assur per vendicare il padre, lei – temendo invece che possa essere il figlio ad avere la peggio – decide di seguirlo di nascosto anteponendo ancora il coraggio e la consapevolezza della propria colpa (Ah! sperar non so perdono, / Troppo giusto è il suo furor) al rischio che andrà a correre. E sarà proprio a causa di un ulteriore malinteso, causato dall’oscurità, che Ninia – suo malgrado novello Oreste – finirà per trafiggere la madre invece di Assur.

 

 

Bibliografia

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Cesare Questa, Semiramide redenta. Archetipi, fonti classiche, censure antropologiche nel melodramma, QuattroVenti, Urbino, 1989.

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Semiramis. Rossini, «L’Avant-scène opéra», 184, 1998.

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Andrea Chegai, Rossini, Il Saggiatore, Milano, 2022.

 

Immagine: Rossini - Semiramide - Paris 1825 - Hippolyte Lecomte - Semiramis 1er Costume (Mdme Fodor), attraverso Wikimedia Commons

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Una lingua (in) marcia

 

Evento chiave e fulcro della mitologia fascista, la Marcia su Roma non vide, com’è noto, una partecipazione diretta da parte di Benito Mussolini, pronto piuttosto ad agire e a spostarsi in base a come le circostanze e le opportunità del momento gli avrebbero consigliato; ed è significativo che a questa sua assenza fisica ne corrisponda – se si fa eccezione per i due Proclami firmati dal Quadriumvirato fascista pubblicati il 29 e il 31 ottobre 1922 – una verbale sull’organo di stampa ufficiale del Partito Nazionale Fascista fondato e diretto da Mussolini stesso: Il Popolo d’Italia. Astuto e abile uomo politico e giornalista, il Duce volle evidentemente calibrare con la massima accortezza la sua esposizione mediatica in un momento tanto delicato, che poteva determinare – come poi purtroppo fu – il trionfo del suo progetto ma anche il definitivo fallimento dello stesso.

È allora interessante rileggere le parole pronunciate da Mussolini alla vigilia della Marcia su Roma e riportate appunto sul Popolo d’Italia, integrandole, all’occorrenza, con il primo successivo discorso del Duce comparso su quella testata qualche giorno dopo: si tratta, nel primo caso, del comizio tenuto da Mussolini in occasione della grande adunata delle Camicie nere svoltasi a Napoli il 24 ottobre 1922 (prova generale e preludio di quanto sarebbe avvenuto nella capitale) e, nel secondo, dell’intervento (passato poi alla storia come il «discorso del bivacco») pronunciato alla Camera dei Deputati il 16 novembre per la presentazione del nuovo Governo. Più che aspetti linguistico-grammaticali specifici, meritano di essere rilevate talune strategie retoriche e talune argomentazioni che emergono da tali parole: da un lato Mussolini, specie prima della marcia, intendeva fornire di sé e del suo movimento un’immagine anche rassicurante; ma dall’altro lato non nascondeva la portata già chiaramente autoritaria e illiberale del regime che voleva instaurare.

 

«Quella vana modestia che qualche volta è il paravento degli imbecilli»

Mussolini, pur ben consapevole del contrario e delle sue indubbie doti al riguardo, si presentò agli uditori napoletani quasi in tono dimesso, simulando una semplicità del dire che non corrispondeva a quello per cui egli si era già da tempo distinto quale militare, politico socialista, giornalista e trascinatore di folle:

 

«Può darsi, anzi è quasi certo, che il mio genere di eloquenza determini in voi un senso di delusione, in voi che siete abituati alla foga immaginosa e ricca della vostra oratoria. Ma io, da quando mi sono accorto che era impossibile torcere il collo alla eloquenza, mi sono detto che era necessario ridurla alle sue linee schematiche ed essenziali. […] Voi certamente non potete pretendere da me quello che si continua a chiamare il grande discorso politico. Ne ho fatto uno a Udine, un altro a Cremona, un terzo a Milano. Ho quasi vergogna di parlare ancora».

 

In quella circostanza le metafore, le allusioni e le espressioni figurate impiegate dall’oratore risultarono in effetti talvolta abbastanza comuni e poco ricercate, sebbene non prive di chiarezza e di efficacia: «Insomma noi siamo al punto in cui la freccia si parte dall’arco, o la corda troppo tesa dell’arco si spezza», «Noi, fascisti, non intendiamo di andare al potere per la porta di servizio», «vedo il fascismo che raccoglie e coordina tutte queste energie, che disinfetta certi ambienti», o anche, con rimando veterotestamentario, «noi, fascisti, non intendiamo di rinunciare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un piatto di lenticchie ministeriali». Ma, a dimostrazione del fatto che la declaratio humilitatis iniziale era un mero stratagemma retorico, e non rinunciando anzi a scagliarsi contro «quella vana modestia che qualche volta è il paravento degli imbecilli», a Napoli Mussolini si esibì anche in passaggi contraddistinti dalla sua preclara enfasi oratoria, speculativa e sintattica, con suggestioni misticheggianti:

 

«Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà nel fatto che è un pungolo, che è speranza, che è fede, che è coraggio. Il nostro mito è la Nazione, il nostro mito è la grandezza della Nazione. E a questo mito, a questa grandezza, che noi vogliamo tradurre in una realtà completa, noi subordiniamo tutto il resto. Per noi la nazione è soprattutto spirito e non è soltanto territorio».

 

«Facciamo del bene a chi ci fa del bene, del male a chi ci fa del male»

Con l’intento di non allarmare oltre misura certa opinione pubblica e certa classe dirigente (compresi naturalmente la monarchia e gli alti gradi dell’esercito regolare), Mussolini offriva una narrazione che raccontava fatti e intenzioni dello squadrismo come fossero mossi da obiettivi pacifici e pacificatori. Già a Napoli il Duce aveva esortato i convenuti affinché non si scatenasse «nessun incidente, neppure minimo, […], poiché, oltre che delittuoso, sarebbe anche enormemente stupido»; ma più ancora nel primo discorso parlamentare in veste di capo del Governo Mussolini presentò la sua azione eversiva in termini di assennatezza e perfino di benevola moderazione:

 

«Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non vi abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo [assai significativa questa chiosa…], voluto. Gli avversari sono rimasti nei loro rifugi: ne sono tranquillamente usciti, ed hanno ottenuto libera circolazione».

 

Ma la visione del bene e del male, e dunque una loro possibile mediazione, restava unilaterale e autoreferenziale, compendiata da un’affermazione che contraddiceva il principio evangelico di Lc 6,27-36 e che richiamava piuttosto la più antica legge del taglione: «facciamo del bene a chi ci fa del bene, del male a chi ci fa del male»; «noi siamo per la pacificazione, noi vorremmo vedere tutti gli italiani adottare il minimo comune denominatore che rende possibile la convivenza civile; ma d’altra parte non possiamo sacrificare i nostri diritti, gli interessi della Nazione, l’avvenire della Nazione a dei criteri soltanto di pacificazione che noi proponiamo con lealtà, ma che non sono accettati con altrettanta lealtà dalla parte avversa. Pace con coloro che vogliono veramente pace; ma con coloro che insidiano noi, e, soprattutto, insidiano la Nazione, non ci può essere pace se non dopo la vittoria».

Non per nulla, alla fine, il terreno di scontro su cui confrontarsi e per cui vincere non era quello dell’idealità e della democrazia, ma quello della violenza e delle formazioni armate che esulavano da quelle ufficiali dello Stato: «tutte le volte nella storia, quando si determinano dei forti contrasti di interessi e d’idee, è la forza che all’ultimo decide. Ecco perché noi abbiamo raccolte e potentemente inquadrate e ferreamente disciplinate le nostre legioni: perché se l’urto dovesse decidersi sul terreno della forza, la vittoria tocchi a noi».

 

«Ciò che ci divide dalla democrazia è la nostra mentalità, è il nostro metodo»

Una tale concezione politica e dialettica non poteva che basarsi sulla delegittimazione e sullo screditamento aprioristico degli avversari e di tutto ciò che non collimava con il pensiero e la prassi del fascismo; abbondano infatti a Napoli parole, espressioni e frasi come «solo la concezione assurdamente e falsamente democratica della guerra poté impedire che i nostri battaglioni vittoriosi sfilassero sul ring di Vienna e per le arterie di Budapest», «ostilità sorda e sotterranea che traeva le sue origini dagli equivoci e dalle infamie che caratterizzano l’indeterminato mondo politico della capitale», «paralisi completa dello Stato italiano», «il deficiente Governo che siede a Roma, ove accanto al galantomismo bonario ed inutile dell’on. Facta stanno tre anime nere della reazione antifascista… alludo ai signori Taddei, Amendola ed Alessio… questo Governo mette il problema sul terreno della pubblica sicurezza e dell’ordine pubblico», «Abbiamo chiesto che lo Stato esca dalla sua neutralità grottesca, conservata fra le forze della Nazione e le forze dell’antinazione», «Che cosa si è risposto? Nulla! Peggio ancora, si è risposto in un modo ridicolo. […] Si è fatto un computo meschino delle nostre forze, […] come se ciò, dopo le prove più o meno miserevoli della guerra, non fosse il colmo di ogni umano e politico assurdo», «incrostazioni parassitarie del passato», «Questa mitologia della bassa letteratura socialista noi la respingiamo», «E allora si comprende perfettamente che i governanti di Roma cerchino di creare degli equivoci e dei diversivi». Fino ad arrivare a criticare, durante il discorso di novembre alla Camera, le «stracche arterie dello Stato parlamentare» e chi avrebbe potuto più che legittimamente eccepire in merito a come era stato costituito il nuovo Governo: «Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo, il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò».

Ma la legittimazione dell’avversario e il confronto civile in seno alle istituzioni rappresentative della volontà popolare sono alla base del sistema democratico; un sistema a cui però fin dal discorso di Napoli Mussolini dichiarò di non sentirsi vincolato (fingendo invece così, scaltramente, di non mettere in discussione la monarchia sabauda), usando al riguardo anche i suoi tipici toni denigratori:

 

«Il Parlamento, o signori, e tutto l’armamentario della democrazia, non hanno niente a che vedere con l’istituto monarchico. Non solo, ma si aggiunga che noi non vogliamo togliere al popolo il suo giocattolo (il Parlamento). Diciamo giocattolo perché gran parte del popolo italiano lo stima per tale. Mi sapete voi dire, per esempio, perché su undici milioni di elettori ce ne sono sei che se ne infischiano di votare? Potrebbe darsi, però, che se domani si strappasse loro il giocattolo, se ne mostrerebbero dispiacenti. Ma noi non lo strapperemo. In fondo ciò che ci divide dalla democrazia è la nostra mentalità, è il nostro metodo. La democrazia crede che i principii siano immutabili in quanto che siano applicabili in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni evenienza. Noi non crediamo che la storia si ripeta, noi non crediamo che la storia sia un itinerario obbligato, noi non crediamo che dopo la democrazia debba venire la superdemocrazia. Se la democrazia è stata utile ed efficace per la Nazione nel secolo XIX, può darsi che nel secolo XX sia qualche altra forma politica che potenzii di più la comunione della società nazionale».

 

Parole che se da un lato evocano l’arguta e tuttora valida affermazione pronunciata da chi Mussolini lo sconfisse (Winston Churchill, l’11 novembre 1947 alla Camera dei Comuni), dall’altro sgombrano il campo, se ancora ce ne fosse bisogno, dall’equivoco o dall’intento revisionista secondo cui inizialmente il fascismo avrebbe inteso proporsi come una forza politica rispettosa del sistema democratico. Ma, ancor più, sono parole che servono tuttora come monito affinché non venga meno la salvaguardia delle nostre istituzioni parlamentari e repubblicane (ben più serie e fragili di un «giocattolo» o di un «armamentario» d’impaccio), pur fisiologicamente sempre imperfette e mai definitive, così che l’incessante “marcia della democrazia” non subisca pericolosi arresti o arretramenti.

 

 

Bibliografia

 

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Giovanni Scirocco (a cura di), Il fascismo giorno per giorno. Dalle origini alla marcia su Roma nelle parole dei suoi contemporanei, Feltrinelli, Milano, 2022.

 

Immagine: Il congresso fascista a Napoli, via Wikimedia Commons

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Una lingua morigerata. Lo stile di Enrico Berlinguer

Protagonista della politica italiana del secondo dopoguerra, Enrico Berlinguer rappresentò per oltre un decennio – quando ricoprì la carica di segretario del PCI, dal marzo 1972 al giugno del 1984 – il punto di riferimento principale della sinistra del nostro Paese. Voce autorevole e stimata, anche dagli avversari, in anni durante i quali il dibattito civile e i fermenti sociali erano molto vivi, Berlinguer si distinse anche per il suo stile comunicativo (e caratteriale) sobrio, a tratti severo, assai più incline all’argomentazione che all’invettiva; uno stile comunicativo che si rifletteva nella lingua da lui impiegata: misurata, meditata, improntata al confronto dialettico, ideologicamente marcata, caratterizzata da un forte carisma personale che però non sfociava nell’egocentrismo leaderistico.

A lui, più o meno direttamente, si devono anche parole o espressioni che hanno segnato la vita politica di quegli anni: si pensi all’eurocomunismo elaborato d’intesa con gli omologhi partiti spagnolo e francese, o, più ancora, alla proposta di «quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico” tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano» (come si leggeva su «Rinascita» il 12 ottobre 1973). Una di queste formule, forse la più longeva anche perché purtroppo sempre attuale, è questione morale: rileggendo la storica intervista Dove va il PCI? rilasciata a Eugenio Scalfari per «la Repubblica» nel luglio del 1981 si possono rintracciare molti tratti dello stile linguistico e comunicativo di Berlinguer di cui si è fatto cenno.

 

Metafore e lessico figurato

L’esposizione si serve spesso di parole ed espressioni che presentano i concetti trasponendoli da un piano denotativo a uno più evocativo e suggestivo. Gli ambiti semantici a cui Berlinguer ricorre non presentano però particolare originalità o arditezza rispetto alla consolidata prassi della comunicazione politica (e giornalistica): ecco allora, ad esempio, i rimandi al mondo della medicina o della biologia come «i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei mali d’Italia», «col nostro ingresso [nel governo] si pone fine a una stortura e a una amputazione della nostra democrazia», «ciò ha accentuato il malessere della Dc», «il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione», o «Infine, la spesa pubblica: un cancro che divora le risorse del Paese in mille modi».

Sono rare le immagini forti come «È la questione morale che oggi divora la Dc, come divora le istituzioni. E, andando più al fondo, è la insuperata discriminazione contro di noi […] che oggi si sgretola» o quella con cui si chiudeva l’intervista: «non è venuto il momento di cambiare e di costruire una società che non sia un immondezzaio?»; prevalgono infatti più semplici parole ed espressioni figurate, talvolta proprie anche del lessico quotidiano e informale, quali «Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui», «I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni», «[i partiti] sono macchine di potere che si muovono soltanto quando è in gioco il potere», «ci hanno scongiurato in tutti i modi […] di partecipare anche noi al banchetto», «tener bordone», «pirati della salute», «sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla Dc», «noi non abbiamo mai chiesto l’elemosina d’esser “ammessi”» o «Direi che abbiamo girato la boa e siamo di nuovo in ripresa».

 

Una retorica semplice

Analoga misura si ritrova a proposito delle altre strategie che rendono più espressiva ed elaborata l’argomentazione; tra queste si può menzionare giusto qualche caso di accumulo, efficace per rendere il discorso più concitato ed enfatico, e spesso, anche per questo, associato a una sintassi in stile nominale o a ripetizioni anaforiche: «Grandi dibattiti, grandi scontri di idee, certo, scontri di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante!», «Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai tv, alcuni grandi giornali», «La questione morale, nell’Italia di oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati».

La sintassi viene poi interessata da casi di focalizzazione che, sfruttando alcuni costrutti marcati (certo in parte riconducibili anche all’origine orale dell’intervista), consentono a Berlinguer di mettere in risalto gli elementi logico-argomentativi su cui si vuole concentrare l’attenzione: si va da un più semplice «Ebbene, non sono io che la penso così, sono i fatti a dircelo» a un più elaborato esempio, ancora in accumulo, quale «In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi».

 

Le parole tra ideologia e realtà

Com’è naturale, il livello del lessico è particolarmente sfaccettato e mostra la compresenza di vocaboli che afferiscono a categorie differenti. Non può mancare quella più strettamente legata alla matrice marxista e progressista del segretario del PCI, da cui vengono attinti parole e sintagmi come borghesi, borghesia produttiva, capitalismo (insieme a sviluppo capitalistico, occidente capitalistico, forme capitalistiche), classe operaia, compagni socialisti, comunisti, laburismo, lotta di classe, masse lavoratrici, modelli di socialismo, movimento operaio, movimento sindacale, operai, organizzazioni sindacali, partiti operai, privilegio, progresso, socialdemocrazia, sottoproletari, voti operai, a cui si aggiungono altre voci o formule più ampiamente e genericamente proprie del lessico politico quali assistenzialismo, azione eversiva, bene comune, ceti medi, congressi, cosa pubblica, costo del lavoro, crisi, democrazia, inflazione, legislatura, maggioranza, riformismo, politica fiscale e politica previdenziale.

Vi sono poi le parole e le espressioni che riflettono il momento storico e politico di quell’intervista, prima fra tutte, appunto, la più volte ripetuta questione morale; ma a tale riguardo si possono ricordare anche alternativa democratica (altra formula, in quel contesto, di recente conio berlingueriano), Br, governi di unità nazionale, maggioranza di solidarietà nazionale, pregiudiziale anticomunista, scala mobile e soprattutto quelle voci impiegate dall’allora segretario comunista per denunciare il sistema di gestione della cosa pubblica e della vita interna ai partiti: baronie, “boss” e “sottoboss” (da intendersi in senso figurato, come segnalano le stesse virgolette del testo), burocratismo, camarille, clientele, correnti, famigerato manuale Cencelli, lottizzazione, mercimonio che si fa dello Stato, opportunismo, P2, tradizionale tutela democristiana, verticismo.

 

Pronome di comunità, per passione

Contrariamente a quanto si sarebbe di lì a poco affermato con l’emergere di nuove figure contraddistinte da una visione leaderistica della politica e con il crollo delle principali ideologie otto-novecentesche (prima tra tutte proprio il comunismo), nella lingua di Berlinguer prevale ancora un forte senso di appartenenza a un partito: una dimensione collettiva e comunitaria, oltre che filosofico-ideale, sganciata dalla contingenza delle singole individualità chiamate a guidare provvisoriamente i processi storici delle forze politiche. Cosa che valeva perfino per il segretario del principale partito di sinistra, il quale in questa intervista, pur tanto personale e infatti all’epoca contestata anche da importanti dirigenti di quello stesso partito, impiegò il pronome di prima persona singolare (ma in generale anche l’omologa coniugazione verbale) solo in casi assai sporadici e in contesti argomentativi in cui non vi sarebbero state alternative altrettanto valide o adeguate: «molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato», «Ma io credo di sapere che cosa lei pensa», «Mi sembra un gioco truccato, oltre al fatto che bisogna vedere come il Psi sta usando questa posizione chiave di cui gode anche grazie alla nostra esclusione», «Io dico che forse proprio per questo la forza socialista francese è cresciuta fino a diventare maggioritaria nella sinistra».

Non si contano invece le volte in cui ci si imbatte nel pronome (o nell’aggettivo possessivo, o nella coniugazione verbale) di prima persona plurale, non usato certo con funzione maiestatica ma, al contrario, a significare l’appartenenza ampia, totale e condivisa a un identico orizzonte di valori e di azioni politiche; una forza identitaria che, distinguendosi da altri modelli, si riconosceva nella comune militanza in un grande partito di massa da decenni confinato all’opposizione ma non per questo sfiduciato o frustrato. Un partito che, con il suo segretario, non intendeva rinunciare a impegnarsi ancora, per contrastare i mali connessi appunto alla questione morale, affinché il Paese proseguisse in un cammino di progresso democratico e civile simile a quello che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra: «Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri?».

 

 

Bibliografia

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Immagine: I segretari dei partiti politici durante le consultazioni per la formazione del nuovo governo, attraverso Wikimedia Commons

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un libretto tra passato e futuro

 

Pur non potendo individuare in essa uno stacco netto tra ciò che l’ha preceduta e ciò che ne è seguito, è indubbio che Aida rappresenta un punto di svolta in cui emergono le spinte più innovative del periodo e che aprono alla fase del melodramma italiano di fine Ottocento; questo sia sul fronte della musica (un Verdi ormai maturo, mai adagiato sulle convenzioni e sul successo, giunto a un ulteriore gradino evolutivo rispetto al già sorprendente Don Carlos di pochi anni prima) sia su quello della poesia. Autore di quest’ultima è Antonio Ghislanzoni, che in questa occasione – sollecitato come non mai dalla responsabilità di tanta collaborazione – mise a frutto i suoi trascorsi giovanili di baritono, la sua ormai collaudatissima dimestichezza con la scrittura di libretti d’opera e la ricerca della novità che gli derivava dal suo carattere inquieto e dalla sua vicinanza al movimento della Scapigliatura.

