Lingua Italiana

Beatrice Cristalli

Beatrice Cristalli è consulente in editoria scolastica, formatrice e linguista. Collabora con varie testate tra le quali Focus Scuola e Treccani.it, per cui cura da anni articoli sull’evoluzione dei linguaggi della contemporaneità. Le sue ultime indagini (Lingua italiana) riguardano il codice della musica italiana (in particolare itpop e trap), il mondo della Generazione Z e la dimensione digitale. È autrice del podcast "Di cosa parliamo" (Piano P) insieme al giornalista Luigi Lupo. Dal 2017 è Referente regionale della Lombardia per il Premio Leopardi del Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati (CNSL). Il suo ultimo libro è "Parla bene pensa bene. Piccolo dizionario delle identità" (Bompiani, 2022), nel quale affronta il tema della costruzione dell’identità attraverso cinquanta voci in forma di micro-saggio, da agender a transizione, passando per binarismo, fluidità, intersezionalità, queer, solo per citarne alcune.

Pubblicazioni
/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/cene.html

Indovina chi viene a -cene?

 

Viviamo una nuova era geologica o ci sono sfuggiti altri passaggi? Dopo l’Olocene è ancora in corso il dibattito sull’ufficializzazione dell’Antropocene, un termine ormai abusato e dai tratti ancora ambigui che secondo Jason W. Moore, autore di Antropocene o Capitalocene (Ombre Corte, 2017) rappresenta «il concetto ambientalista più importante, ma anche il più pericoloso, del nostro tempo» perché «la sua pericolosità sta nel fatto che proprio mentre mostra con chiarezza i “passaggi di stato” delle nature planetarie esso mistifica anche la loro storia».

 

In principio fu l’Olocene, e poi?

Anche se il termine Antropocene (composto dei confissi antropo-, “dell’uomo” e -cene, dal gr. καινός “nuovo, recente”) inizia a diffondersi a partire dal 2000 a opera del premio Nobel per la Chimica Paul Crutzen, in realtà fu utilizzato negli anni Ottanta per la prima volta dal biologo Eugene Stroemer, come termine specialistico per indicare la fine dell’Olocene, un’epoca iniziata circa 11700 anni fa, durante la quale l’attività umana ha iniziato a essere sempre più rilevante, sino a scalfire un segno indelebile sulla Terra. Come riportato nell’Enciclopedia Treccani, alla voce dedicata si legge infatti che nell’Olocene, «l’uomo, uscito dal periodo paleolitico, mostra uno sviluppo e una diffusione che prosegue con ritmo accelerato per tutto il periodo, contribuendo persino con la propria attività a modificare l’ambiente naturale». Da qui, appunto, l’esigenza di coniare una nuova parola per una nuova era geologica. Anche se Antropocene funziona come un significante semi-vuoto, è riuscito a imporsi come “problematizzazione” per spiegare le sfumature dell’emergenza, per descrivere come l’uomo sia diventato una forza geologica capace di modificare l’ecosistema terrestre. Tuttavia, l’Antropocene è ancora di fatto un’ipotesi. Nulla di certo sull’inizio della “fine”, stando al lessico catastrofista con cui a volte viene accompagnato. Alcuni sostengono che il suo sorgere coincida con la Rivoluzione industriale e il conseguente trionfo dei combustibili fossili, altri sono convinti che sia stato determinante il primo test nucleare del 1945.

 

Plasticene e Wasteocene: vivere nell’era degli scarti

Nello stesso periodo ha cominciato a diffondersi l’uso della plastica, anche se non ce ne siamo accorti subito. Ma come mai arriviamo sempre in ritardo? La sfida della crisi ecologica, come sottolinea Fabio Deotto in L’altro mondo. Vita in un pianeta che cambia (Bompiani, 2021) è più che altro una sfida alla nostra capacità di immaginare quello che non vediamo direttamente davanti ai nostri occhi. «A partire dalla Rivoluzione industriale, la nostra civiltà ha innescato una serie di mutamenti macroscopici che non ha alcuna possibilità di guidare» e «la teoria degli iperoggetti [di Timothy Morton] può aiutarci a capire meglio la nostra incapacità di vedere un mondo già cambiato». In pratica, l’iperoggetto è un’entità distribuita in modo non uniforme, che non può essere inquadrata da un osservatore esterno. Allo stesso modo funzionano per noi i cambiamenti climatici, l’accumulo di rifiuti, di plastica e così via. Forse la parola Antropocene non basta per mettere a fuoco tutti questi elementi? Abbiamo bisogno di altre parole per risvegliare la nostra attenzione? Forse. Possiamo identificare il Plasticene o Era della Plastica (neologismo attestato in inglese già dal 2011 secondo il sito sciencedirect.com <https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0025326X22010402>) come una sua sottosequenza che descrive la pervasività dei rifiuti plastici nell’ambiente marino. Un piano temporale di difficile classificazione, a cui l’autore Nicola Nurra fa ricorso nel suo recente saggio Plasticene. L’epoca che riscrive la nostra storia sulla Terra (Il Saggiatore, 2022) per definire l’era contemporanea, o meglio ancora, come recita un articolo di Sofia Belardinelli, «il pianeta delle cose». Insieme a rifiuti di ogni tipo, ovviamente. Per questo, viviamo anche nel Wasteocene, e da molto più tempo di quanto possiamo immaginare. Questo termine, composto dall’inglese (to) waste (“rifiuto” come sostantivo e anche come verbo “scartare”) si contrappone in modo polemico ad Antropocene, in quanto, come riporta la voce di Treccani.it «intende mettere in luce le conseguenze epocali della produzione capitalistica di merci, e dunque di scarti, in termini di impatto ambientale, economico, sociale e, in senso più generale, antropologico». Marco Armiero, autore de L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale (Einaudi, 2021), spiega che il neologismo appartiene alla stessa famiglia del Capitalocene (proposto da Jason Moore), quella cioè degli strumenti analitici nati “dentro e contro” l’Antropocene. Mentre però con Capitalocene facciamo riferimento alle origini della crisi socio-ecologica, al fatto che le società a sfondo capitalistico sono responsabili dei cambiamenti climatici e non solo, con l’uso di Wasteocene intendiamo porre l’attenzione sulle sue conseguenze, su quanto questa Era dello scarto sia presente in modo prepotente nelle nostre vite, oltre che sulla Terra.

 

Superare l’Antropocene: il Koinocene

Non ci viviamo ancora, ma la sua prospettiva potrebbe essere più reale del previsto. Si tratta del Koinocene, neologismo d’autore a cura dell’antropologo Adriano Favole costruito a partire dal greco koinó(tes), cioè “comunanza”, con l’aggiunta del secondo elemento “-cene”. Con Koinocene, inserito nel Libro dell’anno 2021 di Treccani, si potrebbe aprire un nuovo pensiero ambientalista, «una nuova era in cui l’essere umano saprà riconoscere la “somiglianza”, la “comunanza”, la “partecipazione”, le “relazioni” (tutti termini racchiusi nel sostantivo greco koinótes e nell’aggettivo koinós) tra tutti gli esseri viventi e non viventi che abitano il pianeta» (La natura siamo noi: ecco l’epoca del «Koinocene», Corriere della Sera). Insomma, la visione che prevede un noi contrapposto all’altro, in questo caso la Natura, va superata. Non più dunque una dichiarata difesa dell’altro-da-noi, ma un’accettazione dei rapporti di interdipendenza tra tutti: Terra e abitanti umani e non umani. E chissà cosa penserebbe di questa rinnovata solidarietà Giacomo Leopardi, che nel celebre Dialogo della Natura e di un Islandese annotava che la «natura tutta, e l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi contrario»…

 

Beatrice Cristalli ha curato e scritto il ciclo di interventi Parole del presente, parole del futuro. Qui sotto gli articoli già pubblicati:

Accesso

Coopetition

Permacrisi

Metaverso

Algo-lingua, Algospeak

 

Immagine: Paleogeografia dell'Olocene

 

Crediti immagine: NASA/Goddard Space Flight Center, Public domain, via Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/algospeak.html

Algo-lingua, algospeak

 

Ecco, ci risiamo. Un nuovo virus linguistico pieno di neologismi è pronto per infettare la nostra lingua italiana. E invece no: l’algo-lingua, dall’inglese algospeak, è una fotografia che ci racconta l’evoluzione della comunicazione sulle piattaforme social: dalle parole “vietate” alla discriminazione, dall’Intelligenza Artificiale alle evoluzioni dell’algoritmo in rete.

 

Nascondino digitale

Se hai notato l’uso di numeri e simboli all’interno di alcune parole, neologismi intraducibili o addirittura espressioni usate fuori contesto o con massicci errori di ortografia, molto probabilmente hai iniziato a fare amicizia con l’algospeak o algo-lingua. Parola macedonia composta dai termini inglesi algorithm (“algoritmo”) e (to) speak (“parlare”), l’algo-lingua nasce in rete con un obiettivo preciso: ingannare i sistemi di moderazione dei contenuti basati sugli algoritmi delle piattaforme social più utilizzate, quali TikTok, Youtube, Instagram e Twitch. I temi incriminati non riguardano solo parole percepite come volgarità, anche se si fa divulgazione, per esempio, sull’educazione sessuale – “sesso” viene tradotto con le formule se$$o o seggs, “porno” con l’emoji della pannocchia – ma trattano anche di salute mentale, di discriminazione, di guerra, politica e così via. Insomma, argomenti-tabù che gli algoritmi probabilmente non gradirebbero. Pena la visibilità e/o il blocco dei post in cui determinate parole sono inserite, addirittura fino alla chiusura del profilo. «In molti video online», spiega Donata Columbro nel saggio Dentro l’algoritmo. Le formule che regolano il nostro tempo (Effequ, 2022), «la parola morto è stata sostituita con non vivo, la sigla SA sostituisce sexual assault e melanzana piccante è il vibratore». Alcune formule sono più intuibili di altre, anche grazie all’azione combinata delle emoji, ma i due aspetti interessanti di questo codice sono da un lato la velocità esponenziale con cui si diffonde in rete e dall’altro i malintesi e le ambiguità che possono nascere attorno alle parole cifrate. È di circa un mese fa il caso attorno al termine “mascara”, che ha coinvolto la influencer Julia Fox. Nell’algospeak il cosmetico viene utilizzato da tempo come eufemismo per violenza sessuale e, per aiutare gli utenti nella comprensione, i contenuti che ne trattano sono accompagnati da segnali, o meglio, da piccole tracce. Esattamente come l’hashtag #saawareness che un creator di TikTok, conosciuto come @big_whip13, ha inserito in un suo video sciogliendo la sigla SA, che spiega agli utenti quale tema viene affrontato. Peccato che Fox non fosse a conoscenza di questa sovrapposizione di significato. Il suo commento fuori luogo ha scatenato una serie di commenti offensivi online nei suoi confronti, che l’accusavano di sminuire o quasi ridicolizzare il delicato argomento, come riportato anche da un articolo di Forbes.

 

Argomenti scomodi

Come spiega in un articolo la giornalista del Washington Post Taylor Lorenz «anche i primi utenti di Internet usavano l'ortografia alternativa per aggirare i filtri delle parole». In effetti, l’algo-lingua affonda le radici nell’alfabeto leet (leet speak), un linguaggio nerd o hacker che prevede appunto la sostituzione dei caratteri dell’alfabeto con altri elementi (lettere, simboli e numeri) simili nella grafica e nella fonetica. Un escamotage utilizzato recentemente anche dal trapper Tha Supreme, con il suo album d'esordio 23 6451, ovvero “le basi”, uscito nel 2019. L’algo-lingua non è un fenomeno nuovo, anche se pare essere letteralmente esploso in pandemia, quando moltissime persone hanno iniziato a usare le piattaforme per divulgare le proprie competenze su vari argomenti – anche scomodi –, ma soprattutto per diffondere informazioni più o meno veritiere sull’attualità. Poiché le notizie riguardanti per esempio il Covid-19 o la guerra in Ucraina sono ad alto rischio disinformazione, le strategie degli utenti diventano sempre più elaborate. Riferendosi all’invasione dell’Ucraina, molti utenti hanno iniziato a usare l’emoji del girasole, e ancora, quando chiedono agli spettatori di seguirli su altri canali, scrivono la formula blink in lio al posto di link in bio, che rimanda alla presenza di un link esterno che possono trovare nella biografia del profilo Instagram. Qualcuno forse ricorderà le bizzarre espressioni Backstreet Boys reunion tour o panda express, che nel 2020 nascondevano all’algoritmo i contenuti legati alla pandemia. E ancora, a partire dal 2017, quando gli inserzionisti hanno ritirato da Youtube le sponsorizzazioni per paura di contenuti non sicuri, i creator LGBTQIA+ hanno parlato di “demonetizzazione” dei video per aver pronunciato la parola gay, così alcuni hanno iniziato a utilizzarla con minor frequenza o addirittura a sostituirla con altre. E ancora, su TikTok, da diverso tempo il termine omofobia è sostituito da cornucopia, mentre se si vuole parlare della comunità LGBTQIA+ si può utilizzare leg booty o LeG BooTy.

 

Il «determinismo incantato»

Noi e le macchine rappresentiamo quello che Donata Columbro definisce un «complesso meccanismo interconnesso». L’algo-lingua e le violazioni dei termini di servizio delle piattaforme social sono un esempio per spiegare quello che viene definito “determinismo incantato”, «per cui immaginiamo l’agire dei computer come un’opera magica di cui non abbiamo accesso alle formule», quando invece ogni nostra traccia sul web, anche linguisticamente parlando, ha una conseguenza diretta sulle risposte del software, ed è per questo che quando per esempio la sua reazione a una nostra azione è un errore o peggio ancora, si concretizza nel blocco dell’account, noi «smontiamo l’incantesimo, e ne vediamo ogni limite umano». La percezione deterministica delle macchine crolla e noi siamo molto più che «ingranaggi di un algoritmo anonimo»: navighiamo negli stessi dati che ogni giorno decidiamo di sprigionare nella rete, dalle segnalazioni all’uso di determinate parole, dal numero di condivisioni alle recensioni. Che sia possibile o meno sconfiggere l’algoritmo, ci è consentito osservare i cambiamenti come un etnografo digitale. Perché «servirà l’occhio umano per interrompere il circolo vizioso algoritmico di errori e censura».

 

 

Beatrice Cristalli cura e scrive il ciclo di interventi Parole del presente, parole del futuro. Qui sotto gli articoli già pubblicati:

Accesso

Coopetition

Permacrisi

Metaverso

 

Crediti immagine: cogdogblog, CC0, attraverso Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Metaverso.html

Metaverso

 

Il metaverso, come recitano diversi post e meme sulle piattaforme social, è un «concetto di cui sappiamo spaventosamente poco» (parafrasando una citazione che in realtà parla del multiverso e va attribuita al personaggio del Dottor Strange nel film Spiderman: No Way Home del 2021). Dalla nascita di Meta al mondo Microsoft, la virtualità sta cambiando il nostro modo di comunicare e percepire la nostra identità e quella degli altri. Ma cosa significa davvero metaverso? E perché c’è ancora così tanta confusione?

 

È già qui, o forse no

«Il metaverso non esiste se non ci entri». Con queste parole il giornalista Simone Cosimi in un suo tweet del 2021 si riferiva alle evoluzioni di questo nuovo ecosistema digitale, ponendo l’attenzione su un aspetto centrale, l’accesso, parola-chiave con cui ho deciso di inaugurare questa indagine. Da quando Mark Zuckerberg ha annunciato una nuova visione e un nuovo nome per la sua azienda, passando da Facebook, holding che controlla gran parte delle nostre piattaforme (Messenger, Whatsapp e Instagram) a Meta, “come entrare nel metaverso” è stata registrata come una delle ricerche più popolari su Google. Il punto è proprio questo. Per ora abbiamo contatti con tante «isole virtuali, ma non con un “universo” in cui gli utenti possano muoversi liberamente», come riporta la recente indagine dell’Osservatorio Realtà Aumentata e Metaverso della School of Management del Politecnico di Milano, che ha provato a definire questo concetto ancora troppo sfumato. Per quanto esistano già diverse applicazioni per la realtà virtuale e la realtà aumentata, ma anche piattaforme di videogiochi che si definiscono metaversi, il tema dell’esistenza o meno del metaverso come effettiva “rivoluzione” di internet è ancora lontana e per il momento non sembra riguardarci. È una storia simile alla nascita del World Wide Web, che è entrato in scena circa quattro decenni prima che diventasse operativo. Trent’anni dopo la sua prima attestazione nel romanzo Snow Crash di Neal Stephenson, anche metaverso inizia a prendere vita.

 

Un nuovo linguaggio

Ma di che cosa è fatto un metaverso (visto che non ce n’è uno solo)? Stando alla sua etimologia e considerando il significato del prefisso greco meta- (‘con, dietro, oltre, dopo’), il metaverso sarebbe “qualcosa che va oltre l’universo”. Nello specifico, come riporta la voce pubblicata nella sezione “Lessico del XXI Secolo” di Treccani.it, si tratta di un ecosistema costituito da spazi tridimensionali all'interno dei quali le «persone fisiche possono muoversi, condividere e interagire». Ma la tridimensionalità non è poi così fondamentale. Secondo Vincenzo Cosenza, fondatore dell’Osservatorio, sono tre le caratteristiche che costituiscono il metaverso o i metaversi. L’idea è ripresa dagli studi di Matthew Ball, uno dei più autorevoli e influenti esperti in materia nonché autore del libro The Metaverse, tradotto da Garzanti nel 2022. La persistenza (o permanenza), perché si tratta di un ecosistema digitale che non può essere spento e, dunque, funziona anche quando non siamo lì; la sincronia, secondo cui le nostre azioni hanno determinate conseguenze e l’interazione con altri utenti simula la vita reale, anche nel tempo; e infine l’interoperabilità, cioè la possibilità di spostarsi agevolmente da un metaverso all’altro con il proprio avatar e i rispettivi oggetti.

Il mondo dei videogiochi (soprattutto quelli di ruolo online) e le piattaforme social rappresentano in questo senso un buon esempio di vita blended (termine che abbiamo imparato con la didattica digitale integrata), letteralmente “vita mescolata” tra analogico e digitale, dove non esistiamo solamente nell’offline ma anche nell’online. Ed ecco che termini come avatar, che dal sanscrito “divinità discesa in terra” è diventato parte del gergo digitale per indicare un alter-ego, Realtà Virtuale (VR), a cui si accede attraverso accessori particolari, come guanti e visori, che garantiscono una simulazione realistica e immersiva di un ambiente, e ancora Realtà Aumentata (AR), tecnologia che tramite dispositivi unisce in tempo reale gli elementi dell’ambiente fisico con quelli digitali, entrano a far parte anche del mondo metaverso, dove il filo conduttore sembra essere l'iper-connessione.

 

Non è (solo) un gioco

L’ecosistema metaverso è uno spazio condiviso nel quale si possono fare tantissime attività, che vanno ben oltre il gioco. Qualche esempio? Andare a un concerto, come avviene sulla piattaforma Fornite grazie alla Serie Soundwave, una serie di concerti lanciata nel 2021 che promuove artisti da tutto il mondo, ma anche esplorare nuovi luoghi e/o comprare casa e terreni utilizzando criptovalute e NFT (acronimo di Non-Fungible Token, “token non fungibili”), che possono essere considerati il simbolo dell’economia virtuale. Ma c’è anche il settore educativo-scolastico tra i suoi potenziali ambiti applicativi. Sulla possibile integrazione di metaverso (con particolare attenzione per la Realtà Aumentata) e processi di insegnamento/apprendimento il dibattito è in corso, anche se i piani d’azione ministeriali, come Scuola 4.0, spingono verso una rivoluzione tecnologica che intende modificare la prassi didattica, che finalmente potrà superare l’emergenza digitale che ha sperimentato durante i mesi più duri della pandemia. Alcuni parlano addirittura di eduverso, termine che troviamo per la prima volta nel saggio The whole new world: education meets the metaverse, pubblicato nel 2022 dal Center for Universal Education del Brookings Institution. La scuola del futuro mira dunque a creare nuovi spazi di comunicazione, maggiore facilità nella creazione e nella condivisione, ma soprattutto esperienze didattiche immersive attraverso la dimensione virtuale, in piena linea con quello che viene definito un ambiente di apprendimento onlife. Certo è che «per dirsi educativa, l’esperienza ludica non deve essere fine a sé stessa, ma produrre nell’allievo un cambiamento – sotto il profilo cognitivo o relazionale – il più possibile misurabile». Paola Cozzi, caporedattrice di Tech4Future, spiega in un articolo che la didattica del metaverso deve avere obiettivi formativi ben precisi. Per esempio, è possibile impostare una lezione di mitologia greca facendo immergere letteralmente gli studenti nel mondo degli dei. Le pareti dell’aula nel metaverso si trasformano «in immagini di vecchi templi e di colonne sparse per terra e in cui ogni bambino ha la possibilità di diventare un archeologo usando il proprio avatar, [...] – grazie anche alla sapiente guida di un insegnante preparato in materia di metaverso e didattica, che monitora il conseguimento degli obiettivi fissati». Un’altra parola-chiave, dunque, è mediazione, che ci guiderà anche negli universi più digitalizzati.

 

Beatrice Cristalli cura e scrive il ciclo di interventi Parole del presente, parole del futuro . Qui sotto gli articoli già pubblicati:

Accesso

Coopetition

Permacrisi

Immagine: Metaverse

Crediti immagine: Enter the crypto, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Permacrisi.html

Permacrisi

 

Il Collins Dictionary dichiara permacrisis la parola del 2022. Che vi piaccia o no, questo lungo periodo di instabilità e insicurezza racconta il movimento di una crisi che non riusciamo ancora a identificare del tutto. Il motivo? La sovrapposizione di più dinamiche ed episodi che non lascia spazio alla presa di coscienza né tantomeno alla riabilitazione del suo significato più profondo. Vediamo perché.

 

Oltre la crisi c’è di più

Permacrisi. Dall’inglese permacrisis, con questa parola, come riporta la medesima voce nella sezione “Neologismi” di Treccani.it, si fa riferimento «a una condizione di crisi permanente, caratterizzata dal susseguirsi e sovrapporsi di situazioni d’emergenza». Una vera e propria centrifuga fuori controllo che ci ha fatto percepire la sospensione come una condizione di normalità. In effetti, nel 2021, le parole utilizzate da Hans Kluge, direttore dell'Oms Europa, lasciavano intendere che le basi per un’evoluzione della crisi fossero già presenti: nel suo discorso a Gastein utilizzò proprio permacrisi per descrivere lo stato di emergenza permanente attuale legato non solo ai cambiamenti climatici, ma anche alle guerre e alla diffusione delle malattie infettive, «dal Covid al vaiolo, sino alla ricomparsa della poliomielite». Ma forse è con il monito di Christine Lagarde, Presidente della Banca centrale europea, che il termine acquista un peso maggiore: lo scorso aprile, intervenendo alla sesta conferenza annuale dello Europen Systemic risk board, Lagarde ha affermato infatti che la permacrisi descrive perfettamente lo stato generale di insicurezza in cui vive da anni il Vecchio Continente: «Ci muoviamo continuamente da un’emergenza all’altra. Solo 10 anni fa abbiamo fronteggiato la peggiore crisi finanziaria dagli anni ’30, poi la peggiore pandemia dal 1919 e ora la più grave crisi geopolitica in Europa dalla fine della guerra fredda» (Corriere della Sera, 1° novembre 2022).

 

C’è anche la policrisi

Sembrerebbe una parola nuova, ma così non è. Questo anglo-greco-latinismo, che nasce dal greco krisis, in origine «scelta, giudizio», e dal prefisso perma-, da permanent in inglese, «che rimane a lungo», è attestato nella nostra lingua già dagli anni Settanta del secolo scorso. E condivide lo spazio della crisi con un altro termine che racconta bene questo susseguirsi di episodi dai quali la nostra azione sembra momentaneamente congelata. Sto parlando di policrisi, lemma amatissimo da politici ed economisti, ripreso lo scorso novembre dallo scrittore David Quammen in una puntata de Il cavallo e la torre (Rai 3). A differenza di permacrisi, che pone l’accento sulla durata, policrisi si focalizza sulla compresenza di più fattori alla base dello stato di crisi. «Ci sono tre battaglie che stiamo combattendo contro tre grandi crisi, tutte causate dagli esseri umani, con conseguenze per loro e per il resto del pianeta: cambiamento climatico, perdita della biodiversità e il rischio di nuove malattie. Tutte e tre sono legate non perché una sia la causa delle altre due, ma perché tutte e tre sono causate dagli stessi fattori». Per Quammen il fatto che stiamo vivendo un’epoca di «crisi concatenate» ci pone di fronte a una tensione senza soluzione. Le crisi, in questo particolare intreccio, creano alla società più problemi rispetto a quanto le singole crisi farebbero individualmente.

 

Se ne può uscire?

Sorge spontaneo chiedersi: in quale punto della crisi ci troviamo? Stando ai significati di permacrisi e policrisi sembra che alla fine del labirinto un’uscita, di fatto, non sia affatto prevista. E tutto questo è curioso, perché tra le origini semantiche della parola, soprattutto in campo medico, da Galeno in poi, la crisi, in riferimento alla malattia, indica una fase che si caratterizza comunque per avviare una svolta: o verso la guarigione o verso la morte. C’è insomma crisi quando un organismo al limite è costretto a passare a un nuovo stato. Sembrerebbe non contemplata neppure una riformulazione interna alla crisi, ma solo un’uscita. Peccato che la forma di questa rete ci renda impossibile prevedere e costruire una fuga, qualunque essa sia. Resta in ogni caso la creazione, che è soprattutto un atto interpretativo, la prima tappa da raggiungere. Michel Serres, in un’intervista del 2010 a «Vita» dichiarava che «la questione è capire che cosa significhi “guarire”», che «significa oltrepassare, andare oltre, superare, inventarsi una nuova condizione». Ma senza semplificare gli intrecci che caratterizzano il contemporaneo. Anzi, con l’impegno di adottare nuove lenti per districare i fili della complessità. Per non cadere in errore, per non appiattire le tante dimensioni in cui oggi siamo coinvolti in prima persona.

 

Beatrice Cristalli cura e scrive il ciclo di interventi Parole del presente, parole del futuro. Qui sotto gli articoli già pubblicati:

Accesso

Coopetition

 

Immagine: TradingFloormain 0

 

Crediti immagine: Peace7777, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, attraverso Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Coopetition.html

Coopetition

 

Mai sentito parlare di coopetition? Vi aiuto io. Sì, è l’ennesimo anglismo inutile che inquinerà la lingua italiana. Per chi conosce già il suo significato, è inutile in quanto costituisce un “doppione” inglese, visto che in italiano diciamo da sempre sana competizione. Ecco, è proprio questo il punto: perché abbiamo sentito la necessità di aggiungere un aggettivo accanto alla parola competizione? Per quale motivo la percepiamo come ostile e negativa? Ah, il mio incipit è ironico.

 

Urlare al parco giochi

La potenza del linguaggio, tra i tanti insegnamenti, ci pone quasi sempre di fronte a questo scenario: per quanto una parola, all’interno della sua etimologia, possa “illudersi” di essere fissa e sempre uguale a sé stessa è il suo uso che le garantisce una determinata sfumatura, che può anche contrapporsi al suo significato primario, ammesso che ce ne sia (solo) uno. A illuderci siamo poi noi che crediamo a questa favola: pronunciare una parola significa solo quella parola. E invece no. Perché mentre elaboriamo una sintassi, trasciniamo, spesso inconsapevolmente, un bagaglio di risemantizzazioni e stereotipi ben cristallizzati in uno spazio ridotto, di insospettabile “grandezza”. Prendiamo dunque la parola competizione, che io associo immediatamente all’ambito educativo. Se ci soffermiamo sul suo significato etimologico, scopriamo che deriva dal latino cum- e petere, letteralmente ‘andare insieme, convergere verso un medesimo obiettivo’. Da un punto di vista pedagogico-didattico, secondo alcune scuole di pensiero, la competizione rappresenterebbe un’occasione per allenare studentesse e studenti al confronto, per stimolare la qualità delle proprie azioni. Eppure vedo che molti genitori, al parco, consumano le corde vocali facendo prediche continue ai propri figli, nella speranza che imparino dei sani valori mentre si relazionano con l’alterità: nel gioco, soprattutto, come mi dicono, “è importante andare d’accordo”, “darsi una mano”. Collaborare, insomma. La competizione, da sola, è dunque la parola dei cattivi. Ma perché?

 

Competere ovunque

Innanzitutto perché le parole funzionano se c’è qualcuno che le usa, e quel qualcuno attinge al suo sistema di linguaggio. In secondo luogo perché i cambiamenti sociali degli ultimi anni hanno donato nuove sfumature a questo vocabolo, che hanno inevitabilmente influenzato il nostro modo di pensarlo. Mi riferisco alla cultura aziendale degli anni Ottanta e Novanta, che pare essersi davvero impegnata nella costruzione di un proprio vocabolario, al cui interno il

lemma competizione è stato associato al concetto di rivalità, al raggiungimento di un vantaggio quasi a discapito dell’altro. Non è un caso che soprattutto in riferimento al contesto lavorativo o a quello educativo (vi posso assicurare, già a partire dalla scuola dell’infanzia), sia frequente rintracciare l’espressione quale “c’è molta competizione”, che allude di fatto a tutto quello che la nostra società promuove ogni giorno: un’identità – la nostra – basata sulla performance e sulla produttività, ovviamente più degli altri. Eppure, la bio-antropologia ci insegna che è la cooperazione a lungo termine, e non la competizione, a garantire una sopravvivenza durevole e sostenibile. E se tra le due ci fosse una via di mezzo?

 

Quando il competitor è tuo fan

Sempre negli anni Novanta, nell’immaginario business che vede competizione e cooperazione come sistemi diametralmente opposti e inconciliabili, inizia a diffondersi un composto curioso, come terza via possibile, la coopetition: coo(peration) + (com)petition. Claudia Peverini, linguista impegnata nel settore dell’Higher Education, per cui da anni si occupa di sviluppare progetti innovativi internazionali in collaborazione tra atenei e imprenditoria, mi spiega che «la fusione di questi due termini testimonia il nuovo mondo che avanza, un mondo non binario, dove si disegnano punti intermedi tra poli opposti: gli abitanti di questo nuovo mondo si muovono lungo un continuum anziché saltare da un estremo all'altro». Questo approccio diventa utile nel momento in cui si realizza, per esempio, che in un contesto di crisi e di grande cambiamento, i sistemi e/o le organizzazioni non sarebbero in grado di disporre di tutte le risorse sufficienti a raggiungere e conservare il loro successo. «I competitor, sia nel business che per estensione anche in altri ambiti, cooperano perché sono coscienti di essere nello stesso habitat e, quindi, sanno che la cooperazione porta benefici a entrambi», continua Peverini, che parla di questa parola come di una vera e propria «terra di mezzo» verso il futuro, delle organizzazioni ma non solo.

 

Tra i due binari, il terzo funziona (forse)

A detta di Marta Basso, imprenditrice ed esperta di comunicazione digitale, co-founder di Branplane e di No Pasa Nada, una serie di podcast sulla salute mentale, la realizzazione di questa terza via incontra diversi ostacoli. «Chi si affaccia per la prima volta al mondo delle startup, tende spesso a trattare la propria idea con gelosia, quasi in modo possessivo, per paura che ci sia qualcuno che poi la copierà», mi spiega, «come se tutto il mondo fosse composto da persone in attesa di un nostro passo per compiere il loro, come novelli Kasparov». Alzi la mano chi è stato abituato o abituata a mostrare agli altri solo il lavoro finito. Sono dinamiche che non ci vengono insegnate a parole, ma che emuliamo sin da piccoli in modo inconsapevole. Io per esempio l’ho sperimentato in prima persona in università: solo quando ho iniziato a mettere in atto questo approccio negli studi e nei progetti di gruppo, la mia creatività è esplosa, il mio metodo di studio è decisamente migliorato, così come si è consolidata la consapevolezza delle mie competenze specifiche e di quelle degli altri, tutte diverse e fondamentali nel lavoro sinergico. «Nel mondo startup, una delle regole auree è cercare “chi l’ha fatto prima di te”, forse anche meglio di te, e imparare dai successi e dagli errori. Persino i fondi di investimenti venture capital tendono spesso ad avere un focus specifico di settore, e i founder sono abituati a definire le aziende come “concorrenti indiretti” o ancora meglio “potenziali partner”». Certo pensare in questi termini è una sfida: accettare la duplice natura di partner e di competitor è un’esperienza, neurobiologicamente parlando, decisamente complessa. Serve tempo. E ce lo insegna la parola stessa, anzi, il suo suono, che con quelle due o si allunga, crea una nuova zona, un ponte, qualcosa di più ampio. Ecco perché mi piace scriverlo senza il trattino.

 

Beatrice Cristalli cura e scrive il ciclo di interventi Parole del presente, parole del futuro. Qui sotto gli articoli già pubblicati:

 

Accesso

 

Immagine: Tratta da https://www.youtube.com/watch?v=uPe27x0_W2M, del film Chariots of Fire (Momenti di gloria) del 1981 di H. Hudson

/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Accesso.html

Accesso

 

«Hai fatto l’accesso con le nuove credenziali?». «Perché non mi fa accedere più al mio profilo?». «Ho tutti gli accessi bloccati!». Da quando ho iniziato a osservare con la lente d’ingrandimento la parola accesso, mi sono impegnata a dedicare più attenzione a tutte le occorrenze presenti nelle mie conversazioni e in quelle di altre persone. Nella maggioranza dei casi, come dimostrato anche da un sondaggio che ho avviato sui miei social network, gli utenti interpretano questa parola quasi solo ed esclusivamente in rapporto al digitale. Non è un caso dunque che le prime parole associate ad accesso fossero computer, username, password, profilo, link e così via. Tuttavia, anche se il suo ecosistema ruota attorno al lessico specialistico della tecnologia, va considerata la sua influenza nelle dinamiche relazionali, e soprattutto nel rapporto tra noi e le cose che raggiungiamo oggi tramite uno o più accessi. Cioè tutte.

 

Dal possesso all’accesso

Il primo furto (subìto) non si scorda mai. Stavo scrivendo il mio primo saggio, usavo ancora la chiavetta usb; un giorno, presa dalla fretta, non salvai le ultime 8.000 battute. In fila al bar, bastarono 10 secondi per far sparire il mio computer. Io impiegai invece circa 30 giorni a riscriverle tutte e quasi metà semestre per far pace con me stessa. Se solo avessi caricato quel file in una piattaforma condivisa… La verità è che di iCloud e piattaforme analoghe non mi fidavo. Avevo l’impressione che i miei contenuti potessero sparire da un momento all’altro. Mi sono chiesta, a distanza di tempo, se in quegli anni non avessi ancora attraversato la fase che il filosofo Byung Chul Han definisce «dal possesso all’accesso» (Le non cose, Einaudi, 2022), una fase che credo sia oggi accettata e “metabolizzata” in modo inconsapevole. Il primo a parlare di accesso in questi termini però fu l’economista e sociologo americano Jeremy Rifkin, che già nel 2000 dichiarava: «un mondo fondato sui rapporti di accesso genererà molto probabilmente un uomo del tutto diverso da quello attuale» (L'era dell'accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, 2000). Eppure la nostra vita è da sempre costituita dagli accessi. Pensiamo alla sfumatura del verbo accedere in riferimento all’avvicinarsi o entrare in un determinato luogo, oppure al significato di ottenere l’ammissione a luoghi, ambienti, situazioni, come superare una prova che, per esempio, dà diritto di accesso all’università. Ma cosa cambia, oggi? Perché questa parola caratterizza e racconta la nostra attuale dimensione esistenziale?

 

Essere o avere?

Pensate a quanti contenuti potete leggere, condividere, pubblicare sui vostri profili o rielaborare secondo il linguaggio digitale. Direste di possedere questi oggetti? Secondo me no. Nella rete, o meglio, nell’onlife, noi non ci muoviamo come semplici cittadini digitali, fruitori di informazioni, ma come prosumer, ovvero ‘consumatori e produttori nello stesso momento’ di beni, idee e servizi che non governiamo attivamente, ma che rilanciamo in un circuito di rimbalzi senza fine. «Sui social media ci produciamo», dice Han, alludendo anche all’espressione francese se produire, che significa ‘mettersi in scena’. Se oggi, dunque, performiamo le identità, il verbo possedere non rappresenta più il nostro modo di fare esperienza delle cose. Forse non completamente nostro, ma per gran parte delle nuove generazioni sì. La società dell’accesso ha sostituito la «società dell’avere» di cui parlava Erich Fromm nel suo saggio Essere e avere (1977). Ma l’accesso rende tutto più semplice, trasparente e democratico? Per Han l’ottica con cui percepiamo la facilità del click rappresenta una grande illusione.

 

Accesso, connessione, coesione

La bellezza fatata dell’accesso inizia a scemare se ci addentriamo anche nelle dinamiche che costituiscono il nostro modo di interagire nel digitale. L’iper-connessione e l’accesso sconfinato, all’interno delle comunicazioni tra utenti, non promuovono infatti la coesione. Connessione e coesione, a differenza di quanto si possa pensare, non sono sinonimi. In linguistica, con coesione ci si riferisce a una delle proprietà fondamentali del testo, per cui le varie parti sono correttamente incorporate in una rete di senso. Un discorso privo di coesione, per esempio, sarà considerato slegato, privo di forza attrattiva. In generale, si dice coe­sio­ne e si pen­sa a una uni­for­mi­tà di in­ten­ti tra parti diverse, a una sorta di al­lean­za per un fine comune. A un organismo, dunque, che resiste ogni qualvolta un’azione che proviene dall’esterno tende a staccarne una parte dall’altra. Sembra invece che nella dimensione comunicativa, che passa anche e soprattutto attraverso le piattaforme e le app di messaggistica istantanea, la coesione tra persone sia una sorta di chimera. Non a caso il fenomeno dell’hate speech o discorso d’odio nasconde insidie che sono costantemente in evoluzione, spesso implicite, perché la “morfologia” del digitale lo permette.

 

Il nostro rapporto con le cose-non-cose

L’antropologo Antonio Marazzi, che ha da poco pubblicato il saggio Un mondo artificiale. Le sfide dell’uomo contemporaneo (Carocci editore, 2022), affronta il tema del rapporto con le informazioni e le comunicazioni attraverso il passaggio che precede l’accesso, ovvero la natura del contatto tra l’uomo e gli oggetti artificiali. «È nella speculare relazione con il corpo che l’artificiale entra primariamente in rapporto con l’uomo»: un’interazione sempre più frequente e immersiva tra corpo e strumenti digitali ha creato in noi una crescente dipendenza, che, per Marazzi, si estende «dalla gestualità ai processi mentali». Ed è così che la comunicazione interpersonale, la memorizzazione e addirittura le manifestazioni emotive sono mediate dai device, contribuendo a creare un vero e proprio linguaggio. Ma di che cosa sono fatte le cose a cui abbiamo accesso e pensiamo forse, a volte, di possedere? Per Han, «l’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo». L’era dell’esperienza, che per Marazzi sarebbe l’era della mediazione, mette a disposizione cose che sarebbe più corretto chiamare non-cose o informazioni. «Stiamo diventando tutti dei feticisti delle informazioni e dei dati» dice Han, perché il paradigma dell’onlife sottomette ormai le cose alle informazioni. E non è da sottovalutare il fatto che persino dal consumo di oggetti ci aspettiamo di fatto un’esperienza. La comunicazione di un marchio commerciale sembra diventare oggi più importante del suo valore di consumo. Per esempio, conosco persone che condividono foto di libri che non compreranno mai, ma la loro estetica e il loro messaggio contribuiscono a costruire l’identità di queste persone, o meglio, a completare la loro raccolta di contenuti nei loro profili. Se l’accesso è lo strumento e il portale per fare esperienza, mi chiedo di che natura sia questa esperienza. A quale livello possiamo innalzare la nostra personalizzazione dei contenuti (che non è il riuso digitale) a cui abbiamo accesso ogni giorno. Ma soprattutto in che modo avviene la selezione di questi ultimi. Carburante necessario per accendere la nostra conoscenza.

 

Immagine: Tratta da https://www.youtube.com/watch?v=mQr8gjiF9lI

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/cancel_culture3.html

«Non si può più dire niente» - 3

 

Voce del verbo parlare meglio

 

Un utente, qualche settimana fa, mi disse che non è che oggi non si può dire niente, ma si può dire meno. Rilancio. Oggi si può dire meglio. Come? Se ci fosse una ricetta per comportarsi bene, per relazionarsi bene con le persone non esisterebbero la storia − che poi, cosa s’intende per “bene” se non in relazione a qualcosa o a qualcuno? −, il progresso, l’evoluzione, le guerre, le sedute di psicoterapia. Lo vedete però quanto è facile essere dominati dalle false credenze? Un mondo che funziona non è quello in cui si è tutti d’accordo, nel senso più semplicistico del termine: sono del tuo stesso parere. Pensate, per esempio, al motore di una relazione, tra due amanti, tra due amici. La prima parola che mi viene in mente è libertà. Di essere, di manifestare, di chiedere. Il dialogo non necessariamente deve rimanere “dialogo”. Può e dovrebbe trasformarsi in conflitto per rendere fertile e generativa la comunicazione, a patto che, secondo me, ci sia rispetto della libertà di entrambi. Cosa accade, dunque, quando in un rapporto si decide − e lo si decide quasi sempre da soli, escludendo la comunicazione dalle possibilità − che “non si può dire più niente”? Il rapporto muore. Tutto si spegne. Cala il sipario.

 

Far ridere, oggi

 

Cala il sipario, anche in senso letterale, per chi si occupa di arte, di intrattenimento, di pubblicità. Insomma, di linguaggi. Nick Cave, in un’intervista rilasciata nel 2020 a The Spectator, affermava che il tentativo di cancellare un contenuto (nel significato di to cancel), di oscurarlo e negarlo allo stesso tempo, è sintomo di un atteggiamento pericoloso, cioè credere che nell’immaginario collettivo ci sia spazio solo per le idee condivisibili: «il rifiuto della cultura di impegnarsi con idee “scomode” ha un effetto asfissiante sull’anima creativa di una società. [...] La creatività può urtare contro le nostre convinzioni più radicate ma, solo così facendo, fa emergere nuovi modi di vedere il mondo». Questa è la funzione dell’arte, delle idee. Se ci fate caso, comunque, le persone che pronunciano con sdegno e insofferenza il “non si può più dire niente” non stanno pensando a qualcosa di generico, ma ai temi che ci hanno coinvolto come comunità negli ultimi tempi: disabilità, inclusione, discriminazione, parità ecc. Sottolinea poi il comico Saverio Raimondo, in un’intervista pubblicata su Il Foglio, che «il problema del “non si può dire più niente” se lo pone chi è in malafede o chi si è svegliato ora da un lungo letargo, nel senso che ogni epoca ha il suo dibattito e i suoi temi sensibili, e fare il comico ha sempre voluto dire confrontarsi sui temi sensibili». All’interno dell’ecosistema della satira, inoltre, la dinamica più comune prevede che il tema percepito come sensibile crei nuovi tabù, di fronte ai quali oggi il comico si trova a mettere in discussione la sua azione, il suo scopo. E no, l’autocensura, per quanto sia la scelta più semplice, non è quella più saggia. Sergio Spaccavento, creativo pubblicitario, autore radiofonico e televisivo, parlando del suo libro Che cazzo ridi? Dialoghi sulla libertà di ridere (Sagoma, 2021), mi confessa che «con l’autocensura si sbaglia (quasi) sempre. Se, per esempio, un comico decide di evitare in ogni modo battute sui portatori di handicap non li sta forse a suo modo ghettizzando? Non è uno scrupolo, ma banale vigliaccheria che si genera dal desiderio di piacere a tutti o di evitare una critica, un disappunto. Se si vuole trattare tutti in modo egualitario va fatto nel bene e nel male. Ovviamente bisogna usare l’umorismo con il suo scopo più nobile e naturale, ovvero quello di divertire e non di ferire, ma bisognerebbe avere la libertà anche di sbagliare». Chris Fleming, in un’intervista per SharpMagazine, affermava che il nostro tempo «ci costringe a non essere scrittori pigri, a continuare a inventare cose originali».

 

(Saper) ridere, oggi

 

Certo è che per ridere di fronte a una battuta o a una vignetta occorre una cassetta degli attrezzi di conoscenze e competenze. Come mi spiega Sergio Spaccavento, anche se «tutti, ma proprio tutti, hanno il senso dell’umorismo, le persone ridono per cose diverse. Dipende dal sesso, dal luogo geografico, dall’intelligenza, dalla cultura, dal grado di istruzione, dall’età e dal contesto (anche storico)». In più il web sicuramente ha favorito una maggiore esposizione a diversi stili umoristici e la globalizzazione culturale ci ha educato anche ad apprezzare per esempio il black humor, «se consumato in privato senza alcun giudizio altrui o insieme ai propri amici». Ciò su cui occorre rivolgere attenzione è quello che Spaccavento definisce “incoscienza comica”, ovvero «la mancanza di quegli strumenti che ti fanno capire che l’umorismo non è sempre innocente, può fare del male e può creare degli stereotipi pericolosi atti a solidificare preconcetti sociali dannosi». Per saper ridere, insomma, bisogna allenare la nostra capacità di comprendere testo e contesto, i sistemi complessi quali sono i linguaggi. «Il contesto è un elemento discriminante fondamentale della libertà di scherzare», continua Spaccavento, «nel senso, io posso scrivere le peggiori cose su un morto ancora caldo in una chat di amici su whatsapp dove so con certezza che i partecipanti apprezzano il genere e mi conoscono a fondo. Ma se faccio la stessa battuta su un social network alla mercé di tutti, pensando di non dover essere attaccato, sarei uno stupido, perché sto usando violenza e cattiva educazione. Se scherzi con i tabù di una società, devi innanzitutto far ridere (che è sempre la prima regola), poi devi fare attenzione al messaggio, che abbia, oltre al dolore, la sua verità. Non è sempre “solo una battuta”».

Dal punto di vista linguistico, è interessante soffermarci poi sul termine discriminazione. Il filosofo francese Alain De Benoist, nel suo ultimo saggio La nuova censura. Contro il politicamente corretto (Diana Edizioni, 2021), evidenzia come la parola abbia subito uno slittamento semantico peggiorativo, per cui non significa più, come nella sua accezione primaria, discernere e distinguere. Eppure, separare i diversi piani di interpretazione a livello cognitivo è proprio una delle competenze richieste per capire un messaggio. Come un meme. Oppure come quando dobbiamo interpretare un caso di hate speech. Lo ricorda spesso l’attivista statunitense Kimberlé W. Crenshaw, che il discorso d’odio è come un incrocio stradale (teoria dell’intersezionalità): per capire come muoversi, bisogna guardarlo da più prospettive e livelli, tenere attivi più pulsanti nella nostra zona di interpretazione. Ma sappiamo tutti che a questa riflessione seguirebbe un “oggi è tutto più complicato”. L’altra faccia del “non si può più dire niente”.

 

Tutto passa attraverso l’immaginario collettivo

 

La scorsa estate si è verificato un caso mediatico che secondo me ben descrive l’altra faccia dell’incoscienza comica di cui parla Spaccavento: il deficit di interpretazione o il surplus di interpretazione. Comunque sia, di polarizzazioni sempre si parla. E anche di censura, visto che i social ne sanno qualcosa. Sto parlando del “Bozzo Gate”. L’illustratore Andrea Bozzo aveva pubblicato sul suo profilo Facebook una vignetta in cui, per ironizzare sui talebani che si proponevano come “inclusivi”, li aveva immaginati con asterisco e schwa (tra l’altro al contrario) ben visibili. Non devo convincervi sul fatto che a me ha fatto ridere e che ho capito il suo pensiero laterale. Da studiosa di linguaggi avrei dovuto indignarmi. Ma, come ha sottolineato Matteo Marchesini nel suo articolo, «al di là dei veri e propri errori d’interpretazione, c’è un grande assente nelle discussioni sui rapporti tra lingua, sesso, genere, società e leggi: l’umorismo, il cui posto è usurpato da un’attitudine intimidatoria che sui social si mostra allo stato selvaggio. In particolare, riaffiora una dinamica che la modernità ideologica ha reso tristemente celebre: quella per cui su chi si esprime grava la minaccia del “guarda che così fai il gioco di” (dei maschilisti, delle terf, eccetera)». Se qualcuno “osa” fare ironia sulle strategie linguistiche inclusive va automaticamente messo sotto osservazione. Scatta un pulsante ancora prima di aver letto un articolo, ancora prima di essere andati oltre un titolo, magari, fuorviante. Ancora prima di essersi messi in discussione. Come se la questione dell’inclusione fosse poi risolta.

E nel campo pubblicitario a che punto siamo? Sempre Sergio Spaccavento, mi ricorda che «la pubblicità è una forma di comunicazione mercenaria e giustamente deve fare attenzione a quello che dice perché può mettere in pericolo il business di un’azienda. Ma negli ultimi tempi, abbiamo registrato interessanti accadimenti in tutto il perimetro dell’advertising. Dalle situazioni più assurde come l’attacco al pastificio La Molisana [di cui avevo parlato nella puntata precedente] rea, a parere dei leoni da tastiera, di inneggiare al fascismo con il nome e il copywriting di alcuni prodotti al risveglio più che del politicamente scorretto, del politicamente impegnato, come la campagna della Nike con Colin Kaepernick, che ha sfruttato una vacatio etico morale delle istituzioni. La verità è che le nuove generazioni accettano che i brand prendano posizione e a volte lo pretendono con un consumo consapevole in tutti i suoi significati». E poi arriva Renatino. Un diminutivo sospetto. E qui il discorso di dire meglio le cose è fondamentale. Renatino è il personaggio più interessante della campagna pubblicitaria lanciata da Parmigiano Reggiano, che sembra parlare di e a una società molto diversa da quella in cui viviamo. Caratteristiche: dipendente aziendale devoto, lavora 365 giorni all’anno da quando aveva 18 anni, non ha mai visto il mare ed è felice. «La reazione», commenta Matteo Pascoletti nel suo articolo uscito per Valigia Blu, dove ripercorre la vicenda partendo dal post di Christian Raimo, «non è lasciargli nel taschino un biglietto col numero di un sindacalista, o uno sconsolato “madò, che vitaccia”. No, la reazione è dire “l’amore che ci mette Renatino!”». Il messaggio finale stride e infatti «non è tanto "quanto è buono il parmigiano reggiano!", ma piuttosto "in che mondo vivete?"». La pubblicità ha, come tutti i linguaggi, una responsabilità, proprio perché molti stereotipi fanno parte di un immaginario che la pubblicità stessa si è impegnata a costruire. Mia zia, classe 1935, non trova niente di strano nella narrazione dello spot. Un mio amico, classe 1977, ribadisce che oggi siamo tutti ossessionati nel trovare l’errore nel “sistema”. L’adolescente a cui davo ripetizioni mi confessa che in effetti nel 2021 «è un po’ strano non vedere il mare». Si può dire allora meglio, se si guarda meglio. Oltre le quattro mura, oltre le polarizzazioni che ci tentano.

 

 

Le puntate precedenti della serie «Non si può più dire niente», ideata e scritta da Beatrice Cristalli:

 

Cosa si nasconde dietro alla cancel culture

Alle radici del conflitto e dell’offesa

 

 

Immagine: Proposition de logo pour le portail de la liberté d'expression

 

Crediti immagine: Madelgarius, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/cancel_culture2.html

“Non si può più dire niente” - 2

Il conflitto oggi: mente alveare, tempeste d’odio e tanto rumore

 

Quando ho iniziato a studiare mesi fa i saggi Offendersi di Remo Bassetti (Bollati Boringhieri, 2021) e L’era della suscettibilità di Guia Soncini (Marsilio, 2021) ero quasi certa che nel corso del tempo non avrei avuto problemi a integrare la teoria con la pratica. Mi spiego meglio. Credevo che nei mesi a seguire avrei accumulato una considerevole quantità di episodi e casi rilevanti dell’attualità tale da dimostrare come nel nostro Paese fosse in atto una crescente attenzione al conflitto, ma un conflitto molto diverso da come siamo stati abituati in passato. «Se esiste una cosa a cui si applica la cancel culture in Italia è il conflitto. Si lamentano tutti». Ne parlano tutti di questo lamento. Commenti su commenti. Come anticipavo nel primo articolo dell’indagine, nelle parole di Zerocalcare si intravede la natura di questo rumore, che interpreto non tanto nell’accezione di rumor, cioè di voce o diceria che circola intensamente ma non è confermata in modo ufficiale, quanto piuttosto nell’accezione di ‘ronzio’. E se state pensando alle api ci siamo. Da tempo, nel codice del digitale, si fa riferimento alla cosiddetta hive mind (letteralmente ‘mente alveare’) per descrivere la coscienza collettiva che fa riferimento alle complesse interazioni di un gruppo. Il termine, come riporta Urban Dictionary, presenta diverse accezioni, ma quella più interessante, secondo me, riguarda l’agire e il pensare all’unisono, che conduce gli individui connessi nella mente alveare del digitale a trasformarsi a poco a poco in una sola entità, praticamente in un solo neurone. Del resto, nello slang dei social network, è piuttosto comune imbattersi in domande rivolte proprio alla hive mind digitale (in questo caso traducibile come “popolo della rete”) per ottenere consigli dalla community. A questo punto viene spontaneo chiedersi che cosa c’entriamo noi con il sistema organizzativo delle api, forse uno dei più avanzati in natura. Ebbene, per Byung-Chul Han, autore del saggio Nello sciame. Visioni del digitale (Nottetempo, 2015), condividiamo con loro solo quel rumore fastidioso che caratterizza, per esempio, l’abbandono dell’arnia, dove ognuna ha un ruolo ben preciso, funzionale all’obiettivo del gruppo. Ecco, noi un obiettivo sembriamo proprio non averlo, anche per una falla nella morfologia della dimensione digitale. Come utente io sono un «qualcuno anonimo» − per questo posso esercitare violenza − e con i miei simili riesco al massimo a costituire una moltitudine rumorosa in un perenne stato di eccitazione e distruzione, che rappresenta solo uno «stato affettivo», ma non dispiega alcuna forza in grado di produrre azioni né cambiamenti.

Vi dice niente la parola shitstorm? Se le parole fossero come i Digimon, storica serie di cartoni animati che ha segnato, come i Pokémon, l’adolescenza dei Millennial, si potrebbe dire che la shitstorm è la “digievoluzione” dell’espressione leone da tastiera, che fino a qualche anno fa costituiva episodi di odio online più controllabili, seppur ugualmente fastidiosi. La shitstorm (letteralmente ‘tempesta di escrementi’), invece, rappresenta una dinamica spiccatamente collettiva, che richiama l’immagine dell’hive mind, atta a bersagliare senza censure (guarda un po’...) un singolo individuo, un personaggio pubblico o un’azienda. Il fine ultimo è annullare la vittima, renderla impotente, esattamente quello che accade negli episodi di bullismo e cyberbullismo di cui tanto si parla nei contesti educativi e scolastici. Qualche mese fa, in un articolo di Mauro Zanon per «Il Foglio», Jean Birnbaum, direttore dell’inserto letterario di «Le Monde», ci metteva in guardia dall’isterizzazione del dibattito pubblico sui social, che per lui sono «diventati un campo di battaglia, dove alle virtù del dialogo, si preferisce l’anatema, la demonizzazione […]». Il débat, come spiega nel suo ultimo libro, Le courage de la nuance (Seuil, 2021), negli ultimi anni è infatti stato sostituito dalla violenza del combat.

 

L’ingenuità della comunicazione e il linguaggio impuro

 

«Quando l’odio social e l’ingenuità della comunicazione si incontrano, l’effetto è esplosivo». Con queste parole si apriva un approfondimento di «Economy Magazine», che nel febbraio 2021 ripercorreva la genesi della shitstorm che aveva colpito La Molisana, «“rea” di produrre un formato di pasta dal sapore coloniale, le Abissine rigate». Questa frase introduttiva mi aveva colpito molto, perché confermava qualcosa che avevo osservato negli ultimi anni: parallelamente alla proliferazione di nuovi sistemi di comunicazione per investire gli utenti di odio e soprattutto di opinioni mal formulate (e su questo ci torneremo), si è rafforzata proprio l’attenzione nei confronti del nostro funzionamento di esseri parlanti, forse, fino ad ora, sottovalutato, ignorato nel senso latino del termine. E nella “ingenuità della comunicazione” io farei rientrare tre elementi: le dichiarazioni discutibili di personaggi pubblici, enti o aziende in vista; le dichiarazioni discutibili di personaggi pubblici, enti o aziende in vista rielaborate dalla stampa per alimentare la gogna mediatica − che si sa, permette di aumentare le visualizzazioni degli articoli o dei post −; le nostre opinioni e/o argomentazioni mal formulate, non contestualizzate o non canalizzate nella dimensione del dialogo, bensì nella poco costruttiva posizione del “Ho solo espresso un’opinione. Adesso manco questa si può più dire?”. Ti vedo che hai alzato gli occhi verso sinistra, la zona dei ricordi. Facci caso: accade anche nel nostro parlato, e quasi sempre dopo che tu, persona offesa, rilanci con un “Ma chi te l’ha chiesto?”.

Nell’ultimo mese abbiamo assistito a tre shitstorm nei confronti di alcuni personaggi pubblici. In ordine Barbara Palombelli, dopo le sue parole sul femminicidio, nella trasmissione Forum; Marco Montemagno, per essersi espresso con parole volgari nei confronti della comunicazione e nella promozione dell’immagine social delle influencer; infine Alessandro Barbero, diventato trend topic di Twitter (#barbero) per la sua domanda retorica sulle differenze strutturali fra l’uomo e la donna in un’intervista rilasciata al quotidiano «La Stampa». Sono interessanti da osservare le dinamiche di risposta a simili dichiarazioni: da un lato, gli utenti, che hanno abbracciato tutte le sfumature possibili del discorso d’odio; dall’altro, i personaggi stessi, che hanno chiarito le posizioni, in alcuni casi con video di scuse o richiamandosi alla fraintendibilità delle loro parole. Certo, ognuno di questi casi ha delle sue specificità, ma non è questa la sede adatta né per analizzare le dichiarazioni né per argomentare le mie posizioni in merito. Piuttosto, uscendo dalla mia “comfort zone”, mi sono chiesta: e se oggi fosse davvero tutto più fraintendibile? Perché, quando affrontiamo tematiche delicate ci sentiamo già in partenza “sbagliati” per le parole che intenderemo pronunciare? Restando proprio sul tema delle parole, e più in generale, su come funziona il nostro linguaggio, ricordo che Michele Serra, in una video-intervista rilasciata a RSI dichiarava: «Se qualcuno che sbaglia deve essere considerato una persona che cerca di sopraffare e offendere gli altri, si commette un totale errore di interpretazione di linguaggio. Il linguaggio è impuro, è imperfetto. Si sbaglia parlando e scrivendo. Bisogna cercare di non farlo apposta e possibilmente, di non farlo del tutto, però capita di farlo. L’impurità fa parte della vita e la tesi della purezza mi fa molta paura». Come mi confessa Vera Gheno, la lingua perfetta è infatti un’astrazione, un’idealizzazione che ci tiene incatenati a un pensiero unico, molto lontano dalla flessibilità, e forse fluidità, che necessitiamo per orientarci nel presente: «Esistono le persone con i loro usi linguistici, che sono erronei solo se si insiste ad avere una visione squisitamente normocentrica della lingua. Purtroppo, si tende ancora oggi a giudicare le persone in base ai loro usi linguistici, quindi ha senso conoscere meglio la norma, in modo da potere, in determinati contesti nei quali siamo più controllati, aderirvi con maggiore attenzione. La lingua è "impura" come tutte le cose vive. Dunque l'impurità non è un disvalore, ma uno dei suoi aspetti più belli e potenti». Questo però non deve indurci ad agire comunicativamente secondo polarizzazioni: «diciamo che essere troppo scrupolosi di solito dà adito a inutili irrigidimenti; certo, occorre avere consapevolezza di quanti e quanto diversi siano i contesti linguistici nei quali ci muoviamo giorno dopo giorno. Solo conoscendoli possiamo decidere come, quando e perché aderire alla norma e come, quando e perché trasgredire. Diceva Don Milani, riecheggiato anche da Tullio De Mauro, che la lingua la fissano i ricchi per poter angariare i poveri (perché decidono chi "sta dentro" e chi "sta fuori"); ma poi, lui stesso sapeva che esiste un intreccio inevitabile tra lingua e potere, per cui la soluzione sta nel rinforzare le competenze linguistiche degli svantaggiati, in modo che essi possano spezzare questo circolo vizioso di regole e stigma dall'interno».

 

Potere dell’offesa, potere del dito puntato

 

E oggi ci offendiamo più di prima, ci sentiamo tutti parte di una squadra di cecchini con il dito puntato che spara un woke (“Stay woke!”)? Soprattutto, quando ci sentiamo offesi, che cosa accade esattamente? Per Remo Bassetti «ci sono tre modi per offendere: “Hai detto male di me”; “Hai violato un confine; “Non ti sei accorto di me quanto, o come, avresti dovuto”. L’offesa è sempre collegata alla violazione di un’aspettativa. E a renderla più grave concorrono più fattori: l’importanza che l’offeso attribuisce all’offensore, l’importanza per l’offeso di quella specifica offesa, il tasso di recidiva delle offese, l’intenzionalità, la presenza di un pubblico». Secondo Vera Gheno oggi «ci sono più occasioni per offenderci, soprattutto perché, con il tempo, sempre più diversità stanno diventando visibili, stanno uscendo allo scoperto. Quando ci si confronta con le diversità, è anche normale che fare certi tipi di battute, che magari quella certa diversità la riguardano, diventa meno auspicabile: in fondo, non è mai facile offendere trovandosi di fronte chi si vuole offendere. Dunque, in una società che voglia andare verso una "convivenza delle differenze", come la definisce Fabrizio Acanfora, è giusto anche tenere in conto il fatto che ci siano più fattispecie che si offendono, e che magari te lo fanno anche sapere».

Il tema dell’offesa (e anche dell’indignazione), però, è controverso. Da un lato, infatti, riguarda chi si sente offeso e sente il bisogno di esprimere il suo pensiero, dall’altro riguarda sempre chi si sente offeso e sente il bisogno di offendere a sua volta. Sentirsi turbati in questo senso, spiega Guia Soncini nel saggio L’era della suscettibilità, rimanda anche al neologismo microaggressione «inventato per dare un tono d’oggettivo sopruso a fastidi soggettivi». Navigando sulle principali piattaforme social, in primis TikTok e Instagram, ho notato che si verifica spesso una modalità particolare di "cancellazione": i commenti sono lapidari, giudicanti e chiedono addirittura all’utente in questione di eliminare non solo il contenuto, che a loro (in quanto “loro”) non è di gradimento, ma di eliminare l’utente stesso. Qualche esempio? “Muori”, “Fai schifo, nasconditi”, “Ti prego cancella mi fai schifo” e potrei continuare. Il giudizio personale sembra quasi fungere da argomentazione. Per Vera Gheno questa dinamica «è un bell'esempio di visione ombelicale della vita: evidentemente sono persone che non sono mai state abituate a rapportarsi con il prossimo, e di conseguenza misurano tutto sul metro delle loro sensazioni personali».

Certo il nostro presente è un “secolo fragile”, in cui, come spiega Bret Easton Ellis nel saggio di Guia Soncini, troviamo intollerabile che qualcuno la veda diversamente da noi. In sostanza, ci sentiamo sempre più minacciati non appena «le idee del nostro interlocutore non sono quelle che abbiamo stabilito essere buone e giuste, viviamo in una bolla in cui non vogliamo renderci conto di niente che ci disturbi». E forse, un primo passo verso l’educazione della nostra suscettibilità potrebbe essere l’iscrizione al corso che consiglia proprio Bret Easton Ellis: imparare ad ascoltare un’opinione diversa dalla propria senza sentirsi male. Ma anche, come sostiene Vera Gheno, «insegnare alle nuove generazioni l'argomentazione, a partire da una base di maggior consapevolezza e responsabilità rispetto alle proprie abitudini linguistiche e comunicative». Pensare bene, parlare bene. E viceversa.

 

La puntata precedente della serie “Non si può più dire niente”, ideata e scritta da Beatrice Cristalli:

 

Cosa si nasconde dietro alla cancel culture

 

 

Crediti immagine: August Meriwether, CC0, attraverso Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_343.html

L’«archeologia musicale» della Scatola nera

Questione di lessico (e contaminazione)

 

Negli ultimi anni il panorama musicale italiano, soprattutto pop e indie (o itpop), ha vantato uno spettro ampio di nuove espressioni e un lessico variegato, ricco di anglismi e gergalismi, che ha fotografato il passaggio dalla cosiddetta «lingua domopack» della canzone italiana tradizionale al «complesso pop», come insegna Giuseppe Antonelli.

Nella mia indagine del 2019 dal titolo Canzoni e parole nel cuore dell’itpop, curata per il magazine «Lingua italiana»-Treccani.it, i brani selezionati hanno rappresentato l’osservatorio privilegiato per studiare l’evoluzione della mentalità linguistica di una generazione – nello specifico under 30 tra selfie e «polaroid», come direbbe Franco126 – , attraverso cui emergeva una diversificazione regionale e/o per poli quasi metropolitani. Molte delle parole e delle espressioni diventate iconiche sono stati analizzate anche nella rubrica di Treccani.it “Le parole delle canzoni”, che con brevi post forniva una sorta di nota dietro il testo, sulla falsariga della funzione Genius di Spotify. Ma oltre agli «sbatti» di Gazzelle, agli inserti dialogici e del quotidiano dei Thegiornalisti o agli esempi di mistilinguismo di Ghali, solo per fare qualche esempio, vi dirà qualcosa anche il verbo pungicare, che usava Calcutta nel brano Kiwi, una scelta ben precisa attinta dal lessico amoroso arcaico caro anche a Carlo Goldoni. «Mettimi sotto il cuscino un alveare, tanto quello che voglio da te, quello che voglio da te, è farmi pungicare?»: nel dialetto romanesco ancora oggi il significato è quello che potete immaginare, cioè ‘punzecchiare’, anche in senso figurato, che nel testo è rafforzato dalla metafora dell’alveare sotto il cuscino, attraverso cui l’Io lirico si rivolge all’amata dichiarando di essere disposto a subire dispetti anche ben più pesanti.

Anche nella selezione musicale di Sanremo 2021 è presente una forte contaminazione nella scrittura dei brani: se da un lato, per esempio nel testo di Willy Peyote Mai dire mai (la locura), sono presenti richiami al linguaggio giovanile e tratti linguistici che rientrano nel fenomeno del code-mixing – «siamo giovani affamati, siamo schiavi dell’hype / non si vendono più i dischi tanto c’è Spotify / riapriamo gli stadi ma non teatri né live / magari faccio due palleggi, mai dire mai» –, dall’altro, in un testo come Il farmacista di Max Gazzè, troviamo un lessico alto e specialistico, sia, per esempio, nelle scelte verbali, come «somministra», sia in quelle nominali, come «tendenza», «controindicazione» o «pozione».

 

Il disco "ritrovato": Scatola Nera

 

Le parole desuete, insomma, esercitano ancora una forte ascendenza nelle scelte stilistiche dei testi musicali. Anzi, i testi musicali rappresentano forse un luogo privilegiato dove queste parole possono acquisire una nuova veste e magari “fare pace” con i corrispettivi attualizzanti del nostro vocabolario quotidiano. Certo è che quasi sempre questo atto di recuperare termini o espressioni antichi ha qualcosa di estremamente nostalgico, un po’ come quando si sfogliano le vecchie foto di famiglia. Ma c’è chi, nel mondo musicale, ha superato la malinconia del ricordo per riscoprire e ricontestualizzare alcuni vocaboli desueti attraverso l’incontro con il suono contemporaneo, per poter così raccontare la realtà che abbiamo intorno con occhi nuovi, ma con la memoria lunga.

Giacomo Carlone e Luca Barbaglia, due musicisti e produttori milanesi, hanno deciso di nominare questo progetto di «archeologia musicale» (che è anche un disco) “Scatola Nera”, a indicare proprio la duplice funzione di un termine desueto: esattamente come la scatola nera che nell’aeronautica, per esempio, è conosciuta come un dispositivo in grado di resistere ai peggiori impatti, e dunque di conservare un archivio di comunicazioni anche quando intorno ci sono solo macerie, così la “Scatola Nera”, una volta aperta, può regalarci un’interpretazione laterale del presente, attraverso suoni e parole nei quali apparentemente non ci riconosciamo.

«”Desueto” è una parola ormai desueta, e questo è un buon punto d'inizio per iniziare a ragionare», spiegano Giacomo Carlone e Luca Barbaglia, «oggi usiamo di più “obsoleto”, che rimanda subito a un immaginario più materiale: al logoramento della materia, della tecnologia e delle sue componenti. È forse qui il punto: gli oggetti si sfaldano, perdono pezzi, si ossidano e si rompono». Al contrario, mi spiegano, la parola desueta assomiglia a un amico che perdi di vista e di conseguenza esce dai nostri giochi, una parola, insomma, che «si vede privata della sua funzione comunicativa; diventa un’estranea che non riconosciamo più, fatta solo di suono e di grafia, ma ormai svuotata di senso». I lemmi desueti appaiono tra le pagine come reperti, provenienti da un altro mondo e da un’altra storia, così lontani da immaginarli solo in una teca di un museo. Non è un caso che in latino reperticius indichi anche i bambini abbandonati per strada, che si presentavano al mondo senza madre, portando con sé il segreto della loro origine. Che però, interessa a pochi.

 

Calafatare, lue, abavo: parole che meritano una seconda chance

 

«Oggi ci siamo chiesti da quali parole desuete ci piacerebbe sentire la chiamata. Alcune sono ormai schiacciate solo tra le pagine del Tommaseo, altre sono più comuni, ma sono tutti lemmi che non si sono (forse) mai sentiti in una canzone». Grazie all'incontro con il pianista e sassofonista Gaetano Pappalardo e il chitarrista Simone Sigurani, è iniziato un viaggio di selezione, mescolamento, registrazione e produzione che ha dato vita alle canzoni di Barbaglia.

Ma come è possibile evitare il rischio di inserire parole “morte” in una canzone? «In un canto monodico, quello che oggi chiamiamo canzone», spiegano, «sarebbe difficile inanellare un testo su un lessico desueto, perché l’ascoltatore non avrebbe il tempo di dar conto delle voci di quei reperti urlanti, di tutti quei bambini persi in piazza e senza nome. In un simile esperimento il pegno da pagare sarebbe la perdita di emozione e, probabilmente, un effetto pretenzioso e cattedratico. Serve tanta maestria, ma penso che sia comunque possibile inserire una parola rara, esotica, decaduta e specialistica nel testo di una canzone, a patto però che lo si faccia come una spezia: dev’essere un sapore che ci porta lontano, in un’immagine tratteggiata e distante, aperta – come avrebbe detto Eco (l’Orèade o il semiologo, in questo caso non fa molta differenza)».

Ecco che nella loro lista di parole che meritano una seconda chance compare il verbo calafatare (dal latino calefacĕre, ‘riscaldare’) un vocabolo specialistico del lessico nautico che ha intrattenuto una lunga relazione con l’opera di Herman Melville, in particolare con Moby Dick, dove «il Pequod, le lance, il ponte, le murate, il gavitello, venivano continuamente calafatati», cioè erano resi “impermeabili” con l’ausilio di stoppa e catrame.

Oppure lue, termine che nel linguaggio medico è sinonimo di sifilide: l’etimologia, seppur incerta, nel greco «ci riporta al verbo “sciogliere”, con rimando ai tormenti di questa malattia. Ma questa parola, prima della sua applicazione in ambito medico, era uno degli epiteti di Dioniso, Lusios, capace di liberare le membra e la mente dai limiti sociali e psicologici, attraverso l’ebbrezza e l’orgia». Anche la parola cianotipia, vista con le lenti di Scatola Nera, acquista una luce diversa e Carlone e Barbaglia, che per ogni voce antica hanno preparato una personale definizione, lo spiegano così: «non è solo una parola desueta, ma è anche una pratica desueta. Si tratta del primo metodo con cui è stato possibile impressionare una pellicola e fissarla. Il procedimento era stato scoperto in Inghilterra, poco prima che Luis Daguerre riuscisse a fissare le sue prime foto. Si avvaleva di materiali ferrosi che coloravano in blu e bianco le immagini impresse. Anna Atkins fu la prima donna a dare alla stampa un libro illustrato da fotografie (cianografie, per essere precisi). Raccolse un gran numero di alghe dei mari inglesi nel volume Photographs of British Algae. Cyanotype Impressions nel 1943. Le immagini di queste alghe modellate dal bianco e dal ciano sono di una modernità assoluta e di rara bellezza. Se doveste incontrare un vecchio giornalista, provate a chiedergli che cos’è “una ciano”, vi ricorderà come nelle redazioni di tutto il mondo questa tecnica fosse usata per stampare le prime bozze illustrate dell’impaginato». Trovo che poi il termine abavo sia molto vicino al sinonimo di desueto, che riguarda proprio il viaggio dei due musicisti, anche se i ricordi d’infanzia lo caricano di una sfumatura ironica. La parola rimanda all’idea degli avi molto distanti, trisavoli e addirittura quadrisavoli, che, mi confessano, è rimasta impressa nella memoria per l’assonanza con sbavo, a cui successivamente è stata associata «l’orribile immagine di un antenato con la bava alla bocca». Queste parole, per il progetto e il disco Scatola Nera vanno rimesse in campo con cura, perché devono essere leggere nonostante il peso del passato: possono allora integrarsi solo olisticamente, «quando sono loro a voler essere chiamate, completando il gioco linguistico in modo organico, senza fratture: se una parola interrompe il discorso per farsi notare, il gioco è finito».

 

Immagine: Testina di lettura Ortofon OM 5E

 

Crediti immagine: Leomarma99, CC BY 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/4.0>, via Wikimedia Commons

 

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/cancel_culture1.html

“Non si può più dire niente”

Nessuno sa, ma tutti sono d’accordo

 

«Sai, sto studiando alcuni articoli perché a settembre dovrò scrivere sulla cancel culture»

«Cancel che?»

«La cancel culture, una nuova forma di “censura” che dagli Stati Uniti è approdata in Italia, con un’accezione un po’ strana»

«Ma io non so proprio di cosa tu stia parlando...»

«Hai presente quando si dice “Oggi non si può dire più niente”?»

«Ah, certo, ma infatti è così. Cioè oggi se mi presento a un gruppo non posso manco più usare le desinenze perché vengo insultato. Fa te!»

«Ecco, appunto»

 

La conversazione è realmente accaduta quest’estate, quando ad alcune persone avevo confessato la mia ricerca. Mi ero portata in valigia alcuni saggi, di cui parlerò nel corso dell’indagine, che speravo mi presentassero un pensiero laterale, nuove strade interpretative. Sono partita un po’ da lontano, ma fino a un certo punto: dal concetto di suscettibilità, termine che credo vi dia già un buon indizio su quale testo io mi sia orientata, alla dimensione dell’offesa, e per finire alla tendenza performativa che caratterizza ogni giorno il nostro agire nella community digitale. Di fatto, quello che mi ha fatto riflettere di questo dialogo è la non percezione diretta del fenomeno. Pochissime persone conoscevano l’espressione cancel culture, e altrettante poche, se la conoscevano (o meglio, se l’avevano sentita pronunciare), non ne sapevano dare una definizione. Eppure, quasi tutti, si riaccendevano di fronte al chiché idiomatico, ormai diventato quasi un proverbio senza tempo − alla pari della frase fatta “non ci sono più le mezze stagioni” − che invece, secondo me, va calato in un contesto culturalmente e temporalmente preciso. Soprattutto per provare ad analizzare il contesto italiano e il discorso d’odio, che è aumentato considerevolmente nelle nostre piattaforme. Ma andiamo con ordine.

 

Unire i puntini, partendo dalle parole

 

L’espressione cancel culture, che sembra apparentemente derivare, non etimologicamente ma semanticamente, dal termine censura, si è caricata di diversi significati, che coinvolgono tanto la sfera politico-culturale quanto quella digitale. Eh sì. Oggi, infatti, non è più un mistero che molti dei vocaboli con i quali comunichiamo ogni giorno subiscano processi di risemantizzazione nelle piattaforme social. Basti pensare al lessico del Covid-19, che già su Treccani.it era stato analizzato nella serie di articoli intitolata La cura delle parole. Per esempio, il verbo mutare, che forse usavamo di rado nelle nostre conversazioni, è ritornato in pista nel senso di ‘silenziare’, dall’inglese to mute, ovvero ‘spegnere il microfono’. Nel nostro caso, gran parte della partita si gioca sull’interpretazione di to cancel. Come ha ben ricostruito Fabio Avallone nel suo articolo Cancel culture, dalle origini alla propaganda dell’estrema destra in Usa alle farneticazioni in Italia, uscito su Valigiablu, il verbo, inizialmente utilizzato nel gergo degli afroamericani per rivolgersi con sdegno nei confronti dei bianchi, nella dimensione digitale si è caricato di nuove accezioni, legate alle azioni che possiamo compiere in quanto utenti. La definizione che ne dava l’Urban Dictionary nel 2018 sottolinea infatti le sfumature del suo campo semantico: dal significato di eliminare una persona dal proprio profilo, s’intende anche nell’accezione di ‘togliere il like’, ‘non seguire più qualcuno’, cioè non dare più supporto, al concetto di ‘rifiutare l’idea di qualcuno’, ma anche ‘rifiutare qualcuno’ (to dismiss something/somebody), quindi disconoscerlo, quasi annullandolo, perché non ci si riconosce in una sua affermazione o azione. In questo senso, l’idea di cancellare è paragonabile alla forma di online shaming popolare, soprattutto nei confronti di celebrità o personaggi che occupano uno spazio nell’opinione pubblica.  Il blog del dizionario Merriam-Webster, nell’articolo What It Means to Get 'Canceled', riporta diversi esempi targati prevalentemente U.S.A, dalla shitstorm (in italiano ‘tempesta di escrementi’, cioè ‘di insulti’ nel web) nei confronti di Kanye West e dei suoi sfoghi senza controllo su Twitter, al caso di blackface del governatore della Virginia Ralph Northam, che, molti anni fa, in una festa in cui avrebbe dovuto impersonificare Michael Jackson, si era dipinto il viso di nero.

 

La tua gomma da cancellare fa rumore

 

I casi, negli ultimi due anni, sono aumentati e diventati un argomento centrale della stampa americana e non solo. Vi dice niente il caso Rowling? Tutto cominciò nel dicembre del 2019, quando la scrittrice si pronunciò in difesa di Maya Forstater, una donna licenziata dal Centre for Global Development per posizioni anti-gender: «perché ha detto che il sesso è reale», cioè essere maschio, o femmina, è qualcosa di biologico. C'è un aspetto performativo da considerare in questo “annullamento”, che rende l’obiettivo della cancellazione un argomento di attenzione mediatica. Gli insulti nelle piattaforme social, così come i commenti a fiume sotto articoli o post hanno un obiettivo ben preciso: la persona in questione deve perdere il prestigio culturale e, nei casi più estremi, il ruolo che ricopre o il posto di lavoro. «In un certo senso è un tentativo di spazzarlo via, come punizione», ha dichiarato Victoria Morgan, senior editor di Macquarie Dictionary, che nel 2019 ha eletto proprio cancel culture espressione dell’anno. Ma uniamo a questa sequenza di eventi, per me rilevanti per contestualizzare il fenomeno, la morte di George Floyd, avvenuta il 25 maggio 2020, e le conseguenti proteste che hanno reso il movimento Black Lives Matter oggetto dell'attenzione dei media internazionali e delle ideologie attiviste, alle quali viene associato un altro termine-chiave: woke. “Stay woke!”, traducibile con un innocuo ‘fai attenzione’, ‘sveglia’, tra il 2019 e il 2020 ha assunto una nuova veste: il richiamo all’essere woke indicava una consapevolezza sui problemi razziali negli Stati Uniti, e ancora oggi il termine è usato in quel contesto e non solo, perché include le lotte sociali in generale, a favore dei diritti e contro discriminazioni di ogni genere. Ma nella cultura e nella politica attuale woke, come riflette Perry Bacon Jr. in un recente articolo pubblicato sulla rivista FiveThirtyEight, è stato adottato dalle schiere opposte secondo il fenomeno di “appropriazione culturale”, esattamente come il verbo to cancel. Tutti attaccano tutti, esortano a diventare attenti, quasi fossero dei cecchini per scovare la falla, la dichiarazione da condannare. Eroe contro anti-eroe. E, non sottovalutiamolo, lo fanno con notevole sforzo e rumore. Anche se, come osservava Claudia Durastanti in un suo articolo per Internazionale, Passare il microfono agli altri, «nessuno sta bruciando Harry Potter in piazza, né il Racconto dell’ancella, Noam Chomsky non resterà senza un editore, e Andrew Sullivan troverà un altro lavoro domani».