Già nei suoi testi melodrammatici precedenti, e altrettanto sarà in quelli successivi, Ghislanzoni aveva dato prova di saper maneggiare con disinvoltura le forme e lo stile della tradizione, ma di voler tentare qualche strada più nuova specie sul fronte metrico; si era però quasi sempre trattato di esperienze circoscritte e poco fortunate, certamente meno stimolanti, perché condotte al fianco di compositori in genere poco talentuosi. Con Verdi invece le cose andarono diversamente, e questo nonostante le “regole d’ingaggio” laconicamente espresse dal compositore potessero far presumere che la collaborazione si sarebbe sviluppata in ben altro modo; scriveva infatti il musicista all’editore Ricordi il 2 e il 29 giugno 1870: «Ho un programma d’opera disteso ampiamente […] manca il Dialogo e la poesia. Se dovessi farne un’opera per musica Ghislanzoni potrebbe farmi il libretto? Badate che io vorrei vedere il dramma completamente disteso in prosa prima di farne i versi» e «Bisogna ora pensare al libretto, o, per meglio dire, a fare i versi, perché oramai non abbisognano che i versi – Ghislanzoni può Egli e vuole farmi questo lavoro? – Non è un lavoro originale; spiegatelo bene; si tratta soltanto di fare i versi».

 

Vada in scena la parola

 

In effetti la trama dell’opera era già stata sgrossata insieme a Camille Du Locle a partire da un soggetto dell’egittologo Auguste Mariette, e Verdi – com’era sua prassi – mantenne saldamente nelle sue mani lungo tutto il corso della genesi le redini dell’intero lavoro; non mancò però mai di mettersi in discussione, di prendere in considerazione spunti e suggerimenti (anche critici) del librettista e di accettarne alcune proposte. Restava però sempre centrale, per il compositore, l’obiettivo di basarsi su una componente verbale in grado di dare piena evidenza drammaturgica all’azione e alla musica, ed è proprio scrivendo a Ghislanzoni e, poco prima, a Ricordi che Verdi esplicitò per la prima volta un concetto a lui ben chiaro e altrettanto caro; dichiarò infatti all’editore: «Veggo alcune note di Ghislanzoni, che mi fanno (sia detto fra Noi) un po’ paura, e non vorrei che per evitare pericoli immaginarj si finisse a dire quello che non stà nella situazione e nella scena; e non vorrei altresì si dimenticassero le parole sceniche. Per parole sceniche io intendo quelle che scolpiscono una situazione od un carattere, le quali sono sempre anche potentissime sul pubblico. So bene che talvolta è difficile darle forma eletta e poetica. Ma… (perdonate la bestemmia) tanto il poeta che il Maestro devono avere al caso il talento ed il coraggio di non fare né poesia né musica… Orrore! Orrore!» (10 luglio 1870).

Il librettista non mancò di assecondare il Maestro nel migliore dei modi e con piena convinzione, tanto da poter poi far propri quei concetti e da esprimerli a sua volta (certo con una diversa sottolineatura della dignità della poesia) pochi mesi dopo su «La Lombardia» in difesa del suo criticato libretto dei Promessi sposi per Errico Petrella: «Questa falsa maniera di giudicare i libretti, che consiste nell’esigere costantemente della poesia laddove al maestro abbisogna mai sempre l’evidenza scenica, ha prodotto nei giovani letterati la strana illusione, che tutti quanti, per poco che sappiano costruire dei versi passabili, si credano abilissimi librettisti […]. Se il melodramma moderno domanda ad ogni costo la così detta parola scenica, la parola che colpisce, che scuote, che rivela concisamente e rapidamente le evoluzioni dei pensieri e degli affetti, esso vuole altresì una struttura di verso, quale da nessun trattato si insegna, quale non può ottenersi che dalla pratica e dall’istintiva o acquisita conoscenza dell’arte sorella. Il periodo breve, la ritmica successiva delle pause, i ben ideati trapassi dalle tenebre alla luce, dal piano al forte, dal calmo al procelloso, ecco altrettante leggi particolari da cui la strofa per musica non può emanciparsi se non a patto di incagliare la melodia».

 

Rinnovamento e tradizione

 

La veste metrica, come si accennava, è quella che forse più di tutte manifesta l’intenzione di superare i vecchi schematismi strutturali della librettistica ottocentesca; se è vero che alcune precise richieste in tal senso vennero anche qui da Verdi, è però altrettanto vero che Ghislanzoni seppe elaborare delle soluzioni originali e funzionali: se ad esempio la romanza iniziale di Radamès si sviluppa su due quartine di doppi quinari (forma abbastanza tradizionale, seppure non diffusissima), il primo pezzo solistico di Aida alterna alle parti più recitative nei consueti endecasillabi e settenari una strofa esastica di senari, due quartine di endecasillabi a rima alternata e una quartina di doppi quinari tutti tronchi; la stessa protagonista usa poi ancora il più lungo verso di norma proprio del recitativo (l’endecasillabo, appunto) per le due quartine della struggente O cieli azzurri, fino ad arrivare al duetto conclusivo tra i due innamorati (con Amneris nella parte superiore della scena e il coro di sacerdotesse celato agli occhi degli spettatori) che si snoda su una successione più libera di quinari (anche doppi), settenari ed endecasillabi variamente rimati.

Abbondano invece ancora gli stilemi di natura fonomorfologica, morfosintattica e lessicale che il libretto di epoca romantica aveva fatto proprii attingendo alla tradizione poetico-letteraria dei secoli passati e al modello della tragedia sette-ottocentesca: tra i molti esempi si possono ricordare le varianti auliche lauri (‘allori’), serto (‘corona’) e crin (‘capelli’) con cui Radamès si presenta subito agli spettatori, le forme verbali ti affida e mi segui (imperativi proclitici), furo (‘furono’), dicesti, lessi e ingannai (passati remoti per azioni appena avvenute) e sien (‘siano’) nel tesissimo duetto del secondo atto tra Aida e Amneris, le quali, nella stessa circostanza, si servono diffusamente anche di latinismi come teco e meco, lungi, duce, Numi, detto (‘parola’), polve, o di inversioni sintattiche rispetto allo standard prosastico quali amica tua, pianger puoi, del tuo destino arbitra io sono, o – ancora – della forma pronominale maschile soggetto ei.

 

Il tramonto dell’eroe

 

La mutata sensibilità del periodo storico, con conseguenti ricadute sul piano artistico-culturale e di conseguenza perfino su quello linguistico, si avverte anche sotto il profilo drammaturgico. Anzitutto va notato il modo spietato e utilitarista con cui Amonasro si rivolge ad Aida per far sì che la figlia si pieghi ai suoi subdoli voleri: un’invettiva come «Va’ indegna! non sei mia prole… / Dei Faraoni tu sei la schiava» (musicata da Verdi nell’ancor più sintetica ed emotivamente forte «Non sei mia figlia… Dei Faraoni tu sei la schiava!») sarebbe impensabile sulle labbra di un Miller, di un Rigoletto, di un Simon Boccanegra, forse perfino di un Giacomo di Dom-Remy o – mutatis mutandis – di un Giorgio Germont (se ne era però avuto un anticipo con il Marchese di Calatrava, e alla seconda versione della Forza del destino aveva messo mano proprio Ghislanzoni per la sua prima collaborazione con Verdi)!

Ma è il protagonista tenorile quello che forse esce più malconcio dal confronto con i suoi omologhi precedenti. I versi di Radamès traboccano infatti di un esasperato e per molti aspetti ottuso egocentrismo vanaglorioso che emerge in un impiego sorprendentemente insistito di prime persone singolari, siano esse pronomi, aggettivi possessivi o flessioni verbali: e così l’aspirante condottiero che all’alzarsi del sipario «si beava» in «un sogno avventuroso» tutto autocentrato, che sperava di risolvere il dissidio fra l’amore e il trono grazie alle sue vittorie e alla sua capacità persuasiva nei confronti del Re (e, soprattutto, della principessa di lui spasimante), che già si figurava che la donna amata accettasse passivamente i suoi progetti di futuro, cade in un tranello di bassa lega e alla fine non può che constatare tutta la sua debolezza e la sua impotenza (ma sempre, appunto, pensando anzitutto a sé: «Né le mie forti braccia / Smuovere ti potranno o fatal pietra!»), prendendo poi consapevolezza «con desolata rassegnazione» della ben più lucida e disperata constatazione espressa da Aida, che invece – significativamente – si serve della prima persona plurale: «Invan!… tutto è finito / Sulla terra per noi…».

 

 

Bibliografia

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Ilaria Bonomi, Edoardo Buroni e Marco Spada (a cura di), Carteggio Verdi-Ghislanzoni, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, Parma, in corso di realizzazione.

 

Immagine: Copertina del libretto in una edizione del 1890

 

Crediti immagine: Ricordi & C, Public domain, via Wikimedia Commons

 

 

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Uno spettro si aggira per l’Italia. Lo stile manifesto del PCI delle origini

 

Durante il congresso di Livorno del gennaio 1921, il XVII del Partito Socialista Italiano, l’autodenominatosi portavoce della «frazione comunista» Amadeo Bordiga dichiarava la piena adesione del proprio gruppo ai dettami della recente Terza Internazionale: a neanche trent’anni dalla sua nascita, nel PSI si consumò la scissione forse storicamente più rilevante della sinistra italiana. Attraverso una lettura linguistica e comunicativa di quel discorso e dello Statuto del Partito Comunista d’Italia, fondato esattamente un secolo fa in conseguenza di quella frattura, si possono approfondire le linee stilistico-comunicative che hanno caratterizzato la lingua di uno dei più importanti partiti di massa della nostra storia nazionale: da un lato la componente rigorosa e “scientifica”, dall’altro quella propagandistica e dialettica.

 

«È costituito il Partito Comunista d’Italia»

 

Lo Statuto del Partito Comunista d’Italia è scandito in 67 articoli, alcuni dei quali suddivisi in commi e sottocommi, più le «Disposizioni transitorie»; prevalgono così le strutture sintattiche e le formule dei testi giuridici e burocratici quali rimandi interni, sigle e alcuni fenomeni come la deagentivizzazione e la ridondanza: «Il C. E. [scil. Comitato Esecutivo] della Federazione Provinciale risolve: a) in prima istanza le questioni politiche sorte fra le diverse sezioni della Federazione; b) in seconda istanza sopra ricorso contro decisioni delle sezioni; le questioni di indole personale e locale. È ammesso ricorso al C. E. del Partito per le questioni di cui al comma a) e per le questioni di cui al comma b) secondo l’art. 32» (articolo 38).

Obblighi e divieti, espressi in modo perentorio, costituiscono l’architrave non solo e forse non tanto dello Statuto, quanto piuttosto della «disciplina» più volte in esso richiamata a garanzia di una struttura ideologica e partitica il più possibile ferrea e granitica, come si legge ad esempio nell’articolo 8: «La iscrizione al Partito Comunista è fatta mediante un modulo uniforme distribuito alle Sezioni dal Comitato Esecutivo; essa implica l’adesione incondizionata al programma, nonché la osservanza del presente Statuto e la più rigorosa disciplina verso i deliberati del Partito e della Internazionale Comunista».

 

Lessico ortodosso

 

Il livello linguistico più caratteristico e caratterizzato è quello lessicale, che – com’è naturale nel caso di ideologie accuratamente teorizzate – si serve delle parole tipiche della dottrina di riferimento. Da un lato stupisce che lo Statuto non impieghi mai i vocaboli «marxismo» (o «marxista») e «comunismo», che invece erano più volte ricorsi sulle labbra di Bordiga; dall’altro sono invece presenti, e magari diffuse, voci o espressioni come «lotta di classe», «proletariato», «borghesia», «classe capitalistica», «partito politico di classe», «dittatura proletaria», «consigli dei lavoratori» e «gestione collettiva della produzione e della distribuzione».

Il fulcro, e il punto di disaccordo sostanziale con la visione del Partito Socialista Italiano guidato da Turati, è tutto nella «lotta rivoluzionaria», naturalmente sul modello sovietico; un approccio determinato dal fatto che la «democrazia» era giudicata dalla componente comunista un disvalore e un ostacolo, in quanto «organo per la difesa degli interessi della classe capitalistica» (articolo 1, comma 2): per raggiungere il proprio obiettivo il nuovo partito non poteva dunque che propugnare «l’abbattimento violento del potere borghese» (articolo 1, comma 3).

 

«Compagni!»

 

Il discorso di Bordiga è invece un’argomentazione appassionata in cui si susseguono tesi, antitesi e confutazioni di queste ultime: «Si dice ancora: le 21 condizioni corrispondono alle condizioni della Russia. Non è vero. Fanno tesoro dell’esperienza russa e non credo che vi sia qui qualcuno così cieco da voler negare il valore della esperienza russa nel giudizio internazionale della lotta proletaria, salvo ad accettarlo o non accettarlo. Ma le 21 condizioni non servono per la Russia. La Russia è l’unico Paese cui non servono perché là il pericolo dell’opportunismo è superato».

Coerente con il settimo punto delle condizioni che la Terza Internazionale aveva stilato per poter aderire al movimento comunista, Bordiga affermava infatti, con un’interessante notazione metalinguistica a proposito dell’ultimo sostantivo della citazione precedente (attestato nella nostra lingua dopo l’Unità d’Italia): «ecco anche perché quando parliamo del fenomeno che sono qui a trattarvi, seppure lo vogliamo dire – in mancanza di termine migliore che forse si troverà in qualunque lingua – fenomeno di opportunismo, non intendiamo fare una definizione di ordine etico e individuale: intendiamo parlare di un fenomeno superiore ad ogni volontà di coloro che erano alla testa del movimento proletario alla vigilia della guerra». In altre parole, chi – come Turati – riteneva che si potesse ottenere il riconoscimento dei diritti della classe proletaria servendosi degli strumenti già forniti dalle istituzioni liberal-democratiche era etichettato come «opportunista».

 

Significanti e significati di un’ideologia

 

Da tali premesse, e sempre guardando alla recente esperienza russa, era naturale che l’approccio «riformista» fosse considerato negativamente e venisse accomunato ad altri vocaboli storico-politici quali «menscevico» e «socialdemocratico», interpretati come suoi sostanziali sinonimi. Similmente, considerati l’argomento prettamente politico e l’impostazione ideologica del suo discorso, Bordiga non poteva che servirsi di numerosi “-ismi/-isti”, anch’essi talvolta ridefiniti o problematizzati: «Ed è curiosissimo, compagni, come su un altro problema si equivochi fondamentalmente, quando cioè si chiama noi volontaristi. Ma volontaristi siete stati voi che avete accusato di eccessivo determinismo, che degenerava nel fatalismo, quella affermazione che l’azione di allora non era nulla e tutto doveva riporsi nel fine lontano che doveva condurci alla aspettativa negativa del massimalismo storico […]. Se vi furono due revisioni volontaristiche del determinismo marxista che davano per il riformismo la interesistenza della legge storica e della volontà umana, queste due revisioni furono tutte e due contro di noi. Così la revisione dei riformisti come quella dei sindacalisti».

Anche in altri passaggi del suo intervento il leader comunista si soffermava a precisare il significato di alcune parole e a mostrarne un’evoluzione semantica: «Bisognava intendere che se era marxista e se era rivoluzionario, nella vigilia della guerra, dire “intransigenza, niente blocco elettorale politico, niente blocco elettorale amministrativo, niente collaborazione, niente massoneria”, oggi intransigenza vuol dire qualche cosa di più. Se ieri collaborazione di classe voleva dire ministri socialisti in un regio Ministero, oggi collaborazione di classe vuol dire invece un Ministero socialista sovrapposto alla struttura statale dell’oppressione borghese. Se ieri intransigenza voleva dire buttar fuori chi voleva andare al Governo, il mettersi la feluca del regio servitore, oggi intransigenza vuol dire liberarsi da chiunque non comprende che la lotta deve essere contro le istituzioni politiche borghesi, che la lotta deve essere per la conquista integrale, rivoluzionaria del potere, da parte del proletariato, secondo le previsioni e la dottrina di Marx».

 

Uno scontro tra «pronomi» e «parole da comizio»

 

Da una dinamica politica così conflittuale scaturiva dunque una forte contrapposizione tra la prima e la seconda persona plurali: «Ristabiliamo i pronomi al loro posto e vi calmerete. Voi dite a noi “secessionisti”, voi ci dite: “Ve ne andrete e finirete dove altri hanno finito perché la bandiera della lotta di classe è rimasta a questo vecchio tradizionale Partito Socialista che attraverso ai suoi urti di tendenza è rimasto finora all’avanguardia dell’azione del proletariato italiano, voi siete piccoli gruppi di gente, di illusi, di arrabbiati o maniaci della violenza che andate e che subirete la stessa sorte degli altri…”. Se questo avverrà, ebbene, noi, o compagni, vi diciamo che vi sono due ragioni che ci differenziano da tutte le scissioni che sono fino ad oggi avvenute. Vi è la ragione che noi rivendichiamo, e voi avete ancora la possibilità di venire a confutare questi argomenti di dottrina e di metodo, noi rivendichiamo la nostra linea di principio, la nostra linea storica con quella sinistra marxista che nel Partito socialista italiano con onore, prima che altrove, seppe combattere i riformisti. Noi ci sentiamo eredi di quell’insegnamento che venne da uomini al cui fianco abbiamo compiuto i primi passi e che oggi non sono più con noi. Noi, se dovremo andarcene, vi porteremo via l’onore del vostro passato, o compagni!».

A tale riguardo è però utile ricordare anche uno stralcio di quanto in quel congresso affermò Turati, a sua volta prodigo di riferimenti dottrinari e di cenni di natura metalinguistica: «noi abbiamo qualche ragione di ritenerci gli eredi più fedeli del marxismo più puro e più completo. Il culto di qualche frase, la famosa violenza che fa tutto nella storia, e via via, parole da comizio, che per accidia intellettuale si affacciano al cervello dei meno colti, che per loro sono come le chiavi che aprono tutti i chiavistelli della storia, e velano il vero fondo della dottrina. Quel culto delle frasi isolate, dei periodi isolati, per cui Marx dichiarava volentieri e spesso lui di non essere marxista, come io – uomo di cento cubiti più sotto, si capisce – ho avuto tante volte, di fronte a certi pettegoli, da dichiarare che non sono punto turatiano. Perché nessuna formula, fossero anche i 21 punti di Mosca, nessuna formula scritta ci dispensa dall’avere un cervello pensante, sostituendosi all’azione del cervello che, al cimento dei fatti che mutano, si serve bensì di certe leggi intellettuali, di certi punti di orientamento acquisiti, ma modifica continuamente le proprie vedute a seconda delle necessità della storia e dell’ora». Strada che in effetti lo stesso PCI percorse poi per decenni con la sua attività democratica all’interno delle istituzioni repubblicane, e forse sintomo del progressivo avverarsi della «profezia» che proprio Turati preconizzò cent’anni or sono.

 

 

Bibliografia

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Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino, Dizionario di Politica. Nuova edizione aggiornata, Utet, Torino, 2016.

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Edoardo Buroni, Expedit: 18 gennaio 1919, la “discesa in campo” dei cattolici con l’«appello ai liberi e forti», in «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 18 gennaio 2019.

Edoardo Buroni, Far di tutta l’erba (voglio) un fascio. Considerazioni linguistiche a cento anni dalla pubblicazione del programma dei Fasci italiani di combattimento, in «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 10 giugno 2019.

Giovanni Scirocco, Turati, Filippo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 97, 2020.

Marcello Flores e Giovanni Gozzini, Il vento della rivoluzione. La nascita del Partito comunista italiano, Laterza, Roma-Bari, in stampa.

 

Immagine: Prima pagina de l'Ordine Nuovo del 22-01-1921

 

 

 

 

 

 

 

 

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Fratelli tutti 1. «Con il mio linguaggio»

 

Già con la Laudato si’ del 2015, la prima enciclica a lui esclusivamente attribuibile (la Lumen Fidei del 2013 portava infatti a compimento un lavoro in gran parte frutto del pensiero e della penna di Benedetto XVI), papa Francesco aveva manifestato una delle molte novità che stanno caratterizzando il suo pontificato: il titolo del documento non è in lingua latina. Certo non si tratta solo di una scelta stilistica, ma è la conseguenza di un dato più oggettivo: è infatti prassi che il titolo delle encicliche papali corrisponda alle prime parole della versione latina di tali testi, e in questo caso l’incipit è appunto rappresentato da una citazione di san Francesco. È però un aspetto rilevante e specifico, che si aggiunge con chiara e presumibilmente deliberata coerenza alla scelta di intitolare con l’espressione spagnola Querida Amazonia (e qui non si è di fronte ad una citazione) anche l’esortazione apostolica postsinodale del 2 febbraio 2020.

Se da un lato va ricordato che anche nel secolo scorso altri pontefici si sono mossi nella medesima direzione, bisogna però sottolineare che si è trattato di rarae aves e che quelle encicliche non si rivolgevano «a tutti i fratelli e le sorelle» dell’orbe terraqueo com’è nel caso di papa Francesco, ma a destinatari nazionali specifici e a proposito di eventi circoscritti: così è stato, ad esempio, per la Fin dal principio di Leone XIII (1902) relativa al clero italiano, per la Une fois encore di Pio X (1907) incentrata sulla legislazione francese dell’epoca giudicata troppo laicista, per la Non abbiamo bisogno di Pio XI (1931) che intendeva difendere l’Azione cattolica italiana dalla repressione fascista, per la Mit brennender Sorge dello stesso papa (1937) nella quale si esprimevano le preoccupazioni per il dilagare pervasivo dell’ideologia nazista anche in ambito religioso, per la Le pèlerinage de Lourdes di Pio XII (1957) sul centenario delle apparizioni mariane nella cittadina francese; nulla di simile, invece, da Giovanni XXIII in avanti, da quando cioè le lettere encicliche hanno avuto solo portata universale.