 

I limiti dell’attualizzazione (e della polarizzazione)

 

A volte il fulcro dell'indignazione è un personaggio pubblico, altre volte è nel mirino un qualcuno le cui dichiarazioni sono state divulgate e diffuse sui social, anche senza il suo consenso, altre volte ancora il bersaglio è proprio un’opera letteraria. Con conseguenze reali. In una High School del Massachusetts gli insegnanti hanno rimosso l’Iliade e l’Odissea dai loro programmi, in quanto a loro dire, secondo lo slogan #DisruptTexts, la posizione di Omero era razzista e sessista, mentre Ulisse inneggiava un modello di mascolinità tossica. Secondo quest’ottica, direi polarizzante, avulsa dal contesto e dai contesti che riguardano la scrittura delle opere prese in esame, allora in Italia non dovremmo leggere nemmeno più Dante. A tal proposito, mi è tornata in mente una riflessione di Marco Grimaldi sulla Commedia: nel suo saggio La poesia che cambia. Come si legge Dante (Castelvecchi, 2021) sostiene che occorre «tenere conto della distanza e dell’inattualità anche quando si parla di questioni che oggi ci stanno particolarmente a cuore, come la tolleranza religiosa, le disuguaglianze di genere e il ruolo delle donne nella società». Al polo opposto delle falle ideologiche scovate dagli insegnanti del Massachusetts, gli studi di genere avrebbero interpretato il personaggio di Beatrice nei termini di un capovolgimento del «paradigma misogino che fin dall’antichità è stato dominante in Occidente». Ma questo è un tranello, per Grimaldi: «cercare di separare Beatrice dal modo in cui Dante, come tutti i suoi contemporanei, concepiva i rapporti di genere significa non comprendere che l’esaltazione della donna – già tipica della letteratura cortese – era possibile solo all’interno di quei ruoli». Dante non è propriamente un “alleato” del pensiero femminista, in quanto non aveva alcuna sensibilità per la questione femminile come la intendiamo oggi. «Dare importanza all’identità e al genere è una prospettiva moderna che non trova corrispondenza nel mondo medievale».

 

Voce del verbo offendersi

 

Quello che emerge, come un filo rosso che intravedo in tutti questi esempi (tuttavia ancora pochi), assomiglia proprio a un pensiero che si muove su leggi binarie, che non cerca effettivamente dialogo né contestualizzazione. Esiste un’unica posizione giusta e un’unica sbagliata, esistono dunque due prospettive. In Italia, l’accezione con cui viene usata cancel culture riguarda l’eliminazione di tutte quelle scorie che sono caratterizzate da valori o ideali percepiti come anacronistici, dunque tutto ciò che riguarda la cultura patriarcale, la discriminazione razziale e la diversità di genere, solo per fare qualche esempio. Il nostro contesto culturale e politico è però molto diverso da quello statunitense, e il rischio è di interpretare certi casi mediatici e rispettive controreazioni in modo approssimativo. Mario Del Pero, professore di Storia Internazionale e Storia della politica estera statunitense all’istituto Science Po di Parigi, in un’intervista a L’Espresso, dichiarava che nel nostro Paese «ci sono evidenti eccessi woke, anche caricaturali». Una tendenza abbastanza comune è stata quella di accostare cancel culture alla cosiddetta “dittatura del politicamente corretto”, quando di fatto, come mi spiega Francesco D’Isa, filosofo e direttore della rivista L'Indiscreto, avviene l’opposto: «comici come Pio e Amedeo si lamentano che non possono dire niente (e per "niente" intendono espressioni offensive verso alcune minoranze) per poi dirle in prima serata su un canale nazionale e venire premiati per averlo fatto. Politici della Lega millantano pericolose censure da parte della sinistra woke italiana per poi proporre (e ottenere) sanzioni per spettacoli televisivi a loro poco graditi, come è accaduto con un episodio dei Griffin che faceva ironia sul cattolicesimo. Chi parla di cancel culture in Italia parla di fatto di fantasmi». Non è però, secondo me, un fantasma la mia bacheca di Facebook, che ogni mattina mi presenta dibattiti lunghissimi, controrisposte che difficilmente giungono a compromessi o, ancora meglio, a una sana accettazione delle parti opposte. Questo significa che siamo diventati tutti attivisti sui social? Di che cosa è fatto questo inarrestabile desiderio di travestire una legittima opinione con una proposta di annullamento? E, da un altro punto di vista, perché ci offendiamo di fronte a un commento del genere "Mi piacevi, ma quella tua dichiarazione è sessista. Mi hai deluso, non ti seguirò più?”. «Solo una cosa è trasversale: se decidiamo di utilizzare una piattaforma che permette dei commenti, accettiamo di conseguenza la possibilità di ricevere critiche (escludo qui offese e minacce, in teoria non tollerate)», prosegue D’Isa. «Quanto al “non seguire più” non necessita di una giustificazione. C’è chi trova eccessivo o persino offensivo “smettere di seguire” una persona, ma per dimostrare l’assurdità di questa idea basta invertirla: è giusto essere obbligati a seguire una persona sui social? Se la risposta è no, possiamo smettere di seguire chi vogliamo senza problemi». Eppure, come mai questa azione è quasi sempre seguita da un rumore? Perché io, offeso da te, che ti sentirai offeso, devo convincere un pubblico che la mia offesa è giusta? Come direbbe Zerocalcare, «se esiste una cosa a cui si applica la cancel culture in Italia è il conflitto. Si lamentano tutti. Dall'establishment della cultura, dell’editoria, dello spettacolo [...] parlano ovunque per dire che non possono parlare». E sulle radici del conflitto e dell’offesa, approfondirò infatti nella prossima puntata.

 

 

Immagine: Le Silence

 

Crediti immagine: Antoine-Augustin Préault, Public domain, attraverso Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_336.html

L’inumano che ci abita, la letteratura che ce lo racconta

 

La morale in trappola: straniamento

 

«Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui incomincia il pericolo». Maximilien Aue, la voce in prima persona de Le benevole di Jonathan Littell (Einaudi, 2007), è un uomo fatto di parole che ti guarda dall’alto. Anche senza sapere nulla della sua “epoca”, già in queste poche righe il gioco di potere è visibilmente in atto, perché il lettore si ritrova con le spalle al muro: non solo si immerge nell’aporia dell’indicibile, quale la Shoah, ma quasi finisce per empatizzare con un carnefice. E non si tratta di uno qualunque. «Come ha dichiarato così bene il mio commilitone Eichmann, a Gerusalemme, con tutta la diretta semplicità degli uomini semplici: “Il pentimento è una cosa da bambini”». L’io narrante, nel suo racconto distorto dei fatti, sta architettando una trappola: io cammino con Aue, mi indigno, poi ragiono, poi mi accorgo di essere persino dalla sua parte, io che sono un uomo-per-bene. Forse l’inumano è qualcosa che mi riguarda? Perché non riesco a chiudere il libro? Che cosa governa la mia lettura?

Nel Settecento queste domande, per un lettore, erano pura fantascienza. La letteratura viaggiava sullo stesso binario della pedagogia. I philosophes francesi, per esempio, volevano prendere per mano il lettore, convincerlo della superiorità del mondo guidato dalla ragione, e lo facevano presentando il punto di vista di qualcuno che questo mondo lo scopre per la prima volta. Il modo più semplice per creare uno sguardo “straniato” era quello di dare la parola a uno straniero, qualcuno che dall’esterno possa osservare tutto senza pregiudizi, come accade nelle Lettere persiane di Montesquieu. Ma ne Le benevole accade qualcosa di diverso. Potremmo dire che siamo di fronte a uno “straniamento alla rovescia”: Littell chiede al lettore di osservare dall’interno qualcosa che siamo abituati a giudicare folle, malvagio, qualcosa che associamo al concetto di male assoluto, che è fuori da noi. Ma come si fa a non avere pregiudizi sul male? Il carattere scandaloso del celebre romanzo di Nabokov, Lolita, non è dovuto al contenuto esplicito dei fatti narrati, ma, come ben commenta Federico Bertoni nel saggio «Reader! Bruder!»: Retorica della narrazione e retorica della lettura, sta tutto nella sua retorica, «nel modus e non nel dictum, nell’arco voltaico che si accende tra la voce querula del narratore e l’orecchio di un lettore costantemente provocato, sedotto, aggredito, reso giudice e complice al tempo stesso». Ne Le benevole si verifica la stessa dinamica. Quello che accade è un “effetto di lettura” che sposta piano piano il lettore verso una parziale identificazione con Aue, che mobilita le emozioni con abilità retorica certosina. La sua responsabilità morale è inesistente, ma è molto più importante riuscire a simularla di fronte al suo pubblico, con argomentazioni alle quali è quasi impossibile ribattere, nonostante il lettore sia colto e fiducioso della propria moralità. Leonardo Rossi, nel suo saggio Dalla parte di Aue. Una lettura delle Benevole di Jonathan Littell (Il Convivio Editore, 2021) si sofferma sulla chiave di volta del romanzo, il momento in cui Aue utilizza la figura retorica dell’epitrope per “fingere” la dichiarazione della sua colpevolezza: «Ancora una volta siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o di quel fatto. Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io, l’avreste fatto anche voi». Dietro questo atteggiamento rispettoso non c’è solo l’ironia, ma la volontà di dimostrare «la sostanziale equivalenza morale tra sé e il lettore», come se un sottotesto continuasse a parlare, come se l’intera confessione fosse dominata da un come volevasi dimostrare, che questa vicenda vi riguarda, che «essere colpevoli o innocenti è solo una questione di casualità».

 

La vittima dell’universo: il Male assoluto

 

«Molti lettori hanno individuato nell’uso della prima persona la novità dirompente del romanzo. [...] La prima persona, ben più della terza, crea un legame diciamo così intimo tra narratore e lettore». Esattamente come in Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, l’Io infame, così viene individuato nella riflessione di Leonardo Rossi, si rivolge continuamente alla comunità di lettori per ottenere riabilitazione e comprensione, facendo leva sugli elementi in comune, sull’empatia, sugli aspetti più profondi dell’esistenza. Aue, infatti, intreccia al piano storico quello privato, dove i ricordi, trasfigurati e fumosi, ricostruiscono una omosessualità non dichiarata, un rapporto problematico con la madre e un’attrazione morbosa per la sorella gemella Una, con cui intrattenne rapporti incestuosi. Ma questa identità frammentata, che riesce a trovare sicurezza solo nelle parole, o meglio, nella sua confessione controversa, è già in partenza piena di ombre. Il suo nome, Aue «è impregnato di tendenziosità, rimanda con la sua liquidità vocalica alla semantica del femminile e dell’acqua. È costituito dall’anagramma del francese eau “acqua” e in tedesco significa “terreno pianeggiante che si trova accanto a un fiume”; si può inoltre accostare ad AVE, palindromo di EVA, che è la prima donna, e rappresenta ovviamente la tentazione». Vi siete mai chiesti che cosa ci tiene incollati alle parole di un manipolatore patologico? Nel discorso di un individuo disturbato le acque sono torbide, confondono le orecchie di chi ascolta. E viene meno la possibilità di formulare un giudizio di valore perché i problemi morali sono relativizzati, ribaltati. Potremmo dire anche reversibili. I sentimenti, i rimpianti, persino le bugie sono pose inautentiche. «Si è usato molto, dopo la guerra, il termine “disumano”, per tentare di spiegare ciò che era accaduto. Ma il disumano, scusate, non esiste. C’è solo l’umano e poi ancora l’umano». E se è vero che il Male assoluto, così come siamo abituati ad associarlo alla Banalità del male di Hannah Arendt, è un concetto che non ha una vera corrispondenza nell’universo, Aue inizia a insinuare che il vero pericolo per l’uomo è lui, e contemporaneamente lo sono anche i suoi lettori.

 

La letteratura è manipolazione: gaslighting

 

«Il mio atto mi sembrava una sorta di messa in scena, scaturita da un sentimento vero e oscuro, ma poi falsata, deviata in una collera di facciata, convenzionale. Ma proprio lì stava il problema: se stavo a osservarmi così, costantemente, con quello sguardo esteriore [...] come avrei potuto pronunciare la benché minima parola vera, compiere il benché minimo gesto?». Secondo la riflessione di Rossi, il piano logico e dialogico di un narcisista – perché è così che va chiamata, senza perifrasi, la struttura psichica di Aue – è chiaro sin dall’inizio: la parola “colpa” deve appartenere a entrambe le schiere, quella del carnefice e quella del lettore. O meglio, tutto questo è simulato, perché un Io infame non accetta il concetto di responsabilità, che confluisce appunto nella “colpa”. Le sue sono lettere di cartapesta, burattini sintattici. Poi succede la magia, una «paradossale catarsi». Improvvisamente i colpevoli sono i lettori, mentre il narratore si rivela nella sua più candida innocenza. Come è potuto accadere? Il critico Lionel Mordechai Trilling, nel suo commento a Lolita (The Last Lover. Vladimir Nabokov’s Lolita, 1958) scriveva appunto che «ci ritroviamo particolarmente scioccati quando ci rendiamo conto che, durante la lettura del romanzo, finiamo virtualmente per passar sopra alla violazione che descrive [...] Siamo stati sedotti e resi conniventi con la violazione, perché abbiamo permesso alle nostre fantasie di accettare ciò che sappiamo essere rivoltante». È un po’ quello che accade quando siamo ingannati dalla manipolazione, da quello che nel glossario psicologico dei disturbi di personalità si chiama gaslighting, una tecnica estremamente subdola che deve la sua origine a un’opera teatrale del 1938, Gas Light, nella quale il marito alterava l’intensità delle lampade a gas per poi incolpare la moglie e mettere progressivamente in dubbio la correttezza delle sue percezioni, sino a farle credere di essere insicura della realtà dei fatti e dei suoi processi di pensiero. Aue, con il suo uditorio, fa lo stesso, mente, e soprattutto la sua parola, per Rossi, «è capace di ridisegnare la realtà, che è fluida e acquista solidità solo nella restituzione verbale». Tutto, nella sua narrazione dei fatti, sembra evanescente, senza punti saldi – «io sono di parole, delle parole degli altri, quali altri, e anche il posto [...] tutto l’universo è qui, con me, [...] tutto cede, s’apre, va alla deriva, rifluisce» – , tranne l’Io. Quello rimane sempre il centro del discorso, e laddove si pronuncia l’Altro, Aue non mette in atto alcun riconoscimento, lo pronuncia e basta, come se fosse solo un suono, per attirare ancora una volta dalla sua il lettore confuso e senza riferimenti: «[...] i suicidi, la mia stessa tristezza, tutto ciò dimostrava che l’altro esiste, esiste in quanto altro, in quanto umano». Ma anche questa è l’ennesima magia affabulatoria: l’Altro-vittima esiste solo perché l’Io Infame possa usarlo. Non ha la forma di un uomo, è uno strumento. Per dirla con le parole della Arendt, che scriveva di Eichmann: «Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata a un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano».

 

Immagine: Exhibit in the Museum Schnütgen - Cologne, Germany

 

Crediti immagine: Daderot, Public domain, attraverso Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_304.html

La poesia che cambia. Come si legge Dante

Marco Grimaldi

La poesia che cambia. Come si legge Dante

Roma, Castelvecchi, 2021

 

Italo Calvino, in un passo del suo saggio Perché leggere i classici, dichiarava che un’opera funziona come un classico quando «stabilisce un rapporto personale con chi legge». Se si pensa a uno dei classici per eccellenza, quale il viaggio del Sommo poeta, la riflessione ne smuove una successiva, che interroga la nostra autenticità di interpretazione: prima ancora di intrattenere con la Commedia un «rapporto personale», dobbiamo infatti fermarci al «rapporto». Su questa premessa Marco Grimaldi nel saggio La poesia che cambia. Come si legge Dante (Castelvecchi, 2021) orienta la sua riflessione in merito ai diversi approcci di lettura dell’opera dantesca, in particolar modo attraverso le lenti del presente, agli interrogativi dell’oggi, come quelli che provengono anche dagli studi di genere o dalla questione femminile. Oltre all’evidente ostacolo alla lettura rappresentato dalla lingua in cui è scritta, non dobbiamo dimenticarci che la Commedia è sì «un manuale di istruzioni per il presente», in quanto per molte generazioni abbia rappresentato anche «un’enciclopedia del sapere», ma “usare” correttamente il corpus dantesco significa saperlo leggere attraverso la tradizione dei commenti – «nessun altro classico della letteratura italiana ha una tradizione di commenti così ampia e precoce» – e attraverso il suo contesto, attraverso la storia. Marco Grimaldi mette dunque in guardia dai rischi e dai limiti di alcune letture attualizzanti, in particolar modo dai «metodi di lettura che si proclamano atemporali e pongono l’enfasi sulle costanti, dimenticando le variabili e le diversità». Confondere il messaggio della Commedia con quel «meccanismo di riconoscimento» che ci illude di poter avere da Dante le risposte ai problemi del nostro presente è uno dei rischi che Grimaldi affronta sin dalle prime pagine. Come mai, però, sentiamo Dante così vicino a noi? Perché non può essere considerato un nostro contemporaneo?

 

La Commedia è la storia del nostro peregrinare?

 

La sua lingua è ancora la nostra lingua. La sua opera è un passaggio obbligato nel programma delle scuole e di molte università. La tradizione dei suoi commenti è continua e ininterrotta. Questo basta per convincerci del perché leggiamo ancora Dante? Grimaldi sostiene che uno dei motivi più convincenti che fanno della Commedia un’opera “aperta”, quale è proprio il classico, è la sua idea di poesia che cambia la realtà e gli uomini, che «aiuta a vivere virtuosamente sulla terra». Ma, precisa, c’è anche un’altra ragione per cui questo testo dialoga ancora con noi: la Commedia «è forse in assoluto l’opera letteraria nella quale è più esplicito quel meccanismo per il quale tutti noi tendiamo a riconoscere la nostra storia nelle storie che leggiamo, cercando qualcosa che ci riguardi profondamente e che sia ancora vivo, attuale, presente». Già Francesco Petrarca, nel Secretum, parafrasava questo concetto: anche Agostino, nelle sue Confessioni, aveva l’impressione di leggere «non la storia degli altri, ma quella del suo proprio peregrinare». Grimaldi puntualizza che in Dante questo meccanismo è reso più esplicito: la Commedia racconta non solo la storia di un singolo uomo alla ricerca di sé stesso, che intende superare il peccato e per farlo «deve conoscere ciò che accade nell’aldilà», ma la storia dell’umanità intera in viaggio verso il suo cambiamento e miglioramento. Il fine del poema è universalmente accettato e Dante ce lo dice in maniera molto chiara: «togliere i viventi dallo stato di infelicità in questa vita e guidarli alla felicità». Ma che tipo di felicità aveva in mente Dante? Tutti i valori che riconosciamo nella Commedia meritano, per Grimaldi, un’attenta contestualizzazione. Anche l’amore, per esempio, non può non essere interpretato secondo la prospettiva storica del tempo in cui Dante scriveva. Perché se da un lato è vero che l’amore raccontato da Dante e anche da Cavalcanti è quello che noi intendiamo oggi – per la trattazione delle emozioni e delle sensazioni – , dall’altro è pur vero anche che il Sommo poeta si rifaceva a un sistema di idee e di valori completamente diverso dal nostro, «sistema che condanna duramente, senza appello, Paolo e Francesca». Dante, in quell’episodio, sviene e prova compassione perché intende condurre il lettore a identificarsi con il pellegrino, che, protagonista d’eccellenza dei romanzi cavallereschi, ha continui mancamenti di fronte ai dannati e «viene esortato dalla guida a condannarli e a passare oltre».

 

Realismo non è sinonimo di contemporaneità

 

Anche se nella letteratura del suo tempo la Commedia spicca per originalità e innovazione, per Grimaldi non dobbiamo abbandonare il costante confronto con le opere scritte precedentemente – i “precursori”, ovvero il Roman de la Rose e il Tesoretto – e il corredo di commenti che circondano l’intero poema. Tutte queste parti sono in continuo dialogo. Ciò che può ancora trarre in inganno i nostri occhi è il realismo della rappresentazione, caratteristica che innalza la Commedia al vertice evolutivo della letteratura medievale: «i regni infernali sono reali nel senso che è reale la geografia, sono reali gli spazi, le misure, i tempi, i fenomeni fisici e atmosferici. Uno dei maggiori sforzi di Dante sta infatti nell’immaginare come sarebbe l’aldilà se fosse vero, molto più che nel rappresentarlo secondo le coordinate offerte dalla tradizione». Nella Commedia tutto sembra reale, vicino: le personificazioni scompaiono, mentre trionfano i personaggi storici e letterari; dal discorso si passa al dialogo; la storia è un intreccio tra fatti personali e riferimenti all’attualità. Il realismo dantesco, però, non è sinonimo di contemporaneità, anche se nel poema troviamo analogie evidentissime. Pensiamo al concetto del viaggio, che non è sovrapponibile all’idea che ne abbiamo oggi: il viaggio, infatti, fa parte di una struttura narrativa circolare, esattamente come il Roman de la Rose, e «inizia con lo smarrimento e si conclude con la visione divina dopo la quale l’autore può avviare il racconto da principio». Inoltre la storia del pellegrino è interpretata come un «percorso di acquisizione di sapere in senso molto largo, dalla conoscenza dello stato delle anime dopo la morte [...] fino alla conoscenza della fisica, dell’astronomia, della filosofia, della teologia, della storia». Nella Commedia è fortissimo il nesso tra amore e conoscenza, tra viaggio, eterno e processo di scoperta intellettuale, per cui la conoscenza acquisita alla fine del viaggio è di tipo «filosofica, morale ed erudita».

 

I limiti dell’attualizzazione e il ruolo della scuola

 

Quando leggiamo Dante, prosegue Grimaldi, occorre «tenere conto della distanza e dell’inattualità anche quando si parla di questioni che oggi ci stanno particolarmente a cuore, come la tolleranza religiosa, le disuguaglianze di genere e il ruolo delle donne nella società». Gli studi di genere per l’autore possono offrire una visione distorta della materia dantesca. Tra gli esempi riportati è emblematico il mito di Beatrice, che, secondo alcuni, capovolgerebbe «il paradigma misogino che fin dall’antichità è stato dominante in Occidente». Questo è un tranello. «Cercare di separare Beatrice dal modo in cui Dante, come tutti i suoi contemporanei, concepiva i rapporti di genere significa non comprendere che l’esaltazione della donna – già tipica della letteratura cortese – era possibile solo all’interno di quei ruoli». Grimaldi è scettico nei confronti di chi sostiene che Dante potrebbe essere un “alleato” del pensiero femminista, in quanto non aveva alcuna sensibilità per la questione femminile come la intendiamo oggi. Per Boccaccio, infatti, la donna aveva sì un intelletto e un cuore, ma poteva sedere tra i filosofi (maschi) solo a seguito di un comportamento di sottomissione. «Che ci piaccia o no», commenta Grimaldi, «e per quanto sia in contrasto con le nostre convinzioni, per Dante non c’è contraddizione tra la santificazione di Beatrice e l’idea che la donna sia soggetta all’uomo, poiché per l’uomo, come dice Tommaso d’Aquino, “abbonda in misura maggiore la capacità della ragione”». Il fantasma dello strutturalismo, quando si avventa sui testi medievali, ci rende il messaggio forzatamente attuale, soprattutto per quanto riguarda le differenze tra uomo e donna, interpretate non in chiave evoluzionistica ma come «costrutti simbolici» atemporali. «Dare importanza all’identità e al genere è una prospettiva moderna che non trova corrispondenza nel mondo medievale». Certo, leggere la Commedia con un occhio critico che guarda alla contemporaneità e non sovrappone al messaggio dantesco categorie etiche e morali dell’oggi può essere difficile da “digerire”. Dal nostro punto di vista Dante era un «fiero reazionario, credeva probabilmente nell’imminenza del giudizio universale e avrebbe di certo voluto vivere in un regime politico monarchico». Certo la via più facile, secondo Grimaldi, è parlare del Dante come poeta del sentimento e dell’amore. Ma non ci devono interessare le vie facili. Neanche a scuola. Nelle classi non deve esserci più Dante, nelle classi, alla luce di tutta la sua riflessione «c’è soprattutto bisogno di uno studio più intenso della storia, della storia della letteratura, della lingua, dell’arte, della scienza», per rendere comune «una solida cultura dantesca, o almeno mostrare la necessità di tale cultura».

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Ripartire.html

Ripartire: da Cosmo a Caparezza, le canzoni del futuro che è tornato

 

Ripartenza: breve storia del prefisso ri-

 

Negli ultimi due mesi il termine “ripartenza” è riuscito, in parte, a sovrapporsi ad alcuni vocaboli che abbiamo utilizzato per descrivere la realtà che ci circondava, in primis “quarantena”. Ci sembrava così lontano, per gli eventi storici associati, eppure, nelle nostre comunicazioni, è diventato familiare in poco tempo, puntuale e di riferimento. “Ripartenza” è una parola che, invece, ci ha abitato sempre, anche se la pronunciavamo poco o solo nella nostra mente, e per questo è più familiare di altre. La sua natura, poi, morfologicamente parlando, è spiccatamente dinamica e creativa, e ha a che fare con il movimento, con l’azione, con la creazione del “futuro”, un altro vocabolo su cui ci siamo soffermati a lungo, non riuscendo però a intravederne la forma. Il prefisso ri- (continuazione del latino re- o red-) è uno dei più produttivi in italiano e tra le sue funzioni frequente è quella che indica non solo il ritorno a una fase anteriore, dopo il compiersi di un’azione opposta a quella indicata, ma anche il movimento in senso contrario che distrugge ciò che è stato fatto in precedenza. Nel nostro caso, quello della realtà post-pandemica che prende vita nel suo ri-cominciare, il senso di “ripartenza” viene detto restitutivo e non semplicemente iterativo (per cui l’azione si compie due volte): nella creazione di un nuovo ritmo ci stiamo dunque “riallenando” (nel senso di un moto interiore spento in precedenza da fatti esterni) a una più personale normalità, che viene riproposta in molti dei brani musicali usciti nell’ultimo periodo. La mappa della realtà che rinasce testimonia tre aree o tendenze: la prima, relativa alla libertà ritrovata, alla possibilità di usare – finalmente – il corpo; la seconda, che disegna la difficoltà di uscire dall’attimo sospeso che precede il ritorno alla normalità; la terza, che racconta la rinascita dal punto di vista della natura, il rito di passaggio, cambiare pelle per continuare a vivere.

 

«Sudarsi addosso»: l’euforia e il corpo ritrovato

 

Nell’album di Cosmo La terza estate dell’amore sono i verbi a diventare le bussole della geografia della ripartenza, fotografata nella sua esplosione di ballo, libertà ed evasione. Troviamo infatti il prefisso ri- nel verbo risalire, in riferimento alla fuoriuscita di un amore per troppo tempo soffocato, che nasce dalle radici – «Dum dum / E l'amore risale da sottoterra» –, radici dalle quali anche «piante rampicanti riprendono la città» (“Dum Dum”). Nel futuro di Cosmo non è decisamente la casa lo spazio dedicato a tutte le rinascite, bensì la strada: «Giù le mutande / via le tende, via le stanze / tutto in strada, la strada / la strada si riempie» (Puccy Bom), dove il prefisso ri- di riempire intensifica l’azione del semplice empire. «Crollano barriere, toccarsi, sudarsi addosso / sconosciute e sconosciuti, esperimenti viventi / io ballo, le nostre radici strette fra i denti, in mezzo alle cosce (“Io ballo”). L’ultima festa, come recitava l’omonimo singolo di qualche anno fa, si è trasformata in una nuova discoteca all’aperto, dove i corpi tornano a muoversi, a toccarsi, a «sudarsi»: a differenza dell’uso transitivo tradizionale, nel significato di “ottenere qualcosa con grande fatica” (es. “sudarsi il pane”), Cosmo non accompagna il verbo con nessun complemento oggetto, ma associa al riflessivo l’idea di contaminare il proprio sudore con quello degli altri, in una rinnovata percezione del proprio corpo. Con ironia viene trattata anche una delle parole più abusate dell’ultimo anno, “abbraccio”: nei versi di Dum dum diventa quasi un’aggressione – «Ho degli amici che è meglio se stai attento / se ti prendono ti abbracciano (wow)» –, mentre in quelli di Io ballo Cosmo lo parafrasa, raccontando che cosa accade quando due corpi si avvicinano («Cancello la distanza nello spazio, tra i corpi»). E se non tutti provassimo questa «voglia che non va via?».

 

«Siamo tutti diversi non per molto»: leggerezza e paranoia

 

Il tempo scorre, il weekend esiste. Ad annunciare questi passaggi temporali è la nota cromatica, che Frah Quintale associa a una palette calda, come tra l’altro è intitolata la seconda parte del progetto iniziato nel 2020 Banzai (Lato Arancio). «Un anno da dimenticare / un fine settimana colorato / leggero come queste droghe» (Sì può darsi) e ancora «oggi ho ripreso a respirare, a scoprire i colori / e a vederne di nuovi quando ti muovi (Pianeta 6): il prefisso ri- in ripreso e anche in respirare, sempre con valore restitutivo, viene associato al riconoscimento della spensieratezza, che per Frah significa anche lasciar «scaricare il cellulare» senza provare la fomo (sigla dell’inglese fear of missing out), la paura di essere tagliati fuori dai social network, l’ansia di non avere sotto controllo la propria presenza nel web, forse una delle malattie del nostro secolo ossessionato dalle comunicazioni, che la pandemia ha amplificato. «A volte forse è giusto anche distrarsi / sì, può darsi»: la seconda strofa di Sì può darsi è un inno alla conquista del “lasciar andare” le cose, un traguardo difficile per noi che viviamo in una società (anche digitalmente parlando) performante e autoreferenziale. Anche per Maggio, che esordisce con l’album Nel mentre, la distrazione è uno dei temi su cui ruota la sua riflessione post-pandemica. Come si fa a rimanere concentrati se la nostra memoria fa fatica ad allontanarsi dal passato recente? «Camminerò distratto, ci sarà chiasso». Se in Non parlarmi d’altro emerge l’idea di ripartenza, legata proprio all’atto di muoversi e alla consapevolezza di quello che è stato, cioè, in senso (più o meno) figurato, di una «batosta» (Aprire un occhio)  – «Camminerò sopra il passato, senza spostarlo», «Se fare questo o se fare quello / un po' di tutto e non stare fermo» –, in E pensarci Maggio si sofferma sulla crisi della nostra identità, ancora influenzata dagli eventi passati – «Siamo tutti diversi non per molto» – e dall’incapacità di essere poco inclini all’agire. «Prima ti rialzi, poi lo capisci» è un verso-chiave dell’album, dove il prefisso è associato ancora a un verbo di movimento dal basso verso l’alto. E poi ci sono loro, che non se ne vanno mai, neanche fuori da casa, neanche nella zona bianca. Sto parlando della noia e della paranoia, le bussole che ci guidano nel cinismo di Vipra e del suo album Simpatico, solare, in cerca di amicizie, titolo che fa il verso alle biografie dettagliate che dominano la app più famosa di dating, Tinder, letteralmente esplosa durante la pandemia. L’occhio di Vipra osserva dalla serratura il bilico tra il desiderio di non stare più solo – «Che noia stare da soli / che noi la paranoia» (Che noia) e la fatica di godersi i momenti in compagnia, sognando casa: «Mentre vado alle feste con i miei amici rapper / Ma hai visto quelle facce? Nessuno si diverte / e io vorrei solo andare a casa» (Ragazzino). La casa, «dove vivono i sensi di colpa» (Coma_Cose, Zombie al Carrefour) e la sua attrazione fatale attraversano anche alcuni versi di Svegliaginevra, che fotografa bene l’incoerenza di quella “voglia” di cui parlava Cosmo. «Ed esco dal locale per riprendermi la voglia di ballare / e voglio andare a casa, voglio andare via / ma forse non voglio andare» (La moda di fare cazzate): il prefisso ri- rimarca il gioco della paranoia: prima vogliamo divertirci e subito dopo rintanarci, e allo stesso tempo ottenere per magia l’adrenalina alla quale non siamo più abituati.

 

«Visti dai satelliti siamo insetti»: rinascita e mutazione

 

La ripartenza vista dall’interno, o meglio, quasi al microscopio, è raccontata invece da Vasco Brondi e Caparezza, i cui album sembrano dialogare su un argomento in comune: siamo insetti sopravvissuti alla tempesta, siamo animali che ricreano la vita. O forse vorremmo essere come loro. Perché se è vero che Vasco ci ricorda che «visti dai satelliti siamo insetti» e che nonostante abbiamo perso tutto «siamo come quegli animali / che nei posti più impervi ci fanno i nidi», siamo anche «estranei ai ritmi naturali» e soprattutto «siamo diventati adulti per tentativi» (26000 giorni). Sembra che questi versi vogliano smascherare la nostra imperfezione persino nella rinascita, nella personale ripresa della vita dopo il caos. Vasco non usa il prefisso ri- ma il riferimento ai «tentativi» lo sostituisce, anche se qui con valore iterativo. E sempre sul valore iterativo è costruita la riflessione di Caparezza. Nel suo Exuvia, termine del lessico zoologico che indica ciò che rimane del corpo di alcuni insetti dopo un cambiamento formale – una sorta di calco –, la ripartenza assume i tratti di un rito di passaggio («Sto scavando dentro di me / così tanto che schizzo petrolio»), della ciclicità della vita che si rinnova (E sarà tutto nuovo), del tempo che deve fare il suo corso, anche per quanto riguarda la sua natura di artista («Mi sono preso i miei spazi / ma ho lasciato che il tempo fuggisse»). Di qualunque colore sia il nostro futuro, sono due i verbi che perfezioneranno le sue sfumature, due verbi semplici e brevi: “amare” e “fare”, come ci ricorda Vasco Brondi, in un mantra che possiamo ripetere all’unisono: «Amate e fate quello che volete».

 

Crediti immagine: Delpixel / Shutterstock.com

 

 

 

 

 

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Amarsi.html

Amarsi o non amarsi? Il vocabolario emotivo dei Les Enfants

 

Essere o non essere? Amarsi o non amarsi? Sono scelte verbali diverse, eppure abbracciano la stessa area semantica, quella della vita, perché l’amore è esattamente un dialogo costante tra desiderio e assenza, tra attesa e sparizione, come recita Tanikawa Shuntarō nella sua poesia Essere vivi «è un’altalena che dondola ora / è l’ora che passa ora». I Les Enfants, a distanza di tre anni dalla loro ultima pubblicazione, sono tornati in campo con tre nuovi singoli che affrontano da diverse prospettive le contraddizioni dell’amore. Precisamente le contraddizioni di quell’attimo in cui si percepisce la forza del sentimento. Da qui la ripresa di una ricerca che dura secoli, quella legata al vocabolario dell’intimità: su come dire l’amore, la domanda-chiave che trascorre nel Simposio, ci chiediamo da sempre, e da sempre forgiamo nuove parole o espressioni per intrappolarne le sfumature. Del resto, quando non si conosce qualcosa, è naturale aggrapparsi ai nomi, perché sono proprio loro a creare l’esistenza di quel qualcosa. I Les Enfants, per descrivere la loro idea di amore, hanno giocato con la lingua inventando alcuni neologismi a partire dal singolo Non amarsi, che già dai primi versi enuclea la prima delle grandi incoerenze della “zona rossa”, quella del cuore: «Non amarsi / E non correre il rischio di stare male / Come si fa come si fa come si fa / A vivere leggeri». La Generazione Z probabilmente parlerebbe di rischio nei termini di “red flag” per annunciare il nefasto evento, l’allarme rosso relativo all’innamoramento. La nascita di un attaccamento emotivo ha la forma di un ponte tibetano: non puoi sapere cosa ti succederà a metà del percorso. E in ogni caso, sarai costretto a muoverti, anche solo per tornare indietro. Meglio allora non salirci affatto – «non amarsi» – per evitare non tanto la caduta, ma la sensazione di essere invischiati in qualcosa che è troppo personale e intimo da gestire con lucidità.

 

Stare con te mi definisce

 

Eppure, anche solo a pensarci, a quel ponte, sentiamo la nostra vita appesantirsi. E da qui una domanda lecita: esiste un modo per vivere l’amore superficialmente? Una nota semplice per descriverlo e basta? La risposta a questo desiderio di leggerezza è il verbo “faffiare”, legato a “faffietto”, che rimanda al gesto fisico di mandare piccoli “fafafa” tra i denti, anche seguendo un’arietta, un motivetto musicale (per lo più allegro), che la band associa al brano di Sigur Ros Heysátan. La presenza dell’altro, anche in un sentimento provato in solitudine, è difficile da scacciare. Nel monologo di Non amarsi la riflessione sembra cambiare rotta: nei versi «Non amarsi / E non avere nessuno da perdonare», dove la congiunzione “e” in realtà nasconde un connettivo logico (“così non ho nessuno da perdonare”), emerge l’oggetto d’amore, anche se ipotetico, per ricordarci che nel sentimento non siamo mai veramente soli. In due si può allora “ammare”, un altro neologismo con cui il gruppo descrive l’atto di nuotare vicini, una serie di movimenti ordinati per reggersi e muoversi nell’acqua del mare insieme a qualcuno, “detto sia degli animali sia dell’uomo: sapere, non sapere a.; imparare, insegnare a a.; a. come un pesce, con sicurezza e agilità”. Il termine è associato al brano di Giovanni Truppi Conoscersi in una situazione di difficoltà, che in pochi versi spiega l’importanza dell’amore nella creazione del nostro sé e la magia dello scambio: «Stare con te mi definisce / Se ti do la mia solitudine / Tu mi dai la tua solitudine».

 

Malinconie indescrivibili

 

Scambio non è sinonimo di fusione. Il campo che secondo me spiega bene cosa può accadere nello scambio amoroso è la fisica: le “forze di scambio”, in fisica atomica, sono quelle derivanti dalla possibilità, di natura tipicamente quantistica, che hanno due elettroni di un sistema atomico di scambiarsi le rispettive posizioni. Scambiarsi idee, storie, emozioni e forse anche vestiti non significa diventare la stessa cosa. Quello si chiama amore tossico, la più comune delle incomprensioni sull’amore, che i Les Enfants recitano nel verso «Amarsi e rischiare di perdere tutto». Ma davvero ci si può perdere con qualcuno? «Tu puoi guarire questi tagli sul cuore / Con questa piccola malinconia / Che mi strappa il cuore / Non mi fa volare volare con te». I brani Non amarsi e Resta con me sembrano parlarsi: dalla realizzazione di una paura legata alla vertigine dell’amore si passa così alla paura che si prova poco prima della separazione, una malinconia indescrivibile (perché invisibile, «piccola») che assomiglia alla parola di tabucchiana memoria saudade o “nostalgia del futuro”, un sentimento che esprime insoddisfazione e tristezza, ma anche assenza di qualcosa che sta per scomparire o “imblunire”, neologismo che significa divenire blu, riferito a una persona (l’amata o l’amato) prima del tramonto, il momento romantico per eccellenza. «Ti prego aspetta fino all’alba con me / Scriviamo una canzone / Così non moriremo mai»: è un sospiro di sollievo quello dell’innamorato che ha il privilegio di allontanare, per un po’, la sensazione di mancanza. L’amore, in questo passaggio, ci illude anche di poter essere eterni, insieme. E visto che il sentimento nasce proprio dallo sguardo, i Les Enfants non potevano coniare neologismo più azzeccato per descrivere un balsamo per gli occhi, la presenza «fino all’alba» dell’amata o dell’amato: il “sollirio”, parola-macedonia che al suo interno contrae “sollievo” e “collirio”, è il sollievo che schiarisce la vista, indica l’essere sollevato da un peso, da una sofferenza fisica o morale o da una preoccupazione (es. “nel vedere che non gli era successo nulla di grave ho provato un gran sollirio”). La chiusa di questo piccolo saggio sulla tempesta che ci abita quando siamo innamorati è il brano Io e te, dove la paura iniziale cantata nelle precedenti tracce si trasforma in un fastidio universale che solo il sentimento è in grado di lenire: «Forse ho bisogno di averti vicina / Perchè da solo non ci riesco a stare /  fuori sembra la fine del mondo / Non ho più voglia di stare a guardare / Ho bisogno di te di te di te di te di te di te di te / Per cancellare tutte le paure». L’amore è un crescendo di passi, movimento e soprattutto corporeità, come evidenziano i due climax «inseguirci impazzire ballare per ore» e «le tue mani sul cuore la pelle il sudore». La scoperta dell’intimità come unico luogo in cui fare esperienza della bellezza ci riporta alla necessità di comunicarne le tonalità, sempre nuove e difficilmente comprensibili: «L’ho detto a tutte le stelle del cielo / A quasi tutti i pesci del mare». Non importa cosa dire dell’amore, e forse non importa nemmeno il come. Ma solo il fatto di dirlo (o di provarci) dona vita all’amore stesso.

 

Immagine: copertina del singolo Non amarsi (2021) dei Les Enfantes. Artwork: Eduardo Stein Dechtiar

/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_286.html

Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio

Claudia Bianchi

Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio

Bari-Roma, Editori Laterza, 2021

 

“Come sta la tua recezione?” No, non ho sbagliato a scrivere. Questa è la domanda che, secondo il filosofo del linguaggio John Austin (1790-1859), ognuno di noi dovrebbe capire nell’altro (il destinatario) quando accoglie il nostro messaggio. Come? Se il feedback è in linea con la nostra intenzione siamo a cavallo. Se per esempio io, colonnello, ordino ai miei soldati di sparare sulle truppe nemiche e questi sparano e fanno ciò che è stato richiesto, abbiamo un esempio di atto linguistico illocutorio riuscito. Ma sappiamo che non sempre è così. Quando accade, si parla di misfire, cioè “colpo a vuoto” o di abuso. Parolona esagerata per ciò che riguarda la comunicazione? Direi di no. Perché John Austin, con le sue riflessioni e soprattutto con il testo Fare cose con le parole ci ha (spero) svegliato su un aspetto da molti sottovalutato, che Claudia Bianchi, già nelle prime pagine di Hate speech (Laterza, 2021), affronta come premessa del suo saggio: «Gli individui non sono tutti uguali e le loro interazioni non avvengono tutte in situazioni ideali: una consapevolezza che ha faticato ad affermarsi anche in filosofia del linguaggio [...]. L’attenzione al linguaggio che usiamo sembra ad alcuni una questione di dettaglio, un capriccio degli adepti del politicamente corretto, quasi un lusso di fronte a sperequazioni economiche, discriminazioni sul posto di lavoro, crimini d’odio. Ma chi parla, soprattutto se da una posizione di autorità e soprattutto se in contesti istituzionali, ha una pesante responsabilità. Ciò che diciamo cambia i limiti di ciò che può essere detto», prosegue, «sposta un po’ più in là i confini di ciò che viene considerato normale, scontato, legittimo». Con le parole, insomma facciamo davvero cose, non pronunciamo suoni e basta.

 

Pensiamo a quante conversazioni intratteniamo ogni giorno con familiari, colleghi, amici. Quando una comunicazione può dirsi davvero efficace? Secondo la filosofia del linguaggio quando un atto linguistico soddisfa le “condizioni di felicità”, il che significa che da entrambe le parti ci si debba assumere le proprie responsabilità. Per esempio, mi assumo una responsabilità se capisco che non devo usare il termine “oftalmologo” mentre parlo con un bambino. Chi parla deve, affinché il suo atto illocutorio venga ben interpretato (ordine, richiesta, ecc.), soddisfare tali condizioni: «La procedura invocata dal parlante deve non solo esistere, ma anche essere usata in circostanze appropriate e da persone appropriate [...], la procedura deve essere eseguita correttamente e completamente, [...] deve essere eseguita con stati d’animo, disposizioni, credenze appropriate da parte del parlante». Inoltre il parlante potrà servirsi di formule performative esplicite (“Ti ordino di”), di contenuto (“sì”, “no”), glosse performative (“Questo è un ordine!”), indicatori sintattici (se voglio ordinare una cosa a qualcuno e uso il condizionale magari il destinatario se la prende, giustamente, con comodo...) e così via. Se consideriamo questo scenario così come ci viene presentato, potremmo essere indotti a pensare la comunicazione è un atto meccanico e rigido. In realtà, il processo linguistico e comunicativo è molto più naturale e vicino a noi di quanto pensiamo, soprattutto se pensiamo al fatto che «il linguaggio può essere identificato come uno dei luoghi chiave della discriminazioni e della violenza, che la filosofia del linguaggio ha il compito di svelare in tutte le sue forme».

 

Non mitigare mai un ordine!

 

Claudia Bianchi riporta un esempio di André Kukla (1942-) per spiegare un fenomeno ricorrente in molte delle dimensioni sociali in cui agiamo. Sì, con le parole. Immaginate che Clelia sia una manager in una fabbrica di macchinari pesanti, i cui operai sono quasi esclusivamente uomini. Il suo ruolo le dà l’autorità per impartire ordini. Clelia una mattina ordina ad alcuni operai di spostare le casse in un altro magazzino, ma questi assumono un atteggiamento particolare: non interpretano l’ordine come “ordine”, bensì come “richiesta”. La prendono dunque sottogamba. Eppure, Clelia ha invocato la procedura convenzionale dell’atto illocutorio di ordinare (usa l’imperativo, un certo tono di voce, espressioni del viso ecc.). La recezione da parte dei destinatari non c’è (uptake failure) e siamo così di fronte a un caso tipico di “distorsione illocutoria”, un fenomeno che coinvolge gruppi di persone che si ritrovano incapaci di compiere determinati tipi di atti linguistici a causa della loro identità sociale (genere, orientamento, etnia ecc.). Quello che qui va storto è legato proprio all’identità sociale del parlante, Clelia. L’ordine della donna non viene riconosciuto dai destinatari non perché gli operai sono stupidi (han capito benissimo!), ma perché sono immersi in stereotipi e pregiudizi. «Benché siano dotate dell’autorità necessaria e utilizzino le convenzioni associate in modo standard al compimento di atti illocutori, può accadere che le donne vengano interpretate come se stessero avanzando semplici richieste (atti che lasciano i destinatari liberi di soddisfarle o meno). Come conseguenza della loro appartenenza di genere, le donne vedono indebolita la forza illocutoria dei loro atti». In più, gli astanti, in un caso simile, hanno il potere di indebolire ulteriormente l’atto. Poniamo che gli operai rispondano a Clelia: “Dai, ridimmelo ancora!”. Clelia si trova in una situazione senza uscita: l’ordine, già declassato a semplice richiesta e ad atto non autoritativo rischia di modificare lo spazio normativo dell’ordine, che era nella sua intenzione. Se Clelia «sceglie di mitigare con formule di cortesia (“per favore”) e di esprimere gratitudine verso gli operai quando i suoi ordini vengono eseguiti, ne legittima l’interpretazione come richieste».

Capite quanto sia importante leggere i vari livelli della nostra comunicazione e di quella degli altri?

 

L’insostenibile pesantezza di giustificare un "no"

 

C’è un altro esempio, tratto da un classico della letteratura, che Claudia Bianchi riporta per spiegare quanto sia difficile in alcune situazioni “fare cose con le parole”. Nel capitolo 19 di Orgoglio e pregiudizio Elizabeth Bennet riceve una proposta di matrimonio da parte del sig. Collins, che ha ben poco di amoroso. La donna rifiuta con eleganza le sue parole, ribadendo che l’uomo è «troppo frettoloso», che lei «non ha dato alcuna risposta» e, soprattutto, che le è «impossibile fare altro che rifiutarla [la proposta]». A prima vista sembra tutto chiaro. Peccato che il sig. Collins continui a insistere, insinuando con le parole delle “cose”, cioè un sottotesto che assomiglia a un iceberg di pregiudizi sessisti e stereotipi di vario tipo, perché «[...] il linguaggio», ricorda Bianchi, «ha anche un lato oscuro. Esso svolge infatti un ruolo cruciale nel creare e rinforzare asimmetrie e ingiustizie sociali, nel diffondere e legittimare pregiudizi e discriminazione, nel fomentare odio e violenza». Il sig. Collins non solo insiste ma esplicita il suo pregiudizio: «“So bene, e non da ora, che tra le signorine si usa respingere la proposta di un uomo che esse intendono segretamente accettare, quando lui richiede per la prima volta i loro favori; e che talvolta il rifiuto è ripetuto una seconda e persino una terza volta. Non mi ritengo quindi minimamente scoraggiato da ciò che avete appena detto, e spero di condurvi all’altare quanto prima». La schermaglia va avanti, tra un “no” inequivocabile di Elizabeth e la sua interpretazione (“recezione”) da parte del cugino come un modo “di accrescere l’amore con l’incertezza”. Come nel caso degli operai, il sig. Collins svaluta la parola di Elizabeth, che non riesce ad avere un effetto su di lui, nonostante spieghi ripetutamente che il suo “no” è “no”. I casi estremi, poi, di “ingiustizia discorsiva”, sono quelli relativi alla “riduzione al silenzio”, «in cui chi appartiene a un gruppo discriminato  si ritrova a non riuscire a fare nulla con le proprie parole»

 

Vincere facile con la presupposizione

 

C’è poi un aspetto inquietante legato al lato oscuro del linguaggio, che riguarda armi invisibili, silenziose e potentissime: le presupposizioni. Anche se è vero che il discorso d’odio o hate speech è un fenomeno complesso che non è costituito solo dalle hate words ma riguarda sì gli epiteti denigrativi (termini che denigrano un soggetto appartenente a un’identità sociale, per genere, orientamento, etnia ecc.), «il contenuto denigratorio non è parte di ciò che l’epiteto dice, o esprime, ma viene veicolato dall’uso che di tale espressione si fa in contesto». L’odio viaggia su binari molto più ambigui, e riguarda anche frasi che non contengono epiteti ma che «consolidano credenze», spesso quando non ce ne accorgiamo nemmeno. Per esempio la frase “Obama è il primo presidente nero degli Stati Uniti” fa passare “I neri sono disprezzabili in quanto tali” come credenza comune, accettata dal parlante e dai destinatari, contemporaneamente. In questo senso una presupposizione «è più forte» e «più subdola di un’asserzione, perché l’informazione [presupposta] non viene messa al centro dell’attenzione del destinatario, non viene messa sotto un riflettore come accade per le asserzioni, ed è pertanto oggetto di minor vigilanza». In contesti simili, spiega Bianchi, occorre riflettere sulla nostra capacità di contrastare l’odio: «I cambiamenti in ciò che è legittimo nel contesto conversazionale non richiedono in alcun modo che gli astanti siano d’accordo con il parlante - basta solo che essi si astengano dal rendere pubblica la loro disapprovazione. Si tratta di una sorta di autorizzazione come risultato di un’omissione - omissione che può rendere gli astanti complici dell’atto di subordinazione, per convizione, superficialità, timore o vigliaccheria». Tra le soluzioni “attive” contro l’odio, Bianchi ricorda che è possibile bloccare questo “accomodamento” di contenuti dannosi che si annidano nei discorsi, a patto che non si usino le maniere forti, cioè dinieghi e/o negazioni. Non è la strada giusta. Tra le strategie efficaci ritroviamo però il blocking, che richiede l’esplicitazione dei contenuti dannosi (“Usando negro dai per scontato che ci sia qualcosa di male nell’essere nero”); commenti o negazioni metalinguistiche (“Non userei quella parola”, “È sbagliato usare insulti razzisti”); correzioni e riformulazioni, anche se bisogna fare attenzione al cosiddetto Streisand effect, «fenomeno per cui il tentativo di censurare o rimuovere un’informazione ne provoca invece ulteriore diffusione». Inoltre, sul web possono essere messe in gioco altre strategie opposte, come quelle di empatia e affiliazione, «che non rifiutano in blocco i contenuti controversi ma cercano di riformularli, stemperandone il tono ostile e minaccioso». Al primo posto, però, troviamo l’ironia. Un esempio vincente? Al commento di un utente “Il problema è: se gli uomini si sposano con gli uomini e le donne con le donne, chi farà figli?”, l’atleta e attivista statunitense Gus Kenworthy replica “Speriamo non tu”. Per cambiare le cose, però, ci vorrà molto tempo. Perché se, purtroppo, oggi è considerato “normale” assistere a un uomo bianco che urla a una donna araba in metropolitana “Sporca terrorista, tornatene a casa. Non abbiamo bisogno di gente come te qui”, dove la presupposizione che il parlante possieda autorità diventa parte del contesto condiviso (perché tutti se ne stanno zitti), non è considerato “normale” il caso opposto, quello cioè in cui la donna araba apostrofa “Sporco bianco, tornatene a casa…”. Bianchi ne chiarisce il fallimento comunicativo, affermando che un proferimento di questo tipo conta come “atto di subordinazione” solo «in contesti sociali in cui siano già ampiamente diffuse pratiche sistematiche di oppressione, legate a ideologie dominanti (più o meno esplicite) razziste». Ciò che manca nella seconda scenetta è una rete di credenze, comportamenti e norme sociali contro i bianchi. Ecco perché è importante allenare il nostro sguardo sul linguaggio: proprio perché, come di fronte a un iceberg, non ne vediamo sempre le componenti, che riposano da sempre su «pesanti storie di discriminazione, ostilità e anche violenza».

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Partire_da_Adamo_ed_Eva.html

Partire da Adamo ed Eva: l’invenzione della donna e della parità di genere

 

L’invenzione di una cosa: nominare è creare

 

Non è insolito che nella storia linguistica del mondo al femminile si debba ricorrere a un’origine maschile. Eppure, a differenza di quanto siamo soliti pensare, il celebre episodio “della costola” non ci racconta di un’asimmetria tra i due mondi, bensì di una complementarietà che è plasmata − tanto per restare nella semantica biblica − da lettere e suoni precisi.

La Genesi, sin dal primo libro, ci racconta di un uomo, Adamo, creato da Dio «a sua immagine» (1:27), che in ebraico viene chiamato adàm, letteralmente “l’umanità”. Del primo uomo sappiamo poco, ma un dettaglio non sfugge: adàm è fatto di terra, anzi, precisamente della «polvere presa dalla terra», che costituisce anche linguisticamente la sua materia, ciò di cui è impastato. In ebraico la parola “terra” è chiamata infatti adamàh, e questo basta per farci capire la relazione che da sempre intratteniamo con il suolo: Adamo non è padrone della natura, ma una sua “costola”, se solo la natura avesse le sembianze umane. Adàm, “il terroso” (nel testo biblico si usa l’articolo), è chiamato infatti a «custodirla» e non solo a coltivarla, per vivere di essa e su di essa. Il racconto delle origini prosegue, e mentre l’Eden si compone di alberi e fiumi, la “terrosità” di Adamo si fa sempre più incompleta − «non è bene che sia solo», meglio ancora «non è bene che l’uomo sia con la sua stessa parte» −, per cui Dio gli assegna un compito di massima responsabilità, cioè dare un nome «alle bestie selvagge e tutti i volatili del cielo». L’atto del nominare per la cultura ebraica è un’operazione di realizzazione ed è alla base della creazione della “donna”, linguisticamente e ontologicamente parlando. Perché sì, si parla pur di parole, ma dare un nome, soprattutto nei testi veterotestamentari, significa “far esistere” ciò che si è nominato. La parola, dunque, è un po’ corpo e un po’ terra, proprio come adàm, che è stato il primo uomo creato da Dio. Pensiamo solo al termine ebraico dabar, “parola”, che significa evento, qualcosa di concreto e visibile, che esiste insomma oltre il proprio suono.

 

Di che aiuto aveva bisogno Adamo?

 

Tra la constatazione da parte di Dio che Adamo «non è bene che sia solo» e l’assegnazione del potere del nome c’è una parola-chiave che funge da traccia per ricostruire la nascita della “donna”. Nel verso incriminato (2:18) si parla infatti della possibilità di fornire ad adàm un «aiuto». È interessante osservare le diverse traduzioni di questa frase: «un aiuto analogo a lui» e ancora «un aiuto che gli corrisponda» (versione attuale della Bibbia, CEI 2008). Ma persiste il mistero: di che aiuto si tratta? La domanda è lecita, soprattutto perché subito dopo prosegue la trattazione di bestie e uccelli e viene ripreso il desiderio di Dio, che ribadisce: «non trovo alcun aiuto analogo a lui o che gli corrisponda». Eppure la semantica dell’aiuto, così come è stata tramandata in questo passo, è decisamente fuorviante. Nel testo originale si trova infatti ezer kenegdo, un’espressione ebraica che rimanda alla dimensione dello sguardo, degli occhi, che può essere tradotta in questo modo: «qualcuno che tu possa vedere di fronte a te» o «qualcuno che ti sta di fronte». L’aiuto di cui parla Dio non viene presentato come qualcuno che deve prestare solamente soccorso o dare supporto, in una posizione di subordinazione o inferiorità, al contrario, viene presentato come un essere pari, al livello del primo uomo dell’Eden. Di cosa aveva bisogno dunque Adamo? Un suo pari e, probabilmente, anche una sua più chiara identità, dato che il termine con cui fino ad ora è stato designato nel testo è “umanità”, un vocabolo onnicomprensivo e allo stesso tempo indeterminato. Solo nella successiva scena, la favola delle origini subisce una sterzata narrativa. Adamo si abbandona nel sonno, dalla sua costola Dio plasma la donna e la reca all’uomo. Ed è qui che Adamo pronuncia per la prima volta la parola “donna”, utilizzando nella creazione di questo rapporto un altro termine per indicare sé stesso: non più adàm, ma ish, mentre ishà è la donna. La dichiarazione di Adamo fornisce l’etimologia per il nome dato alla compagna, che condivide con lui la medesima radice e che si inserisce nella dimensione di reciprocità, nucleo principale di tutto il racconto, che non a caso sottolinea l’importanza del “vedersi di fronte”, negli occhi. Del resto, è così che ancora oggi (forse) iniziamo a costruire un rapporto con qualcuno. La nascita della donna è dunque collegata alla nascita del rapporto con l’uomo, un rapporto di parità, complementarietà e reciproco sostegno.

 

Ah, midons midons, perché sei tu midons...

 

E poi cos’è successo? Anche dal racconto della Genesi emerge una dinamica linguistica da non sottovalutare: il vocabolario “al femminile” nasce da quello maschile, anche se con una desinenza differente. Insomma, tra i due termini c’è sì una corrispondenza − non solo linguistica, come abbiamo visto −, ma nella storia ci si è quasi sempre serviti di parole maschio-dipendenti. Il polo maschile, insomma, costituisce il modello di riferimento. Pensiamo solo ai latini matrimonium e patrimonium, perfettamente paralleli sul piano morfologico, ma con un grosso “ma” sul piano ideologico. Il matrimonium, infatti, implica la concezione di una situazione, cioè un luogo, ancora meglio una posizione, nella quale la donna viene collocata (come si evince dalle espressioni in matrimonium dare oppure in matrimonium ducere) ma che non le appartiene, perché è una pertinenza del pater familias. Con la nascita dell’amor cortese (XII secolo ca.), la semantica del mondo femminile subisce una svolta, ma solo a prima vista. I ruoli si ribaltano e questa volta è l’uomo a presentarsi come umile servitore alla volontà dell’amata, questo perché la donna, al tempo, era considerata “superiore” sia socialmente che spiritualmente e il trovatore doveva portarle assoluto rispetto. Il rumore di sottofondo che avvertite è il contesto storico e sociale nel quale si sviluppa questa nuova concezione dell’amore, che imita i rapporti feudali di vassallaggio, ovvero il rapporto di sottomissione che lega il vassallo al signore. Da qui si spiega l’appellativo midons rivolto alla donna, un termine di genere maschile che letteralmente significa “mio signore”. Anche se le possibilità di traduzione di questa parola sono ancora aperte per molti filologi, fermiamoci a riflettere su questo: la cifra della donna dell’amor cortese, midons, assume connotazione maschile perché con questo vocabolo si intende chi “sta sopra” e dunque non è sottomesso (all’uomo). Anche in questo caso, la donna è dipendente da un codice, così come accadeva nella Genesi, dove la prima donna era dipendente da una radice etimologica. La donna esiste dalle origini in rapporto a un “luogo”, a una posizione dalla quale agisce. Forse, non sempre.

 

Immagine: Affresco rinascimentale (1365) di Bartolo di Fredi raffigurante la Creazione di Eva nella Collegiata di San Gimignano

 

Crediti immagine: jorisvo / Shutterstock.com

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Parlare_del_futuro.html

Parlare del futuro

La parola futuro ci risulta misteriosa sin dalle prime volte, anche quando veniva presentata in maniera indiretta. Pensate ai primi temi delle elementari, a quella consegna capace di mettere in difficoltà le penne più raffinate: “Esponi in un breve testo cosa farai da grande”. Al disorientamento iniziale, si accompagnava, a poco a poco, un senso di speranza e di apertura. Immaginare mondi impossibili è da sempre balsamo per la mente. Poi, la concretizzazione di un pensiero, nero su bianco, ci faceva sprofondare di nuovo nell’incertezza. Tutto questo è normale, perché la parola futuro assomiglia un po’ alle sabbie mobili. Sfugge alle coordinate e, come un camaleonte, può assumere le forme più improbabili. Del resto è una declinazione del verbo essere. E non è da sottovalutare il fatto che definire l’essere, intendo non solo linguisticamente, sia un problema filosofico molto antico. Da adolescenti, nel nostro caso da Z, trattare il tema del futuro diventa ancora più complesso. Soprattutto in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, che ha creato per loro un’etichetta dalla quale sarà difficile liberarsi, “Generazione Covid”, come si intitola, tra l’altro, il podcast di «Domani», a cura di Luigi Lupo e Ilaria Potenza, che racconta le conseguenze della pandemia nella vita dei nati all’interno della rivoluzione digitale e in bilico tra precarietà e sguardo innovativo. «Futuro vuol dire incertezza in questo periodo particolare. L'indecisione e l'insicurezza sono all'ordine del giorno. Coloro che hanno decisioni importanti da prendere, non sanno che cosa fare e anche se ora abbiamo i vaccini, quello che accadrà domani è comunque incerto». Tra le testimonianze e le suggestioni di un gruppo di ragazzi tra i 12 e i 18 anni che Domitilla Pirro e Francesco Gallo hanno raccolto per il progetto “Giovani Penne” di Fronte del Borgo (Scuola Holden), emerge con chiarezza una costante: la pandemia è riuscita a plasmare un concetto così fumoso come quello del futuro, che oggi si accompagna quasi sempre ai riferimenti del contesto attuale. Non solo ricorrono le parole del vocabolario Covid – vaccini, dad, pandemia, virus, restrizioni –, ma anche espressioni caratterizzanti, tra queste l’interrogativa «quando finirà [il virus]?» o la variante affermativa temporale «quando tutto questo sarà finito». Eppure, mentre si aspetta – e si fatica a pensare cosa accadrà tra un giorno o due – c’è chi ribalta la situazione per alleviare il peso di questo «limbo temporale» o «vuoto cosmico»: «il futuro è presente. [...] Non è forse vero che ogni nostra scelta presente, benché minima, può influenzare drasticamente il futuro non solo del singolo ma anche di chi gli sta attorno?», e ancora, «il futuro è nient'altro che una relativizzazione del presente. Il futuro è fondato sul bilico delle scelte, sul pensiero che si evolve, sull'ambizione che si ingrandisce e poi si limita. [...] Il futuro ci parla quando non ce ne rendiamo conto ed è partecipe di tutte le decisioni che prendiamo: è l'ansia, la paura, e l'emozione, quell'emozione che ha bisogno di tempo per arrivare a noi e diventare quello che, coraggiosamente, chiamiamo presente».

 

Immobile e nostalgico

 

Tornando alla nostra incapacità di riuscire a dare una forma al futuro, mi hanno colpito in particolare due suggestioni. Il futuro, per quanto sia inafferrabile, può essere definito anche come qualcosa che rimane «immobile ad aspettarci», quasi come fosse una persona che abbiamo abbandonato, anche se non la conosciamo ancora. A quest’immagine alcuni associano anche la parola nostalgia, nell’ottica di un sentimento legittimo ma in questo momento negato: «se penso al futuro la prima cosa che mi viene in mente è nostalgia, nostalgia per un futuro che fremo di vivere, che desidero rimpiangere [...] che non vedo l'ora che diventi nostalgia». Il domani ha davvero poco a che fare con un desiderio romantico: è una strada da costruire o da scegliere. Ecco che il futuro può diventare «un bivio» o «una storia a bivi», perché possono esistere solo futuri possibili: «abbiamo a disposizione solo in gran parte vicoli ciechi o trappole, mentre l'umanità avanza con gli occhi bendati». E se futuro si accompagnasse sempre a un’altra parola, più leggera e accogliente? C’è chi nell’espressione «andrà tutto bene» intravede il futuro come il ritorno alla normalità e interpreta la speranza come quel tutto che «torna come prima». Ma siamo sicuri che possa, nel futuro che ci attende, esistere ancora un prima?

 

Le parole del futuro Z

 

Dimentichiamoci il sogno di diventare un astronauta o una ballerina. Quando si parla del futuro firmato Generazione Z, mi sono accorta che c’è ben poco spazio da dedicare alla fantasia. Proprio questa indagine, che qui si conclude, è nata per cercare di spiegare anche l’attenzione mediatica che aziende, agenzie di stampa ed esperti di marketing stavano riservando da tempo agli incomprensibili Z. L’aspetto più allettante era riuscire ad adattare strategicamente il mercato ai cambiamenti demografici, nello specifico agli interessi dei GenZ, nativi digitali e consumatori del domani. Ebbene, prima ancora che gli Z sapessero cosa fare da grandi, c’era un intero mondo del marketing che si stava impegnando per rispondere al loro posto, creando o potenziando offerte, nuovi bisogni e trend. L’obiettivo era intercettare la forma del loro futuro. Ecco che negli articoli, oltre alla parola futuro, iniziavano a comparire altre parole-chiave per aiutare l’orientamento. La prima, con frequenza altissima, è inclusione. Come sostenevo nel precedente articolo, dedicato al nuovo vocabolario della fluidità di genere, per gli Z è importantissimo tutelare e comunicare le diversità. Secondo i dati del Pew (Pew Research Center) la Generazione Z risulta essere la generazione più diversificata anche dal punto di vista etnico. Per questo gli Z amano definirsi global (“multiculturali”), in rapporto a identità fluide, cioè senza confini tradizionalmente accettati, come mi conferma anche Marta Basso, co-founder di Generation Warriors e dell'Osservatorio sulle Generazioni: «Mi sembra parlino molto più di quanto si racconti di valori come la sostenibilità e l’inclusione e ne facciano bandiera di comportamento». A differenza di chi definisce gli Z “iGen”, dove per “i” s’intende non solo la natività digitale (Iphone), ma una buona fetta di individualismo (individualism), come emerge dal saggio Iperconnessi di Jean M. Twenge (Einaudi, 2018), Marta individua negli Z una visione improntata sul bene comune e una forte spinta alla condivisione, che va di pari passo all’inclusività. «Del resto sono figli dei social». Una novità in quest’ottica è proprio l’evoluzione delle piattaforme, sempre più vicine a una condivisione immediata, a una socialità coinvolgente, che punta a oltrepassare la freddezza dei like, come l’ultimo arrivato tra i social network, Clubhouse, una via di mezzo tra un servizio di messaggistica basata sull’audio e una piattaforma per le videoconferenze, sempre in formato audio, organizzata per aree tematiche. Un’altra parola che caratterizzerà il futuro e le scelte lavorative della Generazione Z è sicuramente creatività, associata a co-creazione e imprenditorialità. Sempre Marta mi racconta che gli Z «rispetto alle altre generazioni, sono tutti (merito forse anche dei social) dei creatori di contenuto. Questo si riverbera, come testimoniato da Clelia Bergna, Responsabile Career Service e Coordinamento Career IED Italia, in quello che i giovanissimi chiedono al mondo del lavoro, cioè più orizzontalità e spazio all’iniziativa personale al servizio di gruppo». La pandemia di Covid, i movimenti BLM (Black Lives Matter) e LGBTQI+ hanno contribuito a rendere più sensibile la Gen Z, anche nel suo impulso attivista.

 

No alla mano di bianco

 

Ma con delle precisazioni: anche se la Generazione Z è sedotta dalle attività di brand activism, cioè da tutto ciò che riguarda la comunicazione dei programmi di responsabilità sociale dell’impresa, rifiutano senza esitazione l’inautenticità del fare -washing. Per esempio, con il neologismo greenwashing, che possiamo tradurre “ecologismo di facciata”, dove il verbo washing deriva da to whitewash, appunto ‘imbiancare’, ‘nascondere con una mano di bianco’, è una strategia di comunicazione di un brand che si dichiara rispettoso dei principi della sostenibilità, ma nei fatti la sua posizione non è riscontrata. Sullo sviluppo sostenibile, in particolare, la Generazione Z si è esposta più volte, dichiarando il suo impegno nella costruzione di un mondo più equo, solidale e climate friendly. «La generazione boomer rinfaccia alla mia generazione un crescente disinteresse in politica, vantandosi invece della propria conoscenza al riguardo. Ma se davvero fossero interessati di politica saprebbero che Fridays for Future è nato proprio perché è stata la loro generazione a non occuparsi di politica e clima». Tra le riflessioni del gruppo seguito da Domitilla Pirro e Francesco Gallo, non mancano i riferimenti alla tutela ambientale, primo elemento da considerare per parlare del futuro di domani. Anche se gli Z non si espongono esplicitamente sulla politica, rivendicano politico il loro atteggiamento sostenibile. A far maggiore chiarezza sulla loro posizione va ricordato che proprio quest’anno, alla luce dei movimenti e degli interessi targati Z, il ministero dell'Ambiente in collaborazione con il programma di comunicazione sui cambiamenti climatici Connect4Climate della Banca Mondiale, assieme alla Regione Lombardia e al Comune di Milano, è impegnato nella promozione dell’All4Climate-Italy2021, un percorso aperto a tutti, con particolare attenzione alle scuole, finalizzato al confronto e al dialogo sulle sfide e le buone pratiche legate al tema dei cambiamenti climatici e agli obiettivi dell'Accordo di Parigi. Il 2021 potrebbe essere dunque il primo anno per mettere alla prova il domani degli Z. Milano dal 28 settembre al 2 ottobre 2021 sarà la città-polo dell'evento internazionale "Youth4Climate2021: Driving Ambition”, una sessione tutta dedicata ai giovani e al loro futuro.

 

Il ciclo dedicato a modi, lingua e linguaggi della Generazione Z è ideato, curato e scritto da Beatrice Cristalli.

 

1 Parlare sui social

2 Parlare dei sentimenti

3 Parlare del corpo e del sesso

4 Parlare della fluidità di genere

 

Immagine: Ancient Mariner of the Space Age

 

Crediti immagine: Carle Hessay, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, attraverso Wikimedia Commons

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Parlare_della_fluidita_di_genere.html

Parlare della fluidità di genere

 

Il linguaggio trattiene in sé molto di più di quello che possiamo immaginare. Riesce infatti a caricarsi delle tracce, più o meno esplicite, del cambiamento intorno a noi, che costituisce la fibra primaria della lingua e della nostra comunicazione.

 

Il futuro non è binario, è fluido

 

Addentrarmi nel mondo della Generazione Z mi ha permesso di capire le nuove sfumature del cambiamento, soprattutto per quanto riguarda il concetto di genere. Un passaggio per me fondamentale, dopo il precedente articolo sul vocabolario dell’intimità, del corpo e del sesso, è affrontare l’immaginario della non-identificazione binaria dei generi, che caratterizza prepotentemente gli Z. Il cosiddetto concetto di fluidità (di genere), già in partenza, è difficile da definire, perché va contro la semantica stessa della parola. Prima di tutto, la parola fluido fa riferimento a un cambiamento che attraversa in modo trasversale il mondo Z, ovvero al labile confine che intercorre tra la comunicazione in rete (online) e la vita reale, materiale e analogica (offline), che il filosofo Luciano Floridi nel 2015 aveva definito con il neologismo onlife, un’esperienza di vita ibrida che scorre legata a dispositivi interattivi. Anche se, come ho sostenuto più volte in questa indagine, il digitale è uno dei fattori che ha permesso allo slang giovanile della Generazione Z di arricchirsi ed evolversi, la parola-chiave che ci lega al discorso di genere è confine. I termini fluido e confine infatti hanno uno stretto rapporto di corrispondenza. In senso generico, la fluidità ha la forma del passaggio, della capacità di scorrere da uno stato all’altro, nel linguaggio specifico della fisica e della chimica è l’opposto della viscosità. Anche se il suo movimento viene ricondotto all’instabilità e a una provvisoria mancanza di coesione, fu lo stesso Bauman nel saggio Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi (Laterza, 2018) ad affermare che «l’uomo deve essere fluido, flessibile, capace di adattarsi al contenitore sociale che di volta in volta assume forme diverse». Per i giovani Zedders, la parola fluido va ricondotta non solo, come sostiene Domitilla Pirro, direttrice creativa dell’Osservatorio sulla Gender Equality di Fronte del Borgo presso la Scuola Holden, alle «rivendicazioni libertarie assolutamente compatibili, per intensità, a quelle delle generazioni precedenti, rivendicazioni dopate però dalla tecnoliquidità», ma soprattutto a «una indiscussa fame di classificazione che ha poco a che vedere col Catch'em all (per chi si ricorda i Pokémon, la traduzione è “prendili tutti!”) e tutto a che vedere con la ricerca identitaria». Gran parte degli adolescenti sta dunque sfidando il significato e i tradizionali vincoli di genere, ovvero le norme binarie e patriarcali della divisione sessuale e dell’identità in due categorie distinte: se «la generazione precedente ha avuto bisogno di creare categorie che hanno implicato delle aspettative sul proprio ruolo in società», mi spiega il team Loveducation di EDUXO, organizzazione no profit che svolge attività su tutto il territorio nazionale e ha grande seguito anche online, soprattutto sui social, «ad oggi, queste aspettative risultano cristallizzate in etichette. Non definirsi o utilizzare categorie dinamiche e modificabili permette di riconoscersi e quindi di esistere, senza necessariamente assumere un ruolo in società e senza rispondere ad alcuna aspettativa. Negli Z c’è una maggiore consapevolezza delle sfumature e delle variabili che riguardano l’identità di genere e l’orientamento sessuale, e questo li porta a riempire il vuoto nella narrazione linguistica e iconica, ereditata dalla generazione precedente e dalle strutture sociali che ci richiedono di definirci». Come aggiunge la sociolinguista Vera Gheno, negli ultimi anni c'è stata un'evoluzione del significato del termine fluido in rapporto all’identità di genere promossa dalla Generazione Z: «è come se si fosse passati dalla visione di questi aspetti della vita delle persone come un gradatum (o sei etero o omo, o sei cis, abbreviazione di cisgender, persona la cui identità di genere corrisponde al sesso assegnato alla nascita, o sei trans) a una visione come continuum (ci sono molte cose al di là di etero e omo e di cis e trans)». Gli Z per comunicare questa posizione usano infatti il termine genderfluid, spesso presente nella biografia di Instagram o come hashtag nei post: per Elia Bonci, classe '96, autore di Diphylleia. Solo l'amore può distruggere l'omofobia (Caravaggio Editore, 2019), «la parola genderfluid fa riferimento a quelle persone le quali percepiscono la loro identità di genere come fluida, la quale può variare nel tempo. Possono identificarsi come uomini, donne, entrambi o nessuno dei due. In genere preferiscono che vengano utilizzati nei loro confronti dei pronomi neutri (come they/them) che purtroppo in italiano non esistono». Ecco spiegata anche l’abbondanza di anglicismi in questo vocabolario di genere, che accanto a genderfluid trova il termine nonbinary (o non-binary): l’inglese, per parlare della fluidità, sembra l’unica lingua ammessa.

 

Crush, queer e femboy

 

La questione linguistica del termine crush, di cui ho parlato nel secondo articolo dell’indagine, offre un’ulteriore traccia per analizzare le modalità con cui i GenZ stanno costruendo nuovi vocaboli ed espressioni per comunicare non solo la propria identità ma anche quella degli altri. Come mi fa notare Elena Pepponi, dottoranda all’Università di Udine che si sta occupando di una ricerca sulle parole della comunità LGBT, il termine, letteralmente “cotta”, è un neutro, cioè privo di articolo, e potrebbe rientrare proprio in questa maggiore apertura e appunto fluidità di genere: «mi sembra significativo che di tutti i mille modi con cui si può definire la persona che in quel momento ti interessa (come “il mio frequentante”) si è scelto un termine inglese neutro dal punto di vista del genere, che elimina l'eteronormatività. Letteralmente potrebbe significare ogni tipo di persona». Le giovani generazioni non sentono dunque il dovere di specificare di che genere sia la persona su cui fantasticano sentimentalmente. Un’altra parola su cui occorre soffermarsi, a proposito di strategie linguistiche non binarie in evoluzione, è queer, definibile come un “termine-ombrello”: «anche se queer era inizialmente interpretato come un termine negativo (“sono queer" nel senso di “son un po' lo strambo della compagnia”)», mi ricorda Elena Pepponi, «nel tempo ha assunto una semantica-ombrello, che ingloba chiunque non si riconosca in un qualcosa di predefinito o sia ancora in esplorazione della propria identità di genere o sessualità e tende a preferire queer perché è una parola positiva, molto breve e molto vaga. Ti permette di stare in un grande calderone senza per forza definirti. Queer possiamo considerarlo come il papà di non-binary/genderfluid». La proliferazione di termini legati alla fluidità di genere ha poi messo in luce il rischio di cadere nella rete che paradossalmente si tenta di annullare: l’etichetta, appunto. «C’è una vasta polemica intorno a una serie di etichette più o meno ironiche, di fatto potenzialmente bifobiche, come lesbica bi / eteroflessibile / omoflessibile / etero ascendente bi / con tendenze bi: nella percezione diffusa, chi utilizza simili espressioni lo fa solo — cito testualmente — “per moda”. Nel senso che sono tutte espressioni che appunto ammiccano alla bisessualità senza però avere il coraggio di rivendicarla per sé, e di fatto invalidando lesbiche e bisessuali allo stesso tempo. Il che porta a bi-erasure, cancellazione, invisibilità. Stessa accusa è mossa all'etichetta pan». Pansessuale è un altro termine che ricorre nel vocabolario della fluidità di genere (non solo Z) e rimanda a un individuo che è attratto dalle altre persone indipendentemente dal genere e che si differenzia da chi si definisce bisessuale perché non considera come un fattore discriminante il fatto che la persona abbia sesso femminile o maschile, ma si sente attratto dall’altro solamente in quanto persona, indipendentemente dai caratteri sessuali.

Scorrendo alcuni profili degli Z sui social, soprattutto su TikTok, spesso mi sono imbattuta anche nel termine femboy, che rimanda, sempre secondo una definizione del team di EDUXO «a una persona biologicamente di sesso maschile, che spesso (ma non sempre) ama utilizzare accessori tipicamente rivolti alle persone di genere femminile. Si presenta esteticamente come donna, in alcuni momenti della sua vita o potenzialmente tutto il tempo. L’essere femboy non dà alcuna informazione sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Il termine riguarda invece l’espressione di genere». Trovo interessante che il termine possa essere considerato anche un insulto, o meglio uno slur (o slurring term) contro le donne trans*, dove per slur s’intende un epiteto denigratorio e discriminatorio che offende un individuo in quanto appartenente a un gruppo per ragioni etniche, religiose, di orientamento sessuale ecc. Le persone che si definiscono femboy possono essere eterosessuali, omosessuali, bisessuali, pansessuali, asessuali o qualunque altro orientamento.

 

Cross-dressing e nuove norme per un linguaggio inclusivo

 

Da un po’ di tempo mi chiedo: perché Harry Styles, l’ex componente più famoso degli One Direction, piace così tanto agli adolescenti Z? Mi sono fatta un’idea a seguito di una bufera mediatica che ha coinvolto la giornalista Caterina Collovati nel programma “Ogni mattina” su TV8. In una puntata dei primi di dicembre era stata chiamata come opinionista a proposito di alcuni outfit nel mondo dello spettacolo, e alla vista dell’ultima copertina di Vogue che ritraeva Harry con abiti femminili, avrebbe riportato le seguenti parole: «Non c’entra niente l’identità sessuale, anzi, con questo fenomeno si sta svilendo la battaglia dell’identità sessuale. Io dico che ridicolizzare un maschio, come Harry Styles, mettendolo in abiti femminili è fuorviante, è un messaggio circense, mi viene in mente il pagliaccio del circo». La polemica sui social, che si è scatenata a suon di hashtag su Twitter con #ognimattinaisoverparty da parte dei GenZ, non è scaturita tanto dalla espressione di un’opinione — legittima —, ma dall’incapacità della giornalista di riconoscere il contesto in cui l’artista agisce e di aver comunicato in modo inclusivo il proprio pensiero: Harry Style è considerato infatti un’icona della Generazione Z soprattutto per il suo impegno nello sradicare i pregiudizi e l’identità di genere, nella sua battaglia per la diffusione del cross-dressing, letteralmente “travestimento”, una pratica (non nuova sotto il sole) che riguarda chi ha l’abitudine di indossare alternativamente vestiti comunemente associati in un ambito socio-culturale al ruolo di genere opposto al proprio, senza che questo veicoli un messaggio sull'identità di genere o sull'orientamento sessuale. Un’altra forte influenza in questo senso va ricondotta al pop coreano, il K-Pop, il cui immaginario estetico è caratterizzato da un labile confine tra abbigliamento femminile e maschile. Gli Z, a proposito di questo episodio mediatico, hanno manifestato la più totale disillusione nel vedere riconosciuta e rispettata la loro bandiera. Per questo non è insolito imbattersi in biografie social che contengono alcune indicazioni e norme linguistiche inclusive per la comunicazione con l’utente. Come mi conferma il team di EDUXO, «si specifica il pronome con il quale rivolgersi alle persone, in base all’identità di genere percepita. Vengono tendenzialmente usati i pronomi inglesi her, him oppure lei, lui in italiano. Per le persone che non si identificano né nel genere maschile, né in quello femminile, oppure in entrambi, si usa they, them, loro. Si predilige l’uso del linguaggio inclusivo, evitando di utilizzare i maschili plurali per indicare le moltitudini e prediligendo l’asterisco * e/o lo schwa (ǝ), e inoltre si tende a svincolare e separare orientamento sessuale, identità di genere, espressione di genere e attrazione romantica. “Romanticismo”, per esempio, si usa per indicare l’attrazione sentimentale e il desiderio di creare una relazione intima con un’altra persona svincolata dal rapporto sessuale. Ad esempio, si può essere donna transgender, eteroromantic* e asessual*».