 

Verso una «lingua del popolo»

 

Non sarà allora un caso se proprio dell’enciclica Fratelli tutti e delle ultime esortazioni apostoliche di papa Francesco non siano ancora state pubblicate sul sito vaticano anche le versioni latine, ma siano presenti on line solo quelle nelle principali lingue vive dell’uso. Si tratta del resto di un indirizzo conforme a quanto l’attuale pontefice aveva dichiarato all’inizio del suo ministero petrino: «Come a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna, così anche nella fede, ci piace che ci si parli in chiave di “cultura materna”, in chiave di dialetto materno (cfr. 2 Mac 7,21.27), e il cuore si dispone ad ascoltare meglio. Questa lingua è una tonalità che trasmette coraggio, respiro, forza, impulso» (Evangelii Gaudium, 139); un concetto ribadito poco dopo nel medesimo documento anche attraverso le parole di Paolo VI, secondo la prospettiva di una comunicazione biunivoca: «Il predicatore deve anche porsi in ascolto del popolo, per scoprire quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire. Un predicatore è un contemplativo della Parola ed anche un contemplativo del popolo […], prestando attenzione al “popolo concreto al quale si rivolge, se non utilizza la sua lingua, i suoi segni e simboli, se non risponde ai problemi da esso posti”» (ivi, 154).

A ben vedere è esattamente ciò che fece san Francesco quando decise di servirsi del volgare del suo tempo e della sua terra per la propria attività di evangelizzazione: quel volgare che intrattiene uno stretto legame con la nostra lingua italiana e che è stato fatto proprio dal papa attuale. A scanso di equivoci e di fraintendimenti merita però di essere evidenziato fin d’ora (lo approfondiremo meglio più avanti) come ciò non abbia nulla a che vedere con una presunta «lingua del popolo» sbandierata e promossa da certi leader attuali (non solo politici): certo anche in questo caso si scade spesso nel “volgare”, ma in tutt’altro senso… Al contrario, tanto san Francesco quanto il pontefice che ne ha assunto il nome si sono serviti del registro e della varietà dei propri interlocutori per nobilitarli, per conferire alle loro parole perfino una veste letteraria e per diffondere tramite questo linguaggio dei messaggi edificanti.

 

Le parole, il dialogo, l’azione

 

Ad ogni modo anche la versione italiana della Fratelli tutti ha subìto un processo di mediazione linguistica, giacché – com’è prassi – è quasi certo che papa Francesco abbia inizialmente pensato e scritto questa enciclica nella sua lingua materna, ovvero lo spagnolo. Ma i testi principali che ne stanno alla base sono da un lato l’italiano di molti interventi e documenti precedenti, dall’altro il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 unitamente al Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb; e a questo proposito è significativo rilevare che durante l’incontro interreligioso svoltosi durante quel viaggio apostolico e durante la celebrazione eucaristica del giorno successivo papa Francesco tenne il suo discorso e la sua omelia in italiano, la lingua da lui spesso privilegiata anche in occasione di altri viaggi ed eventi internazionali.

L’attuale pontefice non è per altro ignaro del fatto che il suo modo di comunicare, e dunque anche il codice verbale da lui impiegato, rappresenta un tratto caratteristico della sua persona e del suo agire pastorale: ecco che allora nell’introduzione della sua nuova enciclica papa Francesco precisa che ha fatto tesoro di suggerimenti e scritti altrui declinandoli però «con il mio linguaggio» (Fratelli tutti, 5). Ed è esplicita la sua volontà di mettersi, anche tramite tale atteggiamento, in «dialogo con tutte le persone di buona volontà» (ivi, 6), affinché grazie a questo documento possano scaturire idee e azioni comuni che mirino alla costruzione di una società che di fronte all’egoismo e all’indifferenza sappia «reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole» (ibidem). Parole che meritano di essere analizzate più da vicino per comprendere meglio il pensiero e lo stile linguistico di papa Francesco.

 

I significanti e i significati

 

È lo stesso pontefice a legittimare, e forse perfino ad incoraggiare, un’accurata lettura semantica e più genericamente linguistica della sua enciclica, perché non sempre le espressioni e i concetti ad esse sottesi vengono interpretati in modo univoco e disinteressato: «Un modo efficace di dissolvere la coscienza storica, il pensiero critico, l’impegno per la giustizia e i percorsi di integrazione è quello di svuotare di senso o alterare le grandi parole. Che cosa significano oggi alcune espressioni come democrazia, libertà, giustizia, unità? Sono state manipolate e deformate per utilizzarle come strumenti di dominio, come titoli vuoti di contenuto che possono servire per giustificare qualsiasi azione» (ivi, 14). Ed è quindi papa Francesco medesimo a preoccuparsi di fare chiarezza in proposito, spiegando e presentando senza ambiguità alcune di queste «grandi parole», che vedono nella «fraternità» e nell’«amicizia sociale» (ivi, 5) il loro fulcro.

 

Bibliografia

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Silvina Pérez, Lucetta Scaraffia, Francesco. Il papa americano, Vita e Pensiero, Milano, 2017.

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Antonio Mazzi, Gentilezza, la nuova parola del Papa, in «Corriere della Sera», 23 ottobre 2020.

Emiliano Picchiorri, Quando le parole valgono, in «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 23 ottobre 2020.

Rita Librandi e Pietro Sebastiani (a cura di), La Chiesa ambasciatrice dell’italiano, il Mulino, Bologna, in stampa.

 

Immagine: Papa Francesco in papamobile saluta i fedeli in piazza San Pietro

 

Crediti immagine: Alfredo Borba, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

 

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Fratelli tutti 2. Il valore dell'economia linguistica

 

Oltre che frutto della retta coscienza personale e dei comportamenti individuali che ne discendono, la «fraternità» e l’«amicizia sociale» possono essere promosse e mantenute solo se si agisce anche ad un livello più alto: quello della gestione della cosa pubblica, che vedremo anche tra poco. Ma mentre la politica dovrebbe configurarsi come «una sana discussione su progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune» (ivi, 15), laddove essa si eserciti attraverso l’attacco personale nei confronti dell’avversario, l’esclusione volontaria di soggetti sociali e la diffusione quasi esasperata di una «sfiducia costante» diviene solo una sterile accozzaglia di «ricette effimere di marketing che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace» e un «gioco meschino delle squalificazioni» (ibidem).

Quando ciò avviene si verificano ulteriori conseguenze concettuali e semantiche aberranti, per cui «vincere viene ad essere sinonimo di distruggere» e «un progetto con grandi obiettivi per lo sviluppo di tutta l’umanità […] suona come un delirio» (ivi, 16). O ancora, spostandosi su un piano spesso intersecato a quello della politica, «“aprirsi al mondo” è un’espressione che oggi è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza», ma in una prospettiva ben diversa rispetto a quella che vorrebbe promuovere giustizia e fraternità, giacché «si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi» (ivi, 12).

 

Vecchie e nuove povertà, conflitti di ieri e di oggi

 

Dato che, nel tempo, i significati delle parole possono mutare, è indispensabile adeguare il proprio vocabolario al tempo e alla situazione specifici, perché – ad esempio – l’incontestabile aumento generalizzato della «ricchezza» non è stato affatto sinonimo di maggiore «equità», ma ha anzi spesso provocato un aumento delle disparità con un contestuale acuirsi della logica dello «scarto» e del «razzismo»: «quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale. […] La povertà si analizza e si intende sempre nel contesto delle possibilità reali di un momento storico concreto» (ivi, 20-21).

Altrimenti è fin troppo facile cadere in un relativismo opportunista che conduce a oscurare alcune realtà o a non chiamarle col loro vero nome: «Guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana vengono giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente economici. Ciò che è vero quando conviene a un potente, cessa di esserlo quando non è nel suo interesse. Tali situazioni di violenza vanno “moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una ‘terza guerra mondiale a pezzi’”» (ivi, 25).

 

Una metafora del tempo presente

 

Papa Francesco si serve poi di un’espressione idiomatica colloquiale per ricordare che nel nostro mondo globalizzato «siamo tutti sulla stessa barca» (ivi, 30): una realtà resa ancor più evidente in questi lunghi mesi di pandemia, evento a cui il pontefice dedica una parte importante delle sue riflessioni. Lo fa richiamandosi al momento straordinario di preghiera tenuto in una piazza San Pietro deserta il 27 marzo 2020; in quell’occasione il papa aveva commentato il passo evangelico della tempesta narrato in Mc 4,35-41 per spiegare appunto che cosa significa «essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca»: «con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli» (ivi, 32).

Una situazione che se ha visto compiersi grandi gesti di generosità quando non addirittura di eroico altruismo, ha però anche dato nuovo vigore ad un “conflitto tra pronomi” (e quindi tra esseri umani di uguale dignità) che il pontefice spiega servendosi ancora di modi di dire comuni: «Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”» (ivi, 35); altrimenti l’unica conseguenza possibile è che «il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia» (ivi, 36).

 

La verità vi farà liberi

 

Un obiettivo non facile, se ci si lascia vincere dall’emotività irrazionale, se alla comunicazione non si accompagna una riflessione previa, se si punta sempre alla massima sintesi a discapito dell’analisi e se ci si lascia guidare da notizie fasulle o parziali; una dinamica che si gioca su altre parole chiave: la «saggezza», la «verità» e la «libertà» attraverso le quali è possibile non lasciarsi travolgere da quella che è stata recentemente battezzata “infodemia”.

«Venendo meno il silenzio e l’ascolto, e trasformando tutto in battute e messaggi rapidi e impazienti, si mette in pericolo la struttura basilare di una saggia comunicazione umana. […] Il cumulo opprimente di informazioni che ci inonda non equivale a maggior saggezza. La saggezza non si fabbrica con impazienti ricerche in internet, e non è una sommatoria di informazioni la cui veracità non è assicurata. In questo modo non si matura nell’incontro con la verità. […] Così, la libertà diventa un’illusione che ci viene venduta e che si confonde con la libertà di navigare davanti a uno schermo. Il problema è che una via di fraternità, locale e universale, la possono percorrere soltanto spiriti liberi e disposti a incontri reali» (ivi, 49-50).

 

La carità per il prossimo

 

La fraternità universale e l’amicizia sociale non possono che essere ispirate, per papa Francesco, dalla virtù teologale ad esse più strettamente legata: la carità; una prospettiva che si fonda sugli insegnamenti evangelici e sui cardini della teologia cattolica, i quali ancora una volta consentono di conferire alle parole il loro giusto significato: «la statura spirituale di un’esistenza umana è definita dall’amore, che in ultima analisi è “il criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana”. […] Cercando di precisare in che cosa consista l’esperienza di amare, che Dio rende possibile con la sua grazia, san Tommaso d’Aquino la spiegava come un movimento che pone l’attenzione sull’altro “considerandolo come un’unica cosa con sé stesso”. L’attenzione affettiva che si presta all’altro provoca un orientamento a ricercare gratuitamente il suo bene. Tutto ciò parte da una stima, da un apprezzamento, che in definitiva è quello che sta dietro la parola “carità”: l’essere amato è per me “caro”, vale a dire che lo considero di grande valore» (ivi, 92-93).

E a questo punto è più agevole comprendere come interpretare il secondo dei due grandi comandamenti ricordati da Gesù: «La parola “prossimo” nella società dell’epoca di Gesù indicava di solito chi è più vicino, prossimo. Si intendeva che l’aiuto doveva rivolgersi anzitutto a chi appartiene al proprio gruppo, alla propria razza. […] Il giudeo Gesù rovescia completamente questa impostazione: non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicini a noi, bensì a farci noi vicini, prossimi. […] Vale a dire, ci interpella perché mettiamo da parte ogni differenza e, davanti alla sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque. Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri» (ivi, 80-81).

 

Bibliografia

Rosarita Digregorio, Contributi alla ricostruzione della politica linguistica della Chiesa cattolica italiana postconciliare, in «Studi linguistici italiani», 29, 2003, pp. 49-117.

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Immagine: Ritratto di Papa Francesco, dipinto da Giuseppe Frascaroli

 

Crediti immagine: Giuseppe Fascaroli, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

 

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Fratelli tutti 3. Parole di fraternità universale

 

L’estensione del «prossimo» ad ogni possibile categoria umana consente al pontefice di precisare i concetti chiave di questa sua enciclica attraverso un chiarimento tanto per via assertiva quanto per negazione: «L’amore che si estende al di là delle frontiere ha come base ciò che chiamiamo “amicizia sociale” in ogni città e in ogni Paese. Quando è genuina, questa amicizia sociale all’interno di una società è condizione di possibilità di una vera apertura universale. Non si tratta del falso universalismo di chi ha bisogno di viaggiare continuamente perché non sopporta e non ama il proprio popolo. Chi guarda il suo popolo con disprezzo, stabilisce nella propria società categorie di prima e di seconda classe, di persone con più o meno dignità e diritti. In tal modo nega che ci sia spazio per tutti. Neppure sto proponendo un universalismo autoritario e astratto, dettato o pianificato da alcuni e presentato come un presunto ideale allo scopo di omogeneizzare, dominare e depredare» (ivi, 99-100).

Né si deve credere che tale universalità consista solo nel guardare lontano, nel concepire lo straniero come colui che viene da un altro Paese, perché ci sono anche forme di discriminazione e di esclusione più subdole ed occulte: «C’anche un aspetto dell’apertura universale dell’amore che non è geografico ma esistenziale. È la capacità quotidiana di allargare la mia cerchia, di arrivare a quelli che spontaneamente non sento parte del mio mondo di interessi, benché siano vicino a me. D’altra parte, ogni fratello o sorella sofferente, abbandonato o ignorato dalla mia società è un forestiero esistenziale, anche se è nato nello stesso Paese. Può essere un cittadino con tutte le carte in regola, però lo fanno sentire come uno straniero nella propria terra. Il razzismo è un virus che muta facilmente e invece di sparire si nasconde, ma è sempre in agguato. Voglio ricordare quegli “esiliati occulti” che vengono trattati come corpi estranei della società» (ivi, 97-98).

 

«Libertà, uguaglianza e fraternità»

 

È lo stesso papa Francesco a titolare con questi tre sostantivi una delle sezioni della Fratelli tutti, soffermandosi poi sulla loro definizione, anche in questo caso presentata sia attraverso il significato ritenuto corretto sia tramite la presa di distanza dalle loro errate interpretazioni e manifestazioni. La prima parola considerata è quella contenuta nel sottotitolo dell’enciclica: «La fraternità non è solo il risultato di condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di una certa regolata equità. Benché queste siano condizioni di possibilità, non bastano perché essa ne derivi come risultato necessario. La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo per possedere e godere. Questo non esaurisce affatto la ricchezza della libertà, che è orientata soprattutto all’amore» (ivi, 103).

Ed ecco allora come tenere insieme le due espressioni chiave dell’enciclica e come verificare la loro piena comprensione: «C’è un riconoscimento basilare, essenziale da compiere per camminare verso l’amicizia sociale e la fraternità universale: rendersi conto di quanto vale un essere umano, quanto vale una persona, sempre e in qualunque circostanza. Se ciascuno vale tanto, bisogna dire con chiarezza e fermezza che “il solo fatto di essere nati in un luogo con minori risorse o minor sviluppo non giustifica che alcune persone vivano con minore dignità”» (ivi, 106). Da ciò è allora più facile derivare un’ulteriore definizione delle parole di questo nostro paragrafo: «neppure l’uguaglianza si ottiene definendo in astratto che “tutti gli esseri umani sono uguali”, bensì è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità» (ivi, 104).

 

Non è solo questione di etimologia

 

Riprendendo voci del lessico filosofico e sociale, papa Francesco ne dà una lettura teologica ed evangelica, a partire dal sintagma «bene morale»: «Nel Nuovo Testamento si menziona un frutto dello Spirito Santo (cfr. Gal 5,22) definito con il termine greco agathosyne. Indica l’attaccamento al bene, la ricerca del bene. Più ancora, è procurare ciò che vale di più, il meglio per gli altri: la loro maturazione, la loro crescita in una vita sana, l’esercizio dei valori e non solo il benessere materiale. C’è un’espressione latina simile: bene-volentia, cioè l’atteggiamento di volere il bene dell’altro. È un forte desiderio del bene, un’inclinazione verso tutto ciò che è buono ed eccellente, che ci spinge a colmare la vita degli altri di cose belle, sublimi, edificanti» (ivi, 112).

È su questo fondamento che si innesta uno dei princìpi della dottrina sociale della Chiesa su cui l’attuale pontefice insiste molto: «Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma è una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro […]. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia» (ivi, 116).

 

Né stranieri né estranei

 

Un tale approccio solidale non può che contemplare quanti abbandonano la propria terra, e anche a questo proposito papa Francesco esprime il suo pensiero servendosi di riflessioni che si intersecano con questioni di natura metalinguistica: «I nostri sforzi nei confronti delle persone migranti che arrivano si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. […] Per quanti sono arrivati già da tempo e sono inseriti nel tessuto sociale, è importante applicare il concetto di “cittadinanza”, che “si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli”» (ivi, 129 e 131).

Ne scaturiscono definizioni e denominazioni che superano paure e pregiudizi, e che certo remano controcorrente rispetto ad alcune visioni politiche e ad una parte del comune sentire: «gli immigrati, se li si aiuta a integrarsi, sono una benedizione, una ricchezza e un nuovo dono che invita una società a crescere» (ivi, 135). Ma naturalmente questa ricerca di integrazione non deve essere letta come un puro tornaconto per la società accogliente, né l’azione può essere mossa solo da obiettivi di ordine pratico: «non vorrei ridurre questa impostazione a una qualche forma di utilitarismo. Esiste la gratuità. È la capacità di fare alcune cose per il solo fatto che di per sé sono buone, senza sperare di ricavarne alcun risultato, senza aspettarsi immediatamente qualcosa in cambio. Ciò permette di accogliere lo straniero, anche se al momento non porta un beneficio tangibile» (ivi, 139).

 

Bibliografia

Rosarita Digregorio, Contributi alla ricostruzione della politica linguistica della Chiesa cattolica italiana postconciliare, in «Studi linguistici italiani», 29, 2003, pp. 49-117.

Massimo Arcangeli (a cura di), L’italiano nella Chiesa fra passato e presente, Allemandi, Torino, 2010.

Rita Librandi, La letteratura religiosa, il Mulino, Bologna, 2012.

Michael Davide Semeraro, Papa Francesco: la rivoluzione dei gesti, La meridiana, Molfetta, 2013.

Speciale Papale papale. La Parola da Giovanni XXIII a Francesco, speciale «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 13 novembre 2013.

Livio Fanzaga e Saverio Gaeta, Effetto Bergoglio. Le dieci parole di papa Francesco che stanno cambiando il mondo, Salani, Milano, 2014.

Andrea Tornielli, Jorge Mario Bergoglio. Francesco. Insieme. La vita, le idee, le parole del papa che sta cambiando la Chiesa, Piemme, Milano, 2014.

Fabio Zavattaro, Stile Bergoglio, effetto Francesco. I segreti di un successo, San Paolo, Roma, 2014.

Amedeo Benedetti, Il linguaggio di papa Francesco, al secolo Jorge Bergoglio, Erga, Genova, 2015.

Tommaso Stenico, Il vocabolario di papa Francesco, Imprimatur, Reggio Emilia, 2015.

Lodovica Maria Zanet, Le parole di papa Francesco, EDB, Bologna, 2015.

Antonio Carriero (a cura di), Il vocabolario di papa Francesco, Elledici, Torino, 2016, 2 voll.

Salvatore Claudio Sgroi, Il linguaggio di papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2016.

Dario Edoardo Viganò, Fratelli e sorelle, buonasera. Papa Francesco e la comunicazione, Carocci, Roma, 2016.

Papa Francesco, Parole d’amore, Centro Ambrosiano, Milano, 2017.

Rita Librandi, L’italiano della Chiesa, Carocci, Roma, 2017.

Mimmo Muolo, L’enciclica dei gesti di papa Francesco, Paoline, Roma, 2017.

Silvina Pérez, Lucetta Scaraffia, Francesco. Il papa americano, Vita e Pensiero, Milano, 2017.

Speciale Il pastore nel gregge: la lingua della Chiesa oggi, in «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 20 dicembre 2017.

Papa Francesco, Fratelli tutti. Lettera Enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale, Scholé, Brescia, 2020 (edizione commentata).

Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, Le parole valgono, Treccani, Roma, 2020.

Antonio Mazzi, Gentilezza, la nuova parola del Papa, in «Corriere della Sera», 23 ottobre 2020.

Emiliano Picchiorri, Quando le parole valgono, in «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 23 ottobre 2020.

Rita Librandi e Pietro Sebastiani (a cura di), La Chiesa ambasciatrice dell’italiano, il Mulino, Bologna, in stampa.

 

Immagine: Il nuovo pontefice Francesco si affaccia alla loggia il giorno della sua elezione

 

Crediti immagine: Tenan, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

 

 

 

 

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Fratelli tutti 4. Vox populi

 

Nell’articolo «Con il mio linguaggio» abbiamo già accennato al fatto che, pur servendosi anche lui del sostantivo «popolo», papa Francesco non intende ingenerare confusione rispetto agli usi che ne fanno alcuni movimenti politici; il pontefice dedica molto spazio all’argomento, ma qui ci limiteremo a considerare ciò che egli afferma sub specie linguae. Si può partire dal livello semantico e concettuale: «Esiste infatti un malinteso. “Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […] Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso un progetto comune”» (ivi, 158); di conseguenza «i gruppi populisti chiusi deformano la parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo. Infatti, la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso» (ivi, 160).

Eppure non si può fare a meno di impiegare questo sostantivo, né sarebbe giusto regalarne l’esclusiva a chi ne deforma il senso: «La pretesa di porre il populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”. La realtà è che ci sono fenomeni sociali che strutturano le maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie; inoltre, si può pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per attuare insieme un progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo. Tutto ciò trova espressione nel sostantivo “popolo” e nell’aggettivo “popolare”. Se non li si includesse – insieme ad una solida critica della demagogia – si rinuncerebbe a un aspetto fondamentale della realtà sociale» (ivi, 157).

 

Una «brutta parola» o una forma di «carità sociale»?

 

Nonostante tali storture non bisogna cedere al qualunquismo, alla rassegnazione o all’inattività, perché anche in questo caso il significato di una parola non è dato una volta per tutte, ma dipende da come i singoli si impegnano ad interpretarlo nella realtà: «Per molti la politica oggi è una brutta parola, e non si può ignorare che dietro questo fatto ci sono spesso gli errori, la corruzione, l’inefficienza di alcuni politici. A ciò si aggiungono le strategie che mirano a indebolirla, a sostituirla con l’economia o a dominarla con qualche ideologia. E tuttavia, può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica? […] Si tratta di progredire verso un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità sociale. Ancora una volta invito a rivalutare la politica, che “è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune”» (ivi, 176 e 180).

Questo «amore sociale» si manifesta su due piani, l’uno più piccolo e immediato e l’altro più alto e prospettico, ma entrambi sono necessari e tra loro complementari: «C’è un cosiddetto amore “elicito”, vale a dire gli atti che procedono direttamente dalla virtù della carità, diretti a persone e a popoli. C’è poi un amore “imperato”: quegli atti della carità che spingono a creare istituzioni più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali. Ne consegue che è “un atto di carità altrettanto indispensabile l’impegno finalizzato ad organizzare e strutturare la società in modo che il prossimo non abbia a trovarsi nella miseria”. È carità stare vicino a una persona che soffre, ed è pure carità tutto ciò che si fa, anche senza avere un contatto diretto con quella persona, per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza» (ivi, 186).

 

Non si parla da soli

 

Come visto anche a proposito del rapporto con i migranti, papa Francesco si serve di alcuni verbi per spiegarne un altro, a lui particolarmente caro: «avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”» (ivi, 198). Ma anche in questo caso non bisogna lasciarsi fuorviare da alcune distorsioni del concetto: «Spesso si confonde il dialogo con qualcosa di molto diverso: un febbrile scambio di opinioni nelle reti sociali, molte volte orientato da un’informazione mediatica non sempre affidabile. Sono solo monologhi che procedono paralleli, forse imponendosi all’attenzione degli altri per i loro toni alti e aggressivi. Ma i monologhi non impegnano nessuno, a tal punto che i loro contenuti non di rado sono opportunistici e contraddittori. […] Il peggio è che questo linguaggio, consueto nel contesto mediatico di una campagna politica, si è talmente generalizzato che lo usano quotidianamente tutti» (ivi, 200-201).

Non manca però una prospettiva di ottimismo nel futuro e nell’uomo stesso, e tutto ciò è ancora generatore di nuove parole e nuovi significati: «Gli eroi del futuro saranno coloro che sapranno spezzare questa logica malsana e decideranno di sostenere con rispetto una parola carica di verità, al di là degli interessi personali. […] Ma questo avviene effettivamente solo nella misura in cui tale sviluppo si realizza nel dialogo e nell’apertura agli altri. Infatti, “in un vero spirito di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione. Così diventa possibile essere sinceri, non dissimulare ciò in cui crediamo, senza smettere di dialogare”» (ivi, 202-203).

 

Oltre la post-verità, per una cultura dell’incontro

 

Se dunque papa Francesco esorta a pronunciare «una parola carica di verità», è necessario prima di tutto intendersi a proposito di quest’ultimo sostantivo: «Ciò che chiamiamo “verità” non è solo la comunicazione di fatti operata dal giornalismo. È anzitutto la ricerca dei fondamenti più solidi che stanno alla base delle nostre scelte e delle nostre leggi. Questo implica accettare che l’intelligenza umana può andare oltre le convenienze del momento e cogliere alcune verità che non mutano, che erano verità prima di noi e lo saranno sempre» (ivi, 208).

Ma ciò non significa che sia lecito promuovere un pensiero unico o che non vi siano realtà e istanze sociali anche molto eterogenee; la questione è piuttosto portare tutto questo a sintesi in modo costruttivo: «La parola “cultura” indica qualcosa che è penetrato nel popolo, nelle sue convinzioni più profonde e nel suo stile di vita. Se parliamo di una “cultura” nel popolo, ciò è più di un’idea o di un’astrazione. Comprende i desideri, l’entusiasmo e in definitiva un modo di vivere che caratterizza quel gruppo umano. Dunque, parlare di “cultura dell’incontro” significa che come popolo ci appassiona il volerci incontrare, il cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare qualcosa che coinvolga tutti. Questo è diventato un’aspirazione e uno stile di vita. Il soggetto di tale cultura è il popolo, non un settore della società che mira a tenere in pace il resto con mezzi professionali e mediatici» (ivi, 216).

 

Bibliografia

Rosarita Digregorio, Contributi alla ricostruzione della politica linguistica della Chiesa cattolica italiana postconciliare, in «Studi linguistici italiani», 29, 2003, pp. 49-117.

Massimo Arcangeli (a cura di), L’italiano nella Chiesa fra passato e presente, Allemandi, Torino, 2010.

Rita Librandi, La letteratura religiosa, il Mulino, Bologna, 2012.

Michael Davide Semeraro, Papa Francesco: la rivoluzione dei gesti, La meridiana, Molfetta, 2013.

Speciale Papale papale. La Parola da Giovanni XXIII a Francesco, speciale «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 13 novembre 2013.

Livio Fanzaga e Saverio Gaeta, Effetto Bergoglio. Le dieci parole di papa Francesco che stanno cambiando il mondo, Salani, Milano, 2014.

Andrea Tornielli, Jorge Mario Bergoglio. Francesco. Insieme. La vita, le idee, le parole del papa che sta cambiando la Chiesa, Piemme, Milano, 2014.

Fabio Zavattaro, Stile Bergoglio, effetto Francesco. I segreti di un successo, San Paolo, Roma, 2014.

Amedeo Benedetti, Il linguaggio di papa Francesco, al secolo Jorge Bergoglio, Erga, Genova, 2015.

Tommaso Stenico, Il vocabolario di papa Francesco, Imprimatur, Reggio Emilia, 2015.

Lodovica Maria Zanet, Le parole di papa Francesco, EDB, Bologna, 2015.

Antonio Carriero (a cura di), Il vocabolario di papa Francesco, Elledici, Torino, 2016, 2 voll.

Salvatore Claudio Sgroi, Il linguaggio di papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2016.

Dario Edoardo Viganò, Fratelli e sorelle, buonasera. Papa Francesco e la comunicazione, Carocci, Roma, 2016.

Papa Francesco, Parole d’amore, Centro Ambrosiano, Milano, 2017.

Rita Librandi, L’italiano della Chiesa, Carocci, Roma, 2017.

Mimmo Muolo, L’enciclica dei gesti di papa Francesco, Paoline, Roma, 2017.

Silvina Pérez, Lucetta Scaraffia, Francesco. Il papa americano, Vita e Pensiero, Milano, 2017.

Speciale Il pastore nel gregge: la lingua della Chiesa oggi, in «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 20 dicembre 2017.

Papa Francesco, Fratelli tutti. Lettera Enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale, Scholé, Brescia, 2020 (edizione commentata).

Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, Le parole valgono, Treccani, Roma, 2020.

Antonio Mazzi, Gentilezza, la nuova parola del Papa, in «Corriere della Sera», 23 ottobre 2020.

Emiliano Picchiorri, Quando le parole valgono, in «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 23 ottobre 2020.

Rita Librandi e Pietro Sebastiani (a cura di), La Chiesa ambasciatrice dell’italiano, il Mulino, Bologna, in stampa.

 

Immagine: Papa Francesco pronuncia la sua prima omelia durante la missa pro Ecclesia

 

Crediti immagine: Gabriel Andrés Trujillo Escobedo, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons

 

 

 

 

 

 

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Fratelli tutti 5. «Andate in pace!»

«Come apostolo dei Gentili, io faccio onore al mio ministero»: questa vecchia traduzione di un versetto della Lettera ai Romani ci consente di passare ad un’altra parola che sta caratterizzando lo stile dell’attuale pontefice; vi insiste lui stesso partendo, come di consueto, da un fondamento neotestamentario che smentisce come ciò possa essere un semplice atteggiamento “buonista” inadatto a chi svolge un ministero come quello petrino: «San Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola greca chrestotes (Gal 5,22), che esprime uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende il “dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano”, invece di “parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano”» (ivi, 223).

Da qui un’ulteriore precisazione semantica (ma anche pratica) e il recupero di altre tre parole che papa Francesco propose già il 13 maggio 2015 per rendere più sane le relazioni familiari: «La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”» (ivi, 224).

 

Una pace senza sconti

 

L’«incontro» e la «gentilezza» di cui abbiamo appena parlato sono la base per affrontare e superare i conflitti che inevitabilmente si generano nella vita dei singoli e delle comunità; conflitti che possono perpetuarsi all’infinito in una spirale perversa o che possono avere termine senza che ciò presupponga la prevaricazione di una parte sull’altra. A patto che il processo di mediazione metta al centro un altro concetto chiave che abbiamo in parte già incontrato: «la verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia. Tutt’e tre unite, sono essenziali per costruire la pace e, d’altra parte, ciascuna di esse impedisce che le altre siano alterate. […] La verità non deve, di fatto, condurre alla vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione e al perdono. Verità è raccontare alle famiglie distrutte dal dolore quello che è successo ai loro parenti scomparsi. Verità è confessare che cosa è successo ai minori reclutati dagli operatori di violenza. Verità è riconoscere il dolore delle donne vittime di violenza e di abusi» (ivi, 227).

Sarà allora possibile costruire e mantenere la pace, la quale «non è solo assenza di guerra, ma l’impegno instancabile – soprattutto di quanti occupiamo un ufficio di maggiore responsabilità – di riconoscere, garantire e ricostruire concretamente la dignità, spesso dimenticata o ignorata, dei nostri fratelli, perché possano sentirsi protagonisti del destino della propria nazione» (ivi, 233).

 

Settanta volte sette?

 

Papa Francesco è però consapevole che simili processi non sono né facili né scontati, perché ancora una volta possono essere di ostacolo parole sbagliate, oppure fraintese, oppure ignorate: «Alcuni preferiscono non parlare di riconciliazione, perché ritengono che il conflitto, la violenza e le fratture fanno parte del funzionamento normale di una società. […] Altri sostengono che ammettere il perdono equivale a cedere il proprio spazio perché altri dominino la situazione. […] Altri credono che la riconciliazione sia una cosa da deboli, che non sono capaci di un dialogo fino in fondo e perciò scelgono di sfuggire ai problemi nascondendo le ingiustizie» (ivi, 236).

Occorre dunque chiarirsi sui termini e prendere piena coscienza di ciò che essi implicano: «Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama. […] Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla questa necessità bensì la richiede. Ciò che conta è non farlo per alimentare un’ira che fa male all’anima della persona e all’anima del nostro popolo, o per un bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una trafila di vendette. […] Quanti perdonano davvero non dimenticano, ma rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ha fatto loro del male. […] Neppure stiamo parlando di impunità. […] Il perdono è proprio quello che permette di cercare la giustizia senza cadere nel circolo vizioso della vendetta né nell’ingiustizia di dimenticare» (ivi, 241-242 e 251-252).

 

Si vis pacem…

 

Di conseguenza vengono a cadere espressioni che pure in passato erano state fatte proprie anche dalla dottrina cristiana: «oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!», giacché in quanto tale «la guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male» (ivi, 258 e 261).

Né la Chiesa di Roma può sottrarsi a tale impegno, ma anzi deve assumerlo come sua missione e come priorità: «Chiamata a incarnarsi in ogni situazione e presente attraverso i secoli in ogni luogo della terra – questo significa “cattolica” –, la Chiesa può comprendere, a partire dalla propria esperienza di grazia e di peccato, la bellezza dell’invito all’amore universale» (ivi, 278). Un impegno da assumere insieme alle altre religioni (specie quelle che si rifanno all’unico Dio, ma non solo), ancora una volta con precisione di parole e dunque di obiettivi: «Come leader religiosi siamo chiamati ad essere veri “dialoganti”, ad agire nella costruzione della pace non come intermediari, ma come autentici mediatori. Gli intermediari cercano di fare sconti a tutte le parti, al fine di ottenere un guadagno per sé. Il mediatore, invece, è colui che non trattiene nulla per sé, ma si spende generosamente, fino a consumarsi, sapendo che l’unico guadagno è quello della pace. Ciascuno di noi è chiamato ad essere un artigiano della pace» (ivi, 284).

 

… para verbum

 

«Senza dubbio», chiosa papa Francesco (e noi lo prendiamo come commento generale di questo suo documento e di ciò che siamo venuti dicendo), «si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile accettare la sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità» (ivi, 127).

 

Bibliografia

Rosarita Digregorio, Contributi alla ricostruzione della politica linguistica della Chiesa cattolica italiana postconciliare, in «Studi linguistici italiani», 29, 2003, pp. 49-117.

Massimo Arcangeli (a cura di), L’italiano nella Chiesa fra passato e presente, Allemandi, Torino, 2010.

Rita Librandi, La letteratura religiosa, il Mulino, Bologna, 2012.

Michael Davide Semeraro, Papa Francesco: la rivoluzione dei gesti, La meridiana, Molfetta, 2013.

Speciale Papale papale. La Parola da Giovanni XXIII a Francesco, speciale «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 13 novembre 2013.

Livio Fanzaga e Saverio Gaeta, Effetto Bergoglio. Le dieci parole di papa Francesco che stanno cambiando il mondo, Salani, Milano, 2014.

Andrea Tornielli, Jorge Mario Bergoglio. Francesco. Insieme. La vita, le idee, le parole del papa che sta cambiando la Chiesa, Piemme, Milano, 2014.

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Amedeo Benedetti, Il linguaggio di papa Francesco, al secolo Jorge Bergoglio, Erga, Genova, 2015.

Tommaso Stenico, Il vocabolario di papa Francesco, Imprimatur, Reggio Emilia, 2015.

Lodovica Maria Zanet, Le parole di papa Francesco, EDB, Bologna, 2015.

Antonio Carriero (a cura di), Il vocabolario di papa Francesco, Elledici, Torino, 2016, 2 voll.

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Dario Edoardo Viganò, Fratelli e sorelle, buonasera. Papa Francesco e la comunicazione, Carocci, Roma, 2016.

Papa Francesco, Parole d’amore, Centro Ambrosiano, Milano, 2017.

Rita Librandi, L’italiano della Chiesa, Carocci, Roma, 2017.

Mimmo Muolo, L’enciclica dei gesti di papa Francesco, Paoline, Roma, 2017.

Silvina Pérez, Lucetta Scaraffia, Francesco. Il papa americano, Vita e Pensiero, Milano, 2017.

Speciale Il pastore nel gregge: la lingua della Chiesa oggi, in «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 20 dicembre 2017.

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Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, Le parole valgono, Treccani, Roma, 2020.

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Emiliano Picchiorri, Quando le parole valgono, in «Lingua Italiana» magazine, Treccani on line, 23 ottobre 2020.

Rita Librandi e Pietro Sebastiani (a cura di), La Chiesa ambasciatrice dell’italiano, il Mulino, Bologna, in stampa.

 

Immagine: La messa inaugurale del ministero petrino di papa Francesco

 

Crediti immagine: Fczarnowski, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_227.html

Alda Merini e il “significato” della poesia

«Sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida, / sono il poeta che canta e non trova parole»

 

Si sono impiegate molte definizioni per designare Alda Merini: si va dalla prima, importante, espressione pasoliniana «bambina Merini» (non certo lusinghiera, ma nemmeno spregiativa, anche se così la intese lei, ricordandola spesso in seguito con le parole «ragazzetta/ragazzaccia milanese»: Sono nata il ventuno a primavera, p. 28 e Uomini miei, p. 89) ad altre più recenti e indicative di una fama ormai indiscussa come «poetessa dei Navigli». La singolare vicenda artistica e umana della Merini ha indotto critici, studiosi, e giornalisti ad accentuare ora l’uno ora l’altro aspetto della poetessa, di cui sono stati di volta in volta sottolineati – in modo più o meno convincente e fondato – il lirismo, la passionalità, la follia, l’erotismo, il disagio, il vitalismo, la generosità e via discorrendo.

Né tali definizioni hanno sempre ottenuto il riconoscimento dell’interessata: «Chi mi ha affibbiato l’epiteto un poco doloroso di poetessa d’amore ha sbagliato. Non sono mai stata una donna d’amore e neanche una donna inane, ma una donna d’azione che ha scritto d’amore per forza, come grido di vendetta. Perché l’amore stimola alla vendetta» (La pazza della porta accanto, p. 44); oppure, più drammaticamente: «Molti diedero al mio modo di vivere un nome / e fui soltanto una isterica» (da Alda Merini, in Il suono dell’ombra, p. 383). Anche se non va dimenticato che simili dichiarazioni hanno visto talvolta la Merini mutar d’opinione. Ma se la definizione di sé stessi o degli altri, specie quando si ha a che fare con un “io” complicato e volubile come quello meriniano, resta operazione scivolosa e imprecisa, più agevole è delineare i tratti di concetti e persone considerati ad un livello più alto e generale.

 

«Ma il vocabolo esatto del presente / io lo cerco anelando sulla terra»

 

A tale proposito va sottolineato come nella scrittura di Alda Merini, specie in quella autobiografica in prosa, ricorrano insistentemente riflessioni e descrizioni di natura metalinguistica e semantica; un interesse per il linguaggio verbale che l’autrice manifestò già in giovanissima età: «La lingua italiana è estremamente facoltosa e ricca di centottantamila vocaboli. Quando ero bambina chiedevo a mio padre non solo il significato delle parole, ma anche quale genesi avessero, quale fosse la radice e l’uso. La mia poesia Genesi è la salutazione evangelica dell’amore come nascita della parola poetica. […] Fin dalla mia infanzia ho dato molto valore al sentimento, ma ricordo anche come io saltassi di gioia alla scoperta di una parola che mi accendeva la fantasia» (Reato di vita, pp. 28-30).

Una simile passione si è poi sostanziata sfociando in una forza generativa che la poetessa descrive attraverso un altro dei suoi frequenti richiami al testo biblico recentemente indagati da Stefania Segatori: «Ho buttato il mio verbo come Iddio / (l’amore fa di questi prepotenti / e nuovissimi doni) ed ho creato / proprio col soffio identico iniziale / con cui Dio ha fatto l’uomo» (in Il suono dell’ombra, p. 120): ecco perché, a dieci anni dalla scomparsa, è possibile non solo studiare la lingua “di” Alda Merini, ma anche – ed è ciò che qui ci si propone di fare – interrogarsi su che cosa significassero alcune parole “per” Alda Merini, prolifica demiurga di versi.

 

«Il gergo dei poeti è questo»

 

E proprio sulla poesia e sull’essere poeti si individuano spunti semantici, enciclopedici o metalinguistici molto interessanti, che sovente si intersecano con altri temi cari all’autrice quali la dimensione spirituale, l’amore, la sofferenza, la carnalità, la pazzia e la vita. Sono tentativi di definizione evocativi, icastici, talvolta ben circoscritti, talaltra – e sono i casi più frequenti – aperti a ulteriori pensieri non delimitabili in un orizzonte chiaramente definito; lo si può vedere già a proposito della poesia stessa:

«Mi diceva proprio Michele Pierri: “A te della poesia non importa granché”. No, non mi importa molto della poesia: la poesia è una delle tante manifestazioni della vita. È un modo di parlare, e può essere cattiva, buona, iraconda, inutile. È un modo di far teatro, è un modo di mascherarsi. La poesia può essere una maschera greca, un carnevale. Può essere una dignità che non si ha, una dignità che si soffre. Sono tante le definizioni della poesia. Diciamo che la letteratura può anche essere un modo di sentirsi pazzi. Ma non bisogna confondere la naturale follia con quella che è la follia dell’arte, con quella che è la follia della santità. La bella, gaudiosa follia di san Francesco, che butta via tutto e se ne va, è come la follia del barbone, il barbone filosofo che rifiuta di pagare il fitto e si addormenta sulle strade, proprio perché non riconosce una paternità umana, una paternità sociale, ma una grande paternità divina, cosmica. E affidarsi alla provvidenza è un modo di far poesia» (La pazza della porta accanto, pp. 74-75).