 

Il ciclo dedicato a modi, lingua e linguaggi della Generazione Z è ideato, curato e scritto da Beatrice Cristalli.

 

1 Parlare sui social

2 Parlare dei sentimenti

3 Parlare del corpo e del sesso

 

Immagine: Harry Styles: Live on Tour - Opening

 

Crediti immagine: Ksaziz, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Parlare_del_corpo.html

Parlare del corpo e del sesso

 

La Terza rivoluzione sessuale della GenZ

 

Negli ultimi anni una delle risposte alla progressiva diminuzione dell’attività sessuale dei giovanissimi Z, secondo i dati riportati e analizzati da Jean M. Twenge nel saggio Iperconnessi (Einaudi, 2018), è stata la serie adolescenziale forse più famosa di Netflix, “Sex Education”, che racconta, non senza ironia, le difficoltà e le paure che oggi i teen incontrano nei loro rapporti interpersonali e soprattutto nella sfera intima e sessuale. Verrebbe da pensare che la maggiore accessibilità a materiale pornografico o in generale relativo all’educazione sessuale accresca l’interesse e la maturità per il sesso reale, eppure le cose non sembrano così. Così semplici, intendo. Il recente teen-drama Euphoria ha poi messo in scena le ombre conseguenti al primo incontro sul web in merito al tema sessuale, con la pornografia appunto, che può sintetizzarsi in una delle frasi pronunciata da uno dei protagonisti in un atto sessuale che aveva ben poco di intimo: «Nei porno fanno così, credevo fosse normale». Da un lato sembra esserci una certa destabilizzazione nell’approccio all’intimità, dall’altro un’esasperazione non del tutto controllata, che risente di un continuo confronto con i contenuti veicolati dal web. «Il vocabolario della sessualità è in continua evoluzione grazie a chi, tra i nativi digitali, non pensa che parlare di sesso sia scandaloso, ma urgente e necessario». Ora come non mai. Chi ha deciso di parlarne in modo diretto e senza filtri è il gruppo di giovani ventenni che ha partecipato al progetto “Making of love” – nato  da un’idea di Lucio Basadonne e Anna Pollio – accettando di essere i protagonisti di un documentario sull’argomento, poi girando un film, Edoné. La sindrome di Eva, e scrivendo un libro. Making of love. Parliamo di sesso (Fabbri Editori, 2020) è un vero e proprio manuale di «nuova educazione sessuale», dove si insiste molto, sin dalle prime pagine, sulle questioni culturali e dunque linguistiche con le quali quotidianamente interagiamo per parlare del tema. La diffusione della pornografia prima e l’arrivo dei social network poi hanno mutato per sempre «il linguaggio della e nella sessualità»: «grazie alla commercializzazione estrema della pornografia per mezzo della rete (la Seconda rivoluzione sessuale), l’imprenditoria di settore è stata costretta a diversificare i contenuti offerti fino all’estremo delle necessità degli utenti, [...] definendo e inventando categorie e quindi pratiche sessuali per renderle individuabili e riconoscibili. Il ménage à trois diventa la threesome, altre parole vengono inventate da zero e scompare ogni accezione negativa: non può esserci un linguaggio dispregiativo nel momento in cui tutti sono potenziali clienti. [...] Ma la pornografia ha anche modificato i termini utilizzati nel corso del rapporto sessuale, ovvero ha creato un immaginario collettivo di parole impiegate durante il sesso». Non dimentichiamoci poi che Internet ha introdotto pratiche prima inesistenti, oggi molto popolari tra gli adolescenti, come il sexting, un neologismo creato dal tamponamento delle parole inglesi sex (‘sesso’) e texting (‘invio di SMS’), utilizzato per indicare l’invio di messaggi, immagini o video a sfondo sessuale o sessualmente espliciti tramite dispositivi informatici portatili o fissi. Per i MOLesti il vocabolario sessuale della Generazione Z non è cambiato molto rispetto a quello dei loro genitori. Una caratteristica che riscontrano è la libertà di chiamare le parti sessuali o le pratiche sessuali con i loro nomi “reali”, senza giri di parole o maschere semantiche. Lo riscontriamo anche nei testi di alcuni trapper, molti delle quali donne. Penso soprattutto al brano Sciccherie di Madame, che ha creato il neologismo ficcatine («Ciao amore bibbi, quanto bello, però succhia lì, eh / Un poco ancora perché ficcatine»), voce dialettale del verbo ficcare, che significa ‘sveltine’.

 

Instagram e #bodypositivity: alla ricerca del corpo

 

Al centro di questo panorama ancora in divenire, il grande dimenticato è il corpo. La prima cosa che la Terza rivoluzione sessuale (promossa dalla GenZ) si propone di fare è, quindi, separare pornografia e sessualità ripartendo un po’ da zero, là dove la Prima rivoluzione ha fallito. «Se pensiamo da quanta sovraesposizione estetica, sessuale e fisica veniamo bombardati ogni giorno attraverso i social, possiamo darci delle risposte», mi racconta Annalisa Cereghino, «i contatti virtuali sono facili, veloci e senza filtri. Su un social possiamo essere chi vogliamo. Possiamo mostrarci come vogliamo; e come sappiamo la realtà attuale è costituita per la maggior parte dalla socialità virtuale. Ma quando poi i contatti diventano reali e bisogna toccarsi e mostrarsi? Ecco che nasce il problema. Quello che abbiamo visto nei porno, l'unica fonte di educazione intima che abbiamo ricevuto, ci ha insegnato un tipo di esperienza dove l'intimità non esiste. Quello che vediamo nei social, unica fonte di educazione del corpo, ci racconta di come mostrarsi sia facile e di come tutti lo facciano con estrema libertà e semplicità». Secondo i ragazzi di “Making of love” siamo immersi nell’era della schizofrenia del corpo, in quanto veniamo costantemente bombardati da modelli e canoni di bellezza e di sensualità standardizzati. Ecco perché quando si parla delle ultime generazioni (ma questo vale anche per i Millennials) si usa l’aggettivo postsessuale: i giovani si danno all’astinenza nei confronti di un prodotto, cioè il sesso, che è largamente disponibile. A differenza di quanto si possa pensare, “sdoganare” questo argomento su tutti i canali disponibili del web – prima dei social, i teenager Millenials potevano trovare già materiale pornografico sui portali dei teen come Tumblr – non ha eliminato il tabù. Anzi. Claudio Pauri mi conferma che «la maggior parte dei giovani sono intimoriti dalla scoperta della propria sessualità e scelgono di non nominarla e basta, come nel caso di “quei due hanno fatto cose” o “l’avete fatto?”. C’è un contrasto interessante dal punto di vista del linguaggio: chi nega la sessualità come atto fisico, sceglie di non nominarlo, di non parlarne». Per la nuova generazione digitale, i social sono diventati uno strumento di confronto costante con un'immagine idealizzata e non raggiungibile. Instagram, il social più estetico per eccellenza, ne è un esempio lampante: «lo utilizziamo per mostrare come vogliamo apparire. Per questo a volte ci esponiamo troppo, quasi inconsapevoli che ci sono molti utenti pronti a sfogare la loro rabbia attraverso uno smartphone: “fai schifo”, “sei una merda”, “non ti scoperebbe nessuno”. Siamo nati insieme all’universo digitale, in una società che non poteva prevedere come si sarebbe evoluto e nessuno ci ha insegnato a comprendere le dinamiche dei social network, non abbiamo frequentato lezioni dove viene spiegato come funziona la privacy sul web, o cosa succede quando carichiamo un contenuto su Internet». Eppure, negli ultimi tempi, proprio da Instagram sono nati dei veri e propri movimenti, sottoforma di hashtag virali, come #bodyshaming, #bodypositivity, #loveyourself o #selfconfidence, attraverso i quali è stato possibile “ribaltare la situazione”, ovvero raccontare una storia diversa del corpo e della nostra immagine. Molti dei video virali su questo tema circolati su TikTok, per esempio, riportavano in sottofondo le parole della hit “Te lo prometto” di Il tre, nello specifico i versi «Non sai quanto è bello un amico / Che ti dà la spalla soltanto per piangere / Ma guardami, volevano cambiarmi ma / Non è cosa possibile». Un altro fenomeno va collegato alla nuova ricerca di linguaggio della sessualità e del corpo è il cosiddetto “attivismo 2.0”, riferito alle pagine create da sessuologi, psicologi e formatori che affrontano i temi con intento divulgativo e informativo, parlando senza censure di sessualità, mestruazioni, malattie, affettività, educazione sentimentale e salute psicofisica.

 

No Nut November, emoji e doppi sensi

 

Se sui social, in particolare su TikTok, vi siete imbattuti in un video con l’hashtag #NNN in cui un ragazzo scuote la testa disperato, molto probabilmente siete entrati in contatto con l’ultima moda degli adolescenti, una sfida virtuale denominata “No Nut November”, ovvero tentare di non eiaculare per l’intero mese di novembre. I simboli che veicolano la challenge sono un’arachide (nut, in inglese appunto) con un divieto sopra (no). I ragazzi di “Making of love” mi confessano che il fenomeno è ampio e coinvolge gruppi, regole e gare, e soprattutto si inserisce in una dinamica che caratterizza il nostro tempo e uno degli atteggiamenti della GenZ: «poiché tutto è (sembra) esplorabile e controllabile si prova il contrario di ogni cosa». Michele Razzetti, giornalista e creatore di Linguinsta, progetto online dedicato a notizie e curiosità sul linguaggio, mi riporta un altro esempio virale collegato alla #NNN e di segno esattamente opposto, la #DDD (Destroy Dick December): ogni giorno bisogna avere tanti orgasmi quanto il numero della data, in sostanza il 15 dicembre lo sfidante dovrebbe raggiungere 15 orgasmi. «Da un punto di vista linguistico trovo curioso che anche queste sfide ripropongano una sorta di “machismo” o eroismo sessuale, portato agli estremi (opposti) in entrambe le direzioni (niente sesso oppure sesso esagerato), sempre con scelte lessicali prettamente maschili (nut e dick). Non è la prima volta che per diffondere un messaggio sessuale sui social e in generale sul web si faccia uso delle emoji: pensiamo alla pesca (per indicare i glutei femminili), alla melanzana o alle goccine di sudore. Inoltre, prosegue Razzetti, «molti utilizzano sempre di più emoji “situazionali” per comunicare in modo conciso cosa si aspettano dall’incontro con l’altra persona, soprattutto nelle app di incontri. Fra queste ricorrono fra i più giovani quella del joystick in riferimento all’amore per il gaming e, anche se meno frequentemente, quelle riferite all’uso di stupefacenti. Con una gamma così ampia a disposizione per mettere alla prova il linguaggio, definire oggi “fare l’amore” è molto più complicato di quanto si pensi.

 

Il ciclo dedicato a modi, lingua e linguaggi della Generazione Z è ideato, curato e scritto da Beatrice Cristalli.

 

1 Parlare sui social

2 Parlare dei sentimenti

 

Immagine: Screenshot tratto dalla serie televisiva Euphoria creata da S. Levinson

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Parlare_dei_sentimenti.html

Parlare dei sentimenti

 

Il virus del crush

 

Da quando ho iniziato a leggere la scorsa estate il saggio Iperconnessi di Jean M. Twenge (Einaudi, 2018), sono diventata molto più ricettiva ai fenomeni comunicativi dei teenager sui social, in particolar modo quelli che erano focalizzati sul racconto di un sentimento. Prima di allora non pensavo che dietro al cosiddetto «crush», l’espressione con cui le nuove generazioni (la GenZ in primis) indicano ‘la propria cotta’, si nascondesse un atteggiamento cinico e disincantato nei confronti dell’amore. Le sfumature linguistiche del termine mi hanno permesso di capire meglio l’oscillazione entro cui si muove il rapporto dei teen Z con il proprio cuore e la sfera dell’intimità. Se da un lato, possiamo ricondurre «crush», negli esempi di «crush mi ha invitato a uscire» (persona reale) oppure «ho un crush per il mio vicino di casa» (sentimento di attrazione, infatuazione) alla semantica positiva dell’‘essere innamorati di qualcuno’, dall’altro, se ci atteniamo alla traduzione letterale del verbo inglese to crush, ‘schiacciare’, ‘frantumare’, emerge che l’altra faccia della medaglia – un amore intenso vissuto completamente oppure non corrisposto, o ancora un’azione da parte dell’amato/dell’amata che delude – sia rappresentata nell’immagine di un macigno presto si scaglierà su di noi, con il quale, a detta dei GenZ, si esclude ogni possibilità di dialogo. Ecco perché Jean M. Twenge parla di «catching feelings», ‘contrarre i sentimenti’, quando i giovani definiscono la nascita di un attaccamento emotivo a una persona: «un’espressione evocativa, il cui sottointeso è che l’amore sia una malattia a cui sarebbe meglio sfuggire». Il verbo to catch del resto è lo stesso usato per le malattie, soprattutto infettive. Esplicativo in questo senso è un audio comparso su TikTok dopo il lockdown che metteva in guardia le persone da un nuovo virus: i sentimenti.

 

Hook-up culture e tanta strategia

 

La parola «crush», tra l’altro, viene sempre utilizzata al neutro (non si dice infatti «il mio crush o la mia crush»), come se fosse un nome proprio, una personificazione di qualcosa difficile da gestire, ma che diventa oggetto di una ossessione costante. Come il virus, anche l’innamoramento si manifesta all’improvviso e senza possibilità di prevenzione e azione. Questa condizione sembra essere claustrofobica. Per i giovanissimi della GenZ, mi spiega Irene Francalanci, ricercatrice e autrice presso il portale Be Unsocial e content creator di Submarker, un osservatorio sulle sottoculture prevalentemente digitali, «le parole d’ordine per il corteggiamento e le relazioni sono infatti precauzione e estrema consapevolezza. I video su TikTok sull’argomento spesso si traducono in un decalogo delle cose da non fare per non mostrare eccessivo interesse quando si inizia a frequentare qualcuno. Una serie di consigli dati agli altri utenti dove in realtà si cerca di autoconvincere sé stessi». Questa paura dell’intimità, di mostrarsi per quello che si è veramente fa parte della hook-up culture, letteralmente “cultura dell’aggancio”, costruita sulla base di rapporti veloci e casuali in cui l’impegno e le emozioni non sono contemplati». La tecnologia ha incoraggiato relazioni non esclusive, veloci e soprattutto, come mi spiega Irene, caratterizzate da una gratificazione immediata e dove non si può scendere a compromessi. A confermarmi questo scenario è una giovane scrittrice, autrice di Amiche, lacrime & popcorn al caramello (Mondadori, 2020): Cristina Chiperi, classe 1998, mi racconta che il corteggiamento oggi è molto cambiato, e le ragioni sono prima di tutto generazionali. «Oggi basta una reazione a una stories su Instagram, un tweet o dei like scambiati reciprocamente per avviare una comunicazione amorosa. È quasi diventato più difficile non conoscersi. Da un semplice messaggio si capisce subito l’interesse dell’altro, diciamo che “si rischia meno”. La nostra generazione si basa molto sul tenersi in costante contatto e lo fa tramite tutti i social che ha a disposizione: praticamente il “buongiorno” via messaggio la mattina diventa parte integrante della relazione, diventa dunque fondamentale». Eppure, anche se l’impressione è quella di una comunità (digitale) che comunica costantemente, in realtà affrontare le tappe di una comunicazione amorosa e/o di una possibile relazione sentimentale per i GenZ necessita di molti accorgimenti. Il corteggiamento, mi spiega Irene Francalanci, è oggi dichiaratamente strategico: «sono due le armi che la Generazione Z ha in mano: le stories su Instagram mirate, per esempio selfie per attirare l’attenzione della persona che ci interessa e sperare che risponda, e la pratica dello “slow texting” già usato dai Millennial, che comporta l'attesa deliberata di una quantità di tempo non necessaria (secondo Urban Dictionary varia da 6 ore a più giorni) prima di rispondere a un messaggio. È un atto calcolato e consapevole che tutela la persona che lo sta compiendo dal mostrarsi troppo interessata e lascia quella dall’altra parte dello schermo in preda a dubbi e ancora più desiderosa di ricevere una risposta. Alla fine, cambiano i mezzi, ma il concetto è sempre quello del detto che “in amore vince chi fugge”, forse l’unico problema è che oggi fuggono tutti».

 

I tutorial sull’amore e l’allarme della «red flag»

 

Vincenzo Marino, content manager di Red Bull e creatore di Zio, una newsletter dedicata alle tendenze e alle curiosità del mondo GenZ, mi ricorda che sul web, in particolare sui social, «spesso si trovano richieste d'aiuto – o plateali parodie – su come comportarsi quando si incontra, su come si deve scrivere un messaggio, o su come reagire quando ci rivolge la parola (es: "Quando vedo crush", "Cosa fare quando ti accorgi che crush è vicino a tre", ecc). Questa propensione alla richiesta d'aiuto – o al "tutorial" amoroso – è a modo suo surrogata da alcune ricerche uscite nello scorso anno», come quella pubblicata sul The Washington Examiner, Gen Z is swiping left on romance, in cui viene analizzata l’ansia “pre-dating" (prima del primo appuntamento) quando si tratta di vedersi di persona e, più nello specifico, l’incapacità di non riuscire a superare la paura del fallimento e la condizione di vulnerabilità di fronte a un sentimento per qualcuno. L’incapacità di non riuscire a “contrarre un sentimento” sfocia immediatamente nella vergogna. La viralità del meme contenente il neologismo «simp» in questo senso è emblematica. Anche se la trafila etimologica del termine è incerta (potrebbe essere l’abbreviazione dell’aggettivo «simpleton», ‘sempliciotto’, ‘tonto’), «simp» viene utilizzato con tono ironico e nel contesto legato ai consigli di corteggiamento per ridicolizzare i ragazzi che hanno una cotta non ricambiata e che fanno di tutto per riuscire a conquistare la ragazza di cui sono innamorati. Quando su TikTok ci si imbatte nell’espressione «Benvenuto nella Simp Nation» significa che sei entrato a far parte della grande famiglia di “sottomessi” a Cupido. E non è un fatto positivo. Sempre Irene Francalanci, mi spiega un’altra espressione utilizzata per indicare il cosiddetto “allarme rosso”: «esistono moltissimi video sui social cinesi in cui le ragazze e i ragazzi si autodenunciano, non senza momenti di panico, o vengono rimproverati dagli amici, per aver contratto sentimenti. Il primo segnale dell’inizio della malattia è chiamato “red flag” e si riferisce al sorriso che spunta per una notifica della persona per cui in fondo, nonostante tutti i meccanismi di difesa, si ha una cotta». Alla luce di queste riflessioni, che sono in costante movimento come questa generazione, mi sembra che il linguaggio dei sentimenti della GenZ non abbia annullato la comunicazione dei propri sentimenti. Credo abbia tradotto la sua forza comunicativa (di dialogo, di relazione) in una gestione caratterizzata da regole, etichette e controllo. I social, in quest’ottica, giocano un ruolo chiave nella creazione di questo ideale. Ma anche se questa gestione del sentimento intenzionalmente esprime una distanza dall’altro e dalla sfera intima con cui si può entrare in contatto, nella pratica, come i consigli sui social e i tutorial, si serve costantemente della coralità.

 

 

Il ciclo dedicato a modi, lingua e linguaggi della Generazione Z è ideato, curato e scritto da Beatrice Cristalli.

 

1 Parlare sui social

 

Immagine: Screenshot dal film Lilli e il vagabondo del 1955

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Parlare_sui_social.html

Parlare sui social

 

Cronache generazionali

 

Nel novembre del 2019 Chlöe Swarbrick, membro del Parlamento neozelandese, ha rivolto l’espressione ok boomer a un legislatore che aveva interrotto il suo discorso sui problemi legati al cambiamento climatico. Dal portale Ansa “Life Teen” al glossario social di Babbel (il cui titolo di apertura è proprio Sboomerizzati!), nel 2020 si sono triplicate le indagini giornalistiche sulla Generazione Z, la generazione dei nati tra il 1997 e il 2012, i primi ad essere cresciuti con pieno accesso alla rete e alle nuove tecnologie. Dopo l’indagine che ho curato sulla lingua della trap italiana per Treccani.it Di cosa parliamo quando parliamo di trap mi sono accorta che l’attenzione della stampa nei confronti dello slang giovanile stava prendendo una piega distorta. A partire dallo studio lanciato da Skuola.net, condotto su un campione di 2500 giovani tra gli 11 e 25 anni in occasione della "Giornata ProGrammatica 2019", quel 38% di ragazzi che dichiaravano di trarre ispirazione per esprimersi nel loro quotidiano da brani trap ha rappresentato una ulteriore giustificazione alle innumerevoli condanne della lingua “impoverita” della Generazione Z (GenZ), come se il nostro occhio vedesse solo una parte del codice, la lingua, e non tutto il resto. Comunque un po’ posso capirvi: fondere i risultati dei test INVALSI con i pregiudizi su TikTok è la via più facile.

 

Messaggio in codice

 

Non è insolito nella nostra storia linguistica imbattersi in un vocabolario gergale e/o generazionale. È d’accordo Matteo Fumagalli, booktuber e docente universitario: «Pensiamo al colorito gergo dei paninari anni ’80 che, in verità, fu estremizzato dai media e finì inevitabilmente con l’influenzare lo slang vero e proprio. Il linguaggio dei paninari si rifaceva anche alle influenze internazionali e pop, ad esempio, cosa che avviene anche nel linguaggio della GenZ. Il web e la globalizzazione hanno contribuito a rendere lo slang dei giovanissimi di oggi più stratificato e veloce, per esempio nuovi termini diventano virali in pochissimo tempo, tramutandosi in tormentoni e lasciando spazio a futuri modi di dire, e con influenze diversificate a livello geografico. Non mi riferisco solo all’inglese, pensiamo alla fortissima popolarità del k-pop e della cultura sudcoreana». Il 38% dell’indagine è un dato confermato da dinamiche ben collaudate nella lingua, ma, sempre secondo Fumagalli, «è interessante notare come la maggior parte dei termini trovino, in verità, casa solamente online e ben pochi di questi modi di dire vengono effettivamente pronunciati nella vita di tutti i giorni». La chiave, dunque, è la piattaforma web, che non a caso è la novità rispetto alle generazioni precedenti. Su internet e grazie a internet lo slang della Generazione Z può ogni giorno avere infinite possibilità di contaminazione con le modalità comunicative a disposizione. Secondo Marta Basso, co-founder di Generation Warriors e dell’Osservatorio sulle Generazioni, per parlare del linguaggio della GenZ occorre partire proprio dai social, TikTok nello specifico, reclamato dai giovanissimi come una sorta di “safe space” per sfuggire al controllo dei più grandi e dei genitori. «Focalizzandoci sul caso dei Millennials [i nati dopo il 1980, che sono entrati nella vita adulta nei primi quindici anni circa del nuovo millennio], che conosco bene perché è la mia generazione, il nostro linguaggio-in-codice si è sviluppato a partire dai forum online, poi si è evoluto su MSN ed infine sui primi social». L’ambiguità che ho percepito fin da subito nell’ok boomer rientra allora in questa strategia generazionale: per chi non conosce questo codice, sembrerebbe trattarsi di un'espressione di approvazione o di un complimento, eppure non è così. Per Matteo Fumagalli «il suo significato è riscontrabile anche solo dalla comunicazione interrotta tra mittente e destinatario del messaggio». Come mi spiega Alice Avallone, ricercatrice di small data (le piccole ma significative tracce che disseminiamo online attraverso condivisioni, commenti o ricerche su Google) per le aziende e fondatrice dell’osservatorio di antropologia digitale Be Unsocial: «Molte espressioni ed emoji hanno significati ribaltati proprio perché sono codici e in quanto tali solo il gruppo che li crea e condivide li sa decodificare. C’è anche da dire che i social, in particolare, sono territori intergenerazionali. Una strategia della Z è quella di utilizzare un linguaggio più criptico agli occhi di Boomer e X; l’altra, invece, è quella di cambiare “piazza”. Ecco uno dei motivi perché a Facebook hanno preferito TikTok, a un certo punto. E ora che i grandi sono arrivati anche qui, c’è da aspettarsi che presto Z (e un domani gli Alpha) si sposteranno ancora».

 

Verso la semantica e (necessariamente) oltre!

 

Il linguaggio post-grammaticale della GenZ, che secondo Marta Basso è rappresentato anche dall’utilizzo delle emoji, fa riferimento a espressioni che nel linguaggio comune non sono riconducibili a una comprensione logico-semantica, ma che trovano un senso solo se contestualizzate nel linguaggio della GenZ. Tra i trend di TikTok, spicca l’espressione con quale X me lo stai dicendo? dove l’incognita sta per un oggetto o una persona considerati particolarmente interessanti. Per esempio, se un utente si filma a casa e la casa è una villa con piscina, questi si rivolgerà ai suoi follower con ok ma con che casa me lo stai dicendo? Un esempio opposto è l’espressione inglese I feel exposed: anche se letteralmente significa ‘mi sento scoperto’, ‘esposto’, il riferimento è volto a un contenuto che ci ha fatto sentire sì esposti emotivamente, ma che, sulla spinta inclusiva, crea rappresentazione ed elimina i pregiudizi, nel senso di ‘ho scoperto che altri lo fanno oltre a me’. Un altro termine su cui, a detta di Fumagalli, vale la pena soffermarsi, è stan, nato nella culla di Twitter: nella formula I stan X, l’espressione sintetizza un amore incondizionato tendente all’ossessione verso una celebrità o un personaggio pubblico, ma anche verso un argomento, una canzone o a un film. «L’aspetto interessante è che il termine ha una sfumatura negativa, dato che deriva dalla parola stalker ed è stata ispirata dall’omonimo brano di Eminem». Come si diceva, molti dei neologismi utilizzati dalla GenZ sono influenzati dai media, in particolare dalla tv (trash) – in Italia no scusate non ho capito il gioco: gelato? con Gerry Scotti e la Cipriani, nei paesi anglofoni I like the view - you do? - yes, you are my best view - hhhhhmmm” dal film 90 giorni per innamorarsi, entrambe hit del TikTok – e dal mondo Netflix, in particolare dalle serie. Alcuni, mi spiega Fumagalli, «sono molto spesso ispirati da fenomeni pop e di costume internazionali. Penso, ad esempio, ai modi di dire resi popolari grazie al programma televisivo “Rupaul’s Drag Race” e diffusi dapprima nella comunità queer online e successivamente a una portata più ampia. Con tea, per esempio, intendiamo ‘gossip/scoop’: What’s the tea?, cioè ‘qual è il gossip del momento?’; con la parola wig, ‘parrucca’, l’espressione My wig’s gone (‘la mia parrucca è volata via’) sta ad indicare che l’utente è rimasto sconvolto ed esaltato da un annuncio o dall’uscita di un prodotto; per esempio, se una popstar internazionale annuncia un duetto con un’altra famosa collega, i fan potrebbero commentare Wig’s gone». Se non mi dilungo su ship (per gli Z non è una nave, ma la contrazione di ‘relationship’, cioè relazione: finalmente una ship seria) o su simp, che indica un ragazzo che vuole fare colpo sulla sua crush (dal verbo inglese che significa ‘schiacciare, stritolare’), in sostanza qualcuno per cui si prova una forte attrazione, è perché, a detta dei GenZ, sono neologismi già obsoleti. Per quanto riguarda le emojii, spiccano nel volo ultrasemantico diverse combinazioni che (ovviamente) non ci aspettiamo. Marta Basso mi riporta l’esempio della sequenza occhi-bocca-stelline-faccia che suda, a volte persino inserita “a caso” tra una parola e l’altra, per rimarcare il tono con cui è stata pronunciata una certa frase, che spesso è awkward, ‘imbarazzante’. Per Matteo Fumagalli ci sono emoji ambigue che vengono utilizzate in modalità virale, basti pensare al clown, utilizzato per esprimere disappunto verso una persona che ha pubblicamente espresso delle opinioni infelici. In sintesi è un simbolo che traduce ‘sei solo un pagliaccio’.

 

Seguire l’onda degli small data

 

Come abbiamo visto è limitante associare la ricerca sulla lingua degli Z al solo aspetto verbale. Una delle ricerche che promuove un nuovo sguardo per studiare i territori intergenerazionali è proprio Be Unsocial di Alice Avallone, rivista di antropologia digitale che unisce scienze sociali e ricerca in rete per comprendere le relazioni umane online. «In rete, ci sono ambienti che più di altri si prestano all’osservazione di una generazione. Il caso di TikTok per la Generazione Z è il più noto. Allo stesso tempo quando si pensa al digitale occorre ragionare in modo fluido e non per compartimenti stagni: i confini sono solo apparenti. La prova è che, ad esempio, troviamo la maggior parte dei dialoghi testuali tra le chat del più contemporaneo Twitch e i tweet dell’ormai vintage Twitter. Ed è soprattutto tra i feed di quest’ultimo che chi studia i linguaggi in rete trova grande soddisfazione. Un buon numero di Z, che abitualmente frequentano altri lidi, si ritrova a chiacchierare qui in occasione di trasmissioni, serie tv, film, partite. Quello che possiamo fare noi ricercatori è sederci sul divano con loro, e metterci in ascolto». Analizzare gli small data ha permesso per esempio di tracciare i cambiamenti (anche linguistici) delle nuove generazioni in seguito alla pandemia, come ha riportato l’articolo Quaranteen: avere tra gli 11 e i 22 anni durante la pandemia. Uno dei quattro insight svela che gli Z sui social «non hanno niente a che fare con l’approccio tecnico-allarmista di molti Boomer e X, sono solo più attenti alla propria privacy proprio perché l’online è la loro vita, e non un’appendice. La generazione che ha inventato i “Finstas” – gli account Instagram privati dove pubblicare la quotidianità senza filtri – adesso sta andando avanti a “FikFoks”, ovvero account TikTok sotto falso nome che riducono la pressione di dover stupire e fare numeri a tutti i costi». L’avvento dei social come Instagram e ancor di più TikTok ha confermato come il linguaggio della GenZ sia a cavallo tra immagine e voce: pensiamo ai vocali e al fenomeno lipsync su TikTok, ovvero la sincronizzazione del movimento delle labbra con un audio pre-registrato in sottofondo. Per Alice Avallone «questa generazione è la prima che ci fa segnare un’inversione di tendenza: si sta passando dal boom della scrittura al ritorno all’oralità, passando proprio dall’uso delle immagini. Da giovani i Senior, cioè la prima generazione nata nel secondo dopoguerra, scrivevano a mano, i Boomer, nati tra il 1945 ed il 1965, con la macchina da scrivere, la Generazione X, che fa riferimento ai nati tra il il 1965 e il 1980, pigiando sui tasti gommosi dei telefoni. Gli Y, i Millennial per intenderci, hanno scoperto la scrittura sugli schermi. E gli Z, lentamente, hanno iniziato a preferire i messaggi vocali per mere ragioni di velocità e praticità. Quello del rapporto con la tecnologia attraverso la voce è una tensione culturale nell’aria, basta pensare al successo dei podcast, all’introduzione nelle nostre case degli assistenti vocali (Alexa), ad alcuni giocattoli a comando vocale per i bimbi Alpha, nati dopo il 2010, l’anno in cui vengono lanciati Instagram e l’iPad». Etnografia digitale o meno, noi generazioni precedenti dovremmo fare il grande sforzo per capire il contesto e le necessità degli Z, il cui codice, a detta della Avallone, può essere associato istintivamente alle Lezioni americane di Italo Calvino: «la loro lingua è leggera, non certo nel senso di frivola, ma davvero in termini calviniani: c’è il necessario perché funzioni».

 

 

Immagine: Happy Wikipedians in RELS 452/852 The Contemporary Religious Situation

 

Crediti immagine: MonstreDélicat / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)

/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_226.html

Magic Mountain

 

Alessandro Iovinelli

Magic Mountain

Torino, Robin Edizioni, 2020

 

«La verità è che l’esistenza umana non è soltanto strana, ma pure imprevedibile − questa fu la conclusione provvisoria di Alberto». Sarei quasi d’accordo con la riflessione di questo personaggio, se non fosse che proprio lui, nella terza e ultima novella di Magic Mountain di Alessandro Iovinelli (Robin Edizioni, 2020), chiude un cerchio tematico e linguistico della narrazione. Non è imprevedibile la vita, ma il motore che le permette di intraprendere il suo viaggio più intenso, in una direzione che forse assomiglia a quell'inconfondibile su-e-giù delle montagne russe: l’amore. Ce lo insegnano gli antichi proprio con la parola, a partire dall’organo più misterioso e poetico del nostro corpo, il cuore, che tra le sue consonanti nasconde la radice del sobbalzo − l’indoeuropeo skar/skard, “saltellare”; il sanscrito kùrdati, “saltare”, il greco skàiro, “vibrare” − e, collegato al suo sentimento, l’eros, è capace di far muovere un individuo verso un altro. «Le azioni compiute da uomini e donne non si rappresentano in termini psicologici. La loro dialettica − ammesso che ve ne sia una − è un’altra», afferma la narratrice della prima novella, Cacciatori di polvere di stelle: la storia che racconta, ambientata nella città immaginaria di Sagrana, vive delle chiacchiere e dei ricordi dei due personaggi principali, Ross e Greene, il primo definito dalla stessa «rullo compressore» e «predatore sessuale» nelle sue conquiste, il secondo vittima dell’universo femminile, precisamente delle donne che non condividevano la sua principale passione, il cinema, ma di quelle che accettavano di essere invitate a vedere un film. Per Greene rappresentava un ideale di quando era ragazzo, dal quale non riusciva a separarsi: era la sequenza dell’incontro (il film, la cena e il confronto, la strada verso casa e il casto bacio della buonanotte) a sublimare il suo romanticismo. Quello che gli bastava era un’epifania.

Se l’amore che contraddistingue la vita di Ross rappresenta per la narratrice un materiale narrativo più semplice da modellare e da comprendere, forse − «l’azione di Ross poteva essere finalizzata, sia pur in ultima analisi, a uno scopo pratico, il “rimorchio”» −, quella di Greene «era un’attività di natura puramente estetica, alla Kant». La fascinazione che prova la narratrice nei confronti della visione amorosa dell’amico è forte tanto quanto quella che Greene prova nei confronti dell’universo femminile, di cui è impossibile parlare in modo chiaro. «Quando saremo morti, che cosa resterà di noi? Nulla. E allora per quale motivo saremo vissuti?». Il monologo di Greene rimane sospeso. Mentre Elìs cerca disperatamente di trovare una risposta sull’amore, su come gli uomini vivono l’amore, su come sia possibile vivere l’amore, avverto un’altra voce, messa in bocca a Greene, che sentenzia sul concetto proprio di verità, «un’ossessione» che sembra non avere nulla a che fare con la letteratura. E nemmeno con la vita. Del resto, quale storia narrata o reale è davvero chiara? Quale interpretazione corretta? Se davvero l’unica via possibile è quella di un pellegrinaggio verso «chimere e disincanti», come sostiene Greene, siamo una schiera di cacciatori di polvere di stelle, di un’ossessione irraggiungibile che ci ha trafitto e ci chiama continuamente. «Cosa pensi di ricavare dalla vita?».

 

Nella novella successiva, Come l’amore perduto, alla domanda di Elìs risponde la storia del nuovo narratore, che dichiara fin dalle prime righe di essere un seguace (o una vittima?) dell’ossessione erotica del corpo femminile, in particolare di avere una vera e propria venerazione per la «statua» della moglie, dalla quale, nonostante la crisi matrimoniale, non riesce ad allontanarsi. Fino a quel “ma” di Leo, ritrattista di Mercedes e presunto amante, molto più potente del rumore delle imposte che si chiudono e dei silenzi in casa. Da attento scrittore, il narratore sembra intravedere nella parola una potenza incomprensibile, capace di sconvolgere, di nuovo, la rotta del cacciatore. «Aveva detto “ma”! Allora ero spacciato: il destino umano non è nascosto nei grandi discorsi, nei paroloni e nei voli pindarici, ma si cela nelle congiunzioni, nelle interiezioni, perfino nell’intercalare. [...] Con quel “ma” mi aveva già detto tutto». Il traditore si sente tradito prima ancora di scoprire la verità − un amore fondato sulla stima e sulla fiducia da parte della moglie; una sua vigliaccheria e gelosia esorcizzate con una relazione clandestina −, e nella scrittura ricrea un nuovo destino per il suo amore perduto, che «come la vita di carta ci sfugge di mano, prende la sua strada e raggiunge una terra rimpianta, ma sconosciuta».

 

Anche nell’ultima e terza novella, Un cuore da ragazzo, è ancora il ricordo di un amore che fa vibrare l’esistenza di Alberto Senesi, ex professore giunto nell’età della saggezza, che cerca di non essere distratto dal suo ultimo compito: farla finita. Ma «il suicidio era una soluzione da scartare. [...] prima ancora era necessario sistemare i conti lasciati in sospeso e garantire a quel poco che gli restava un avvenire un po’ più dignitoso dell’abbandono, del naufragio, della dissipazione. Tutti usciamo di scena un giorno o l’altro − lo sapeva perfettamente. Ciò nonostante voleva andarsene soltanto dopo aver portato a compimento la sua parte». Alberto doveva solo essere concentrato sui vari passaggi. A partire dalla donazione del patrimonio librario privato alla sua vecchia scuola, che però non va a buon fine. Le montagne russe risalgono e il protagonista non l’aveva previsto. Forse «c’era ancora tempo per uscire di scena». Toni, la donna gli dava le spalle nella sala d’attesa dell’agenzia immobiliare, è il suo amore ritrovato. Così come ritrovati sono l’inquietudine che l’uomo prova nell’attesa della prima risposta alla sua mail, la difficoltà delle intenzioni di lei al telefono, fino alla bellezza della riscoperta delle sfumature di uno dei simboli dell’amore, il talamo, ovvero «la zattera, perché evoca un oceano in tempesta, i marosi che ci circondano, l’affondamento dell’imbarcazione, il salvataggio temporaneo, la speranza di un approdo, l’attesa della linea di terra all’orizzonte. Non dunque un’isola, dove si può invece sbarcare e, quand’anche vi si faccia scalo in seguito a un naufragio, vi si può sopravvivere». Anche se la loro relazione si consuma in una dimensione che non ha nulla a che vedere con la terraferma, i piedi di Alberto per la prima volta scendono le scale in gran velocità, e la vecchiaia, la malattia, l’insofferenza nei confronti della situazione familiare sembrano avere meno potere sul ricordo di un amore. «Secondo me» riflette Alberto con Toni alla fine della visione di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, «la sua tesi è che il tempo non esiste, ma solo la memoria che se ne ha. E questa non si può cancellare: vi sono infatti ricordi cui non vorremmo rinunciare nemmeno nel momento del disincanto». Scordare, infatti, come la storia etimologica della parola insegna, significherebbe abbandonare il terreno del cuore e dunque non essere connessi con la nostra illusione, che assomiglia alla polvere da cui siamo attratti e che, anche se per poco, rende la nostra terraferma una zattera, e viceversa.

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Chadia.html

Bella così, la canzone di Chadia contro l’odio reale

 

Bella così di Chadia Rodriguez, con la collaborazione di Federica Carta, è un singolo contro la violenza, soprattutto quella verbale, che attraverso il mezzo digitale trova un terreno sempre più fertile per scatenare la sua aggressività. C’è ancora bisogno di “fare ordine” tra la finzione di un bitch in una canzone e di un insulto vero e proprio nella vita reale? In questa intervista Chadia mi ha spiegato perché.

 

«In fondo le parole sono parole / E un giorno spariranno senza rumore»

 

Provate a immaginare di essere letteralmente bombardati ogni giorno da insulti su tutti i social. Provate ad aprire tutte le notifiche senza paura, provate a non provare niente. Non ho usato questa metafora bellica a caso. Ce lo dimostra la nostra esperienza quotidiana che con le parole non solo descriviamo stati di cose, ma provochiamo effetti sulla somaticità, esattamente come fa una bomba, perché sottopone un individuo a una intensa azione che lo annienta. Nel vocabolario Treccani, in senso figurato, ci sono infatti due esempi, vicinissimi, che quasi si sovrappongono: bombardare di domande e bombardare di pugni. Per Chadia, che in questo brano dà voce a tutti coloro che sono stati e sono ancora vittime di cyberbullismo e bodyshaming, la forza della parola sta esattamente nella sua capacità di agire nella persona che ascolta, nella sua realtà e nell’accettazione della sua identità e unicità. «Tantissime ragazze e ragazzi hanno perso la vita per queste parole. Delle persone che neanche conoscevano li hanno insultati a tal punto da far dire loro “basta”. Ecco, anche questa canzone ha la forma di un “basta”. Vuole quasi essere una forma di menefreghismo verso gli insulti». Secondo la sua prospettiva, la sensibilizzazione a questi fenomeni, che si identificano nella grande famiglia degli slurs o slurring terms, cioè gli epiteti denigratori che offendono una persona in quanto appartenente a un gruppo in base a ragioni etniche (negro), sessuali (troia), geografiche (terrone) o di credenza religiosa (sporco ebreo), non va nella direzione di un divieto di utilizzo di questi termini, ma nel loro progressivo “svuotamento”, che si spera possa tradursi in un vero e proprio silenzio.