 

«Poesia sostanziale e sola / identità della vita»

 

Scrivere versi non è dunque qualcosa che astrae dal mondo, ma è vero piuttosto il contrario, giacché il poeta, per essere tale, non può che immergersi nella realtà quotidiana, in un rapporto transitivo e biunivoco tra queste due dimensioni: «Direi che la poesia è vita e la vita è poesia. Bisogna soprattutto vivere, stare fra la gente, avere contatti con le persone che ci interessano, magari andare a vedere un buon film altrimenti si parla solo di sé stessi. […] La prima condizione della poesia è la libertà, la gioia. La poesia è gioia, è transfert; non si può fare poesia in un luogo ristretto della dimora del proprio essere. La poesia è totale. È innegabile che in essa vi sia una compartecipazione del dolore, ma non un dolore psichiatrico inutile. Bartolini disse: “Il manicomio è dolore inutile”. Aveva perfettamente ragione, è questo dolore inutile che rende la poesia terrorizzante» (Le parole di Alda Merini).

Dal passo appena citato risalta l’ampio spettro prospettico di Alda Merini, la quale non manca di sottolineare la dimensione sociale del vivere – a lei tanto cara – e di collegare l’esperienza poetica con il vissuto personale dell’internamento, fino ad impiegare un tecnicismo specifico della psicanalisi per rendere più chiara l’immagine figurata che sta delineando. Del resto la forza per molti versi salvifica e vitale della poesia è ribadita dall’autrice in molte altre circostanze, in una costante oscillazione tra definizione referenziale e metafora: «la poesia è una grande distrazione dal dolore, dalle cose pesanti della vita. La poesia è anche una catena, ma una catena di fiori» (La vita facile, p. 48).

 

«Ma i poeti nel loro silenzio / fanno ben più rumore / di una dorata cupola di stelle»

 

Se questa è la poesia, chi ne è, allora, l’artefice? E come anche il poeta può essere definito e descritto, specie in rapporto al mondo in cui è destinato a vivere? È sempre la stessa Merini a spiegarlo, fondendo ancora riflessione metalinguistica, elemento autobiografico e soggettivo, sensibilità metafisica e stile poetico: «Che cos’è un poeta? È un’ombra maldicente di sé e degli altri, ma pur sempre un morto nella vita. Uno come me che un giorno ha chiuso la propria casa ed è andato a vivere in albergo per dimenticare Titano e la molestia dei vicini» (Reato di vita, p. 46). Un rapporto fondato dunque anche sul conflitto e sull’incomunicabilità, tanto interiori quanto relazionali, come avviene di frequente a chi avverte in sé un più forte legame con la dimensione divina: «I profeti sono figli di Dio, ma i poeti sono i nipoti di Dio, vedono e capiscono prima che le cose avvengano, e sentono le voci, che non sono voci di paranoia, sono le inquietudini del loro tempo. Il poeta dà il segnale di ciò che sta per avvenire, purtroppo non è mai ascoltato» (ivi, p. 99).

Eppure il poeta non rimane del tutto un escluso, un reietto, un dissociato; e non è privo di risorse e di doti che riesce a far valere: «Chi dice che il poeta è un nomade, un essere senza patria, sbaglia, vanifica il senso di una cristianità assoluta, in cui la parola, premasticata e preordinata dal poeta, viene assunta da altre bocche, e saggiata a livello di puro ristoro» (La pazza della porta accanto, p. 69); così che la sua abilità verbale e la sua profondità spirituale possono essere sfruttate come potenti armi di (auto)difesa e di comunicazione che rimanda ad un “oltre” mai pienamente definito: «Il poeta è l’uomo isola che colma lo spazio tra sogno e verità. La quale verità non traspare mai nei versi del poeta ma è un solo memorabile accenno di quella mostruosa catastrofe che sta sempre alle spalle del giusto e che, forse, si racconta come storia o come cronaca. Il poeta è un buon giocatore, le sue bische clandestine sono le sue parole. È un giocatore “truccato”, fuorilegge della realtà» (Il sigillo della poesia, p. 137).

 

Una, nessuna e centomila

 

Ecco dunque perché, quando un opprimente Vuoto d’amore sopraffà l’anima e la psiche del poeta, Alda Merini non trova migliore àncora di salvezza che quella dei propri stessi versi, personificati e resi oggetto di una supplica che si vorrebbe dialogica:

 

O mia poesia, salvami,

per venire a te

scampo alle invitte braccia del demonio:

nel sogno bugiardo

agguanta la mia gonna la sua fiamma

e io vorrei morire

per i mille patimenti che m’infligge.

Nulla vale la durata di una vita

ma se mi alzo e divoro

con un urlo il mio tempo di respiro,

lo faccio solo pensando alla tua sorte,

mia dolce chiara bella creatura,

mia vita e morte,

mia trionfale e aperta poesia

che mi scagli al profondo

perché ti dia le risonanze nuove.

E se torno dal chiuso dell’inferno

torno perché tu sei la primavera:

perché dunque rifiuti me germoglio,

casto germoglio della vita tua?

 

(in Il suono dell’ombra, p. 348)

 

Non sarà forse fuori luogo, allora, proporre una nuova, ulteriore definizione per Alda Merini: quella di poetessa della poesia.

 

Riferimenti bibliografici

 

Alda Merini, Le parole di Alda Merini, Stampa alternativa, s.l., 1992.

Alda Merini, Reato di vita. Autobiografia e poesia, a cura di Luisella Veroli, Melusine, Milano, 1994.

Alda Merini, Sono nata il ventuno a primavera. Diario e nuove poesie, a cura di Piero Manni, Manni, Lecce, 2005.

Alda Merini, Uomini miei, Frassinelli, Milano, 2005.

Alda Merini, La pazza della porta accanto, a cura di Guido Spaini e Chicca Gagliardo, Bompiani, Milano, 2009.

Alda Merini, Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, a cura di Ambrogio Borsani, Mondadori, Milano, 2009.

Alda Merini, Il sigillo della poesia. La vita e le opere, a cura di Piero Manni, Manni, Lecce, 2013.

Alda Merini, La vita facile, a cura di Chicca Gagliardo e Guido Spaini, Bompiani, Milano, 2017.

Pier Paolo Pasolini, Una linea orfica, in «Paragone», 60, 1954, pp. 82-87.

Paolo Di Stefano, Alda Merini, la poetessa dei Navigli che cantò i poveri, l’amore e l’inferno, in «Corriere della Sera», 2 novembre 2009.

Aldo Colonnello, Alda Merini la poetessa dei Navigli, Meravigli, Milano, 2014.

Stefania Segatori, Merini Alda, in Marco Ballarini et alii (a cura di), Dizionario biblico della letteratura italiana, IPL, Milano, 2018, pp. 601-604.

 

Immagine: Alda Merini

 

Crediti immagine: Giuliano Grittini at it.wikipedia [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)]

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Teatro. La parola, il palcoscenico, il mondo

L’italiano sul palcoscenico: teatro, melodramma, canzone e non solo è il tema scelto per la XIX Settimana della lingua italiana nel mondo (21-27 ottobre 2019), iniziativa nata nel 2001 su impulso dell’allora Presidente dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini e promossa unitamente al Ministero per gli affari esteri e la cooperazione internazionale del nostro Paese. Per l’occasione di quest’anno l’Accademia della Crusca ha realizzato un volume, disponibile anche in formato digitale, curato da Nicola De Blasi e Pietro Trifone, che raccoglie diversi contributi di alcuni tra i massimi studiosi della storia della lingua italiana: i saggi ivi contenuti spaziano dunque tra i vari campi del mondo dello spettacolo, con approfondimenti di natura stilistica, storica e lessicale, considerando non solo le questioni linguistiche nel loro rapporto tra oralità, scrittura ed esecuzione, ma anche i mondi artistico-comunicativi della messinscena e dei linguaggi non verbali.

 

Origini e prime attestazioni

 

L’importanza dell’argomento per la nostra storia culturale e linguistica è testimoniata anche dal fatto che il sostantivo teatro rientra, come notava Tullio De Mauro, nel vocabolario di base dell’italiano, rappresentandone uno dei circa duemila lessemi fondamentali. Non è allora un caso che se ne trovino attestazioni già alle origini della nostra lingua (letteraria): ne fece uso ad esempio Boccaccio commentando la massima opera dell’altra delle “tre corone” che l’aveva di poco preceduto: «Chiamano, oltre a tutto questo, i comedi le parti intra sé distinte delle loro comedìe “scene”; per ciò che, recitando li comedi quelle nel luogo detto “scena”, nel mezzo del teatro, quante volte introduceano varie persone a ragionare tante della scena uscivano i mimi trasformati da quegli che prima avevano parlato e fatto alcuno atto, e, in forma di quegli che parlar doveano, venivano davanti dal popolo riguardante e ascoltante il comedo che racontava; dove il nostro autore chiama “canti” le parti della sua Comedìa» (Esposizioni sopra la Commedia di Dante, Accessus).

Ma, etimologicamente, la parola affonda le sue radici più lontano nel tempo e nello spazio. Il sostantivo è infatti entrato a far parte del nostro lessico come voce dotta, foggiata sul latino theātru(m), a sua volta discendente del greco ϑέατρον (théatron), il quale, composto dalla radice del verbo ϑεάομαι (theáomai, ‘guardo, vedo’) e dal suffisso locativo -τρον, designava appunto il luogo fisico dove si svolgevano rappresentazioni drammatiche o anche dove si tenevano assemblee e orazioni pubbliche. Ed è significativo che si sia di fronte ad una di quelle parole che, come spesso avviene per la vera cultura e la vera arte, hanno consentito di creare più legami che divisioni tra i popoli e le loro lingue: dalla medesima radice lessicale sono infatti derivati i corrispettivi contemporanei non solo in italiano o in idiomi neolatini come lo spagnolo, il francese, il portoghese e il rumeno, ma anche, ad esempio, in inglese, in tedesco, in russo, in norvegese e in turco.

 

Una parola, tanti significati

 

Primariamente, dunque, il vocabolo indicava, e tutt’ora indica, un edificio destinato a spettacoli o simili. Ma col tempo la parola ha assunto altre accezioni più estese e figurate, a partire da quella legata a ciò che avviene all’interno di quel luogo, ovvero le rappresentazioni sceniche e i testi che vengono recitati: da qui espressioni quali teatro di prosa, teatro dei burattini, teatro di strada (quindi per antonomasia realizzato in assenza del “contenitore” da cui ha preso il nome), teatro d’opera; oppure con tale sostantivo si designano l’insieme dei lavori drammaturgici o registici di un autore o di un artista (così si hanno il teatro di Goldoni, il teatro di Pirandello o il teatro di Ronconi), o quanti assistono ad uno spettacolo (ad esempio in frasi come il teatro ha tributato dieci minuti di applausi agli interpreti).

Ma il vocabolo, per similitudine traslata, può anche riferirsi ad un atteggiamento non spontaneo e affettato; oppure, analogamente, ad una serie di azioni, pose e discorsi che paiono insinceri, predeterminati e avulsi dalla concretezza quotidiana: ne è un esempio l’abusata formula teatrino della politica, dove l’accezione spregiativa è ulteriormente sottolineata dal diminutivo. Da un tale orizzonte semantico discende poi un’espressione come colpo di teatro, con cui si indica una qualunque trovata inaspettata che cambia l’ordine delle cose. Un senso sempre figurato ma non lontano dal significato etimologico è inoltre quello che indica genericamente un luogo in cui si svolgono o si sono svolti fatti di particolare rilievo: si parla così di teatro delle operazioni militari o si possono coniare frasi come il mondo editoriale è stato il teatro dei suoi successi.

 

L’italiano del teatro

 

Il senso di artificiosità trasmesso dalla comunicazione teatrale è stato accresciuto in Italia, fino a non molti decenni fa, dal fatto che quella portata in scena non era – né poteva essere – una lingua unitaria, dell’uso e avvertita come rispondente a quella degli scambi informali della quotidianità: per secoli infatti gli autori di teatro hanno dovuto fare i conti con la frammentazione linguistica della Penisola, con la distanza tra produzione verbale parlata e codificazione scritta, quest’ultima improntata necessariamente – specie quando ci si prefiggevano intendimenti artistici che superassero gli angusti confini localistici – al modello dell’italiano letterario, per sua natura estremamente distante dalla mimesi dell’oralità spontanea che invece il più delle volte si voleva fingere sul palcoscenico.

Gli espedienti di volta in volta escogitati dai nostri maggiori drammaturghi, soprattutto nel genere della commedia, hanno solo in parte risolto un problema che si poneva a monte, ma hanno consentito anche al codice teatrale di evolversi e di superare l’ostacolo in modo sempre più convincente: tra i nomi che vanno sicuramente ricordati in tal senso vi sono almeno quelli di Niccolò Machiavelli, di Carlo Goldoni e di Luigi Pirandello; ma non è un caso che perfino un grande autore come Giovanni Verga sia rimasto sostanzialmente deluso dall’esperienza maturata in ambito drammaturgico, dove si accorse di non riuscire a trasporre la “lingua verista” dei suoi romanzi e delle sue novelle. Né, come ha ben messo in luce lo Speciale Che lingue parla il teatro italiano? (link) su questa stessa rivista, gli autori contemporanei hanno rinunciato a servirsi delle molte varietà di cui è ricca la nostra lingua.

 

«Il teatro e la vita non son la stessa cosa»?

 

Il doverosamente già citato Goldoni, nella prefazione alla raccolta delle sue commedie (link), dichiarò: «i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. […] Le mie Commedie sono principalmente regolate, o almeno ho creduto di regolarle, co’ precetti che in essi due libri ho trovati scritti: libri, per altro, che soli certamente furono studiati dagli stessi primi Autori di tal genere di Poesia, e che daranno sempre a chicchessia le vere lezioni di quest’Arte. La natura è una universale e sicura maestra a chi l’osserva. “Quanto si rappresenta sul Teatro” scrive un illustre Autore “non deve essere se non la copia di quanto accade nel Mondo. La Commedia” soggiunge “allora è quale esser deve, quando ci pare di essere in una compagnia del vicinato, o in una familiar conversazione, allorché siamo realmente al Teatro, e quando non vi si vede se non se ciò che si vede tutto giorno nel Mondo”». Non è dello stesso parere – per cambiare genere teatrale – il Canio protagonista dei Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, che mette in guardia gli spettatori e la moglie (link) sulle diverse reazioni, non solo verbali, che potrebbe provocargli la gelosia provata sulla scena (nel qual caso Pagliaccio si limiterebbe a pronunciare «un comico sermone») o nella vita reale (dove invece «altramente / finirebbe la storia, com’è ver che vi parlo…»), perché, sostiene, «Il teatro e la vita non son la stessa cosa».

Certo è difficile – né è necessario – propendere univocamente per l’una o per l’altra posizione. Ma una cosa è certa: tanto nella vita quanto in teatro si può decidere o di essere passivi spettatori delle azioni altrui, oppure di giocarsi come protagonisti attivi delle vicende in cui si è coinvolti; e in questo senso non sono affatto indifferenti le parole che si usano – o quelle che si tacciono – e come ce ne si serve.

 

 

Bibliografia

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Ma ria Luisa Altieri Biagi, La lingua in scena, Zanichelli, Bologna, 1980.

Tristano Bolelli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Tea, Milano, 1989.

Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, Il nuovo etimologico, a cura di Michele A. Cortelazzo, Zanichelli, Bologna, 1999.

Tullio De Mauro, Grande dizionario italiano dell’uso, Utet, Torino, 1999-2007.

Pietro Trifone, L’italiano a teatro. Dalla commedia rinascimentale a Dario Fo, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma, 2000.

Neri Binazzi e Silvia Calamai (a cura di), Lingua e dialetto nel teatro contemporaneo, Unipress, Firenze, 2006.

Stefania Stefanelli, Va in scena l’italiano, Cesati, Firenze, 2006.

Stefania Stefanelli (a cura di), Varietà dell’italiano nel teatro contemporaneo, Edizioni della Normale, Pisa, 2009.

Alberto Nocentini, L’Etimologico. Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 2010.

Stefania Stefanelli, teatro e lingua, Enciclopedia dell’italiano, 2011.

Stefania Stefanelli (a cura di), La lingua italiana e il teatro delle diversità, Accademia della Crusca, Firenze, 2012.

Claudio Giovanardi e Pietro Trifone, La lingua del teatro, il Mulino, Bologna, 2015.

Nicola De Blasi e Pietro Trifone (a cura di), L’italiano sul palcoscenico, Accademia della Crusca - goWare, Firenze, 2019. Scaricabile gratuitamente dal 21 al 27 ottobre collegandosi all'indirizzo: https://www.goware-apps.com/litaliano-sul-palcoscenico-nicola-de-blasi-pietro-trifone-a-cura-di/

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Far di tutta l’erba (voglio) un fascio. Considerazioni linguistiche a cento anni dalla pubblicazione del programma dei Fasci italiani di combattimento

 

Un’estrema destra di estrema sinistra

 

Dopo la riunione che il 23 marzo 1919 sancì a Milano la nascita dei Fasci italiani di combattimento, il successivo 6 giugno venne pubblicato sul «Popolo d’Italia» (link) – il giornale fondato nel 1914 da Benito Mussolini dopo la sua fuoriuscita dal Partito socialista e il contestuale abbandono della direzione dell’«Avanti!» – il programma di questo movimento. Alla stesura del documento contribuì in modo significativo Alceste De Ambris, fratello di quell’Amilcare che il 5 ottobre 1914 aveva promosso il manifesto-appello del Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista a cui poco dopo aveva aderito il futuro Duce e a cui lo stesso si era nominalmente e idealmente ispirato per la costituzione del movimento della cui trista e infausta nascita ricorre il centenario.

La matrice del socialismo insurrezionalista professato da sindacalisti quali appunto i fratelli De Ambris emerge, tra l’altro, dal risalto che viene attributo all’aggettivo rivoluzionario. Una “rivoluzione” che però, per il consueto processo di rinegoziazione semantica proprio del discorso politico, non si identificava (più) con quella del marxismo-leninismo, ma che assunse un’accezione peculiare diventando un concetto e una parola chiave dell’ideologia e della narrazione fasciste. Non solo nei primi anni «Il Popolo d’Italia» riportava, subito sotto il nome della testata, la frase attribuita a Napoleone «La rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette»; ma così, metalinguisticamente, dichiarò Mussolini nel 1926, come si legge nell’emblematico (già nel titolo che fonde lingua, religione e politica) Dizionario della Dottrina Fascista: «Se per rivoluzione intendesi, come devesi intendere, violenta sostituzione di uomini e creazione di nuovi istituti, chi potrà negare al Fascismo il carattere e la portata di una vasta, profonda rivoluzione, destinata a influire sul corso della civiltà? Lo Stato Corporativo è la creazione tipica e l’orgoglio legittimo della Rivoluzione fascista. Le difficoltà inerenti a tutte le innovazioni radicali saranno superate. Solo col Fascismo il popolo italiano, al di là e al di sopra delle grottesche menzogne convenzionali del suffragismo demo-liberale, è diventato parte integrante dello Stato».

 

Contraddizioni e contrapposizioni

 

Eppure, come si legge nel programma del 1919, la proposta politica originaria del fascismo sarebbe stata di ben altro indirizzo, paragonabile a quella di ogni moderna democrazia liberale: Suffragio universale a scrutinio di lista regionale, con rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità per le donne. Un ribaltamento ideologico e, tragicamente, pratico che, nel passo riportato poco sopra, si riverbera e si manifesta sul piano della morfologia lessicale: il settorialismo neutro suffragio del 1919 viene infatti a(du)lterato nel 1926 da un suffisso caricato spregiativamente e dall’aggiunta di un composto aggettivale a cui viene attribuita un’analoga accezione negativa.

Procedimento linguistico e comunicativo caratteristico della retorica e della creatività mussoliniana, e più generalmente di formazioni e individui portati allo scontro, al dileggio e allo screditamento dell’avversario: un atteggiamento politico e verbale da cui è scaturita quella «lingua dell’odio» di cui si è recentemente parlato anche su questo magazine. Uno spirito contrappositivo, ideale e linguistico, che si individua fin dalla premessa del programma dei Fasci, dove sugli aspetti propositivi prevale l’insistenza di aggettivi quali antidogmatico, antidemagogico, antipregiudiziaiolo; oggi forse per indicare gli stessi concetti useremmo espressioni come «né di destra, né di centro, né di sinistra» o faremmo appello ad un apparentemente più pragmatico e rassicurante «buonsenso»: tutte voci e locuzioni vaghe – ben lontane ad esempio da un’ipotetica “terza via” prospettata dal coevo appello-programma del Partito popolare italiano (link) – dietro le quali è più facile celare e giustificare ogni forma di incoerenza, di indeterminatezza e di effimero opportunismo, come appunto fecero Mussolini e i suoi seguaci.

 

Una proposta nazional-socialista

 

La compresenza, spesso ossimorica, di elementi ideologici eterogenei sovente inconciliabili sotto il profilo dottrinale e concreto si appalesa ancora una volta sul piano programmatico e dunque lessicale. Al già citato retaggio socialista afferiscono infatti i temi e le voci contenuti nelle proposte relative al problema sociale, dove si parla ad esempio di giornata legale di otto ore di lavoro, minimi di paga, lavoratori, organizzazioni proletarie e assicurazione sulla invalidità e sulla vecchiaia; fino a prospettare, per il problema finanziario, una vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze, la cui energica perentorietà è sottolineata dal significativo uso tipografico dei caratteri maiuscoli.

Ma ai valori che discendevano dall’internazionalismo operaista era chiesto di coniugarsi con ideali nazionalistici e pugnaci, come già emerge dal nome stesso del movimento: Fasci italiani di combattimento; e non per nulla anche «Il Popolo d’Italia» nell’agosto del 1918 era passato dall’autodefinirsi «quotidiano socialista» all’identificarsi come «quotidiano dei combattenti e dei produttori», per poi perdere, con l’inizio del 1920, ogni esplicita classificazione politico-ideologica. Nel documento che stiamo commentando l’enfasi nazionalistica risalta fin dalle prime righe, contenenti il breve preambolo cataforico di presentazione del programma di un movimento sanamente italiano; un’italianità e un interesse nazionale da promuovere e difendere sia nel mondo sia internamente qualora realtà come i beni delle congregazioni religiose e le mense vescovili costituisc[a]no una enorme passività per la Nazione.

 

L’erba voglio è cresciuta nel giardino del re

 

Del resto l’orizzonte identitario è immediatamente esibito dall’allocuzione diretta con cui si apre il programma e che sovente, nel quasi quarto di secolo successivo, si udrà ripetere all’inizio di molti discorsi pronunciati dal balcone di Palazzo Venezia o in altre adunate di piazza: Italiani!. Un vocativo che subito produce quell’avvicinamento attanziale proprio della comunicazione politica che fa leva sull’emotività e sulla ricerca del coinvolgimento tra mittente e destinatario; strategia qui perseguita anche tramite il ricorso al punto esclamativo e ad un attacco monorematico di indubbia efficacia fàtica.

Un avvio stilisticamente coerente con il resto del documento (oltre che con la più generale retorica mussoliniana), in cui a prevalere sono lo stile nominale e la sintassi breve, che tipicamente trasmettono un senso di essenzialità, di perentorietà e di determinazione; senso corroborato da un altro sintagma chiave del programma, quello con cui, anaforicamente, vengono introdotte le rivendicazioni (ché, forse, è più corretto definirle tali piuttosto che “proposte”) del movimento fascista: Noi vogliamo. Una volontà (altra parola simbolo del regime) che, se si confrontano i propositi enunciati nel documento dei Fasci – non tutti e totalmente antidemocratici e dittatoriali – e ciò che fu concretamente attuato quando Mussolini esercitò il potere, non era poi forse nemmeno così chiaro agli stessi promotori dove dovesse condurre. Ma, soprattutto, una volontà che avrebbe potuto e dovuto essere arginata da chi deteneva la legittima autorità per farlo e avrebbe dovuto sapere, come recita il noto adagio, che “l’erba voglio” non avrebbe avuto diritto di cittadinanza nemmeno nel suo giardino: il re Vittorio Emanuele III, il quale lasciò invece attecchire, germogliare e prosperare una gramigna i cui semi rimangono purtroppo tuttora più o meno latenti nel terreno della società. Ai più avveduti botanici e giardinieri di oggi e di domani spetta dunque il compito di vigilare affinché la malerba non attecchisca e non produca nuovamente le conseguenze funeste che già hanno tragicamente segnato la storia; e anche l’attenzione agli usi linguistici e comunicativi di chi si propone per il governo della cosa pubblica o di chi già esercita il potere può essere uno strumento prezioso che contribuisce a individuare i sintomi di una pericolosa epifitia.

 

Bibliografia

Alfredo Panzini (e successori), Dizionario moderno. Supplemento ai dizionari italiani, Hoepli, Milano, 1905 (e successive).

Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, Vallechi, Firenze, 1929.

Amerigo Montemaggiori, Dizionario della Dottrina Fascista, Paravia, Torino, 1934.

Antonino Pagliaro e Guido Mancini (a cura di), Dizionario di Politica, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1940, 4 voll.

Enzo Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Editori riuniti, Roma, 1967, 2 voll.

Giovanni Lazzari, Le parole del fascismo, Argileto, Roma, 1975.

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Immagine: La scrivania di Benito Mussolini nella sede del quotidiano Il Popolo d'Italia, nella redazione milanese di via Paolo da Cannobio

 

Crediti immagine: Da Storia Illustrata n. 224 - luglio 1976

 

 

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Expedit: 18 gennaio 1919, la “discesa in campo” dei cattolici con l’«appello ai liberi e forti»

 

Universalismo o parzialità?

 

Dopo i primi burrascosi decenni di convivenza tra il nuovo Stato italiano e le gerarchie ecclesiastiche vaticane, queste ultime, sulla spinta di un forte movimento di base e intimorite da una possibile avanzata socialista nel quadro del rinnovato sistema elettorale proporzionale a suffragio sostanzialmente universale, benché ancora solo maschile, si rassegnarono ad accettare che si costituisse anche in Italia un partito di massa di ispirazione cattolica.

Principale artefice di questa operazione fu don Luigi Sturzo, il quale, nella sua finezza di pensiero che sapeva non confondere i pur tangenti piani spirituale e temporale, chiarì subito perché il Partito Popolare Italiano non potesse e non dovesse configurarsi come una forza politica squisitamente confessionale e clericale, ma si proponesse quale formazione desiderosa di concorrere al perseguimento del bene comune nazionale all’interno del perimetro di istituzioni democratiche e liberali moderne; così il sacerdote siciliano si espresse nel giugno del 1919, all’atto di nascita ufficiale del PPI, mettendo bene in luce quanto la nominatio rerum avesse forti ricadute pratiche e ideali: «È superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici; il cattolicismo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, ed abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione».

 

La «grave ora» del tempo presente

 

L’assunto trovava piena rispondenza nello storico «appello» lanciato pochi mesi prima, il 18 gennaio 1919 in concomitanza con l’aprirsi della conferenza di pace di Parigi, «a tutti gli uomini liberi e forti […] senza pregiudizi né preconcetti»: questa duplice dittologia – figura retorica ampiamente impiegata nel documento – da un lato intende far subito leva sulla strategia comunicativa dell’avvicinamento attanziale (perseguito anche col forte legame all’hic et nunc e con la ricerca di un rapporto diretto tra mittenti e destinatari: «in questa grave ora […] facciamo appello»), e dall’altro definisce la disposizione intellettuale che ci si aspetta dagli interlocutori.

Se a prima vista può sembrare un’allocuzione selettiva, a ben vedere è vero piuttosto il contrario, giacché le uniche persone che sarebbero rimaste (auto)escluse dall’«appello» sarebbero state quelle mentalmente sottomesse alle ideologie e dunque indisponibili ad ogni confronto e ragionamento di merito, e quelle troppo tiepide e pavide per raccogliere una simile sollecitazione in un momento così critico come quello postbellico: in sostanza i mittenti, che sagacemente all’inizio non si identificano e non si presentano con precisione perché ricorrono ad una più efficace e inclusiva prima persona plurale, si rivolgono a tutti coloro che oggi definiremmo, sempre per restare ad espressioni di matrice religiosa, «uomini di buona volontà». Una strategia comunicativa che infatti viene ribadita, a mo’ di cornice ideale e retorica, alla fine del documento: «A tutti gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti, a quanti nell’amore alla patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano internazionalismo, a quanti apprezzano e rispettano le virtù morali del nostro popolo, a nome del partito popolare italiano facciamo appello e domandiamo l’adesione al nostro programma» che, in dodici punti, seguiva l’«appello» stesso.

 

Contro «una sistematica lotta di classe» e i «nuovi imperialismi»

 

Un programma ancora oggi per molti versi sorprendente e attuale, che declinava i valori di ispirazione cristiana – ovviamente non sottaciuta e anzi più volte esplicitata – tenendo presenti alcuni ideali civili e morali di base ma che si sostanziava in proposte concrete. È molto interessante da questo punto di vista osservare il lessico impiegato, che si innesta in un tessuto sintattico formale e articolato, e in un impianto retorico aulico e solenne: se è vero infatti che il popolarismo intendeva distinguersi tanto dalle «democrazie socialiste che tentano la materializzazione di ogni idealità» quanto dai «vecchi liberalismi settari che nella forza dell’organismo statale centralizzato resistono alle nuove correnti affrancatrici», è però altrettanto vero che delle une e degli altri esso assumeva parole e concetti, o perché conformi alla dottrina sociale cristiana o perché li reinterpretava e li circoscriveva magari attraverso l’uso di opportuni determinanti (per altro in tutto l’«appello» abbondano le locuzioni aggettivali e avverbiali).

Al repertorio più tradizionalmente di sinistra si possono così ricondurre voci ed espressioni, all’occorrenza appunto parzialmente ridefinite, come «giustizia sociale», «pacifico progresso della società», «rigettiamo gli imperialismi», «uguaglianza del lavoro», «migliore avvenire», «Stato veramente popolare», «elevazione delle classi lavoratrici», «voto femminile», «sviluppo progressivo», «sovranità popolare», «riforme», «organizzazione di classe nell’unità sindacale», «pieno diritto al lavoro», «conflitti anche collettivi del lavoro industriale e agricolo», «capitale», «previdenza sociale» e «libertà popolari». Ben rappresentato anche il lessico di estrazione conservatrice, nazionalista e liberale: «Patria», «diritti nazionali», «libertà» (di varia natura economico-sociale), «coscienza nazionale», «terreno costituzionale», «personalità individuale», «istituto parlamentare», «monopoli statali», «formazione e tutela della piccola proprietà», «conservazione», «iniziative private», «colonizzazione interna del latifondo», «provincie redente», «tradizioni della nazione» e «politica coloniale».

 

La terza via

 

A ciò il Partito Popolare Italiano aggiungeva proposte programmatiche, e dunque parole, più peculiarmente “sue”, o discendenti direttamente dall’ispirazione al magistero cattolico o informate alla visione di società da esso derivante. Se non stupisce imbattersi in vocaboli o sintagmi come «programma politico-morale patrimonio delle genti cristiane», «libertà religiosa», «saldi principî del cristianesimo che consacrò la grande missione civilizzatrice dell’Italia», «integrità della famiglia» e «libertà ed indipendenza della Chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale», più rilevanti sono i riferimenti ai rapporti e alle strutture da instaurare nel nuovo assetto nazionale e internazionale: meritano attenzione in particolare «l’autonomia comunale», «il più largo decentramento nelle unità regionali» e la «libertà e autonomia degli enti pubblici locali» di matrice federalista, «il collegio plurinominale a larga base con rappresentanza proporzionale» e «il senato elettivo» per un impianto istituzionale pienamente democratico, la «riorganizzazione della beneficenza e dell’assistenza» tanto pubbliche quanto private per coniugare solidarietà e sussidiarietà.

Una delle dittologie chiave che apre l’«appello» riguarda «nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà» (e si ricordi per inciso che il movimento antifascista denominato con questi due ultimi sostantivi nacque una decina d’anni più tardi in ambienti non cattolici): ideali raggiungibili solo tramite il tenace perseguimento «insieme della sovranità popolare e della collaborazione sociale». Questo avrebbe portato a consolidare «una pace giusta e durevole», sia per ricomporre le diverse istanze interne sia, soprattutto, rispetto al quadro internazionale: e proprio qui il PPI segna un’altra specificità, appoggiando dichiaratamente i Quattordici punti di Wilson (che poi non ignoravano gli spunti contenuti nella Lettera del Santo Padre Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti dell’1 agosto 1917, la «parola augusta» di cui si fa menzione nell’«appello»), promuovendo il «vincolo solenne della “società delle nazioni”», riconoscendo l’esistenza di «supremi interessi internazionali», fino a richiedere l’«abolizione dei trattati segreti e della coscrizione obbligatoria» e il «disarmo universale». Un tema, quello della pace da conseguire tramite l’attività politica, che da Benedetto XV ad oggi è emerso nel magistero di diversi pontefici, come dimostra anche il recente messaggio di papa Francesco per la LII giornata mondiale della pace (1° gennaio 2019).

 

Il quarto incomodo

 

Ma quasi nulla di tutto ciò ebbe seguito, malgrado i primi risultati positivi ottenuti dal Partito Popolare Italiano nelle elezioni del 1919 e del 1921: questi, infatti, sono anche gli anni in cui si costituirono dapprima i Fasci di combattimento e poi, da essi, il Partito Nazionale Fascista. Una novità nel panorama politico che molti popolari in un primo tempo non compresero e sottovalutarono, tanto da non negare inizialmente (su pressione delle gerarchie vaticane) l’appoggio al governo Mussolini, inutilmente contrastato da don Sturzo che si dimise dalla segreteria del partito e che fu poi “indotto” ad un sostanziale esilio. Con l’infamia del delitto Matteotti e col successivo “Aventino” il PPI prese definitivamente le distanze dal fascismo, ma ormai ogni azione di contrasto risultava inefficace: il partito venne sciolto, insieme agli altri contrari al regime, nel 1926.

Si era instaurata una dittatura che condusse l’Italia in una direzione diametralmente opposta a quella sognata da Sturzo e a quella prefigurata nell’«appello» del 18 gennaio 1919: per circa un ventennio non sarebbe stato più lecito essere uomini liberi, l’unica vera forza sarebbe stata quella della violenza squadrista, sulla giustizia sarebbe prevalso l’arbitrio, invece di mantenerlo sulla via della pace si sarebbe lanciato il Paese in grottesche guerre “imperiali” oltre che in uno sciagurato conflitto mondiale, al posto della coesione sociale si sarebbero promossi il razzismo e la delazione, sul popolarismo avrebbe avuto la meglio il populismo. Altri appelli, altre parole d’ordine.

 

 

 

 

Bibliografia

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Immagine: No machine-readable author provided. Pensiero~commonswiki assumed (based on copyright claims). [Attribution], via Wikimedia Commons

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Tra il serio e il faceto: i libretti di Gioachino Rossini, a centocinquant’anni dalla morte

Leggiadre note su parole accozzate

 

Non si può fare a meno di accingersi a trattare la lingua dei libretti rossiniani e, preliminarmente, il rapporto che il compositore pesarese intrattenne con i testi poetici, senza partire dalle considerazioni che si leggono nelle Memorie di un autorevole “addetto ai lavori” dell’epoca, Lorenzo Da Ponte:

«Se l’inimitabile Rossini, invece d’esser condannato a vestir delle leggiadre sue note parole insieme accozzate per formar un certo numero d’accenti e di sillabe, a cui dar s’osa il nome di verso e in cui non havvi né sentimento d’anima, né vivezza d’affetto, né verità di carattere, né merito di situazione, né grazia di lingua, né imagine di poesia, avesse avuto de’ drammi in cui, oltre l’interesse del soggetto, avesse il poeta saputo opportunamente alternare il dolce e il feroce, l’allegro e il patetico, il pastorale e l’eroico, etc. etc., altro, ben altro stato sarebbe l’effetto della sua musica, che la verità de’metri, de’sentimenti e delle parole l’avrebbe obbligato a variare. La pruova di ciò è il Barbiere di Siviglia, ch’essendo uno de’ capilavori di Beaumarchais, ha somministrato degli ottimi materiali al traduttore italiano».

Un giudizio che va però opportunamente interpretato, depurandolo dalla parzialità di chi lo espresse e inquadrandolo nel contesto in cui fu inserito: Da Ponte infatti intendeva difendere Rossini dalle critiche di un detrattore, sottolineando i meriti del musicista nonostante la base poetica dei suoi lavori non fosse ritenuta adeguata, e – forse soprattutto – voleva senza troppi infingimenti rimarcare la superiorità dei propri libretti scritti per Mozart, Salieri e Martini. Una visione che trova conferma poche righe prima, dove si leggono parole altrettanto significative:

«il bravo Rossini ripete qualche volta se stesso nelle sue composizioni; ma ciò non addiviene, per giudizio mio, per mancanza d’idee, o per povertà di fantasia; colpa di ciò è l’avara ignoranza de’ mal accorti intraprenditori teatrali, i quali, credendo che nel successo d’un dramma musicale poco o nulla conti il poeta, per risparmiar qualche piastra col poeta, che tutt’altro è che poeta, danno a’ compositori di musica delle parole che non dicono niente, e dicono sempre lo stesso. Pochissimi sono i drammi ne’ quali non s’oda ripetere una, due e tre volte: “Ah, mi si spezza il core…” “Io non ho più speranza…” “Tu mi trafiggi il seno…” “Io morirò d’affanno…” “La mia felicità…” o frasi e parole di simil genere, che bene o male devono entrar nel cominciamento di quell’aria, o nella stretta, o sia chiusa di quel duetto, terzetto, o finale; e in cui il verseggiatore s’imagina che consista il principale pregio del dramma!»

 

Rossini e Rossi, prima di Verdi

 

Coglieva nel segno, dal suo punto di vista, Da Ponte, ed è forse da qui che conviene prendere le mosse: la produzione di Rossini si colloca nel periodo in cui il codice librettistico tende a cristallizzarsi in uno stile aulico e sostenuto, in particolare nel genere drammatico; e sicuramente soprattutto a quest’ultimo si riferiva Da Ponte, dato che a quell’altezza cronologica le opere del “Rossini serio” non erano ancora state scalzate dai lavori di Bellini, Donizetti e, specialmente, Verdi.

Già, perché, come ha messo in luce alcuni anni fa Fabio Rossi, è necessario distinguere preliminarmente i libretti posti in musica dal compositore pesarese in base al genere di riferimento, serio o buffo: così facendo, secondo lo studioso, sarebbe possibile individuare più analogie che differenze interne a ciascun genere, almeno in termini stilistici e drammaturgici generali, fino a prescindere dal librettista di turno. Questo anche per via del fatto che, sebbene non siano rimaste molte testimonianze al riguardo, è però sicuro che Rossini intervenne spesso nella scelta dei soggetti e nell’elaborazione dei libretti; certo l’invadenza e la consapevolezza non erano paragonabili a quelle che saranno poi di un Verdi o di un Puccini, ma ciò contribuisce a smentire, o almeno a ridimensionare significativamente, la vulgata secondo cui il compositore pesarese sarebbe stato indifferente al testo poetico da musicare, si fosse anche trattato della lista del bucato.

Né si può ignorare che molto in tal senso dipendeva dal tempo a disposizione di Rossini per la scrittura dell’opera, dalla committenza, dal contesto della rappresentazione e dal librettista con cui il compositore si trovava a collaborare. Infatti la vasta produzione melodrammatica rossiniana, pur estremamente concentrata sotto il profilo cronologico (com’è risaputo, il musicista compose alcune decine di opere in meno di un ventennio, ritirandosi presto a condurre un’ancor lunga vita privata nell’agiatezza parigina), ha coinvolto diverse città e diversi poeti: si passa da Venezia a Napoli, da Roma a Milano, e poi Parigi; e fra i ventinove librettisti rossiniani si possono ricordare almeno il raffinato Felice Romani, l’amico Jacopo Ferretti, l’affermato Andrea Leone Tottola, il nobile Francesco Berio di Salsa e il prolifico Gaetano Rossi.

 

«Amico! a meraviglia: pianti, strida, / rimorsi da tragedia»

 

Malgrado Rossini si sentisse più vicino al gusto e alla tradizione di stampo classico, di cui certo la sua musica era diretta figlia, diversi dei soggetti seri da lui musicati e dei librettisti che gli predisposero il testo poetico testimoniano già l’interesse e le influenze dell’incipiente Romanticismo, con le conseguenze drammaturgiche e linguistiche che ne derivano. Merita di essere menzionato ad esempio Otello, ossia Il moro di Venezia (1816), su libretto di Francesco Berio di Salsa, tratto naturalmente da Shakespeare; oppure si può ricordare La donna del lago (1819), su libretto di Andrea Leone Tottola, la cui fonte era l’allora contemporaneo Walter Scott; o ancora si segnala Semiramide (1823), su libretto di Gaetano Rossi, trasposta dal più moderno Voltaire.

I lasciti dell’opera seria tradizionale, in particolare metastasiana, sono certo ancora forti, come del resto continueranno ad esserlo per almeno un altro ventennio:non si contano espressioni come Sogna, o è pur desta? (Otello), Ah! ch’ei si perde! (Tancredi), E con me delirerai / nei trasporti dell’amor (Semiramide); e contemporaneamente si fa più evidente il legame con certi stilemi della tragedia alfieriana: Suon di morte gela il core… / Fremo… smanio… avvampo… tremo… (Tancredi), Va’ pur… sia… vindice… quel flutto… infido / de’… tuoi… delitti… del… mio… dolor (Ermione). Ma insieme emerge una nuova linea tematica e poetica che risente delle suggestioni ossianiche filtrate dal Cesarotti e degli echi protoromantici del Bardo della Selva Nera di Vincenzo Monti, senza contare che i sentimenti e le passioni dei protagonisti possono ora manifestarsi con più forza rispetto alla compostezza richiesta dall’estetica classicista: oltre a soluzioni metriche più innovative si possono ricordare iuncturae come bellici ardori (La donna del lago) e fragor formidabile (Tancredi), o versi quali Minacciosa erra morte d’intorno (Semiramide) e Qual suon! Sull’alta rocca / già le fiere a domar van di Fingallo / i ben degni nepoti (La donna del lago).

 

«Ignoti ai tempi tuoi / erano i drammi buffi, Orazio mio, / e gli usi nostri seguitar vogl’io»

 

È però indubbio che oggi il cigno di Pesaro deve la sua notorietà soprattutto ai lavori, e quindi ai libretti, comici. Era questo un genere che anche linguisticamente concedeva maggiori margini di libertà e di sperimentalismo: lo avevano ben dimostrato Carlo Goldoni – al cui modello stilistico e drammaturgico molto devono le opere buffe di Rossini – e il summenzionato Da Ponte; ciò anche in forza del fatto che la leggerezza dei soggetti e dei personaggi, sulla scorta dell’analogo teatro di prosa, poteva far leva su un più alto tasso di espressività, su una più marcata caratterizzazione diastratica, diafasica e diatopica dei ruoli, su una più sensibile apertura alla colloquialità e alla prosasticità.