 

«Mi hanno dato della suora, della troia, della scema»

 

Mi sono immaginata tutte le offese come una filastrocca, dove accenti e sillabe si confondono fino a diventare un unico motivetto nonsense, che poi si ferma e svanisce. Non possiamo eliminare certi termini o espressioni. Forse possiamo e dobbiamo educare al loro uso in determinati contesti? «Nella trap sono abituata ad ascoltare testi di artisti maschi, dove l’uso di bitch è frequente, io invece penso che faccio prima a darmi della bitch da sola (come nel singolo Bitch 2.0). Il progetto Bella così vuole sì essere una lotta contro le etichette, però io sono dell’idea che è meglio autoetichettarsi che essere etichettati». Nel contesto della canzone rap o trap poi esiste un vocabolario “di strada” alla quale gli artisti fanno riferimento. «Il problema non è tanto l’uso di certi termini, ma il contesto nel quale agiscono», mi spiega Chadia, «la singola parola non può ferire più di tanto, ma se la inserisci in un contesto in cui discrimina le persone, non è corretto». In effetti nella trattazione degli slurs un tema chiave è proprio la possibilità di trovare un uso non discriminatorio. Se nell’approccio semantico (che si fonda su un significato letterale), l’insulto è sempre qualcosa di negativo, indipendentemente da come viene usato, nell’approccio pragmatico il contenuto dispregiativo di queste parole è parte di come vengono usate e dipende dalle caratteristiche dei contesti in cui se ne fa uso. In questa seconda prospettiva, pertanto, viene data la spiegazione del fenomeno di “appropriazione” di un insulto, totalmente de-tabuizzato, come risultato di pratiche sociali, esattamente come gay o queer, che ora sono degli indicatori di fiera appartenenza. Le cose cambiano, per Chadia, quando i termini apparentemente neutrali (anche nella canzone) possono venire marcati dal tabù.

 

«Se a loro non vai bene in fondo non è tua la colpa»

 

«Jake (La Furia) ti scrive i testi», «Bello il testo di Jake», e per finire «Sarai arrivata lì per i pompini che hai fatto». Questi, mi racconta, sono gli insulti più frequenti che ha ricevuto negli ultimi anni di scalata verso il successo. Il successo, appunto, è quasi sempre chiamato in causa: «È come se non accettassero il fatto che un rapper come Jake, per me una colonna portante del rap italiano, abbia scelto una donna e abbia voluto “tramandare” il suo metodo di scrittura. A loro dà fastidio il fatto che io possa avere del talento. A volte è come se perdessi questa sicurezza che ho, come se non avessi più autostima e fiducia in quello che so fare, come se quelle parole mi facessero perdere il punto di vista». A questa associazione “inaccettabile” di donna-successo, di cui abbiamo esempi in ogni ambito lavorativo, se ne aggiunge un’altra, anche questa inaccettabile, ovvero donna-libertà espressiva. Il corpo, di Chadia nei suoi testi ha sempre parlato in prima persona, torna anche in Bella così, dove la figura femminile è spronata a liberarsi dai tag, quelli che le attribuiscono sempre gli altri, quasi a volerla controllare e manipolare. «Io non avevo il seno grosso né la statura / Il corridoio della scuola era una tortura / Mi hanno chiamato povera e fischiando / In branco mai da soli, poi piango». Chadia, la Chadia persona reale e non il personaggio – «è sempre difficile per le persone capire che non sono quell’etichetta che viene spesso affibbiata ai rapper e ai trapper», mi racconta che anche la sua immagine è diventata un “problema” tanto da tradursi in offese. «“Hai visualizzazioni perché fai vedere il culo” oppure “Datti al porno”. Perché? Perché sono a mio agio con il corpo e non lo voglio nascondere? Cerco di andare sempre oltre, come ho voluto fare con Bella così. E se a leggere quei messaggi ci fosse stata una ragazza più fragile di me?». I social hanno amplificato la libertà espressiva, ma hanno anche rafforzato l’aggressività delle opinioni negative. Cosa possono dunque fare gli artisti per avvicinare gli utenti alla realtà (anche alla loro, di persone reali)? «Iniziare a parlare, iniziare a dare dei messaggi positivi, di consapevolezza ai vostri fan, non solo far vedere la collana o l’orologio, ma condividere le proprie esperienze giornaliere. Come ha fatto Iconize quando è stato picchiato al parco: ne ha fatto un post, ne ha parlato con i fan. C’è sempre la possibilità di far capire che determinati atteggiamenti sono sbagliati. E questo deve partire proprio da noi». Il messaggio è chiaro: riempire i testi di storie vere e raccontarle, se è necessario, in un rapporto sempre più diretto con l’utente, e svuotare di carica denigratoria gli insulti, raccontando, anche qui, pezzi di vita e ferite che ancora bruciano. Il silenzio, insomma, ci sarà solo se prima si sarà fatto un gran rumore.

 

 

Immagine: Screenshot tratto da https://www.youtube.com/watch?v=_7IOhpPLIIs

/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/emozioni.html

Il vaglio delle emozioni. Una plaquette lessicale

 

«Abbiamo paura»

 

Lo abbiamo sentito dire più volte dagli intervistati, dai giornalisti che presentavano ogni giorno lo scenario sociale della quarantena. Lo abbiamo letto e lo abbiamo pensato anche noi, magari senza soffermarci a lungo, in riferimento alla nostra condizione. La paura è stata la nostra amica invisibile, che ha dominato il meccanismo biologico del nostro corpo, il grande escluso delle nostre preoccupazioni. Come quasi sempre accade siamo spinti a considerare come tutte le emozioni negative che ci hanno attraversato siano solo una prerogativa del cervello. E invece no. La storia etimologica di paura, la parola più reiterata della fase uno, ci racconta infatti qualcosa di diverso. La sua radice di base, su cui sembra essersi formato il vocabolo in greco e in latino, rivela una natura propriamente fisica di questo stato d’animo: pavorem, formato su paveo per pat-veo (“io temo, io sono percosso”), è affine al greco eolico pa-io, derivato da pat-fio, dove pat- significa letteralmente “percuotere”, “essere gettato nello spavento”. In senso figurato e non, la paura è un movimento che sposta il nostro corpo verso qualcosa che non conosciamo e che diventa il nuovo baricentro delle nostre azioni emotive. Come ci fa sentire essere manipolati da un nemico invisibile? Non è un caso che questa espressione si sia diffusa così velocemente nel linguaggio dell’informazione, della politica e del nostro quotidiano. Nel nostro cervello, infatti, si è formata una vera e propria trincea. A decretare l’inizio di questa missione militare è l’amigdala, preposta alla gestione della paura (che non riesce a dare un volto alla minaccia), e, come rimedio allo stato di allarme, ricerca ovunque il bersaglio. L’angoscia che proviamo è davvero una morsa che ci stringe, come ci insegna il latino angŭstia per angere, cioè “stringere”, “soffocare”. Anche Dante, in un passo del IV canto del Purgatorio la rappresentava come una forza in grado di affrettare e/o accelerare il respiro («quella angoscia che m’avacciava un poco ancor la lena»). L’angoscia punta il dito, poi cambia idea, ma corre sempre e non respira neanche molto bene. Sul versante psico-somatico corrisponde di fatto a una condizione di immobilità, da cui è difficile trovare una via di fuga, visto che il suo “fare” non si sposta di un millimetro dal problema. Il «sentimento paralizzante», come viene definito da Umberto Galimberti, si aggiunge alla già presente condizione di “stagnazione”, che contraddistingue il labirinto senza fine in cui siamo imprigionati. E, come potete notare, sempre di corpo di parla.

 

«Siamo stanchi»

 

Spiegare il nostro stato d’animo in una situazione fuori dalla norma è diventato per tutti più complesso. Nel mio diario quotidiano più volte mi sono chiesta se la noia avesse assunto nuove sfumature o se la tristezza da isolamento potesse chiamarsi in un altro modo. Ho poi memorizzato tutte le espressioni emotive legate al senso di incertezza, proprio quello che scatena anche la paura, e tra queste ne ho trovata una che secondo me racconta molto bene la salute del nostro corpo. «Come va? Sono un po’ stanco». Usavamo anche prima questo aggettivo, quando eravamo così presi dal fare sociale? Certo che sì. Manifestavamo senza problemi una stanchezza giustificata, cioè imposta dai fatti e dalle necessità (lavorative e/o relazionali). Ora no. Ora l’essere stanco lo associamo alla non-azione, una condizione che ci è imposta, dunque non giustificata, alla quale imputiamo addirittura una colpa. I nostri piedi hanno percorso pochi metri tra le mura domestiche, a volte non si sono proprio mossi dal letto, a volte ci è sembrato che una giornata sedentaria fosse decisamente più faticosa di una corsetta. Non c’è immagine più potente di uno stagno per rappresentarci in quarantena. Ecco perché diciamo spesso che ci sentiamo stanchi. L’etimo di stanco è incerto, ma viene ricondotto al verbo latino stagnare, da stagnum, letteralmente “acqua ferma”. Anche in questo caso è una posizione (del corpo) a far luce sul nostro mondo interiore, quella che in sanscrito si è cristallizzata nella radice sta- (secondo alcuni stha/sdha), che esprime proprio la stasi (dal verbo greco istemi, “fermarsi, stare”). In medicina significa “ristagno”, “rallentamento del circolo di un liquido”; genericamente indica il “temporaneo arresto di un’attività o di uno sviluppo”. Qualcosa insomma a cui non siamo abituati. Figuriamoci se ci viene imposto. Ecco perché ho trovato preziosi i versi di Montale dedicati alla moglie: «[...] tu sola sapevi che il moto non è diverso dalla stasi» (Xenia, I, 14). Riconoscersi nella materia stagnante significa assimilare stasi e moto per la costruzione del nostro io, un io che non sfreccia nel tempo a velocità costante. Noi – ci è difficile ammetterlo –, siamo fatti anche di pause, e il nostro corpo lo dimostra. Per esempio con la meditazione, che si fonda proprio sulla stasi (da una sillaba in tibetano derivata dal sanscrito shiné, “stabilità”) e ci permette di “rallentare” la nostra mente per raggiungere spontaneamente uno stato di pace e benessere. Nel nostro caso di spontaneo c’è stato ben poco: come potremmo definire una stasi coatta?

 

«Ci sentiamo abbandonati»

 

Anche l’abbandono ha a che fare con il corpo e lo spazio. A scuola, quando chiesi a un bambino di raccontarmi questo stato d’animo con un’immagine, mi colpì la forza emotiva con cui mi spiegò in cosa consisteva un cortile vuoto. È un luogo desolato, che sembra un deserto. «E soprattutto nessuno gioca, tu non puoi fare proprio niente». In primis, ce lo mostra bene anche il prefisso latino de-, che rimanda proprio al moto di allontanamento, lo associamo a uno spazio in cui il nostro corpo non ha alcuna possibilità di tradursi in azione, ma anzi, si esaurisce in sé stesso. Poi c’è qualcos’altro, che ha a che fare con il dolore. Pensiamoci: noi ci sentiamo abbandonati da qualcuno o da qualcosa, sennò si tratterebbe di una condizione molto simile alla solitudine, che l’io accoglie senza imposizione. Nell’etimo di solitudine non abbiamo alcuna traccia di prefissi o particelle che indicano separazione. Ben diversa la storia del latino abandonum, che, oltre ad ab- (“da”), sembra dar luogo ad alcune espressioni in provenzale e in francese antico legate al bando (bandon, ban), non tanto nel senso da alcuni proposto di “mettere o cacciare in bando”, quanto piuttosto in quello di “vendere al bando, all’asta pubblica”, da cui l’idea di “rilasciare”, “dare in balìa”. Non sapere a cosa si è condannati nell’abbandono ci pone di fronte a un dolore che, esattamente come il nostro corpo privato di uno spazio vitale, è costretto a bastarsi nella sua impotenza e inutilità, a non usare la voce. Ci è stato impedito il movimento, inteso come sfogo delle nostre pulsioni, appropriazione del nostro corpo e connessione, grazie alla nostra pelle, ai sensi e ai muscoli, alla vita. Alla conoscenza. Ecco perché questo ci rende stanchi.

 

Immagine: New York Movie, 1939 by Edward Hopper

 

Crediti immagine: Edward Hopper / Public domain

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/musica_nel_virus.html

La musica nel virus. Un’analisi della #CovidFreestyleChallenge

 

Aria di cambiamento, un po’ di insofferenza, termini che si prestano a diventare neologismi e occasionalismi. Ah, non mancano i dissing tra colleghi. In questi ormai due mesi di quarantena, trapper e rapper italiani pare non abbiano mai smesso di scrivere, anzi, a partire da un post su Instagram lanciato da Emis Killa, si sono confrontati in una challenge di freestyle. Il tema chiave non è solo il COVID-19, ma tutto ciò che riguarda il nostro quotidiano, un quotidiano limitato e forse ritrovato, dipendente dai media e da nuove paure. Rileggendo i pezzi random degli artisti ho notato che quasi tutti hanno citato almeno una volta un termine che caratterizza la quarantena italiana, così come viene presentata dai giornalisti. Mi riferisco ai nomi ufficiali, come virus e/o CoronavirusFabri Fibra: «questi rapper finalmente hanno un nemico / tutti a scrivere contro il Coronavirus»; Emis Killa: «quest’anno ne ho viste, tra virus, incendi e nazioni agguerrite» −, e in particolare al modificatore del composto binominale corona+virus, il cosiddetto corona. Quando Enzo Dong dichiara la sua nella lotta contro il nemico invisibile (la metafora della guerra è ormai dominante, come notava Federico Faloppa in un suo intervento in “Lingua italiana”) con i versi «scendo e ammazzo il virus voglio la corona / se passa nel mio quartiere fratè cambia zona», l’accezione del termine corona cambia: la sua vittoria prevede una sorta di investitura regale, con l’imposizione sul capo del simbolo che caratterizza, secondo le immagini del microscopio elettronico, proprio la forma del virus.

 

Un Salmo per il paziente uno

 

Nel brano di Salmo ricorrono altri due termini ufficiali che sono entrati a far parte del vocabolario Covid, ovvero zona rossa («Questa è zona rossa ma non siamo in un fottuto night») e paziente uno («Paziente uno, sono impaziente perché chi non sta al sicuro c’ha il quoziente intellettivo / in culo»): se nel primo verso il rapper lascia intendere che una quarantena in un nightclub potrebbe non essere male, nel secondo gioca con l’annominazione impaziente-impaziente, che riflette il sentimento di impotenza di fronte alle azioni di chi non si attiene alle regole, a chi insomma non vuole stare a casa. Come dicevo, il nemico non è solo il virus. Nel mirino troviamo gli untori di vario tipo, anche d’ignoranza − Emis Killa: «Ma l’ignoranza non frena, l’unica chance è una civiltà aliena»; J-Ax: «ma davvero ancora qualche pirla vuole uscire? / scemi come Carla Bruni che fa finta di tossire»; Beba: «vorrei vedere la faccia di chi attaccava i cinesi in piazza, ora che la tua vita è a misura di stanza e persino tua madre ti sta a un metro di distanza»; Salmo: «stupido, come i tuoi amici fessi» − e i runner, che nei versi di Salmo assumono la veste di fanatici di atletica: «bro’ stammi lontano c’hai la peste / questi stanno in giro sembrano corsa campestre». Le prese di posizione, per alcuni, poi sono prive di ambiguità, basti pensare alla voce di Fibra sulla condizione della sanità in Italia − «senti ’sta roba qua / ti lascia a terra con più tagli della sanità» −, a Salmo, che si indigna di fronte alla velocità di trasmissione del virus e alla problematica gestione dei tanti malati − «colpo di tosse, do di petto / il flow che manda in terapia intensiva senza posti letto», e ancora a Killa, che incorpora nei versi lo slogan “restiamo a casa” e si rivolge a chi non fa tesoro del senso civico, in particolare a chi non presta attenzione ai più deboli, gli anziani, i più colpiti dal virus: «resta a casa salva il mondo / questo scemo dice “no no”/ fino a che gli muore il nonno».

 

Amuchina, mascherina, «l’angoscia mi preda»

 

C’è anche spazio per l’ironia, però, che nasce dalla viralità social di meme, brevi video e nuove espressioni linguistiche. L’amuchina che tanti avevano ormai dimenticato, non solo è rientrata nel vocabolario Covid in tempi brevissimi, ma ora viene anche associata a tesori preziosi o droghe illegali (Enzo Dong: «sotto da me ora spacciano l’amuchina»), e addirittura viene utilizzata come similitudine per descrivere la donna ideale: «rara come l’amuchina». E poi c’è l’accezione di mascherina: il verso «Junior Cally cambia maschera e mette la mascherina» nel testo di Enzo Dong si riferisce all’accessorio caratterizzante con cui il collega rapper si è fatto conoscere ai media, un “mascheramento” che ora, nella tipologia definita “chirurgica”, diventa necessario per limitare la diffusione del virus tra la popolazione. In merito proprio ai cambiamenti sociali, lavorativi e psicologici troviamo i nuovi luoghi comuni della vita in quarantena. Primo tra tutti la noia, che nel testo di Gemitaiz si trasforma in un potente stimolo creativo, finalmente svincolato dalle mode commerciali e dal perenne confronto coi colleghi: «mi annoio mi compro sei paia di scarpe in tre giorni / bello bello / sì faccio il matto perché rappo come voglio / senza guardare se il trend è quello». Salmo invece è decisamente saturo di continue notizie (soprattutto fake news) sul tema, e lo dimostra citando nel suo testo i termini «disinformazione, clickbait», dove il secondo si riferisce a tutti quei post “acchiappaclick”, che hanno la funzione di attirare il maggior numero possibile di utenze. La qualità del vostro sonno è minore in questa emergenza? Non siete i soli. Killa e Beba confessano di gestire con difficoltà il riposo − «non ho più sonno, l’angoscia mi preda, tutto è surreale» e l’interazione sociale, ora massiva e spesso pressante da parte di chi non riesce a stare in solitudine − «mi cercano tutti, visualizzo ma non leggo».

 

Immagine: Screenshot tratto da https://www.youtube.com/watch?v=2ZBZ2otrPBI

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_258.html

50 sfumature di lingue e dialetto

 

Ghali e gli xenismi

 

«Ndir lhala sans pitiè / Fratello ma 3la balich / En ma vie ho visto bezaf / Quindi adesso rehma lah / Baba manchofoch / Wily Wily, Nari Nari / 3endi dre3 9edach / Non voglio più stress». Vi ricordate il primo Ghali con Willy Willy? Il titolo del brano era parte di un’esclamazione (traducibile con l’italiano “oddio!” o “mamma mia!”) che veniva ripetuta quattro volte nel ritornello, dove la lingua dell’italo-tunisino passava senza soluzione di continuità dall’arabo al francese, dal tunisino all’italiano. In linguistica questo fenomeno si chiama code-mixing, il passaggio da una lingua a un’altra all’interno del discorso di uno stesso parlante. A oscillare tra le lingue sono alcune espressioni comuni del gergo giovanile, quali “fare casino senza pietà”, che diventa «ndiro Ihala» in arabo, con l’intensificatore avverbiale «sans pitié» in francese, oppure “non me ne frega” ripetuto nell’espressione colloquiale “ma 3la balich”. L’introduzione di elementi alloglotti nel panorama rap e trap non è di certo una novità. Ma «è nella seconda generazione di artisti che si riscontra una concreta manifestazione del contatto oggi in atto tra lingua nazionale e lingue immigrate». Così si apre il saggio di Jacopo Ferrari La lingua dei rapper figli dell’immigrazione in Italia, in cui viene analizzata l’evoluzione di una nuova pluralità linguistica che amplia le possibilità di arricchimento lessicale e culturale: «non sono solo gli arabofoni a imparare l’italiano, ma pure gli italiani, soprattutto i più giovani, ad apprendere qualche parola o espressione araba». Infatti se guardiamo con attenzione il testo di Ghali è possibile notare un utilizzo massiccio di xenismi, ovvero parole straniere che descrivono una realtà o un fenomeno peculiari dei paesi d’origine, solitamente accompagnati da una parafrasi descrittiva nella lingua di arrivo. «Salam alykom salam alykom / Son venuto in pace». Ghali mescola i codici e i riferimenti culturali, creando un gioco di specchi: «Salam alykom» (“che la pace sia con te”) è seguito da «son venuto in pace», che rafforza il tema comune alle due culture, quasi a voler lanciare un messaggio di integrazione culturale. Anche se in alcune parti non viene lasciato spazio alla comprensione da parte del pubblico italiano, cioè nelle strofe occupate interamente da sintagmi in arabo tunisino, il trilinguismo di Ghali viene in aiuto presentando concetti espressi in precedenza, sempre con delle commutazioni da un codice all’altro: nel verso «quindi adesso rehma lah», l’espressione «rehma lah» (“nessuna pietà”) potrebbe essere vista come la traduzione di «sans pitié», che si trova poco sopra. Ferrari, nella sua analisi, fa riferimento anche alla tendenza dei giovani rapper e trapper di sfruttare al massimo anche le possibilità meramente sonore del plurilinguismo. Molto frequenti sono i «passaggi intrafrasali da una lingua all’altra, al fine di generare allitterazioni [...] o favorire la rima con altre parole straniere». Un esempio significativo di questa ricerca stilistica è l’apparente scioglilingua «scusa bras la3jouza» (in Habibi), letteralmente “scusa per la testa della vecchietta”, nel senso di “perdonami, fallo per tua madre”, che rientra in una sorta di slang arabo-italiano.

 

Il napoletano di Liberato

 

Ghali ha fatto del suo ibridismo culturale e linguistico la chiave per comunicare allo stesso tempo con immigrati, figli di immigrati e Millennial italiani. Ma c’è un altro artista, a metà tra rap, trap, hip hop, indie e neomelodico, che ha creato un suo particolarissimmo slang. Napoletanaménte parlando. La particolarità del code-mixing di Liberato, definito anche “la neo-Elena Ferrante della trap”, risiede nel fatto che la lingua di base è il dialetto partenopeo, talvolta mescolato all’inglese («Faje semp chest, and you'll never change»), al francese («Mon amour staje semp' 'e na manera»), allo spagnolo («Mi corazon m'e luat o' suspir») e per finire, a un poco di italiano («Terra mia, terra mia»). L’utilizzo che fa del napolinglish, espediente stilistico tanto caro a Pino Daniele, è da un lato fedele alla tradizione, dall’altro aperto a sperimentalismi, tra i quali neologismi e giochi linguistici. Come sia possibile il suo successo dialettofono “trasversale” − circa il 90% dei testi sono in napoletano −, ce lo spiega in parte lo stato attuale della lingua italiana, che a detta di Silverio Novelli nell’articolo L’appocundria di Pino Daniele, gode dal 2015 di buona salute: secondo i dati Istat, «per la prima volta dall'unità d'Italia, più del 50% degli italiani (il 53,1%) tra i 18 e i 74 anni, cioè 23 milioni e 351mila persone, parla in prevalenza italiano in famiglia (tra i giovani di 18-24 anni la percentuale sale al 60,7%). Proprio per questo, il dialetto non è più sentito come un simbolo o riflesso di svilimento socioculturale, un segnale di arretratezza. Anzi. È vissuto come libertà di registro (meno formale, più colloquiale e famigliare dell'italiano standard), porta spalancata sui sentimenti immediati, grimaldello ludico. Gioco e sentimento: come accade nella letteratura (basti pensare a Camilleri, e non solo), come succede, da anni, nella musica pop e nel rap». Liberato, inoltre, riesce a entrare facilmente nella cultura pop anche grazie a una rinnovata fascinazione per tutto ciò che ha una radice popolare, viscerale e di strada. Pensiamo al boom di ascolti di Gomorra (in particolare della serie prodotta da Sky Atlantic) e alla conseguente entrata di una cultura e di un linguaggio napoletani nelle generazioni dei più giovani: il trend linguistico del “gomorrese” è diventato immediatamente virale sul web e sui canali social (si vedano le puntate Gli effetti di Gomorra sulla gente dei The Jackal), dando la spinta a sfruttare la versatilità espressiva dialettale in nuove forme, proprio come lingua di Liberato. Nei suoi testi è rappresentativo il gioco linguistico con tipiche locuzioni della tradizione napoletana, che facilitano la comprensione anche all’orecchio non partenopeo. Per esempio il meccanismo attuato per la creazione del titolo del brano Intostreet: dal modo di dire “ind’ o’ stritt’” (letteralmente “nello stretto”) Liberato ha creato un neologismo, facendo leva sulla pronuncia di “stritt”, che rimanda all’inglese “street” (“strada”), e modificando la consonante (dalla dentale sonora /d/ alla dentale sorda /t/) per rimarcare la vicinanza anglofona, perché into è una preposizione immediatamente riconosciuta dall’ascoltatore. Sempre su questa linea di “avvicinamento”, ha poi scelto una precisa sfumatura dell’espressione che oserei dire più italiana che napoletana. La forma “int’ ‘o stritt’” viene più comunemente utilizzata in dialetto per caratterizzare una situazione fisica e non la condizione sentimentale dell’“essere messo alle strette”, come invece guida il senso della canzone: «M'è mis into striit? / Cient' lacrime ngopp a stu beat/ No no no ammò nun se fa Ma che so sti tarantell' stai cu iss». Queste soluzioni sono frequenti e ben mascherate, tanto che per coloro che non hanno dimestichezza con le forme dialettali coinvolte, i testi sembrano scritti in vero e proprio napoletano. «Puoi anche non sapere il significato delle parole ma sarai comunque attratto dal suo suono, sia che si tratti di una cosa bella che di una cosa brutta. Se ti dico che ti voglio picchiare – “t’aggia vattere” – le parole ti mettono tensione anche se non sai cosa vogliono dire». Franco Ricciardi in un’intervista pubblicata su Rolling Stone commentava così il fenomeno Liberato. Tutta questa attenzione agli ibridismi mi fa riflettere sulla creatività linguistica che in alcuni generi, come la trap (che sta già diventando fluida sfuggendo alle classificazioni), promuove una funzione inclusiva. Con Liberato e Ghali ci siamo divertiti a vestire, anche se per il tempo di un ritornello, i panni linguistici di un’altra cultura, che continuiamo magari a conoscere a metà. Ma un salto c’è stato, anche se spinto da semplice curiosità fonica. Qualcuno avrà cercato le traduzioni su Genius. Qualcun altro avrà cantato a ripetizione fino a notare che i suoni, alla fine, si somigliavano tutti. Del resto, non inizia così l’apprendimento di un nuovo codice?

 

Bibliografia

www.genius.com

www.urbandictionary.com

J. Ferrari, La lingua dei rapper figli dell’immigrazione in Italia, 2018: https://riviste.unimi.it/index.php/LCdM/article/view/10309/9680

S. Giorello, Potere al popolo: la nuova musica di Napoli: http://www.rollingstone.it/musica/news-musica/potere-al-popolo-la-nuova-musica-di-napoli/2017-05-26/#Part4

E. Bisi, Numero zero. Alle origini del rap italiano, Milano, Feltrinelli, 2016.

G. Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, Carocci, 2012.

G. Cartago, “Ius music”, in I. Bonomi, V. Coletti (a cura di), L’italiano della musica nel mondo, Firenze, GoWare, 2016.

 

Le precedenti puntate della serie Di cosa parliamo quando parliamo di trap, scritta e curata da Beatrice Cristalli:

1. Tha Supreme (link)

2. Filastrocche ebbasta? (link)

3. Chadia e le altre (link)

 

Immagine: Screenshot tratto da https://www.youtube.com/watch?v=w2KZGGkvLe8

/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_197.html

Nel nome

 

Alessandro Zaccuri

Nel nome

Milano, NNE, Milano, 2019

 

«Ciò che ci resta è il nome soltanto: / protratto suono meraviglioso», recita in una poesia Osip Mandel'štam. Il nome, in realtà, non è solo ciò che ci resta, ma è anche l’unica sequenza di foni che riusciamo a pronunciare di fronte alla paura della fine. Dopo quel rumore sul pavimento se ne aggiunge un altro, inconfondibile, che assomiglia a una «specie di ringhio», «la cattiva imitazione di un uomo in lacrime»: una parola gli esce, per due volte, come se in quel tentativo di chiamare ci fosse la disperata volontà di trattenere tutto, persino la morte. Anna. Anna poi si riprende – prima della effettiva caduta –, ma è in quel momento che il nome diventa molto più della storia di un corpo. Zaccuri, Nel nome (NN editore, 2019), traccia un filo conduttore tra la potenza della nominazione (che fa esistere) e il destino che questo atto ci cuce addosso. «Non poteva esserci contraddizione tra Maria e Maria. Era il nome stesso a impedirlo». Ai nomi del resto non si sfugge, e dopo la morte della madre Anna – Maria è il secondo nome, perché è sempre un posto nascosto – il narratore è costretto ad accogliere in sé un viaggio che ha la forma di una preghiera. Pensiamoci, quando preghiamo cosa stiamo dicendo esattamente? Il rosario non è solo una continua invocazione alla Vergine, ma la ripetizione del suo nome, che nella formula dell’avemaria diventa così suono da farci immergere in una musica che oltrepassa contesto, storia e senso testuale. E Maria, anche se è un nome comune, non è un nome qualunque: il suo significato, seppur potentissimo significante, trattiene in sé qualcosa che ci riguarda da vicino. Per questo il narratore, dopo la morte della madre, confessa di abitare una “scuola di Marie”, dove la Maria del cartellone pubblicitario ha qualcosa da condividere con la Maria di Via Sardegna, la Maria dei Ricchi e Poveri con qualcuna delle Marie degli scritti veterotestamentari. «Sono le Marie in incognito, travisate persino a se stesse per scrupolo di pudore o smania di altezzosità, ad appassionarmi di più. Le cerco in continuazione, nei dipinti come nelle pagine del Vangelo, nelle donne che incontro e in quelle che gli scrittori hanno immaginato prima di me».

 

In ciascuno di noi abita una Maria. Che lì sia ad aspettare al secondo gradino del nostro nome o che giunga nella forma di liberazione dai demoni (come Maria di Màgdala) o ancora nella triade di appellativi mariani di fedeltà, fiducia e sofferenza (come la madre di Gesù), «Maria è sempre destinata a stare qui e non qui, tra l’erranza della fuga e la trasparenza dello sguardo». Sono i contrasti della sua storia a diventare rivelazione per il nostro percorso umano. C’è un episodio, in particolare, che lo racconta. Su un treno diretto al Sud, c’è un donna che urla in preda alla disperazione: è chiaramente una madre che ha perso la figlia, urla il suo nome, pretende di riaverla con sé. Dentro di lei dominano i demoni: il senso di colpa e il caos, quello che viene immediatamente associato ai pianti strazianti del racconto della figlia di Giàrio, anima che “dorme” semplicemente. In quel racconto, di fronte alla morte Gesù invoca straordinariamente al silenzio. Lo stesso silenzio che i passeggeri continuano a ripetere in testa. La madre che grida senza pietà veste invece i panni della ribelle e allo stesso tempo perdonata Maria di Betania, la misteriosa donna (mai nominata Maria) che aveva anticipato l’unzione di Gesù, scatenando l’ira dei presenti per aver sprecato troppo olio (Marco 14,3-9). Ma manca ancora qualcosa a questa scena per far sì che il filo torni a riannodarsi. «L’idea era venuta all’infermiere riccetto: “Come si chiama sua figlia?”, le aveva chiesto. Era uno stratagemma anche questo, ma benevolo. Un modo per costringerla a sbilanciarsi. Aveva funzionato». Esce veloce dalle labbra quel «Livia», e l’universo si ferma per qualche secondo. Ecco che tutti iniziano a ripetere nel pensiero un nome che conoscono, che amano ripetere. In questa litania sembrano così uguali nel dolore. «Nel racconto dei Vangeli rimane sempre un nucleo di umanità che si lascia riconoscere al primo sguardo. La donna che sanguina, la madre che piange, la figlia morta raccontano la stessa storia di dolore e salvezza, sono le vere protagoniste dell’epopea femminile che Marco sta costruendo sotto i nostri occhi [...] tra il luogo dell’impurità irrimediabile e quello in cui i credenti si riuniscono per trovare rifugio».

 

La rete di ogni storia di dannazione e liberazione nasconde una Maria, anche se questo nome magari non viene nemmeno citato. Come ricorda Zaccuri, «non occorre essere senza nome per passare inosservati». Nei Vangeli, in particolare, la sua presenza è massiccia, anche se non corrisponde a un riconoscimento adeguato. In sostanza Maria «[...] è una sconosciuta. Discretamente celebre, ma sconosciuta». Le Marie non solo si moltiplicano nella ricostruzione delle donne che accompagnano la madre di Gesù sul luogo del supplizio. Nella vita reale del protagonista accade qualcosa di ancora più misterioso. È come se la presenza di una Maria (la madre defunta) scatenasse continue epifanie. Così, anche la zia Grazia, accanto ad Anna (Maria) diventa una moderna Marta: «Assurta a simbolo della vita attiva, Marta si distingue anche qui, sotto la croce, per l’umiltà con cui porta a termine il proprio compito. Fa quello che c’è da fare e, siccome nel mondo qualcosa da fare c’è sempre, è impossibile che lei perda tempo a riposarsi». Non è l’affanno ad essere ripreso da Gesù, bensì l’interpretazione di questo affanno. Anche Maria, seppur ferma e in contemplazione, svolge il servizio di “serva” che Marta rivendica. Ecco il filo che il narratore vede ovunque. D’ora in poi, nella storia dell’umanità, l’una non può esistere senza l’altra. Zaccuri, ancora una volta, riesce ad aprire la nostra memoria interiore: «Le due sconosciute si incontrano, alla fine. Si ritrovano nel nome».

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_248.html

Di cosa parliamo quando parliamo di trap - 3. Chadia e le altre

Un pubblico di "sottoni"

 

Oltre ai «capelli biondi senza le mèches» c’è molto di più. Esordisce così il brano Mangiauomini di Chadia Rodriguez, classe ’98 e di origini spagnole e marocchine, che dall’uscita di Dale ricopre il podio delle artiste più interessanti della scena trap attuale. Usa termini semplici, rime perfette e spesso baciate, anche con l’uso di mistilinguismo in inglese, costruisce frasi brevi e inserisce il vocabolario classico dei colleghi per farsi riconoscere, come i neologismi e onomatopee trappistiche (flex, pare, cash, bitches, money, ecc.). Fino a qui sembrerebbe tutto “regolare”, se ci immaginiamo un testo trap come il risultato di precisi ingredienti linguistici e non. E invece, in una mappatura dei messaggi e delle intenzioni comunicative non solo di Chadia ma anche di altre voci, quali Priestess, Madame e Beba, emerge una spiccata volontà: ricostruire l’immaginario femminile, in rapporto a più livelli. Il primo riguarda il sesso forte. Da un lato abbondano i riferimenti che lo sminuiscono e lo ridicolizzano, dall’altro le sentenze che decretano “forte” il sesso debole, con allusioni a modelli culturali ormai sorpassati. Così, Chadia ricorda agli uomini che è inutile la loro goffa mascolinità da palestra, infatti «fanno gli spessi ma sono il trash» (Mangiauomini) e l’essenza di essere spesso, foneticamente parlando, è potente quanto l’anglicismo trash (per quella sibilante allungata nella pronuncia); Beba colpisce la vanità maschile citando un famoso brand di boxer, che, in realtà, stanno meglio a lei («Baby stanno meglio a me i tuoi boxer Supreme» in 3ND); Priestess si fa gioco dell’innamorato in venerazione con una rima perfetta («Ci provi ancora sottone? / Priestess la tua religione» in Crudelia; Madame fa il verso al partner con la stessa moneta, con il nomignolo amoroso bibbi – firmato Dark Polo Gang – e con l’allusione romantica, rafforzata dal diminutivo, che lascia intendere ben altro rispetto alle effusioni romantiche da principessa («Ciao amore bibbi bello, però dammi coccoline» in Sciccherie). Disinnescato il potere del macho (o presunto tale), nelle storie raccontate dalle trapper è possibile scorgere nuovi manifesti di libertà femminile, sessuale in primis. Chadia, per esempio, nel brano Mangiauomini ribalta in poche barre alcuni luoghi comuni: il galateo non è più oggetto di valutazione per il primo appuntamento («Non ho bisogno che paghi la cena / Portami sull’altalena»); l’orientamento è ormai sbandierato («Non sono una tipa all’antica / Mi piace pure la tua tipa») con la negazione della locuzione essere all’antica, aggiornata dal gergo giovanile con tipa, che è un termine anche di marracashiana memoria (La tipa del tipo). E ancora si potrebbe citare un altro verso di 3ND: «Ho una foto della tua tipa, me l’ha mandata lei». Anche Beba, più esplicita, rimarca il suo credo con una negazione – «Non sono il sesso debole tutt’altro / ho un debole per il sesso» – (Morosita) e l’utilizzo di una omonimia grammaticale di “debole” (nel primo verso è infatti aggettivo, nel secondo è nome), che ribalta la posizione di dominanza del mondo femminile.

 

«Non somiglio proprio a 'ste bitches»

 

Nel processo di ricostruzione dell’immagine, si diceva, il secondo livello riguarda “le altre”, che non sono solo le colleghe oltreoceano («Ma non è che se canto mi sento Beyoncé»; («Prima del rap io mi spogliavo come Cardi»), ma donne-simbolo della storia, dello spettacolo, della mitologia, dell’iconografia mariana, già a partire dai titoli dei brani. L’album Brava di Priestess è un chiaro omaggio a Eva, ad Andromeda, a Brigitte, a Maria Antonietta, a Cleopatra. Ecco che con la figura retorica della giustapposizione, caratterizzante del linguaggio veloce del trapper, la moda del caschetto nero viene subito associata alla fama di una regina seduttiva e autorevole («Caschetto nero, Cleopatra»). In generale le trapper attingono a storie che, nell’enciclopedia delle donne, raccontano un atto trasgressivo o una rivincita al femminile («Sono la prima come Eva / La prima come Eva, Eva / Quando nessuno ci credeva»), per esempio la capacità di liberarsi da una prigionia fisica e/o metaforica, come nel mito di Andromeda. Priestess curiosamente utilizza anche i nomi religiosi (Maria Vergine, Madonna) non solo come esclamazioni ma come tu diretto al quale si rivolge per l’ispirazione dei suoi testi. Chadia, invece, ci ricorda che non è come «Maria Maddalena», ma che a volte si è sentita «Madrina come Griselda», dove qui non allude affatto alla popolana del Boccaccio, conosciuta per la sua bontà d’animo e gentilezza, bensì a Griselda Blanco, conosciuta con gli appellativi di madrina (e di regina) della droga.

 

Libere e incatenate

 

Le trapper prese in esame non escludono nel loro mondo tutto business e gang rosa “bad and boujee” (cioè cattiva e raffinata) la dimensione dell’amore e delle relazioni. Chadia, per esempio, si sofferma più delle altre sulla difficoltà di provare un sentimento. Farlo, fino in fondo, comporta turbamenti, ansie, insonnia: «Sarebbe comodo prendere sonno / Amare soltanto come nei porno / Senza amare nessuno con la testa / Solo per il gusto della palestra» (Fumo bianco). Alla fine è l’argomento più vecchio del mondo: tutti i distraenti che ci accompagnano, per quanto spassosi siano, a un certo punto ci ricordano che stiamo solo sopravvivendo e che ogni giorno scorre uguale a quello prima. Nel brano Fumo bianco, in particolare, l’unico appiglio a una forma di esistenza più profonda è rivendicato dall’adrenalitico tempo dell’ora («Un giorno sarai niente eh, eh / Ma questa notte sei per sempre eh»), che, presentato come un momento di libertà in cui consumare un rapporto, non riesce tuttavia a non farci pensare al futuro: nel ritornello, infatti, alla seconda ripetizione di «Un giorno sarai niente eh, eh» è presentata una variatio con dei versi che descrivono la solitudine e l’insicurezza scatenate dalla previsione che il partner, più in là, sarà svanito e inconsistente. Un po’ come il fumo che gli soffia addosso: «Ci penso quasi sempre / Nascosta mentre piango / E soffio in aria questo fumo bianco oh, oh». Sempre con il suo linguaggio esplicito, Chadia affronta anche il tema dell’apatia: «Perciò farmi sbattere ore / serve a farmi battere il cuore». La soluzione viene spiegata attraverso il gioco linguistico del verbo battere e del suo derivato sbattere, che nel primo verso è utilizzato in senso figurato e volgare, facendo riferimento all’unione carnale di due corpi, mentre l’espressione “far battere il cuore”, cioè produrre battiti, ne è la conseguenza, come se la sua anima cianotica avesse bisogno di stimoli brutali e violenti per nutrire il sentimento. Eppure questa solitudine, per alcune, non è così negativa. Beba crede in chi fugge dai legami, nel suo caso, per pensare di più a sé «Se ti lascio amore non è colpa tua / Devo pensare a me stessa» (3ND). In ogni caso, dall’amore non si fugge mai del tutto. Il contrasto tra registro volgare e scelte romantiche è quasi sempre presente. Madame, per esempio, accanto ai neologismi spinti di «ficcatine» (s’intende ‘sveltine’), che richiama il verbo dialettale ficcare, riesce a stendere versi più intimi, in cui ci parla delle sue insicurezze legate a un amore che la ossessiona, come testimonia la ripetizione di quel «ci penso», con il ci argomentale rafforzativo: «Ieri sera, da ubriaca, ho urlato forte il tuo nome / Sei la cosa che ci penso, se ci penso dopo un incubo / E quando mi sveglio il cuore a palla abbraccio il mio cuscino / E lì ci sei». L’amore, del resto, è sempre stato un fantasma anche delle più solitarie «regine», anche se «degli eccessi», come canta Chadia in Sister (Pastiglie).