Il campionario esemplificativo, ancora una volta ben raccolto da Fabio Rossi, sarebbe vastissimo: meglio quindi richiamare solo qualcuno degli aspetti più significativi. Anzitutto il ricorso a onomatopee, ideofoni e voci o espressioni fonosimboliche, che si dispiegano con particolare dovizia nel concertato finale del primo atto dell’Italiana in Algeri (1813), su libretto di Angelo Anelli: qui la confusione e lo stupore fanno risuonare nelle menti dei personaggi il dindin del campanello, il bumbum del cannone, il crà crà della cornacchia e il tac tà del martello. Oppure le formule di saluto e di ringraziamento, i costrutti marcati, i segnali discorsivi e i fatismi che, insieme alle interiezioni, agli alterati e ai deittici, avvicinano il dettato librettistico al polo dell’oralità e della quotidianità: Questa barba benedetta / la facciamo? sì o no? (Il barbiere di Siviglia), Altro che temporale! (La Cenerentola), – Vi ringrazio di nuovo, e vi saluto. / – Mille felicità. – Molto tenuto (L’occasione fa il ladro), Bravo, bravo, bravissimo! (La pietra del paragone); senza trascurare, nella medesima direzione, le imprecazioni, le espressioni idiomatiche e i dialettismi, spesso di ampia circolazione anche teatrale: Grazie un corno! (Il barbiere di Siviglia), Quanti bocconi amari / mi si fanno inghiottir! (Il turco in Italia), saccio e schiattà (La gazzetta).

 

«Sì, di matti una gran gabbia / ben si può chiamar il mondo»

 

Ma uno dei tratti più raffinati della comicità rossiniana è dato dal ricorso a forme più sottili di (auto)ironia, di satira, di (auto)imprestiti, di citazioni magari antifrastiche o travisate, di allusioni all’occorrenza criptiche, di situazioni metateatrali, metamusicali e metalinguistiche; componenti di cui trabocca l’ultima opera che il compositore pesarese musicò in lingua italiana, seppur per le scene parigine, su libretto dell’abile Luigi Balochi: Il viaggio a Reims (1825). Qui ad essere portati sulla scena non sono popolani, borghesi o tipi desunti dal modello della commedia dell’arte, ma personaggi allegorici che incarnano i principali Paesi europei usciti dalla recente Restaurazione; di costoro vengono messi alla berlina i vizi e i vezzi, facendo ampio ricorso agli stereotipi antropologico-culturali (ma anche linguistici e musicali) dei popoli del Vecchio continente e dei potenti che ne reggono le sorti.

Si tratta dunque di un riso pungente, a tratti amaro – ancorché spesso esilarante –, che è però ancora in grado di farci riflettere, a distanza di centocinquant’anni dalla morte del compositore; un musicista che ha saputo farsi apprezzare in tutta Europa, dando prova, più di altri, di sentirsi cittadino del mondo. La ricorrenza coincide infatti anche con la commemorazione della fine della tragica Grande guerra, e pochi mesi ci separano dal rinnovo del Parlamento dell’Unione Europea: un’istituzione politico-democratica che, per la prima volta nella storia, ha garantito al nostro continente decenni di pace e prosperità. Lungi dall’ignorare o dal giustificare storture e manchevolezze degli organismi comunitari già a loro modo stigmatizzate da Rossini e Balochi, è però auspicabile che, di contro alle preoccupanti tendenze disgregatrici e nazionalistiche fomentate dai moderni e dilaganti “sovranismi” e populismi, si possa continuare a cantare ancora per lungo tempo i versi del Barone di Trombonok: Or che regna fra le genti / la più placida armonia, / dell’Europa sempre fia / il destin felice appien. / Viva viva l’armonia / ch’è sorgente d’ogni ben.

 

*Università degli studi di Milano

 

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Fabio Rossi, L’opera italiana: lingua e linguaggio, Carocci, Roma, 2018.

 

Immagine: Étienne Carjat [Public domain]

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Cent(ocinquant)'anni «fra paradiso e inferno»: Arrigo Boito e il Mefistofele

Canterò le giornate erranti e pazze

 

Il 10 giugno 1918 si spegneva a Milano Arrigo Boito, uno dei più singolari e poliedrici uomini di cultura attivi in Italia tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo. Nato a Padova nel 1842 da Silvestro (ritrattista sregolato che abbandonò presto la famiglia) e dalla contessa polacca Giuseppina Radolinska, fratello minore di Camillo (fortunato architetto che si cimentò con risultati pregevoli anche in campo letterario), il giovane Enrico, che mutò in giovinezza il proprio nome in Arrigo, studiò al Conservatorio di Milano giovandosi del magistero di Alberto Mazzucato, musicista di notevole sensibilità e di ampie vedute. Sono sicuramente l’insieme di questi stimoli e questo genere di formazione che fecero sostenere al giovane Boito: «lo asseriamo con affettuoso orgoglio e con intierissimo convincimento: la musica è regina su tutte le arti; più che regina, Dea. […] La musica è il gradino più vicino a Dio nella nostra scala terrestre; la musica è più alta della poesia e della preghiera»; senza però dimenticare, come invece sottolineerà in età più matura, che «la musica è arte d’esaltazione. Chi non s’esalta non canta. Prima d’essere musicista bisogna essere Poeta. Una preparazione che ingrandisca mirabilmente il quadro che si vuol esprimere co’ suoni è necessaria per trovare quei suoni senza cercarli».

Già in questi primi anni Boito diede così prova di tale duplice natura: quella di musicista e quella di poeta; così come fin da ragazzo questo artista dimostrò di possedere un carattere intemperante e di essere attratto dalle novità culturali che giungevano dal resto della più evoluta Europa, senza affatto esimersi dal gettarsi nella mischia sia in quanto critico e teorico militante, sia in quanto viaggiatore e volontario nella terza guerra d’indipendenza. Tra le sue prime prove degne di nota vanno ricordate la collaborazione ad alcuni periodici, la partecipazione alla vita salottiera più impegnata, l’assistenza fornita affinché si costituisse la Società del Quartetto di Milano, alcune prime prove poetiche come quelle che sarebbero poi confluite nel Libro dei versi (prima edizione 1877) o come il poemetto grottesco e surreale Re Orso: tutti ingredienti che hanno reso Boito l’esponente forse più significativo della Scapigliatura, movimento a cui pure non aderirà mai completamente.

 

L’avvento dell’avvenire

 

È in tale quadro che vanno letti e interpretati la poesia Dualismo (1863), il libretto per l’opera Amleto musicata dall’amico fraterno Franco Faccio (1865) e Mefistofele (1868), del quale Boito scrisse sia il testo poetico sia la partitura. Se nella prima si scontrano in un’inestricabile fusione i princìpi del bene e del male, bel bello e del brutto, del sublime e del volgare, del Cielo e dell’averno, della cui alterna commistione è però innervata la verità della vita umana e cosmica, la seconda rappresenta il primo esperimento di rinnovamento di un genere che, a parte le prove del genio verdiano, stentava ad evolversi; così si era espresso l’ancor giovanissimo Boito due anni prima e a ridosso della messinscena di Amleto:

«L’ora di mutare stile dovrebb’essere venuta, la forma vastamente raggiunta dalle altre arti dovrebbe pure svolgersi anche in questo nostro studio; il suo tempo di virilità dovrebb’esser pieno; ci si levi la pretesta e lo si cuopra di toga, ci si muti nome e fattura, e invece di dire libretto, picciola parola d’arte convenzionale, si dica e si scriva tragedia, come facevano i Greci» (“La Perseveranza”, 13 settembre 1863).

«Il melodramma è la grande attualità della musica; Shakespeare è la grande attualità del melodramma. Sintomo imponente! L’arte tocca a Shakespeare? Sta bene, l’arte s’innalza. Le grandi fatiche non si addicono che alle grandi forze; il toccar la cima dell’alpe è avidità dell’aquila. Se oggi il melodramma s’attenta a toccar Shakespeare, è indizio sicuro che oggi il melodramma è degno di Shakespeare. Le cose dell’uomo, come quelle di Dio, lavorano e faticano là dove presentono prossimo l’avvento dell’avvenire. Ora, in musica quest’avvento sta nel melodramma più che altrove» (“Giornale della Società del Quartetto”, 14 maggio 1865).

 

«Io non so lavorare per me, perché vivo nel mondo delle allucinazioni»

 

Shakespeare, dunque: autore ben poco frequentato dal melodramma precedente ma sotto l’egida del quale prenderanno vita i due ultimi capolavori verdiani, Otello (1887) e Falstaff (1893), entrambi su libretto di Boito, che probabilmente proprio con essi raggiunse il punto più maturo della sua scrittura poetica per musica. Ma molto prima, appunto, c’era stato Mefistofele, tratto dal Faust di Goethe: un’impresa immane e dirompente, tanto per la scelta del soggetto (trasposto per altro nella sua interezza e non solo nelle vicende più usuali per un melodramma) quanto per le scelte poetiche, musicali, sceniche, nonché per la durata dello spettacolo; senza contare che, sull’esempio del modello wagneriano, l’appena ventiseienne Arrigo diresse lui medesimo la prima assoluta dell’opera, alla Scala. Il tutto si risolse in un clamoroso insuccesso, che indusse il poeta-musicista a dedicarsi meno alla composizione (il suo Nerone verrà dato postumo, nel 1924) e ad impiegare anche lo pseudonimo di Tobia Gorrio per firmare alcuni libretti del decennio successivo (il più noto dei quali è La Gioconda per Amilcare Ponchielli, 1876); e solo a partire dal 1875 Mefistofele, dopo aver subìto un trattamento di modifiche e tagli, ritornò sulle scene e si conquistò il successo del pubblico.

Non stupisce che lungo tutto il percorso artistico di questo artista la lingua abbia giocato un ruolo determinante: un codice verbale che, presentandosi sotto le vesti della poesia, si fa musica; una musica piegata di volta in volta ad armonie e dissonanze, a melodie e stridori. E dunque una lingua poetica che, attraverso uno sperimentalismo e un’erudizione senza pari, sfrutta e ricerca tutte le potenzialità date dal ritmo, dall’accento, dai fonemi, dai costrutti, dalla polimorfia, dalle varietà stilistiche (diafasiche, diatopiche, diastratiche e diacroniche), dall’immenso patrimonio lessicale tanto della più antica tradizione (con una particolare predilezione per Dante) quanto della modernità propri dell’italiano: un’ampiezza e un’escursività che, sempre in chiave “dualistica”, non intende rinunciare ad alcuna sua possibile manifestazione e risorsa.

 

Come farò a parlar l’idioma soave?

 

In Mefistofele i personaggi e le situazioni drammaturgiche mostrano la perizia con cui l’autore dell’opera si serviva della lingua poetica. Dal punto di vista del metro si può riscontrare come alla forma più tradizionale dell’aria di Margherita L’altra notte in fondo al mare (quattro quartine di ottonari piani a rima alternata, più un quaternario inserito singolarmente, per un canonico brano chiuso in due parti di analoga struttura musicale) si associno da un lato tratti un poco più originali nella romanza iniziale di Faust Dai campi, dai prati (due quartine a rime alternate, su meno consueti novenari), dall’altro soluzioni assai più ardite come i trisillabi dei Cherubini del Prologo in Cielo (Siam nimbi / volanti / dai limbi) o come, ancor più, gli esperimenti di metrica barbara (e Carducci era ancora di là da venire!) di cui sono disseminati il Sabba classico e l’aria di Elena in esso contenuta (Notte cupa, truce, senza fine funèbre!).

Lo stile dei protagonisti si allinea ad un tale quadro, con l’aggiunta del fatto che non di rado tra le loro battute si incontrano commenti e riflessioni di natura metalinguistica: e così se la tragica fanciulla sedotta e abbandonata da Faust si mantiene quasi costantemente su un tono poetico e ricercato, prodigo di scelte morfosintattiche conservative, di lessico scelto e di inversioni sintattiche, a dispetto del rustico parlar che lei stessa si attribuisce in quanto fanciulla del villaggio, la sua omologa della mitologia classica si esprime con ampio ricorso di aulicismi e latinismi. Proprio Elena, incuriosita dalla diversa espressione poetica di Faust, chiede a quest’ultimo: O incantesimo! parla! qual fantastico soffio / cotanto bèa la tua dolce loquela d’amore? / Il suon tu inserti al suon quasi alito d’eco / misteriosa, di fluido balsamo, d’estasi piena. / Dimmi, come farò a parlar l’idioma soave?; e in risposta si sentirà dire, con attacco dantesco: Frugo nel cor e ti rispondo: «Ave!»: la metrica classica cede dunque il posto alla rima moderna.

Faust, da sapiente uomo di cultura che passa dagli studi eruditi alle tregende, dalle meditazioni spirituali alle feste di paese, dal dolore del reale al sogno dell’ideale, dagli ardori giovanili alla quiete della canizie, presenta una maggiore varietà stilistica, capace di modularsi in base all’interlocutore e al contesto. E come si è appena visto a proposito di Elena, similmente il protagonista si era comportato con Margherita, la quale gli aveva domandato quale fosse il suo rapporto con la fede, sentendosi così rispondere: Colma il tuo cor d’un palpito – ineffabil e vero. / E chiama poi quell’estasi: – Natura! Amor! Mistero! / Vita! Dio! poco importa – non è che fumo e fola / a paragon del senso – il nome e la parola. Un’attenzione per il codice verbale e i significati più profondi da esso veicolati che Faust aveva già palesato allorquando, non ancora ben consapevole di chi fosse il cavaliere celato sotto le vesti di un frate grigio, nient’affatto soddisfatto della presentazione di quest’ultimo ambigua, criptica, foggiata sul concettismo filosofico e teologico, gli aveva chiesto: E che dir vuole / codesto giuoco di strane parole?

 

È bello udir l’eterno col diavolo parlar sì umanamente

 

L’interlocutore è naturalmente Mefistofele, il diavolo che fin dalle origini del mondo ha traviato l’uomo e la donna servendosi abilmente della parola. Un personaggio che anche qui dimostra di sapersi destreggiare con abile sinuosità tra lo stile forbito e il suo, più ricorrente, contrario: nei suoi versi spiccano ad esempio la sintassi marcata, il ricorso ad adagi popolari, voci aspre ed espressive. Si tratta, dualisticamente, dell’ebbrezza di due canti, quelli tramite i quali si è in grado di pronunciare tanto la bestemmia dell’angelo / che irride al suo tormento quanto l’umile orazione / dell’esule dimone / che riede a Dio, fedel. E proprio nel rapporto con Dio il protagonista dell’opera, lo spirito che nega / sempre, tutto, che con il suo ghigno e con il suo fischio non fa che ripetere questa sillaba: «No», manifesta al massimo la sua consapevole ironia verbale, in bilico tra la blasfemia e la bonarietà; così infatti, appena compare in scena nel Prologo in Cielo, Mefistofele si rivolge all’Altissimo: Ave signor. Perdona se il mio gergo / si lascia un po’ da tergo / le superne teodìe del paradiso / […] / perdona se dicendo io corro rischio / di buscar qualche fischio.

Come dunque non provare simpatia per questa incarnazione del male, per questo alter ego di Boito stesso, librato / fra un sogno di peccato / e un sogno di virtù, mosso da un agitarsi alterno / fra paradiso e inferno / che non s’accheta più? Come non concordare, in fondo, che ancora oggi, a centocinquant’anni di distanza da quella apparentemente infausta prima assoluta scaligera, è bello udir l’Eterno / col diavolo parlar sì umanamente?

 

 

Bibliografia

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Piero Nardi, Vita di Arrigo Boito, Mondadori, Milano, 1942.

Giovanni Morelli (a cura di), Arrigo Boito, Olschki, Firenze, 1994.

Alison Terbell Nikitopoulos, Arrigo Boito’s “Mefistofele”: poetry, music and revisions, Princeton University, Princeton, 1994.

Costantino Maeder, Il real fu dolore e l’ideal sogno. Arrigo Boito e i limiti dell’arte, Cesati, Firenze, 2002.

Stefano Telve, La lingua dei libretti di Arrigo Boito fra tradizione e innovazione, in «Lingua Nostra», 3 e 4 (2004), pp. 16-30 e 102-114.

Riccardo Viagrande, Arrigo Boito. “Un caduto chèrubo”, poeta e musicista, L’Epos, Palermo, 2008.

Emanuele d’Angelo, Arrigo Boito drammaturgo per musica. Idee, visioni, forme e battaglie, Marsilio, Venezia, 2010.

Edoardo Buroni, Arrigo Boito librettista, tra poesia e musica. La «forma ideal, purissima» del melodramma italiano, Cesati, Firenze, 2013.

Arrigo Boito, Il primo “Mefistofele”, a cura di Emanuele d’Angelo, Marsilio, Venezia, 2013.

Edoardo Buroni, Una lingua per la musica, tra poesia ed estro bizzarro. Considerazioni sulle idee e sulla prassi linguistica di Arrigo Boito, in «Otto/Novecento», 39/1 (2015), pp. 43-72.

 

Immagine: Sherling M. / М. Шерлинг, Scanned and processed by Mariluna [Public domain], via Wikimedia Commons

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Novecento. Le opere e i giorni: Tod oder Verklärung?

«Addio del passato bei sogni ridenti»

 

È opinione diffusa che l’opera lirica, non solo italiana, sia tramontata dopo il periodo pucciniano; ma si tratta di un giudizio discutibile, che necessita di essere meglio circoscritto. Un dato è indubbio: rispetto alle epoche precedenti, ben poche sono state le opere che si sono imposte a livello internazionale e in repertorio. Ciò è dovuto a vari fattori: nei decenni del secolo scorso si sono modificati e sviluppati, tanto sul fronte degli autori quanto su quello del pubblico e dei sovvenzionatori, il gusto musicale e letterario, le potenzialità sceniche, i mezzi di produzione e di diffusione di musica, poesia e spettacolo, il contesto sociale e quello culturale; bastino a testimoniarlo molti titoli che tra poco si citeranno e che presentano (s)oggetti impensabili solo pochi anni prima. Naturale che il genere del melodramma abbia risentito di tali e tanti cambiamenti.

Le nuove produzioni si sono rivelate spesso degli eventi puntuali, magari ben sostenuti al momento della loro commissione e coronati dal successo alla loro prima esecuzione, ma poi privi di seguito. Fenomeno atavico, per la verità: non è forse azzardato richiamare al riguardo le origini del melodramma, quando le opere liriche erano richieste e concepite per spettacoli d’occasione destinati ad una ristretta élite di fruitori. Ma come all’epoca sarebbe stato incauto pronosticare vita breve per questo genere artistico, così sarebbe oggi scorretto dichiararne la morte: più semplicemente, negli ultimi decenni i nuovi melodrammi – o le realizzazioni di teatro per musica ad essi assimilabili – hanno mutato forme e funzioni rispetto ai loro omologhi tradizionali, non riuscendo ad eguagliarli in termini di fama, longevità e gradimento.

 

«Questo è un nodo avviluppato, questo è un gruppo rintrecciato»

 

La dimostrazione dell’assunto è data dal fatto che dalla morte di Puccini ai giorni nostri i compositori italiani – senza soluzione di continuità – non hanno affatto rinunciato a scrivere opere, manifestando anzi in alcuni casi una dedizione costante ad esse. Si tratta però di un quadro estremamente variegato e frammentato, che coinvolge le concezioni soggettive del genere e il conseguente rapporto tra parole e musica. Bisogna inoltre tenere presente che nel frattempo è tramontata la figura del librettista quale si era delineata nei secoli precedenti: ormai i compositori sono essi stessi autori dei propri testi verbali, oppure si giovano di collaborazioni più o meno prestigiose con letterati, uomini di cultura, professionisti di teatro o di giornalismo, o ancora si inseriscono nel filone della Literaturoper (ovvero sfruttano testi letterari preesistenti, non scritti né adattati per essere posti in musica).

Parallelamente sono cambiati profondamente i parametri con cui vengono concepiti la drammaturgia (non è detto che le trame siano chiare e definite) e il legame tra la voce e la parola (ci si può ancora affidare al canto, ma si può anche declamare; si può rispettare la forma verbale o distorcerla). Né è infrequente che uno stesso autore modifichi o mescoli questi elementi a seconda della fase della sua carriera o anche all’interno di uno stesso lavoro.

 

«Perdona se il mio gergo si lascia un po’ da tergo le superne teodie del Paradiso»

 

Un discorso analogo vale anche sul fronte dei “libretti”, se li si vuole ancora definire tali, la cui lingua e il cui stile manifestano le più diverse soluzioni, determinate dalla levatura degli autori, dalle loro finalità artistico-espressive, dal rapporto che essi intrattengono con il compositore, dalle fonti. Se da un lato, soprattutto fino alla metà del secolo, persiste il retaggio della tradizione aulica e letteraria, progressivamente, ma non univocamente, si estende l’impiego di un italiano più vivo e colloquiale, realistico e oralizzante, che non disdegna di abbandonare la poesia in favore di un più libero e verisimile testo in prosa.

Assai eterogenee le produzioni delle avanguardie e quelle successive: se in molti puntano alla destrutturazione e alla vaghezza linguistiche per cui spesso il significante e la connotazione prevalgono sulla decifrabilità e sulla referenzialità, non mancano esempi di rappel à l’ordre in cui la comprensibilità verbale e drammaturgica si pone al servizio dell’azione scenica e dei destinatari. Né la stessa lingua italiana è più data per scontata, perché ad essa possono associarsi o sostituirsi altri idiomi, non escluse le varietà dialettali: a determinare le scelte possono concorrere, oltre naturalmente alla volontà degli autori, l’origine della committenza, il tentativo di internazionalizzazione, la lingua della fonte, l’ambientazione della vicenda e le competenze autoriali.