 

Biblio/sitografia

 

www.genius.com

www.urbandictionary.com

 

  1. Bisi, Numero zero. Alle origini del rap italiano, Milano, Feltrinelli, 2016.
  2. Bandirali, Nuovo rap italiano. La rinascita, Viterbo, Stampa Alternativa, 2013.
  3. Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, Carocci, 2012.
  4. Cartago, “Ius music”, in I. Bonomi, V. Coletti (a cura di), L’italiano della musica nel mondo, Firenze, GoWare, 2016.
  5. Zukar, Rap. Una storia italiana, Milano, Baldini&Castoldi, 2017.
  6. Scholz, Subcultura e lingua giovanile in Italia. Hip hop e dintorni, Roma, Aracne, 2014.
  7. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, Bologna, Il Mulino, 2010.

  8. Costello, Il rap spiegato ai bianchi, Roma, Minimum fax, 2000.

 

Le precedenti puntate della serie Di cosa parliamo quando parliamo di Trap, scritta e curata da Beatrice Cristalli:

 

1. Tha Supreme (link)

2. Filastrocche ebbasta? (link)

 

Immagine: Screenshot tratto da https://www.youtube.com/watch?v=t6YsCUfwXW0

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_243.html

Di cosa parliamo quando parliamo di trap - 2. Filastrocche ebbasta?

«Per parlare meno»

 

Non è vero che i testi dei trapper sono solo neologismi e abbreviazioni. La lingua dalla quale attingono stilemi e modi di dire – l’e-taliano, per dirla alla Giuseppe Antonelli – è “semplicemente” incompleta. Perché incompleto è il suo texting, decisamente frammentario e dipendente da tutto ciò che sta al di là delle parole. Quando Tony Effe in un’intervista risponde che la scrittura della Dark è sintetica e che è ricca di abbreviazioni «per parlare meno» sta dicendo in parte (consapevolmente o inconsapevolmente) la verità: siamo infatti ben lontani dalle “k” anni 2000 che minavano la messaggistica e i blog, e dai forum che infiammano Facebook direi che di parole ne usiamo fin troppe. Eppure l’italiano di oggi non può non tenere in considerazione il suo mezzo d’eccellenza e la trasformazione che deriva dal suo uso costante: così, anche il linguaggio trappistico si muove tra intertestualità e cyberspazio – non dimentichiamo quello che si diceva nella prima puntata, che è un genere strettamente generazionale, e dunque digitale – e il senso, ammesso che davvero ci sia, assomiglia a un puzzle da ricostruire. In mezzo stanno dunque delle vere e proprie battute a distanza, che, singolarmente non ci dicono nulla, ma nell’ecosistema trap rimandano quasi sempre una carta memory corrispondente. Il citazionismo, già caratteristica dell’hip hop, assume nei testi trap diverse forme di riuso totale o parziale delle frasi, proprio come se funzionassero da ipertesti.

 

Tatuaggi qua e là, ma nei punti giusti

 

Da una recentissima indagine di Giulia Addazi e Fabio Poroli («Basta la metà». Osservazioni sulla lingua della trap italiana) emerge che una delle caratteristiche più interessanti riguarda non solo la ripetizione di questi sintagmi all’interno dell’opera dell’artista, ma anche all’esterno, rendendo omaggio a brani di altri, a dissing tra trapper avvenuti sui social o a situazioni ormai cristallizzate dall’immaginario collettivo. Nello specifico, per il primo caso, troviamo espressioni come «bimba atta’ lascia pe’», che il romano Quentin 40, con il suo inconfondibile ricorso ai troncamenti – definito da alcuni “flow spezzatino” –  utilizza sia in Giovane 1 sia nella sua parte in Thoiry, quasi volesse marcare la sua voce all’interno del featuring con Achille Lauro, Gemitaiz e Puritano. In effetti, molti di questi moduli espressivi nascono proprio con funzione identitaria, un po’ come gli ad-libs a fine verso. Ad alcuni piace così tanto giocarci che li inseriscono in punti precisi dei brani, creando una connessione ancora più forte. Per esempio, notano sempre i due studiosi, Ghali conia il suo «buona sa di mango e buona sa di pesca» e lo ripropone in Ninna nanna e in Pizza Kebab, al minuto 1:35 in entrambi i brani. E ancora, sempre restando nell’ambito dei riferimenti intratestuali dell’opera omnia, che con poco devono dire tanto (se non tutto di una storia), Gemitaiz fa l’occhiolino all’ascoltatore con quel «Davide come sta? me lo hai mai chiesto? / chiama un’ambulanza frate fai presto / che il sogno che avevo non è mai questo / mi sveglia, mi prende a calci e poi mi dà il resto», che è presente in Scappo via, Dancing with the devil e Davide di Gemitaiz, dove però la variante dell’ultimo verso «mi sa lo sai il resto» è un segno della auspicata ricezione della sua storia. Prendendo invece in esame gli aspetti intertestuali, cioè riguardanti la canzone italiana e/o la sua tradizione, si noterà nel verso di Cara Italia di Ghali «il cesso è qui a sinistra, il bagno in fondo a destra» un omaggio a Destra-Sinistra di Gaber, oppure in «adesso la tua voce non c’è, come Laura» (Bene) Gemitaiz evoca la mancanza con la iconica Laura di Nek in Laura non c’è.

 

Veloce come una sineddoche

 

Se ammettiamo la dipendenza dal digitale, dalle sue forme di senso frammentate, da una narrazione immediata e visiva, condita da non troppo mascherato nosense, allora occorre trattare il tema della velocità. So che lo stai pensando. Io però vorrei andare oltre quel frenetico digitare sugli smartphone, che consideri il vero problema. Di problemi, infatti, in questa lingua che cambia – sia chiaro, non dipende mica dai testi trap! – non ce ne sono. Che dire infatti dei legami logici plasmati da quest’ansia di dire tutto subito, senza troppi elementi e fissare nella mente dell’ascoltatore una instantanea? Shiva, per esempio, non ci dice che tiene il cash nelle tasche dei pantaloni, ma salta due passaggi con la sineddoche «cash nei miei Vlone», dove per Vlone si intende sia il brand lanciato da A$AP Rocky, A$AP Bari ed Edison Chen, sia la contrazione di due parole, che fungono da motto all’intera linea streetwear: “Live alone, die alone”. Altro escamotage anti-sbatti sembrerebbe la giustapposizione. In alcuni casi coincide con un primo grado, molto intuibile, di similitudine sottointesa (“come”), nel caso di «Sto due Campari da accamparmi col sole / contro» (Rkomi, Gioco), oppure con un secondo grado meno esplicito, senza il complemento verbale, come in «’sta storia Cyrano» (Achille Lauro, Cenerentola). Non dimentichiamo però la giustapposizione che coincide con l’ellissi: Achille Lauro omette il “sembra” in «È in un bicchiere di champagne, Dita von Teese» (Mamacita) e Mambolosco in «Onda energetica, Dragon Ball» (No cap). I trapper sfrecciano, Maserati.

 

Bibliografia

Gulia Addazi e Fabio Poroli, «Basta la metà». Osservazioni sulla lingua nella trap italiana (link)

E. Bisi, Numero zero. Alle origini del rap italiano, Milano, Feltrinelli, 2016.

L. Bandirali, Nuovo rap italiano. La rinascita, Viterbo, Stampa Alternativa, 2013.

G. Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, Carocci, 2012.

G. Cartago, “Ius music”, in I. Bonomi, V. Coletti (a cura di), L’italiano della musica nel mondo, Firenze, GoWare, 2016.

P. Zukar, Rap. Una storia italiana, Milano, Baldini&Castoldi, 2017.

A. Scholz, Subcultura e lingua giovanile in Italia. Hip hop e dintorni, Roma, Aracne, 2014.

G. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, Bologna, Il Mulino, 2010.


M. Costello, Il rap spiegato ai bianchi, Roma, Minimum fax, 2000.

 

 

Le precedenti puntate della serie Di cosa parliamo quando parliamo di Trap, scritta e curata da Beatrice Cristalli:

 

1. Tha Supreme (link)

 

Immagine: Gemitaiz ai Wind Music Awards 2016 presso l'Arena di Verona

 

Crediti immagine: Raphael Mair [CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_233.html

Di cosa parliamo quando parliamo di trap - 1. Tha Supreme

7rapper ma1

 

L’album si chiama 23 6451. Lui non si fa vedere, ma nelle stazioni di Roma e Milano ci sono le statue del suo avatar alte circa 5 metri. Il suo mantra è diventato popolare in tempi rapidissimi: «Swisho un blunt, a swishland / Bling Blaow come i Beatles / Blessing, Tic Tac, le prendo dal mattino». No, non è un linguaggio alieno, si tratta del mondo a fumetti di Tha Supreme (pseudonimo di Davide Mattei), giovane stella della trap italiana e già affermato produttore. All’inizio, lo confesso, non avevo capito un granché. Ma trovavo divertente il suo uso giocoso della lingua come terreno di nuove sperimentazioni, non necessariamente attinenti all’italiano. Mi sono chiesta cosa spingesse oggi un trapper a utilizzare un codice simile – sia visivo sia alfabetico – per diffondere le paranoie adolescenziali del dopo scuola. Ecco, l’impostazione della mia ricerca era già sbagliata. È il codice stesso che lui utilizza e non le intenzioni o le storie che lo precedono a dare una possibile traccia per parlare di lingua trap in Italia. Se siamo arrivati anche noi a riutilizzare il cosiddetto leet speak – oltreoceano l’utilizzo è legato soprattutto alla creazione di nomi d’arte –, se sia moda o no, significa in parte che le esigenze comunicative della trap stanno cambiando, e stanno cambiando per la generazione di cui si parla nei brani. Sia chiaro, Tha Supreme non è un portale evolutivo della lingua, ma può diventare un interessante oggetto di osservazione per identificare, fin dove è possibile, le direzioni della trap.

 

Morto senza wi-fi

 

Si dice che il genere trap sia un linguaggio strettamente generazionale. È il motivo per cui “ai più grandi” risulta essere incomprensibile e fastidioso, come una filastrocca mal riuscita. Cosa c’è di più generazionale se non il digitale? L’alfabeto leet utilizzato da Tha Supreme per marcare il suo stile è proprio un omaggio ai tempi della nascita delle reti, in particolare della sottocultura di Internet. Definito anche linguaggio nerd o hacker, si tratta di una forma codificata di inglese che prevede la sostituzione dei caratteri dell’alfabeto con altri elementi (lettere, simboli e numeri) simili nella grafica e nella fonetica. Così, tutti i titoli delle tracce di 23 6451 si trasformano: “Chi sei te” diventa Ch1 5ei te, “Noia” diventa No14, “Swingo” diventa Sw1n6o. Una volta imparato il trucco, la traslitterazione risulta semplice. Ma il digitale, nella cultura trap, è molto più di semplice forma. Costituisce infatti uno dei principali elementi del quotidiano dell’artista, che ha le mani (anche nei video) sempre impegnate a textare – “La testa mi esplode / il cell pure (ya)” –, a coltivare relazioni con profili social, dai quali è meglio prendere le distanze“E manda a fanculo i finti legami” –, a scrollare prodotti su Amazon – “Gua' che il talento non si compra col Prime” –. La vita della rete è riconosciuta immediatamente dall’ascoltatore, grazie a una reale frequentazione del mezzo e a una conoscenza delle mode che questo diffonde. Sarà allora chiaro il riferimento, in pieno stile dissing (“Ma sei un rapper starter pack e pure pacco”), al fenomeno social dello “starter pack”, che coinvolge quattro immagini rappresentative di un certo stile, e che viene utilizzato nel verso di Tha Supreme per rimarcare il risultato fallimentare dei rapper in erba che imitano le tendenze dei big in modo meccanico e poco personale.

 

Spaccio di filastrocche

 

Blunt, Bling Blaow, swisho. Un’altra caratteristica del linguaggio trap sembrano essere i neologismi, i prestiti e i calchi dall’inglese. Spesso sono i riferimenti alle droghe a giocare a nascondino e a creare nuove ambiguità lessicali. Ma questo non deve stupire. Trap è infatti la traduzione dello slang trapping, che significa “spacciare”. Ecco che le sostanze illegali sono mascherate nei testi da eufemismi (caramelle per la Dark Polo Gang) o da metonimie (tesla arancione per Capo Plaza). Per Tha Supreme invece è swishare la parola magica: l’apparente e simpatico scioglilingua rimanda all’attività di fare uno spinello con le foglie dei sigari di tabacco, conosciuti come swisher. Che ci sia anche un uso onomatopeico dei termini e/o delle espressioni gergali è fuori discussione. Bling Blaow è un modo di dire dal rap afroamericano che ripropone foneticamente il bagliore dei gioielli e semanticamente l’idea di benessere e successo, quello che Tha Supreme associa a uno dei topoi più conosciuti della scena musicale: i Beatles (“Bling Blaow come i Beatles”). Si crea così una catena allitterante che oltre alla bilabiale presenta il comune denominatore della consonante unita alla laterale (/bl/ e /tl/), un suono che ricorda il “bla bla bla” – forse il vuoto comunicativo dei testi che la stessa trap prende in giro – reiterato in tutto l’album. A marcare il codice dunque interviene la ripetitività, che lavora nei brani come un formulario che a poco a poco si impara a memoria. Ne fanno uso tutti, anche se in modi diversi. È evidente in quelle esclamazioni, attinte dall’hip hop americano e conosciute come ad-libs, che da controcanto a fine verso si stanno trasformando in vere e proprie onomatopee standardizzate. Tha Supreme si accontenta di qualche “ok” e “ya”, ma nel panorama trap italiano si sono cristallizzati “flex” e “eskere”, con tutte le varianti grafico-fonetiche “esketit”, “esghere”, “lesghere”, “sghere”, “eskereee”, “esghereee”. Introdotti dalla Dark Polo Gang, i neologismi, come il “Bling Blaow” di Tha Supreme, ruotano attorno alla sfera della fortuna e della affermazione del mestiere trap. Il primo è letteralmente il gesto che si fa per mostrare i muscoli, quelli che sorreggono “il peso” dei soldi, della fama e dei like. Il secondo, di origine incerta – forse da “Let’s get it” (“facciamolo”) – sembra significare, da un lato, sia il fare bottino sia un richiamo di approvazione (sulla falsariga del regionalismo “daje!”); dall’altro, nella forma “skrrt”, sembra riproporre il suono delle auto di lusso che sfrecciano. Qualunque sia il livello di consapevolezza nella creazione di un vocabolario estroso e fortemente ambiguo, possiamo dire che i brani trap... non sono solo canzonette.

 

Biblio/sitografia

E. Bisi, Numero zero. Alle origini del rap italiano, Milano, Feltrinelli, 2016.

L. Bandirali, Nuovo rap italiano. La rinascita, Viterbo, Stampa Alternativa, 2013.

G. Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, Carocci, 20122.

G. Cartago, “Ius music”, in I. Bonomi, V. Coletti (a cura di), L’italiano della musica nel mondo, Firenze, GoWare, 2016.

P. Zukar, Rap. Una storia italiana, Milano, Baldini&Castoldi, 2017.

A. Scholz, Subcultura e lingua giovanile in Italia. Hip hop e dintorni, Roma, Aracne, 2014.

G. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, Bologna, Il Mulino, 2010.

M. Costello, Il rap spiegato ai bianchi, Roma, Minimum fax, 2000.

 

genius.com <www.genius.com>

urbandictionary.com <www.urbandictionary.com>

 

Immagine: Statua promozionale dell'album 23 6451 in Stazione Centrale, Milano, attraverso Wikimedia Commons

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_204.html

Canzoni e parole nei cuori dell’itpop - 6. Cosmo

Fuori dalla metropoli c’è chi corre a una festa

 

Chi è nato in provincia lo sa. L’essere un uomo-di-territorio presuppone non solo una rivendicazione (orgogliosa o meno) di un legame intimo con il microcosmo di nascita, ma, molto di più, presuppone l’accettazione di una tensione dialettica tra quest’ultimo e l’altrove, dove per altrove si intende quello che nel piccolo mondo, per esempio, non è possibile. Difficilmente un’epica povera, per tradizione e geografia, può avvicinarsi all’ignoto. Perché nella provincia si vede e si comprende proprio tutto, anche se ci sono le pieghe. Si potrebbe pensare alla fuga, dunque, ricostruirsi in una nuova promessa di avventura. Alla fine è una sottile questione di ritmo quella che si ricerca, ma il ritorno è nei programmi e non si può fare diversamente. Lo so, già la stai cantando in testa, con quell’inconfondibile vocale medio alta anteriore: È sempre bello tornare. A Ivrea. Dove tutto si ribalta, a partire dall’orizzonte esotico dell’altrove di cui si diceva, che lì, tra musica − rigorosamente elettronica − e nebbia, diventa puro centro. Cosmo (Marco Jacopo Bianchi) è riuscito a risemantizzare il suo luogo di spaesamento esistenziale e di noia in un archetipo geografico potentissimo e tribale. Anche se la sua scrittura ricopre un ruolo di subordinazione rispetto alla cura stilistica musicale, è in grado di trasmettere, in particolare con le figure di suono, l’esigenza incontrollabile di trasformare il quotidiano in qualcosa che assomigli a un ballo senza limiti. La festa, infatti, è un tema ricorrente ed esibito nei titoli, si pensi a Un lunedì di festa o L’ultima festa: si gioca coi climax ascendenti − Il cuore mi scoppia, picchia e mi porta su −, dove oltre all’allitterazione è riconoscibile una sorta di sinalèfe sillabica che unisce, come in un suono unico, i primi due termini verbali in asindeto. E ancora, in Bevo la notte, sfido la morte rido −, che presenta nuovamente un climax in asindeto, la ricerca di simmetria e sintesi è riscontrabile nella scelta dei complementi, in particolare del primo, poiché la notte è sì corretta determinazione temporale, ma assume un significato metaforico se rapportata all’intero verso, dove il verbo bere regge tranquillamente un oggetto diretto come la notte, panteisticamente parlando. Anche in altri testi, lo schema ritmico è ripetuto, con una apparente passione per il modo verbale indefinito: dai participi, che, in fila, si accoppiano in rima (fatto, sfatto in Sei la mia città) all’accumulo di gerundio e infinito − percorrere i sensi vietati guidando veloce con gli occhi bendati raggiungerti e dirti mi piaci −, si crea un movimento che spiega anche la scelta del tratto morfosemantico. L’intenzione è l’accumulo, ma la fisicità dei suoni sembra non potersi manifestare in semplici immagini. C’è bisogno di azione. Pertanto, dove non arriva il nome − Se sei una zecca, sei un mostro, un barbone (Tristan Zarra) −, dove non arriva il participio, che è molto più vicino a un nome o a un aggettivo − Rinnegato, dimenticato, inventato (Bentornato) c’è sempre, poco prima o dopo, una riformulazione verbale diretta, come Mi muovo svelto / [...] passo veloce (Ho vinto) oppure Una gita sul lago / pedalò e vino bianco / a mille all'ora col suv / in un sentiero di fango / e dopo l'ora del tè / corriamo all'autolavaggio (Un lunedì di festa). Denominatore comune? La corsa libera e senza meta, che sa di libertà.

 

Esorcizzare il quotidiano con sintesi e schiettezza

 

Ivreatronic, però, è anche un vocabolario che si contrappone all’inibizione formale della città-metropoli e a tutto quel nazional-popolare che appesantisce le voglie (Le voci). L’abbassamento di registro e le scelte lessicali presenti nei testi sono coerenti con l’impianto comunicativo e poetico di questo territorio fuori dal centro, così la velocità di elocuzione, che poi è pensiero, necessita di termini generici ed espressivi allo stesso tempo. In sostanza, d’impatto, per rivendicare un’identità precisa. A partire dalle forme proverbiali o cristallizzate come slogan (anche generazionali) − Nulla è per caso (Impossibile), Era così per dire (Le voci), Fatti un giro (Turbo) −, il bagaglio informale si carica di parole generiche (tizio,cosa), interiezioni (oh oh e ahah, soprattutto in Turbo), onomatopee (toc toc), disfemismi e anche parole oscene. Su quest’ultime risulta interessante soffermarsi per l’approccio fonosimbolico del turpiloquio: i suoni delle parolacce, infatti, e non solo la loro componente semantica, contribuiscono alla risposta emozionale che esse causano. Ecco che tra le più frequenti, in un linguaggio genuino e impulsivo, si trovano le coppie classiche di occlusive, soprattutto nei verbi, come incazzare in Tutto bene, sfottere in Ho vinto, sputtanarti e sbocchi in Tristan Zarra, e le fricative, come in sfigati (Dicembre) o deficiente in Un lunedì di festa. Eppure, in un blocco lessicale simile, accanto al non-sense esplicitamente provocatorio di una (non) rima come polizia/pizzeria (Tristan Zarra), puoi trovare la parola nichilismo. In Disordine (2013), addirittura si citava integralmente Nietzsche. L’evoluzione, che ha mantenuto comunque un accordo con scelte di registro formale alto e colto, ha previsto una eliminazione del filtro. Perché per spiegare l’esistenza, a un certo punto, non serve nemmeno più il pensiero con le sue parole. Il lavoro di limatura, allora, si concentra sull’imbarazzo e le espressioni che nascondono gli impulsi. Se ti concentri lo senti [...] passa tutto attraverso la pelle (Animali), e con un semplice suono puoi tornare a essere per un po’ primitivo.

 

Bibliografia

G. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone, Il Mulino, 2010.

F. Dogana, Suono e senso. Fondamenti teorici ed empirici del simbolismo fonetico, Franco Angeli, 1983.

A. Scholz, Subcultura e lingua giovanile in Italia, Roma, Aracne, 2005.

G. Iannaccaro (a cura di), La linguistica italiana all’alba del terzo millennio, Roma, Bulzoni, 2013.

L. Zuliani, L’italiano della canzone, Carocci, 2018.

M. Bricchi, La lingua è un’orchestra, Il Saggiatore, 2018.

 

Canzoni e parole nei cuori dell’itpop

1 - La puntata introduttiva

2 - Calcutta, Gazzelle

3 - Galeffi, Germanò, Fulminacci

4 - Milano non è una città, è una _Cosa

5 - Cinque amici al bar

 

Immagine: Music studio

Crediti immagine: Trausti Evans [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_202.html

Canzoni e parole nei cuori dell’itpop - 5. Cinque amici al bar

Ci sono Maurizio Carucci, Olmo Martellacci, Simone Bertuccini, Francesco Bacci e Rachid Bouchabla davanti a un Corochinato. Lo sfondo è una città del nord, multiforme e post-moderna, un nucleo urbano che assomiglia a un nuovo quartiere e allo stesso tempo a un non luogo. Alla fine di tutto questo saliscendi, però, c’è il mare. Non è sempre vero che si sta meglio in cielo / C'è chi sceglie il mare e continua a nuotare (Mare). Il mare che non è solo lo sfondo dei racconti, ma l’ambiente perfetto dell’analisi emotiva, il mare che è ricordo e unico episodio cantautorale, qualcosa di vero da cantare, per fortuna. Al centro di queste onde si impongono quasi sempre i riflessi della società e l’assordante mancanza di riferimenti, in un mondo in cui c’è poco da salvare, ma forse solo perché fa comodo pensarla così. Ecco perché gli Ex-Otago utilizzano nel formato del contro-inno un autoironico cleuasmo: non ci si piange addosso nel ribadire che i giovani non valgono un cazzo (I giovani d’oggi), anzi, la iterazione accompagnata dalle accumulazioni di luogo − dentro i bar o sui metrò, in coda alle poste e in cima a un monte / Nei fast food, nelle auto blu, in parlamento in ogni momento −, che presentano un’alternanza sintattica rispettivamente con disgiunzione (o), congiunzione (e) e asindeto, diventa funzionale alla manifestazione di un’assenza di argomentazioni sul tema. Ciò che invece è visibile sono “i regali” borghesi (più o meno apprezzati) del passato, anche in questo caso, presentati in perfetto stile otaghiano, secondo un elenco facile da ricordare, per suono e immagine: i pregiudizi delle persone perbene (con allitterazione della labiale sorda), i partiti che sono scatole vuote (con metafora), la Salerno Reggio-Ralabria, gli Esselunga, Miss Italia (con la ripetizione della doppia sibilante), e ancora, una lunga fila di seconde case e spiagge private (con allitterazione della sibilante per il primo e il secondo termine e chiasmo nella forma aggettivo:nome:nome:aggettivo).

 

Un elenco puntato per dire cosa siamo

 

Questa storia degli elenchi, per gli Ex-Otago, non è semplicemente un espediente retorico-sintattico. Si diceva del Corochinato, che diventa titolo del loro ultimo album. Sin dall’inizio della sua storia nel 1886 è conosciuto come l’aperitivo tradizionale del capoluogo ligure per la sua inconfondibile formula, che lo rende un paciugo armonioso, ovvero un mix di vino bianco (di Coronata), corteccia di china, erbe e spezie. Perché Genova è molto più di una semplice città di mare, e per gli Ex-Otago c’è bisogno di un linguaggio che non solo sappia raccontarla, ma che sappia descrivere la contemporaneità con il suo ampio respiro e sconfinata varietà, racchiusa nella sua storia. A esplicitare i dettagli dei cliché generazionali, come i radical chic del Nord (Milano?), ci pensano i sintagmi autonomi con asindeto, che riproducono prototipi ormai cristallizzati, ovvero Balli l'elettronica / Leggi Erri De Luca / Moriresti in una spiaggia in Va tutto bene, oppure Per capire uno sconosciuto, per dormire in un bosco (con anafora della preposizione), per arrivare a un livello massimo di semplificazione sintattica e lessicale, con la varietà di sintagmi verbali con complemento e lessemi sciolti, come Subaffitti appartamenti / Modelle, prosecco, investimenti. Anche l’alterità a cui si fa riferimento, solitamente con dialogismo (Hey, tu, come ti senti? Che cosa sei?inCinghiali incazzati) è un tu multisfaccettato, a volte incoerente e confuso, come del resto l’io, che è un suo specchio e non smette di cercarsi: Siamo filosofi operai, faccendieri disperati, cinghiali incazzati (con rima baciata al mezzo); Sono una foto ricordo che non ho vissuto (con adynaton); Io sono tutti i miei casini (con abbassamento di registro).

 

La fine dei vent’anni è trovare un parcheggio - forse

 

Ci sono vari modi per prendere una posizione nel definire il nostro ora e ciò che stiamo diventando. Se il gruppo ligure preferisce un utilizzo più indiretto di immagini e topoi, un altro rappresentante della scena musicale italiana regionale, in questo caso, della Toscana (anche se in parte), si assume la responsabilità poetica di guardare al di sotto del desiderio di una felicità sempre più matura, che si nasconde nell’andamento narrativo delle canzoni. Non è un caso, allora, l’anastrofe del titolo della traccia Del tempo che passa la felicità, che, con l’inversione sintattica del termine di specificazione, pone l’attenzione proprio sull’evoluzione percettiva di se stessi, in vista di un possibile parcheggio (La fine dei vent’anni) in cui riuscire − forse − a provare qualcosa di simile alla felicità. Con uno stile diretto e allo stesso tempo sospeso, Francesco Motta, pisano con Livorno nel cuore ma romano d’adozione, soffia il sentimento di chi si sente cambiare continuamente in aforismi autosufficienti, spesso concentrati nell’ampiezza fonica dei verbi all’infinito − Ma abbiamo sempre qualcuno da salvare / E da baciare (La fine dei vent’anni); Vivere o morire / Aver paura di tuffarsi, di lasciarsi andare / E di lasciarsi andare (Vivere o morire); Tu non chiedermi come andrà a finire / E se non so da dove cominciare (La prima volta) − e nella congiunzione a inizio verso, che da ritmo incalzante riesce a trasformarsi, in questo viaggio nella consapevolezza, in più possibilità meditate, come E ti sei persa nel tempo, E se ti basta così, E ti sei già innamorata in Chissà dove sarai, oppure E tu fai il mostro / E io che ritorno bambino in Mi parli di te. La ricerca poetica del cantautore si evidenzia anche a livello metrico-sillabico, soprattutto nella cura per le consonanti doppie, che contribuiscono a regolarizzare la lunghezza dei versi in coppia, a conferire tra questi ultimi una simmetria tagliente di suono e significato, come La puzza di gente / Raccontare le storie (Roma stasera). Una simmetria è riconoscibile anche nelle rime, a volte incatenate (Sono schiaffi della mente / Sono strade senza un senso / E che non portano mai a niente in Prima o poi passerà), a volte baciate (Dei tuoi sogni dispersi / Dentro cassetti vuoti milioni di versi in Del tempo che passa la felicità), a volte al mezzo (Avevo diciott'anni, ero da solo in mezzo a tanta gente / Festeggiavo ancora i compleanni in Vivere o morire). Motta chiude e apre i suoi temi senza mai avere la presunzione di dire qualcosa di giusto, e si avvale di numerosi avverbi di dubbio, quali forse (spesso in anafora) e chissà, e di negazione (non). Ecco che l’equilibrio della sua lingua si carica di nuove misure, come quelle che prima o poi siamo costretti ad accettare, come la vista, alla fine di un’era, di uno spazio in cui non sbagliare più e trovare una porzione di pace. 

 

Bibliografia

G. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone, Il Mulino, 2010.

A. Scholz, Subcultura e lingua giovanile in Italia, Roma, Aracne, 2005.

G. Iannaccaro (a cura di), La linguistica italiana all’alba del terzo millennio, Roma, Bulzoni, 2013.

L. Zuliani, L’italiano della canzone, Carocci, 2018.

M. Bricchi, La lingua è un’orchestra, Il Saggiatore, 2018.

 

Canzoni e parole nei cuori dell’itpop

1 - La puntata introduttiva

2 - Calcutta, Gazzelle

3 - Galeffi, Germanò, Fulminacci

4 - Milano non è una città, è una _Cosa

 

Immagine: Music studio

 

Crediti immagine: Trausti Evans [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_195.html

Canzoni e parole nei cuori dell’itpop - 4. Milano non è una città, è una _Cosa

Partono dall’immaginario pop-iconico, si scontrano con il sopore di una metropoli che si risveglia continuamente nell’impotenza, risorgono in un codice impossibile e per questo poetico, grazie a una partitura impetuosa di linguaggio e retorica. Il cantautorato dei Coma_Cose, il duo underground composto da Fausto Zanardelli (Lama) e Francesca Mesiano (California) non può raccontare Milano con un solo colore. La loro sfumatura sta sempre lì, tra intensità per barra e selezione itpop, anche se viene continuamente spostata, quasi come una nota che arriva in ritardo. Il nuovo linguistico percepito, però, non può nemmeno avere la forma del mai-visto. Dichiaravano, in un’intervista al Corriere della Sera, che in musica è ormai impossibile inventare. E appunto, visto che la radice latina stessa – invenio – richiama la ricerca (“trovare”), sta nella pratica di mixaggio la cifra identitaria del loro mondo in “coma”. Già a partire dal nome, quel _Cose – rigorosamente con il trattino, perché si può essere tutto  – è indicativo di una presa di posizione non solo nei confronti del progetto artistico specifico, ma anche nei confronti della possibilità dell’arte. Non a caso, in Nudo integrale si parla di libertà nei termini di non appartenenza, con un chiaro ammiccamento  alla tradizione della canzone italiana, cristallizzato nella espressione Se vuoi tu chiamala incoscienza (Tu chiamale se vuoi, emozioni). Di questa libertà (di costruzione) risuona il linguaggio, alimentato costantemente da citazioni della tradizione rovesciate (da Battisti a Vasco Rossi) e giochi linguistici, tra figure di suono e di parola ai limiti del nonsense.

 

Come te lo racconto il vuoto?

 

Milano, in primis, è un ritmo che non puoi prevedere. Le punchline dei Coma_Cose si caratterizzano infatti per un’alternanza frequente di rime ricche con consonanza (Farseli/spaventapasseri in Mancarsi; inizia/amicizia in Beach Boys distorti), di rime equivoche (mia gola è/via Gola in Via Gola), di rime ricche (fame/edamame in Mariachidi; farseli/spaventapasseri in Mancarsi; dromedario/Dario in Deserto) di rime baciate (grigia/valigia in Mancarsi; gonne/colonne in Deserto) e di bisticci sonori reiterati, quali le paranomasie (apice/salice/anice/calice in Anima lattina), tre sdruccioli in chiusura che rompono la modularità ritmica e da suono vogliono farsi significato, nell’attesa che un elenco di dettagli faccia il lavoro di un racconto. Un elenco che quasi sempre si raggruma a fine verso, dove trovano spazio parole-tandem nate da un accostamento semantico che ricorda l’analogia: invece di usare la classica similitudine, che forse avrebbe allungato il sintagma e di conseguenza il pensiero, le gole secche che percepisci a fine estate dopo aver mangiato la frittura di calamari del Naviglio vengono immediatamente unite al Kalahari (paronimo di calamari con mistilinguistimo), un deserto che puoi non conoscere ma l’aspirata nel tuo orecchio significa sempre calore, e non ti servono ulteriori passaggi linguistici. E ancora, sempre in Deserto, a indicare la solitudine della città vuota e di un cuore stanco, basta dire che si ha un cuore deserto, dromedario, con allitterazione congiunta. Deve bastare un sintagma per dire tante _Cose. L’utilizzo delle figure di costruzione viene portato in extremis quando alcune espressioni, tipicamente gergali e generazionali, diventano altro poco prima che si concluda il verso, per esempio: fame-chimica pisce e ho la sindrome di Peter Pan di stelle in Post concerto. L’accumulazione dei particolari non è da considerarsi opposta al lavoro di sintesi: parlare del vuoto significa parlare del troppo che sta in piccoli spazi, ecco perché tutto si mischia.

 

Cambiare accento per cambiare tutto

 

La dialogicità strutturale che ricorda la zona rap funziona perfettamente accanto al riuso intertestuale, che attinge dalla canzone d’autore intimista, dalla letteratura e dal cinema. Le esclamazioni ricorrenti quali uh, seh, ah, eh e segnali discorsivi, per esempio lo vuoi sapere che ho scoperto in Deserto o Che poi cosa c'entra la Francia me lo devi dire in French Fries, come lo slang generazionale (va in para in Jugoslavia), nel “frullatore” linguistico servono per bilanciare una serie di rimandi precisi ma rimodulati agli insegnamenti poetici del passato. In alcuni casi è anche esplicitamente dichiarato, con affermazioni come Il mio artista rap preferito è De Gregori (Deserto) o con metononimia come nel verso Profondo rosso come Dario (Deserto). La citazione vera e propria, però, possono cantartela solo distorta, scombinando le carte. In effetti basta poco, come quella “t” che in Anima lattina si appropria dell’universo battistiano per restituirlo alla desolazione delle chiacchiere tra le birre in Ticinese, un passatempo possibile per sentirsi meno impermeabili alle emozioni. Le mosse strategiche poi invadono anche la sintassi, con un’inversione di complemento come in Mangiando una scuola coi libri di mela (Nudo integrale), che nasce nella sua forma corretta (semanticamente) in Albachiara di Vasco, e ancora, O dammi una lametta che mi taglio le venerdì, divienela versione più disinvolta e contemporanea della Rettore, con una personificazione che è sì nonsense, ma nei respiri della metropoli parla di verità. Solo in questo equilibrio continuamente da ricostruire l’ansia si unisce al romanticismo, e il vuoto più diventare bello, se cambi accento, se sposti il dito.

 

Bibliografia

Andrea Laffranchi, Coma Cose, gli ex commessi e il successo a colpi di giochi di parole, corriere.it, 23 maggio 2019 (link)

G. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone, Il Mulino, 2010.

L. Zuliani, L’italiano della canzone, Carocci, 2018.

M. Bricchi, La lingua è un’orchestra, Il Saggiatore, 2018.

 

Canzoni e parole nei cuori dell’itpop

1 - La puntata introduttiva

2 - Calcutta, Gazzelle

3 - Galeffi, Germanò, Fulminacci

 

Immagine: Music studio

 

Crediti immagine: Trausti Evans [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_191.html

Canzoni e parole nei cuori dell’itpop - 3. Galeffi, Germanò, Fulminacci

Istruzioni per cercare il ritmo

 

A Galeffi piacciono solo le parole. Germanò racconta le storie. Fulminacci intreccia chitarra e analisi sociale. L’ultimo viaggio nella lingua e nello stile romano è dedicato a un ricco sottobosco di emergenti, in crescita rapida. E anche se il paragone con i big diventa spontaneo, le influenze musicali e di scrittura non passano necessariamente da Roma. Ritornano tuttavia come un boomerang nella capitale quando si tratta di confezionare l’idea di amore, molto di più di una chimera eppure pensiero ossessivo e oscillante tra il desiderio di fermarsi e la paura di ricominciare ogni volta. Una instabilità di fondo che si insedia nei dialogismi, nel solipsismo di chi si immagina la sconfitta e – forse – la risalita, anche se è sempre un’autoconvinzione: Già mi immagino quando dovrò cambiar percorso per andare al bar / Per evitare di rispondere alla domanda come stai? / Sto bene e invece tu? Dai, cosa mi racconti? (San Cosimato). Germanò, anche se è italo-australiano, ricorda il purismo del cantautorato anni 2000, con una passione (poco contemporanea) per i dittonghi in sede finale di verso, per modulare il percorso di un ricordo che si manifesta piano piano. Al posto dello slogan urlato e agli accenti da parola tronca, nel testo di San Cosimato, dove di norma –  secondo lo schema romano – troveresti una consonanza bar/come va, inserisce una emissione di voce più lunga e discendente quasi in reverb (stai) o ascendente (passioni/vieni; passioni/lezioni, dai un giorno se puoi vieni), anche se poi opta in conclusione per una chiara rima baciata (italiana/settimana). Non si escludono però le riuscite chiuse di frase (compreso il ritornello), come nel testo di Per non riprendersi, dove il mai più insiste su una consapevolezza presente: è possibile sedersi una volta per tutte su un rimorso.

 

Un amore al punto zero

 

Si dice che l’indie pop sia prevedibile, soprattutto nello schema ritmico, nella frequenza di parole con cui viene filtrata una storia. Per Galeffi non è importante collocarla, né geograficamente né temporalmente, anche perché ci troviamo, quasi sempre, prima di un amore che si intende conquistare, con la forza delle immagini. Roma, sua città di origine, rientra in una sola occasione, nella inequivocabile evocazione del 10, alla fine dell’album Scudetto: Tottigol. Il contesto è un paesaggio neutro che si costruisce sui passaggi a testimone tra le anafore e le vocali medio-aperte (e medio-chiuse). L’impressione è quella di avere sul tavolo un numero considerevole di polaroid per capire il messaggio, dalle quali si attinge solo un elemento, una parola appunto: le occhiaie dell’omonima traccia richiamano una moka, necessaria per svegliarsi e trasformare in lancette i baci, che rivitalizzano un cuore, da affittare (Occhiaie). Si tratta di un immaginario semplice e immediatamente adolescenziale, dove l’esperienza amorosa si spende in dinamiche ludiche (Dai giochiamo a campana sul mio letto da re), vive di espressioni intime  (per favore), di onomatopee (tic tac / tic tac), personificazioni (Chissà che fine ha fatto il tuo cuore / Fammi un po' di posto dentro di te / M'hai fatto lo sgambetto), dialogismi generazionali (ritorna il “presa male”, con la variante presa a male, oppure ciao un corno) ed esclamazioni (madonna se fa male).