Non è quindi possibile fornire un quadro lineare dello stile delle opere e dei relativi testi verbali degli ultimi decenni, né ci si può dilungare in approfondimenti che richiederebbero di spingersi in molte e spesso tortuose direzioni: è forse meglio, allora, presentare una ricognizione cronologica, procedendo dai compositori nati a partire dall’inizio del ventesimo secolo.

 

«Hai sbagliato il raffronto. Volevi dir: bella come un tramonto»

 

Naturale che nell’immediato dopoguerra si colgano ancora diversi legami, sebbene sempre più labili, con la tradizione. Si segnalano anzitutto Luigi Dallapiccola (1904-1975) e Goffredo Petrassi (1904-2003): il primo si è dedicato al teatro musicale già negli anni della formazione e – giovandosi anche di una solida competenza letteraria e versificatoria – ha scritto da sé i propri libretti, traendoli da fonti storico-narrative (Il prigioniero), da Saint-Exupéry (Volo di notte), dalla Bibbia (Job, una sacra rappresentazione) o dall’epica omerica (Ulisse); il secondo invece si è servito della traduzione ritmica di Eugenio Montale per Il Cordovano, da Cervantes, e della tragedia in un atto Morte dell’aria del pittore e scrittore Toti Scialoja.

Noto al grande pubblico forse più per le sue musiche per il cinema, Nino Rota (1911-1979) si è dedicato anche all’opera: si possono ricordare le commedie I due timidi (su testo di Suso Cecchi D’Amico, a sua volta attiva nella settima arte), Il cappello di paglia di Firenze (con libretto proprio e della madre), un paio di collaborazioni con Eduardo De Filippo, il breve «idillio» La scuola di guida scritto da Mario Soldati e La notte di un nevrastenico su libretto di Riccardo Bacchelli; quest’ultimo ha inoltre fornito il testo di ulteriori commedie ad altri compositori importanti come Bruno Bettinelli (1913-2004; La smorfia), il quale si è anche lasciato attrarre dalla letteratura di Edgar Allan Poe per Il pozzo e il pendolo, adattato da Clemente Crispolti.

Prolifico in campo teatrale Gian Carlo Menotti (1911-2007), spesso autore dei propri libretti (ad esempio Amelia al ballo, Il console, Il telefono e La medium), anche in lingua inglese, ispirati sovente alla letteratura straniera di diverse epoche, magari attraverso la mediazione di traduzioni ritmiche tra cui una di Fedele D’Amico. A testi di scrittori e giornalisti quali Massimo Bontempelli e Dino Buzzati si sono rifatti Riccardo Malipiero (1914-2003) per Minnie la candida, La donna è mobile e Battono alla porta, e Luciano Chailly (1920-2002) per Ferrovia sopraelevata, Procedura penale, Era proibito e L’aumento. Autore il più delle volte delle parole e della musica è stato Vieri Tosatti (1920-1999), che si è ispirato anche alla letteratura angloamericana recente come dimostrano Il sistema della dolcezza, dal già citato Poe, e L’isola del tesoro, da Robert Louis Stevenson.

 

«Cruel moment! Que faire? – Parlar, spiegar non posso»

 

Con i quasi coetanei Luigi Nono (1924-1990) e Luciano Berio (1925-2003) la rottura con i moduli della tradizione è ormai conclamata: di Nono sarà sufficiente ricordare le musiche di scena Was ihr wollt da Shakespeare, Intolleranza 1960 con testi, tra gli altri, di Brecht, Majakovskij, Sartre e dell’ideatore Angelo Maria Ripellino, l’analogo mélange di Al gran sole carico d’amore (e d’ideologia, come dimostrano i testi anche di Fidel Castro, Che Guevara, Marx, Lenin, Gorkij, Gramsci e Pavese), I turcs tal Friûl su un componimento dialettale di Pier Paolo Pasolini, e il più noto Prometeo. Tragedia dell’ascolto per cui Massimo Cacciari ha organizzato vari scritti che vanno dall’antica Grecia fino alla moderna filosofia europea; di Berio invece vanno menzionati almeno le collaborazioni con l’etnomusicologo Roberto Leydi (Mimusique n. 2), con Italo Calvino (Allez-hop, La vera storia e Un re in ascolto), con Edoardo Sanguineti (Esposizione e Passaggio) e con Dario Del Corno (Outis), mentre di Opera Berio è autore unico.

Linee sperimentali, innovative e talvolta volutamente stranianti anche nel loro richiamo alla tradizione sono poi presenti nei lavori di cui Franco Donatoni (1927-2000) ha firmato parole e musica: Atem e Alfred, Alfred. Sylvano Bussotti (1931) ha spesso adattato da sé testi e soggetti di svariata provenienza (ad esempio Sofocle, Seneca, Michelangelo, Racine, Alfred de Musset, Ernest Bloch) e si segnala anche per l’opera autobiografica Silvano Sylvano. Rappresentazione della vita (work in progress). All’avvocato e musicologo Emilio Jona si è affidato Giacomo Manzoni (1932) per La sentenza e Atomtod, a Luigi Pestalozza e a Virginio Puecher per Per Massimiliano Robespierre, e direttamente all’originale in tedesco di Thomas Mann per Doktor Faustus. Alla letteratura di diverse epoche e di diversa provenienza, con particolare predilezione per l’area e la lingua anglosassoni (oltre ad Elio Vittorini si possono infatti citare Thomas Moore, Thomas Campion e Ben Jonson) si è invece rifatto per le sue musiche di scena Niccolò Castiglioni (1932-1996).

 

«Tornami a dir che m’ami»

 

Ma con alcuni compositori nati negli anni Trenta e Quaranta si sono in qualche caso superati certi esiti d’avanguardia che rendevano troppo ostica la fruizione dell’opera. In questo un posto speciale spetta ad Azio Corghi (1937), tra i più convinti sostenitori della perenne validità del teatro in musica, sia esso melodramma, melologo o l’insieme dei due: dopo l’esordio con Gargantua su libretto di Frassineti da Rabelais, resta fondamentale il sodalizio col premio Nobel José Saramago grazie a cui sono nati Blimunda, Divara (“Wasser und Blut”) e Il dissoluto assolto; né vanno dimenticate le riprese di Čechov per Tat’jana e Sen’ja, le rivisitazioni rossiniana ed händeliana Isabella e Rinaldo & C., e le più recenti collaborazioni con la filosofa Maddalena Mazzocut-Mis.

Un’onda lunga che si è riversata anche sui compositori della generazione immediatamente successiva. Tra questi si segnalano in particolare Salvatore Sciarrino (1947), autore di una quindicina di lavori per teatro di cui ha spesso curato anche i libretti (da originali e soggetti di Henry James, William Shakespeare, Jules Laforgue, Franz Kafka, Izumi Shikibu), e Fabio Vacchi (1949), che per le sue composizioni si è giovato di testi verbali scritti, tra gli altri, da Roberto Roversi, Tonino Guerra, Michele Serra, Franco Marcoaldi, Myriam Tanant e Amos Oz.

 

«Oggidì grande infornata, pare»

 

Tale attrazione per l’opera lirica non sembra smarrita nemmeno tra gli autori più giovani, sebbene permanga la sostanziale eterogeneità di realizzazioni, concezioni, fonti, lingue, stile verbale e rapporto parole-musica. Lorenzo Ferrero (1951) è un autore prolifico, e per una decina delle sue creazioni ha rispolverato la definizione di «opera». Giorgio Battistelli (1953) si ispira a letteratura, cinema, melodramma storico e attualità, alternando collaborazioni librettistiche e lavori di cui è autore unico. Si serve invece di norma dell’ausilio di librettisti o coautori Marco Tutino (1954), che ha ripreso diversi testi della letteratura italiana e straniera per lavori come Pinocchio, Cirano, La lupa, Il gatto con gli stivali, Senso e La ciociara.

Ai russi Puškin e Dostoevskij si è ispirato Alessandro Solbiati (1956) per Il carro e i canti e Leggenda, entrambe su libretto proprio, mentre assai più vario (e non sempre con produzioni in lingua italiana) appare il coetaneo Luca Francesconi, che si è servito ad esempio di testi di Sandro Penna, Umberto Fiori, Vittorio Sermonti, ma anche di Heiner Müller e Honoré de Balzac. Mescola Italia ed estero anche Luca Mosca (1957), autore già di una dozzina di opere in cui emergono la particolare predilezione per Kafka e la collaborazione con il giornalista e politico Gianluigi Melega; mentre ad oggi più autonomo sotto il profilo dei testi appare Giampaolo Testoni (1957), di cui sono in gestazione due commedie liriche tratte da Alfred de Musset.

Lungo e prolifico il sodalizio tra Dario Voltolini e Nicola Campogrande (1969), altro musicista che sta investendo molto nella produzione di lavori da lui stesso variamente definiti «opera»; interesse valido anche per Filippo Del Corno (1970), il quale ha portato in scena la storia contemporanea (Non guardate al domani, su Aldo Moro, e Io Hitler) senza escludere per altre composizioni teatrali fonti letterarie più tradizionali come Buzzati e gli antichi Greci.

 

«Mercé mercé, cigno gentil!… Valica ancor l’ampio oceàn»

 

È quindi palese e incontestabile che la produzione di melodrammi italiani contemporanei è rigogliosa e vivace. Ma è legittimo domandarsi quanto ciò sia anche fecondo in una prospettiva più lunga, soprattutto nei riguardi di destinatari apparentemente meno attratti dal genere e in particolare dalle novità, e quali lineamenti e funzioni l’opera lirica intenda assumere nel corso del ventunesimo secolo. Tale ricca ma forse troppo proteiforme e spesso sfortunata produzione dei compositori delle ultime generazioni rischia di essere una sorta di Schwanengesang (canto del cigno), oppure il melodramma sarà in grado di ripensarsi e di risorgere, più rispondente alle esigenze socio-culturali dei nostri giorni, come un’araba fenice? L’auspicio è che non si arrivi a dare ragione al Don Alfonso di mozartiana memoria, ma che piuttosto si profili all’orizzonte qualche valoroso Lohengrin in grado di restituire al cigno-Gottfried gli onori e i fasti delle sue nobili origini e della sua identità primigenia.

 

 

Letture e approfondimenti

Il suggerimento forse più opportuno è quello di ascoltare e di leggere i lavori citati, molti dei quali reperibili in rete. Tra i siti utili per un approfondimento si segnalano almeno www.italianopera.org, www.cidim.it, www.centromusicacontemporanea.it, www.operamondo.it/OPERA.htm, www.flaminioonline.it, www.renzocresti.com e www.susannapersichilli.it, oltre naturalmente a questo portale Treccani e alla versione telematica del Grove (www.oxfordmusiconline.com); si tenga inoltre presente che di molti compositori contemporanei esistono siti ufficiali.

Gianandrea Gavazzeni, La morte dell’opera, Edizioni della meridiana, Milano, 1954.

Gianandrea Gavazzeni, La musica e il teatro, Nistri-Lischi, Pisa, 1954.

Franca Cella, La librettistica italiana dell’Ottocento e del Novecento, in A. Basso (diretta da), Storia dell’opera, Utet, Torino, 1977, vol. III, t. II, pp. 143-323.

Luigi Dallapiccola, Parole e musica, a cura di F. Nicolodi, Il Saggiatore, Milano, 1980.

Lorenzo Bianconi e Giorgio Pestelli (a cura di), Storia dell’opera italiana, Edt, Torino, 1987-1988, 3 voll.

Lorenzo Bianconi, Il teatro d’opera in Italia, il Mulino, Bologna, 1993.

Antonio Cirignano, Il teatro nel secondo dopoguerra, in A. Basso (a cura di), Musica in scena, Utet, Torino, 1996, vol. II, pp. 487-533.

Giovanna Gronda e Paolo Fabbri (a cura di), Libretti d’opera italiani. Dal Seicento al Novecento, Mondadori, Milano, 1997.

Enrico Girardi, Teatro musicale oggi, De Sono-Paravia, Torino, 2000.

Adriana Guarnieri Corazzol, Musica e letteratura in Italia tra Ottocento e Novecento, Sansoni, Milano, 2000.

Raffaele Mellace, Letteratura e musica, in N. Borsellino e L. Felici (diretta da), Storia della letteratura italiana. Il Novecento. Scenari di fine secolo 1, Garzanti, Milano, 2001, pp. 431-496.

Jean-Jacques Nattiez (a cura di), Enciclopedia della musica, vol. I Il Novecento, Einaudi, Torino, 2001.

Mariasilvia Tatti (a cura di), Dal libro al libretto. La letteratura per musica dal ’700 al ’900, Bulzoni, Roma, 2005.

Elisa Tonani (a cura di), Storia della lingua italiana e storia della musica, Cesati, Firenze, 2005.

Franco Arato, Lettere in musica. Gli scrittori e l’opera del Novecento, Città del silenzio, Novi Ligure, 2007.

Piero Gelli (a cura di), Dizionario dell’Opera 2008, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2007.

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Da Piave a Boito, il cammino della «parola scenica»

 
Potrebbe suonare strana e contraddittoria un’affermazione di Giuseppe Verdi, che nel 1856 rivelava: «Voi sapete che da dodici anni sono accusato di mettere in musica i più pessimi [sic] libretti che siano stati fatti e da farsi, ma (vedete l’ignoranza mia!) io ho la debolezza di credere, per esempio, che Rigoletto sia uno dei più bei libretti, salvo i versi, che vi sieno».
 
Litigi e recriminazioni
 
In effetti già da allora, e fino ai giorni nostri, i libretti verdiani sono stati spesso criticati e valutati con sufficienza da studiosi di letteratura, musicologi e melomani; e lo sono stati appunto, in particolare, quelli scritti dal librettista che più collaborò col Maestro: Francesco Maria Piave (1810-1876). Quest’ultimo era senza dubbio un poeta di secondo (o terzo) rango, non possedeva né una spiccata originalità né una personalità artistica e umana degna di nota.
Ma perché, allora, Verdi era ugualmente così soddisfatto dei libretti che, spesso dopo numerosi litigi e recriminazioni, il suo collaboratore gli approntava? È molto semplice: quei testi possedevano (quasi sempre) le caratteristiche drammaturgiche che il compositore avvertiva come necessarie per il teatro e adatte alla propria musica; si contraddistinguevano, in sostanza, per la presenza di quella «parola scenica» che Verdi arrivò a definire con maggior chiarezza solo in età matura.
 
Efficacia di parole e intreccio
 
Ecco dunque che è più facile comprendere il senso della citazione proposta se la si accosta a quest’altra dichiarazione del compositore, di poco precedente: «A me pare che il miglior soggetto in quanto ad effetto che io mi abbia finora posto in musica (non intendo parlare affatto sul merito letterario e poetico) sia Rigoletto. Vi sono posizioni potentissime, varietà, brio, patetico [...] Che formano molti punti drammatici eccellenti, e fra gli altri la scena del quartetto, che in quanto ad effetto sarà sempre una delle migliori che vanti il nostro teatro».
Per un’opera lirica non contavano dunque tanto la sublimità e il pregio letterario della poesia, secondo Verdi (il quale era ben consapevole dello scarso valore stilistico dei versi che musicava), quanto piuttosto l’efficacia che le parole e l’intreccio potevano avere sotto il profilo drammatico.
 
Codice antirealistico
 
Sarebbe infatti vano attendersi dai libretti di Piave (come da quelli di molti altri suoi colleghi dell’epoca) una lingua che si discosti da quel codice per lo più aulico, antirealistico, fortemente letterario e quasi grottesco che ha contraddistinto lo stile principale e inconfondibile della gran parte dei testi melodrammatici dei decenni centrali dell’Ottocento italiano. Se ne riscontrano diverse tracce nello stesso Rigoletto (1851): tra queste basterà ricordare l’ampio ricorso all’enclisi pronominale, l’imperativo proclitico, la presenza non sporadica del pronome atono oggetto maschile e neutro il, altre varianti fonetiche, morfologiche e morfosintattiche più sostenute e poetiche come il condizionale in -ia, una sintassi ricca di inversioni e talvolta perfino sgradevolmente involuta, varianti lessicali desuete come tempio per ‘chiesa’, desio, acciar per ‘spada’, inulto, alma.
 
Il rude Sparafucile
 
Ma, pur in questo contesto, Piave ha avuto l’abilità di caratterizzare almeno parzialmente i personaggi e i momenti drammaturgici dell’opera anche sotto il profilo linguistico: così, ad esempio, mentre all’innocente Gilda sono riservati versi dallo stile più tipicamente melodrammatico, al ‘bravo’ Sparafucile e alla sorella di facili costumi Maddalena vengono affidate battute più rudi, più vicine all’oralità (ci si imbatte ad esempio in qualche fenomeno di sintassi marcata come le dislocazioni e vent’altre appresso / le scorda forse adesso? e De’ scudi, già dieci dal gobbo ne avesti), chiamando magari in causa argomenti e rispettivi campi semantici più concreti come il denaro e l’amore leggero. Lo stesso protagonista, uomo di corte ma allo stesso tempo essere umano reietto dalla società e padre amorevole, è in grado di modulare il proprio linguaggio in base al contesto comunicativo, all’interlocutore e al proprio stato d’animo.
 
Oltre gli schematismi del melodramma italiano
 
L’estremo segmento della parabola artistica verdiana è stato invece fortemente segnato dalla collaborazione con l’ultimo dei suoi librettisti: Arrigo Boito (1842-1918). Letterato di notevole levatura, giovane ‘scapigliato’, scrittore estroso e, soprattutto, egli stesso valido musicista, questo autore cercò di compiere insieme a Verdi la missione che a lui non era riuscita in gioventù (il suo primo Mefistofele scaligero, nel 1868, fu un fiasco): riformare l’opera lirica italiana sganciandola dalla prevedibile stereotipia su cui troppo spesso era rimasta incagliata, aprirsi alle novità drammaturgiche e sinfoniche che si erano ormai affermate oltralpe, superare gli schematismi poetici e musicali di tanto melodramma nostrano.
 
Poesia e sperimentalismo
 
Ma per compiere tutto questo era necessario, secondo Boito, intervenire primariamente su un elemento specifico: il libretto, che andava riportato alla dignità della tragedia greca, che doveva basarsi su un soggetto di valore, che invocava un nuovo stile sempre fortemente poetico ma non per questo chiuso nella lingua vieta e astrusa di cui s’è detto. Sia Otello (1887) sia Falstaff (1893), pur nella loro diversità di fondo, dimostrano ed esemplificano tali assunti: tratti entrambi da noti drammi di Shakespeare, manifestano la volontà di fornire al compositore un supporto verbale originale, talvolta fortemente innovativo, volto a far sì che la poesia potesse essere considerata di pari valore rispetto alla musica.
E proprio alla musica Boito pensava costantemente nella stesura dei versi: una musica intesa sia in senso più specifico come rivestimento canoro e orchestrale, sia come musicalità del proprio testo; il tutto in una continua tensione fra tratti della tradizione letteraria anche molto erudita e aperture nei confronti delle novità linguistiche e dello sperimentalismo.
 
Versi diversi
 
Il primo livello ad esserne coinvolto è quello metrico, che vede con Otello la stabilizzazione dei cosiddetti “versi da scena rimati”: endecasillabi e settenari, tipici dei recitativi e più frequentemente sciolti, usati invece con una concatenazione a fine verso e anche per brani solistici; oppure, soprattutto in Falstaff, un personaggio o un gruppo di personaggi si identifica con il metro che impiega: così i doppi settenari per il protagonista, i senari per le “allegre comari” e gli ottonari per gli uomini, senza dimenticare la scelta di costruire l’aria del giovane Fenton su una forma di sonetto, assai rara nella librettistica e impreziosita da un dettato molto poetico.
 
Tecnicismi marinareschi e medici
 
Sempre sul fronte della musicalità/musicabilità, i libretti di Boito, e in particolare quello comico, fanno ampio ricorso a ricercatezze di carattere fonico, a giochi di parole, ad allusioni metalinguistiche. Tutto ciò ha un riflesso diretto anche sul lessico: precursore in questo di D’Annunzio e di Gadda, il poeta-musicista padovano utilizzava per i suoi libretti voci dei più diversi settori specialistici (si pensi a qualche tecnicismo marinaresco in Otello o a qualche termine medico in Falstaff), senza disdegnare nemmeno colloquialismi, dialettismi o neologismi; ma, anche in questo caso, alla componente innovativa faceva da contraltare un solido ancoraggio alla tradizione poetico-letteraria, a partire dagli amati dantismi, e coinvolgendo anche latinismi e forme lessicali preziose e rare.
 
Dignità del libretto
 
Naturale che, delle due opere verdiane su libretto di Boito, Otello sia quella stilisticamente più formale e tradizionale, dato il soggetto drammatico e forse anche un livello di maturità inferiore del poeta, mentre Falstaff, vero divertissement, sia la più variegata e innovativa. Ma in entrambe è evidente la volontà di creare dei testi verbali che, da un lato, fornissero al compositore la tanto agognata «parola scenica» e, dall’altro, consentissero a un genere letterario minore e spesso disprezzato qual era quello della librettistica di riacquistare una dignità poetica da troppo tempo trascurata, in una perfetta fusione tra testo verbale e testo musicale.