 

Le possibilità dell’indie social, ma quello senza foto

 

Di fronte alla passione amorosa c’è un atteggiamento comune, anche se le lingue parlano vocabolari indie differenti. Perché se Galeffi intende innamorarsi per farsi accartocciare, quasi evocando una richiesta di azione da parte dell’amata – azione che si intende subire per cambiare pelle –, Fulminacci riesce, in una scrittura più narrativa, a invadere il testo con imperativi che costituiscono essi stessi dei versi: Strappami la testa tra le nuvole / Poi nascondimi / Pregami / Buttami / Accendimi / Ascoltami / Arrenditi (Una sera). Una scelta stilistica che, in questo momento artistico, trapassa l’indie per contaminare una sfera difficilmente etichettabile come C’est la vie di Achille Lauro (1969), dove ricorre il medesimo schema di invocazione, qui dopo un sintagma, in chiusa di frase: So che puoi farlo, finiscimi / Aspetto la fine, tradiscimi / Poi dimmi, "È finita", zittiscimi. Ma la riconoscibilità di Fulminacci riguarda la sua attenzione per l’analisi sociale, che racconta come se fosse un’invettiva leggera, con un’ironia non generazionale. E poi Roma ritorna, sia nell’analisi sociale, sia nella visione romantica, sia nel dialogismo: Dalle mie parti ci sono più buche che asfalto (Borghese in borghese); [...] l’aurelia è troppo fredda (Una sera); che buona la gricia (La soglia dell’attenzione). Amante delle consonanze e delle metafore, è maestro nel formulare sentenze, universali e contemporanee allo stesso tempo. La vita è solo una manutenzione di una circostanza (I nostri corpi), tanto per fare un esempio. Sembra che le malattie della società siano tutte chiare, dalla inautenticità sentimentale (Odio gli artisti, i narcisisti / Ma sono pazzo di me / E mi si rompono / Perché mi cascano / Tutti i rapporti che compro / E voglio troppo / E spendo tanto in La vita veramente; [...] i nostri dubbi scrivono la nostra storia di finzione in I nostri corpi), ai blocchi emotivi (Sono vittima di una paura, di una resistenza / Alle cose che vivo in Resistenza), alle maschere sociali (Guarda che strana, che stronza la gente / Forse non è vero niente in Davanti a te) e all’insofferenza nei confronti di una velocità non pienamente condivisa (Vorremmo essere svegli se siamo stanchi / E alla mattina alzarsi con la delusione in I nostri corpi). La sentenza sembra apparentemente entrare in collisione con le domande che lascia aperte. Ma è impossibile metterci un punto quando si è in strada e non ci si ricorda di nessuna partenza (Resistenza). E anche la maturità non sono più gli anni, ma l’essere immersi seriamente nelle cose, come dovrebbe essere la Vita veramente.

 

Bibliografia

  1. Cavaliere, Romantic Italia: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Minimum Fax, 2018.

Gianni Santoro, Calcutta, il disagio di un cantautore venuto da Latina: "Volevo fare un disco mainstream", repubblica.it, 23 novembre 2015 (link)

  1. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone, Il Mulino, 2010.
  2. Zuliani, L’italiano della canzone, Carocci, 2018.
  3. Bricchi, La lingua è un’orchestra, Il Saggiatore, 2018.

 

Canzoni e parole nei cuori dell’itpop

1 - La puntata introduttiva

2 - Calcutta, Gazzelle

 

Immagine: Music studio

 

Crediti immagine: Trausti Evans [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_189.html

Canzoni e parole nei cuori dell’itpop - 2. Calcutta, Gazzelle

Estetizzare banalità, o forse no

 

Se vi dico la parola “kiwi” avete già capito. E non ve la ricordate perché è una parola che “stona” in una canzone – con la lingua si può tutto –, ve la ricordate perché chi l’ha usata ha saputo localizzare un sentimento. Quanti di voi hanno visto un campo di kiwi vicino a Latina? Pochi. Eppure mentre ripercorri la litania di Calcutta, te lo riesci perfettamente a immaginare quel contesto umido e agreste, dove si litiga e si ama. È un mondo che esiste, in fondo, ma in alcune parole sembra esistere di più, proprio per la carica evocativa che un sostantivo, un verbo e un neologismo riescono a trattenere. Se gli altri colleghi romani (Thegiornalisti, Carl Brave e Franco 126) si dilettano in anafore, esclamazioni e mix dialettali, il «cantautore di Latina» si attiene alla linea tradizionale indie dell’immagine come veicolo di significato, che vive di ambiguità e bellezza. Due cose che possiamo anche sovrapporre. La scelta della parola, pertanto, oltre a essere importantissima per il non-detto, deve diventare iconica, superare il picco emotivo del ritornello per raggiungere un nuovo territorio: lo slogan. Principalmente generazionale, ma non sempre presente, si caratterizza per un motivetto urlato e ormai cristalizzato nel quotidiano. A volte, come nel caso di “Io sento il cuore a mille” (Paracetamolo), è anticipato da frasi banali e informative, come “Lo sai che la Tachiprina 500 / Se ne prendi due diventa mille”, e la canzone può anche farne a meno, come in Saliva: la sequenza “la x più bella/buona che x”, con le sue varianti a rima interna (“La cosa più bella che hai sono i nei”) e semplici (“La cosa più buona che ho”; “La cosa più bella che hai”) diventa essa stessa il tema-ripetizione in grado di colmare il vuoto del ritornello. Lo schema tuttavia è riconoscibile: allo slogan si accompagna una forte sentenza poetica, in grado di garantire il gioco di fine equilibrio tra evocazione e medietà. Ecco che accanto all’inconfondibile frequenza di “Ué deficiente” (Pesto) troviamo altri ritmi, una sublimazione del parlato/urlato, a tratti surrealistica: “[...] mangio il buio col pesto / non mi piace, ma lo ingoio lo stesso”; “Negli occhi ho una botte che perde”; “Mi sono addormentato di te”.

 

Amare fa rima con pungicare

 

Nel mondo di Calcutta tutto è possibile. Il Duomo di Milano può diventare “paracetamolo sempre pronto per / le tue tonsille” (Paracetamolo) e il desiderio di essere amati si riflette nel farsi “pungicare” (Kiwi). Già al primo ascolto il significante comunica, ma quella strofa potrebbe insegnarci qualcosa. Così, dalla playlist indie “Le parole delle canzoni” firmata Treccani è nata una rubrica che con brevi post recupera la funzione Genius di Spotify, una sorta di “nota dietro il testo”. Sul termine “pungicare”; in particolare, viene fornito non solo l’etimo, ma informazioni sulla ricerca stilistica (lessico amoroso arcaico, «che usava Carlo Goldoni») e sull’uso figurato nel contesto narrativo della canzone (kiwi « è rafforzato dalla metafora dell’alveare sotto il cuscino, che introduce i versi in cui il narratore dichiara all’amata di essere disposto a farsi punzecchiare e, più avanti nel testo, a subire dispetti ben più pesanti»). Ma Calcutta non sa solo usare bene i nomi. Tutte le città menzionate nelle sue canzoni rappresentano una chiave di lettura personalissima e ragionata del suo immaginario, che mette ordine al caos di una storia raccontata sempre a metà. Come si fa in poesia. C’è chi ha disegnato addirittura una vera e propria mappa dei suoi percorsi, in pieno stile calcuttese (calcuttamappadi.it, che richiama il nickname social calcuttafotodi), con schede informative sul verso incriminato, testo e album di riferimento. Si parte da luoghi di provincia vicino a Latina (“Stazione di Fondi” in Hubner; “Mi dispiace scendo a Cisterna” in Isabella; “Ci sposeremo a Pomezia / dove tutto è impersonale” in Pomezia), per arrivare a personificazioni (“Pesaro è una donna intelligente” in Cosa mi manchi a fare; “Milano è un ospedale” in Paracetamolo), a luoghi comuni (“Venezia è bella ma non è il mio mare” in Hubner) e infine a rime per l’orecchio con utilizzo di mistilinguismo, con sottile ironia (“Ma poi da me non vieni mai / Che poi da te / Non è Versailles” in Paracetamolo).

 

Tra presi male e grandi sbatti

 

Che piaccia o no, i luoghi sono solo «contenitori di significati», come dichiarava Calcutta in un’intervista a Repubblica. Si diceva che organizzano, ricreandola, un’atmosfera contemporanea di disagio e ansia, che, pur nella sua particolarità, ha ampio respiro, sempreverde. Un po’ come quella notte in cui potevi “dormire da Giulia”, come ti dice Gazzelle in Scintille. Le sue storie parlano la stessa lingua indie – universale −, ma Roma sembra essere ormai fuori dai giochi. Il rumore di sottofondo è la solitudine della notte: il “buio col pesto” da mangiare per uscire e respirare la mediocrità si trasforma in “nero”, anche se la sfumatura – purtroppo – non è poi così chiara per lamentarsi (“Nemmeno è tutto nero” in Nero). E poi c’è più Milano che zona Prati: non appena, nei primi versi di Punk, si parla di un “bacio congelato, sapeva di Milano”, la “metropolitana a mezzanotte e mezzo” che immagini non è romana, ma “sa di tour”. La sua scrittura non si ferma mai in un luogo preciso (anche se si farà “un figlio all’Isola del Giglio” in Sbatti), ma accoglie, con una passione per l’accumulo e le anafore (“Momenti in cui [...] / Momenti che lo sai [...] / Momenti che non basta [...]” in Scintille), espressioni da anni 2000, che ricreano ugualmente uno sfondo new-romantic adolescenziale in cui si ricorda qualcosa che si è lasciato andare, alla soglia di un’età precisa: i quasi 30. “Attacchi prima tu / O attacco prima io?”; “E arriveremo tardi a tutti i nostri sbatti” (Sbatti); “Preso male che non c’è / Più nessuno come te”; “Quando faccio schifo” (Punk). L’ironia di Gazzelle non è spietata come quella di Calcutta. Gioca invece bene sul doppiosenso, soprattutto quando contribuisce a detabulizzare alcune zone del privato, come il sesso. Lo fa, per esempio, nella hit Sopra, con quel “sotto” reiterato fino a diventare solo suono: “sotto sotto sotto sto bene” può essere l’ultimo scalino del cuore (si pensi al modo di dire “sotto sotto”), ma nel complesso testuale del pezzo acquisisce anche un altro significato, se ci si sofferma sul “come quando mi stai sopra”. E ancora con quel “Palato nel palato, ora sembra di capirci / Sembriamo quasi amici” (Punk) si prende gioco dell’intimità e dei ruoli relazionali. Non c’è soluzione a questo amore arrabbiato e inconcludente. Ma un luogo preferito sì. Perché anche se puoi andare a “dormire da Giulia” o “con Fede”, c’è un Gazzelle che si ritira da solo “nel fondo di una bottiglia” (Scintille).

 

Bibliografia

  1. Cavaliere, Romantic Italia: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Minimum Fax, 2018.

Gianni Santoro, Calcutta, il disagio di un cantautore venuto da Latina: "Volevo fare un disco mainstream", repubblica.it, 1° febbraio 2019, Spettacoli

  1. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone, Il Mulino, 2010.
  2. Zuliani, L’italiano della canzone, Carocci, 2018.
  3. Bricchi, La lingua è un’orchestra, Il Saggiatore, 2018.

 

Canzoni e parole nei cuori dell’itpop

1 - La puntata introduttiva

 

Immagine: Music studio

 

Crediti immagine: Trausti Evans [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]

 

 

 

 

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_185.html

Canzoni e parole nei cuori dell’itpop - 1

"Rivoluzioni" da cuffiette

 

Le playlist di Spotify rappresentano l’inizio. Intendo quelle che selezionano, in base ai tuoi gusti musicali e ai tuoi ultimi ascolti, le canzoni del momento. Senza accorgertene impari tutti i nomi degli artisti ma, come accade per le scoperte della poesia 2.0, raramente decidi di approfondire qualcuno e ascoltare la discografia. In fondo, le playlist sono nate per questo: offrici qualcosa che non abbiamo il tempo di fare. L’immediatezza, guarda caso, è anche la chiave di tutti questi testi italiani della scena post-indie, che non passano inosservati per varietà linguistica e, soprattutto, per una forte matrice identitaria. Lontani dai cliché, con un lessico ricco e una neo-metrica equilibrata, i gruppi dell’itpop fotografano bene il passaggio dalla cosiddetta «lingua domopack» al «complesso pop», come insegna Giuseppe Antonelli. Negli ultimi tre anni si è fatto un ulteriore passo avanti. Oltre a riconoscere in questo italiano neopopolare l’osservatorio privilegiato per studiare l’evoluzione della mentalità linguistica di una generazione – nello specifico under 30 tra selfie e «Polaroid» –, si intravede una diversificazione regionale e/o per poli quasi metropolitani, che si fanno epicentro delle poetiche. Ciò che stupisce, è che questa percezione non è confermata solo dalle parole, ma è vissuta, viva nei fatti. Ai karaoke si preferisce ormai urlare i ritornelli di Calcutta, nei locali l’itpop si può ballare, le atmosfere che queste tracce ricreano sono inequivocabilmente italiane e a misura di contemporaneità. I riferimenti sono concreti come quello che vedi ogni giorno nella tua città, e l’aspetto più interessante è che anche se a Trastevere non ci sei mai stato, i «sushi bar» di Carl Brave li conosci molto bene, ma se Mahmood canta di un «uramaki» prima di andare via, tu pensi subito a una palazzina di Milano. Questa lingua ha tante nuove sfumature ed è finalmente un italiano-italiano vero.

 

Completamente Roma

 

Il primo nucleo da affrontare è quello romano. Pare che l’itpop nasca proprio lì, dopo un tormentato e molto apprezzato inizio mainstream firmato Thegiornalisti. Isabella Benaglia in Thegiornalisti. Roma, Riccione, Pamplona e altri lidi (Arcana, 2018) ricostruisce la strada che ha condotto il gruppo romano verso una canzone più genuina, autentica e universale: dalle immagini indie che caratterizzavano un brano come Pioggia nel cuore, ricco di avverbi accentati in punta di verso (girando su e giù; che piangono blu; perché sei già qui; non ti aspettavo più, ti mando un vocale ecc.) e di ricerca linguistica (se il sole si appresta; solo un tonico di acqua calda) si arriva in gran velocità a testi che da un lato sono coinvolti in un processo di desublimazione verso la lingua parlata (faccio a schiaffi; fatto di te; quando la merda vola alta; giuro smetto di sbronzarmi; ecc.), mentre dall’altro presentano una riformulazione di assonanze e consonanze che si alternano a vere e proprie ripetizioni (come se fossero te, come se fossero te; ma che botta ci dà, ma che botta ci dà; ecc.) quasi sempre in chiusura di frase, ed esclamazioni tipiche e ormai cristallizzate nel nostro immaginario collettivo. Si pensi, per esempio, a quell’eh eh alla Vasco che ricorre nell’album Sold Out. Come evidenzia Luca Zuliani in L’italiano della canzone (Carocci, 2018), la scrittura dei testi è cambiata anche in virtù di un frequente rovesciamento di priorità – «oggi, quasi sempre, prima nasce la melodia e poi arrivano le parole» –, dunque la pressione del codice interno (la grammatica), la norma e il modello poetico sono costretti a rispondere e adeguarsi a sperimentazioni sonore che hanno esigenze nuove dal punto di vista linguistico. Il synth anni ’80 nel 2019 non può di certo parlare la lingua della tradizione pop (più bella cosa non c’è).

 

Cresciuti in mezzo ai sanpietrini

 

Se l’Italia vissuta dai Thegiornalisti è sicuramente Roma, che riconosci anche quando si parla di Riccione (aquila reale per la Lazio, ad esempio) e che si carica indirettamente della tradizione cinematografica di De Sica-Boldi insieme a tutti i luoghi comuni italiani (il mare, le nottate in auto, la notte, il pentimento dopo una dichiarazione, il calcio), diventa necessario specificare di quale Roma si sta parlando, perché nelle cuffie stai già ascoltando un singolo di Carl Brave e Franco 126. Se in zona Prati puoi sfrecciare a duemila sotto un lampione (Sold Out), solo in Piazza San Cosimato e dintorni puoi fare una rima Miyazaki/Inzaghi/spaghi (Tararì Tararà). Prima ancora del flow trap, nei testi del duo di Trastevere spicca una ricerca linguistica originalissima, che a volte ricorda gli stornelli romani. La cruda romanità è onnipresente, soprattutto nelle espressioni dialettali da slang (pellaria; namo; famo du spaghi; t’hanno bocciata; m’incoccia; zozzone; bacetto; fijio; ecc.) perché non può essere raccontata in altro modo: è quella che senti realmente nelle strade dei quartieri, dove ci sono i fiori cresciuti in mezzo ai sanpietrini (Sempre in 2). A differenza dei colleghi di Roma Nord, che si divertono con testi brevissimi e ripetizioni, in queste storie si evidenzia una particolare attenzione alle sfumature del parlato, dai dialogismi (Come stai?) alle esclamazioni (hei hei; eh) e alle rime per l’orecchio che utilizzano il mistilinguismo (Iphone/Sauvignon; Levis/Trevi; Carrera/Favelas, solo per citarne alcune). La cura linguistica arriva persino a convincere un milanese, che alla citazione di Momart (Tararì Tararà) associa l’idea di un locale alla moda, anche se si sta sempre parlando di qualcuno che vuole portare la sua ragazza a una mostra, a Roma. Tutto, alla fine, costituisce una rete di elementi originali e caratterizzanti che riesce a parlare sempre e solo di una cosa: l’amore. Un amore che sa di solitudine, di messaggi non inviati, sbagli, fotografie e vocali su WhatsApp. Ma parla così tante lingue da risultare malinconicamente (come l’indie insegna) esplosivo.

 

Bibliografia:

G. Cavaliere, Romantic Italia: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Minimum Fax, 2018.

I. Benaglia, Thegiornalisti. Roma, Riccione, Pamplona e altri lidi, Arcana, 2018.

G. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone, Il Mulino, 2010.

L. Zuliani, L’italiano della canzone, Carocci, 2018.

M. Bricchi, La lingua è un’orchestra, Il Saggiatore, 2018.

 

Immagine: Music studio

Crediti immagine: Trausti Evans [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_176.html

Cantare la verità. Parole di donne nella poesia contemporanea - 4

La lingua di una stagione che inizia

 

«Coraggio è un nome di figlia» (Nikki Finney). Esistono parole che hanno in sé la capacità di provocare un aumento di vitalità, quasi fossimo nella dimensione performativa della vita o dell’evento, che solo la poesia riesce a spiegare, senza alcuna dichiarazione preparatoria. Proviamo a pensare a quanto sarebbe stato importante, da ragazzi, conoscere (o ascoltare, magari per sbaglio) le parole giuste per crescere, di fronte al materializzarsi di due, tre, quattro inspiegabili sentieri. “Cantare la verità” significa proprio questo: indagare la lingua viva nelle sue molteplici manifestazioni, anche quando delicatamente si appropria delle più difficili stagioni. La poesia, lo ricorda Francesca Genti ne La poesia è un unicorno (Mondadori, 2018), «non è una lingua che va bene per tutto [...] ma apre a nuove prospettive grazie al patto di sangue tra significato e significante». E se fosse proprio la poesia a spiegare il passaggio tra una stagione e l’altra della vita? Anche se non ne sappiamo l’effettiva durata, l’adolescenza si presenta quasi sempre come un punto della terra in cui ci sentiamo inadeguati e incompleti. Un giardino che fiorisce, ma troppo troppo velocemente. Le spinte interiori verso il raggiungimento dell’età successiva – l’età vera, essere quello che si è – non vanno d’accordo: da un lato vi è la volontà di capire, dall’altro la volontà di lasciarsi attraversare dalle cose. Ci sono poi dei punti fermi in ogni viaggio, che l’ambizioso progetto Poesie per ragazze di grazia e di fuoco (Rizzoli, 2018) racchiude in una forma antologica per “temi” più che per “tappe”, totalmente al femminile. Proprio le parole, circondate dal vuoto bianco della pausa – forma ugualmente parlante del senso lirico –, sembrano cristallizzare qualcosa che “le ragazze” ricercano, ma non vogliono imparare come gli adulti. Come quei sentimenti contrastanti che le animano e tutti gli elementi nuovi che possono essere interpretati insieme. Ovvero, tutto ciò che è poesia.

 

Vitale e sincera come l’adolescenza

 

Atmosfera misteriosa e verità travolgente. Tutte le sette sezioni della silloge poetica, curate da Karen Finneyrock, Rachel McKibbens e Mindy Nettifee e tradotte per l’edizione italiana da Eugenia Galli e Tommaso Galvani, guidano le ragazze nel mondo del “troppo presto”, dove non c’è davvero spazio per un insegnamento. C’è bisogno di un ritornello, di fotografie da leggere, veloci come il ritmo, come i bassi delle canzoni. Ed è qui che la poesia rappresenta un aiuto pedagogico diverso: nel costruire una propria costellazione vitale – seppur bipolare, come il cuore di un adolescente –, ogni storia in versi si fa testimonianza di una pressione inedita e sincera. Anche la scelta dei titoli e dei sottotitoli di questi sette portali non è casuale: soprattutto per quanto riguarda i secondi, che approfondiscono i nodi tematici “fissi”, ma non secondo un ordine cronologico: corpo e identità; resilienza e verità; potere e protezione; amare e perdere; essere e diventare; famiglia e fiducia; stimarsi e mostrarsi; vivere e guarire. «A volte metto mano alle cose sbagliate. / Certi giorni chiamo “ali” le mie braccia / e ho la testa tra le nuvole. / Serviranno ancora pochi anni / prima di imparare che volare / non è spingere via il suolo» (Canto il mio corpo elettrico, soprattutto quando la mia energia finisce). Risuona così, asciutto e maturo, un verso di Andrea Gibson. Non puoi ingannare una ragazza che sta crescendo. Temi delicatissimi, quali il bullismo, il cyberbullismo, l’anoressia, la guarigione, la difficoltà di sentirsi corpo – «un’intera maledetta unica cosa» –, oltrepassano la forma “lieve”, quella a metà tra l’arido vero e l’insegnamento da cattedra, e diventano frammenti di verità, la cui lingua non può mai definirsi semplice.

 

La verità è attenzione

 

«Tu che sei così piena di pioggia. / Così tanto sta crescendo» (Canto il mio corpo elettrico, soprattutto quando la mia energia finisce). L’uso frequente di metafore naturalistiche che si riscontra in quasi tutte le liriche, con particolare insistenza sul tema della luce, non intende sminuire tutte le scoperte. Ogni immagine viene calata direttamente nella emozione, ma sempre con una cura particolare per le costanti adolescenziali: il letto che ogni mattina bisogna rifare diventa il corpo stesso della ragazza, «disfatto», e «le pieghe della pancia, sgualcita e raggrinzita, / simile al bucato, [...] ignorano / la pretesa che io mi trucchi» (Un giorno nella vita di una donna). Nei versi fanno la comparsa anche dialoghi ed espressioni tipicamente genitoriali, che la poesia ribatte, con la voce di una donna che impara a conoscere il proprio cuore e la propria ipersensibilità: «quindi no, non sono “sempre lì a piangere”, / mi sto solo sciogliendo un po’ troppo. / E anche se stessi “sempre lì a piangere” / lo sanno tutti che il sale è l’unica ragione / per cui tutto resta a galla, nel Mar Morto». È “la lingua selvaggia delle stelle”, come recita l’ultima sezione, a raccontare l’esperienza del dolore e della ricerca identitaria: vissuta quasi nell’Eden con una forza primigenia e dunque chiarissima, propria di chi non sa gestirla e ne comprende allo stesso tempo l’estensione, viene fotografata nel suo essere fulmine, «il momento in cui vedo e capisco quello che non vedevo fino a un [attimo prima» (Il nutrizionista). In questo territorio è osservabile un fenomeno: quello che Georges Bataille chiamava “la tentazione appiccicosa della poesia” è totalmente negata. Il non detto, però, è sempre mantenuto. Si può dire che la poesia, oggi, nella sua ricerca di forma e contenuto puri a più livelli e a più arcipelaghi, come in questo caso per una stagione di passaggio al femminile, abbia raggiunto un equilibrio: l’accesso al senso (vero) delle cose avviene poeticamente, e poeticamente significa chiamare le cose con il proprio nome. Fare poesia assomiglia allora più a un atto di volontà. Io voglio essere autentico con me stesso. Io voglio dire la verità alla poesia. Io voglio che la poesia dica chi sono veramente.

 

 

Bibliografia

J. Nancy, La custodia del senso, EDB, Bologna, 2016.

K. Finneyrock, R. McKibbens, M. Nettifee (a cura di), Poesie per ragazze di grazia e di fuoco, Rizzoli, 2018.

F. Genti, La poesia è un unicorno (quando arriva spacca), Mondadori, 2018.

Nuovi poeti italiani, vol. VI, a cura di Giovanna Rosadini, Torino, Einaudi, 2012.

A. Zorat, La poesia femminile italiana dagli anni settanta a oggi. Percorso di analisi testuale, 2009. La tesi di dottorato è scaricabile online al seguente link: https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/3771/4/Zorat_phd.pdf.

 

 

Cantare la verità. Parole di donne nella poesia contemporanea - La prima puntata

Cantare la verità. Parole di donne nella poesia contemporanea - La seconda puntata

Cantare la verità. Parole di donne nella poesia contemporanea - La terza puntata

 

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_174.html

Cantare la verità. Parole di donne nella poesia contemporanea - 3

Vivere insieme e in transitu

 

Una tensione verso il punto zero della poesia non implica semplicemente una perdita di sofisticazione. O meglio, non solo. Nel procedimento artistico che sembra caratterizzare la contemporaneità femminile, la ricerca di purezza stilistica e umana va di pari passo con il progressivo coinvolgimento di più dimensioni, le quali, mentre riproducono la realtà, si avvicinano sempre di più all’esperienza viva della poesia. Accorciare le distanze: è possibile? Accorciare le distanze creando uno nuovo spazio e dire tutto, con il corpo. L’aspetto materico e autentico del messaggio in versi può viaggiare anche attraverso una voce che si fa performance, mani, partenze, ritorni, assenze che si raccontano. Luogo «mobile della creatività e della concordia», secondo una definizione di Armando Gnisci, la Compagnia delle Poete, a partire da personali storie di migranza, si presenta come una delle realtà più originali e coerenti del panorama poetico contemporaneo. L’obiettivo del gruppo di scrittrici straniere e italostraniere, almeno in parte italofone, è creare una sorta di orchestra – verbale, musicale, scenica – nella quale confluiscano tradizioni linguistiche e culturali, per restituire alla poesia la sua voce transnazionale,  riconoscibile nella originaria oralità condivisa. Senza ibridazione, oggi, un discorso letterario vero rischia di morire. 

 

La vicinanza carnale del verso

 

La costruzione del verso è operata tramite un principio che individua nei suoi elementi moltissimi segni di integrazione, e non semplicemente una somma meccanica di fattori. Senza questa concordanza la creazione non sarebbe possibile. Ecco che il ritmo, garante della dinamizzazione del senso poetico, si configura come un elemento essenziale per questa coralità di voci: l’approccio poliartistico adottato trasforma in flessibili le barriere dell’esperienza individuale della lettura in versi, riumanizzandola continuamente. La musica, infatti, garantisce e amplifica allo stesso tempo la circolazione, quasi per “conduzione elettrica”, dei versi. Se la poesia ha la forma di un incontro, e se la letteratura non è (per fortuna) definizione, l’idioma che ne deriva sarà carico di continui spostamenti, ovvero di quelle «parole in transito» di cui parla Mia Lecomte, ideatrice, fondatrice del gruppo e “super-autorialità” nel processo di composizione artistica. La scelta di circoscrivere l’ambito dell’esperienza al femminile, dichiarava in un’intervista sulla rivista «Testimonianze», fu in principio meramente istintiva e legata a un personale disagio nei riguardi di tutte quelle forme di intellettualità ufficiale che non permettevano la piena realizzazione della vitalità poetica. Il lavoro sui testi, però, ha poi rivelato una «vicinanza carnale» delle parole, naturale e necessaria per il dettato poetico: il filo rosso che regge l’identità in movimento perenne della poesia è, secondo Mia Lecomte, quello dello «straniamento esistenziale, sottolineato dall’estraneità linguistica comunque sempre percepibile, declinato lungo le varie “tappe” di una sorta di via crucis dell’identità femminile migrante». Proprio la comparsa del corpo nell’universo performativo e sonoro si presenta come una cifra di riconoscibilità della Compagnia. Le Poete, infatti, non sono attrici, sono corpi. Sul palco la soggettività delle singole diventa un evento, quel gioco intensivo della presenza che precede ogni storia, ma parla per tutte. Soprattutto parla in un universo di intrecci che, tra poesia e vita,  cerca con tutte le possibilità di ricomporre in unità l’idea stessa di distanza. Si parlava infatti di continui spostamenti: che forma potrebbe avere la verità – la nostra, contemporanea – se non quella di una testimonianza fisica, mobile, flessibile e policentrica?

 

Oltre i confini del canone

 

«Questo modo di storicizzare non è più tollerabile, perché, semplicemente, non è vero, non rispecchia la vivacità di quanto accade». Così Roberto Deidier, in un articolo sul suo blog personale, riflette sul senso del canone in merito alle nuove realtà poetiche. La poesia transnazionale, che vive nell’esperienza della Compagnia delle Poete, ci pone effettivamente di fronte a una verità: l’oggi è una sfumatura e nel collettivismo (linguistico, esistenziale) sono racchiusi tutti i transiti necessari della poesia in italiano. Nel nostro caso, anche la peculiarità delle voci del gruppo, ovvero la parola-detta (prima che scritta), si fa spia di un’esigenza più ampia del panorama contemporaneo. Sembra che sia proprio l’esigenza di una certa narratività, più fisica e viva, a creare i canali espressivi della poesia. Il dialogo, del resto, non solo è esso stesso un passaggio obbligato di autenticità nei confronti dell’atto creativo, ma garantisce la formazione di una identità. Le poete, per scrivere, devono imparare ad ascoltarsi reciprocamente e ad accogliere dentro di sé le potenzialità delle voci. Sempre Deidier ricorda che siamo passati «dall’Io è un altro» a un «Io è gli altri»: la pluralizzazione si è evoluta proprio perché risponde ai movimenti della Storia e contemporaneamente alla necessità di accordare tutti i suoni verso una narrazione identitaria. Il verbo, in questo processo, diventa un prisma: tutto trattiene e riproduce, ma attraverso un reale “corpo a corpo” di lingue che trascolorano l’una nell’altra. I confini trovano così un’appartenenza che ha la forma di un corpo di donna. Perché, come ricordava Amelia Rosselli, «la donna con la sua fisiologicità corporale [...] ha qualcosa non di diverso da scrivere, ma di più fisiologico da distinguere anche sul piano contenutistico».

 

 

Bibliografia e link utili

F. Armato, Premiata Compagnia delle poete, Cosmo Iannone Editore, 2013.

E. Glissant, Poetica del diverso, Meltemi, 1998.

M. Lecomte, Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona (1960-2016), Franco Cesati Editore, 2018.

Intervista corale, giugno 2014

Intervista in «Testimonianze»

Roberto Deidier, La premiata Compagnia delle poete, dal blog del poeta, 1° dicembre 2014:

J. Nancy, Corpo teatro, Cronopio, 2010.

A. Rosselli, È vostra la vita che ho perso. Conversazioni e interviste 1964-1995, a cura di Monica Venturini - Silvia De March, Firenze, Le Lettere, 2010.

 

Cantare la verità. Parole di donne nella poesia contemporanea - La prima puntata

Cantare la verità. Parole di donne nella poesia contemporanea - La seconda puntata

 

 

 

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_169.html

Cantare la verità. Parole di donne nella poesia contemporanea - 2

Riconoscere le motivazioni alte

 

«Dimenticati di tutto quando scrivi. Fai attenzione a cosa vuoi dire con le parole». Ancora oggi, in tutti i miei “nuovi” diari, quel biglietto deve essere presente. Quasi fosse un amuleto, un segnale stradale. A volte penso che potrebbe essere anche un verso di preghiera. All’inizio non fu affatto facile interpretare. Mettere su due piani differenti l’atto della scrittura e l’intenzione di un messaggio che forse aveva a che fare con il destino mi sembrava una follia. Ma ero già andata oltre, come sempre. Non era detto che le due massime si escludessero. O che una venisse prima dell’altra, per forza. Non erano due momenti, bensì un’unica tensione verso qualcosa che esiste ma tocca a noi far vivere. Un tensione che si serve di un linguaggio – e non di una lingua femminile, come si evidenziava nella precedente puntata – e di tanto altro materiale emotivo e umano che sfiora il tempo e lo supera. Tanto torniamo sempre lì quando si apre davanti a noi lo spazio del foglio bianco, l’infinito regno pixel del blocco note sul telefono: in quel giorno Dio donò ad Adamo l’arte del nominare per far vivere e possedere il mondo. Così accade quando stendiamo un verso. Dimenticarsi di tutto significa allora concentrare l’attenzione sul tutto. E per tutto s’intende quello che sta prima della scrittura: l’importanza di chi siamo, anche e soprattutto attraverso quello che nominiamo.

 

Il punto zero della voce

 

«La poesia, come ormai è intesa sia dagli addetti ai lavori sia dai lettori, non più una poesia intimistica specifica degli affetti propri, singoli, ma è una espressione dell’anima che vola alta nel cielo sublime dei sentimenti universali». Michela Zanarella ricorda la difficoltà di circoscrivere un possibile spazio di vocabolario poetico al femminile: anche se decidessimo di rintracciare delle «costanti» nella scrittura, «analizzandone strumenti linguistici e stilistici», avremmo sì raggiunto – forse – un obiettivo, ma la motivazione umana, che è connessa al simbolo e alla nostra coscienza collettiva, ne risulterebbe – giustamente – esclusa. A quello ci pensano nuove realtà di indagine, che sfiorano il genere saggistico-autobiografico per parlare della poesia come una forma di esperienza e di testimonianza. Se la poesia non si può spiegare, se davvero stiamo vivendo una fase “di respiro” circa l’oggetto poetico e il suo indispensabile alfabeto, ecco che alcune voci femminili adottano, oltre al verso, strategie narrative più autentiche per metterci in contatto con quella sfera interiore che possediamo tutti, ma non sappiamo più governare. L’asse, pertanto, si sposta sempre di più verso un’idea viva del fare poetico, il nostro personalissimo strumento di conoscenza: «scrivere poesia è dare una forma alle cose senza nome, dire una verità, magari piccola, ma che sia nostra. E dirla come merita: nel modo più perfetto». Isabella Leardini, in Domare il drago, affronta il viaggio della poesia – «la via della ricerca» – in una dimensione corale e generativa, che, attraverso l’esperienza emotiva di una pluralità di voci, ricostituisce il punto zero della scrittura, «quando è ancora al suo stadio nascente e istintivo». L’osservazione è privilegiata, come l’autrice sottolinea, proprio perché in tutti quei sette (da dire alla poesia) pulsano le vite e i desideri di ragazzi e ragazze delle scuole superiori. Così il laboratorio diventa palestra, risoluzione, sfogo per le emozioni nascoste che da segno diventano respiro, verso. Non si può parlare di costanti, ma è interessante notare come, nell’esercizio “di scavo”, si possa riconoscere una diversa «inclinazione della parola» che coinvolge l’atto creativo delle studentesse: accanto a una spiccata attenzione alla brevitas, si riconoscono non solo «testi incentrati su una metafora principale» condotta fino alla fine o ripresa nella chiusa, ma anche un vero e proprio «sistema di immagini che spesso di rifà all’infanzia in modo perturbante e che rinuncia all’uso dei verbi». Il lessico, poi, «è piano e quotidiano», sempre contraddistinto da una corporeità che si fa «rappresentazione concreta dell’emotività». Nei ragazzi invece è riscontrabile un «mascheramento», che coinvolge tanto l’uso della terza persona quanto una scelta lessicale desueta. Anche il respiro tra le pause cambia: privilegiano infatti una «struttura narrativa, con un afflato epico o teatrale [...] utilizzando il ritmo come elemento portante». Ma oltre ciò che si vede, resta quello che si sente: la capacità – naturale – di entrare in contatto, se guidati, con il proprio elemento, che trova sempre una compiutezza nel verbo. Come diceva Pasolini, «alcune cose si vivono soltanto; o, se si dicono, si dicono in poesia».

 

Frequentare un tempio domestico

 

Accettare, accogliere, aspettare: si può insegnare a vivere la poesia? Anche nel breve saggio di Chandra Livia Candiani non c’è alcuna traccia di dogmatismo. Il silenzio è cosa viva intreccia il discorso poetico a quello mistico, offrendo una testimonianza di dolore e risoluzione universale. La parola, perciò, diventa «viva», controcorrente e nemica di questa nostra epoca che lascia troppo spazio alla «chiacchiera e alla didattica»: solamente la poesia, sostiene la Candiani, in quanto pellegrinaggio del sé, sa condurre «nel territorio del non so» e costringe all’intimità con l’ignoto, a una troppo breve relazione – necessaria – con il nostro corpo. Il respiro, anche in questo racconto di meditazione e spirito per la poesia, si configura come un punto di partenza per l’affermazione dentro di sé di quella «lingua cellulare» che sa parlare al corpo. Soprattutto che «sa fare». La lingua che si abita è il nostro stesso respiro, quella gestazione di attesa in cui si recuperano i pezzi e alla paura viene dato finalmente un contesto, una vivibilità. Pensare alla poesia come pratica quotidiana significa anche valorizzare il colore del negativo: si accoglie un verso – e lo si dona alla fine del percorso – per avere la libertà di «entrare e uscire, sostare sulla porta», senza essere inghiottiti dal caos. «Sentire con consapevolezza è sentire senza sospetto». Il consiglio è chiaro: per permettere a una motivazione di compiere il suo significato, la parola deve passare più tempo possibile nei bisogni primari. Per sentirla che poi se ne va, con qualcosa di materico e nostro tra gli spazi. Per creare una cosa nuova che comunica davvero.

 

 

Bibliografia e link utili

F. De Saussure, Corso di linguistica generale, trad. It. T. De Mauro, Roma-Bari, Laterza, 2011 (ed. or. Cours de linguistique générale, Lausanne-Paris, Payot, 1922).

I. Leardini, Domare il drago, Milano, Mondadori, 2018.

C. L. Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Torino, Einaudi, 2018.

Nuovi poeti italiani, vol. VI, a cura di Giovanna Rosadini, Torino, Einaudi, 2012.

A. Zorat, La poesia femminile italiana dagli anni settanta a oggi. Percorso di analisi testuale, 2009. La tesi di dottorato è scaricabile online al seguente link: https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/3771/4/Zorat_phd.pdf.

 

Cantare la verità. Parole di donne nella poesia contemporanea -  La prima puntata

 

 

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_165.html

Scandalo, fra tradizione e tradimento

Anche chi non ne conosce l’originaria trafila etimologica, avverte, nell’eco della parola scandalo, una dimensione comunitaria. Qualcosa accade – fuori da noi – e inevitabilmente ci riguarda. E non parlo dei titoli giornalistici da prima pagina. La storia del lemma preso in esame, infatti, è lunga come quella dell’uomo, e, in questo caso, è giusto insistere sul fatto che si debba partire “da Adamo ed Eva”. Nel principio, infatti, è ‘adam, inteso come individuo e umanità allo stesso tempo, che abbraccia il primo dei più terribili scandali: la caduta.

 

Il male inevitabile

 

Le menti dell’Illuminismo negativo, tra le quali rientra lo stesso Leopardi per la sua personale visione del peccato biblico, direbbero che la caduta è scandalosa proprio perché riguarda l’uomo, che in sé, poiché coltiva il germe della libertà e del progresso, sceglie lo spirito e non la natura, la società stretta e non il famoso giardino da custodire. Solamente con Caino fa ingresso «la morte nel mondo», come si legge nell’Inno ai Patriarchi, e la terra impara a conoscere il delitto. Il Curtius, infatti, collega alla radice indoeuropea skand- l’uso tardo del latino scàndere, che ha pure il senso di cadere, ma significa anche ‘impedimento’, discendendo dal greco skandalon, precisamente ‘pietra d’inciampo, insidia’. La radice risuona per ben 15 volte nei Vangeli, e proprio di insidia si carica la trappola della perdizione di natura edenica: tra i termini ebraici soggiacenti, non sorprende di ritrovare i sinonimi di “tranello” o “trappola”, che possono essere messi a confronto con il testo della Genesi e, in particolare, con il lemma misterioso del demone «accovacciato alla porta» su cui l’uomo non ha potere. «Verso di te è il suo impulso ma tu devi dominarlo» (Gen., 4, 6). Il male, dunque, è inevitabile, e la parola scandalo trattiene tutte le sue tracce e il suo perché.

 

La zizzania e il grano

 

Il Vangelo di Matteo (18,7) custodisce un ammonimento che noi oggi conosciamo in questa formula: «è necessario che gli scandali avvengano, ma guai all’uomo per cui lo scandalo avviene». Ma per quale motivo bisogna dare spazio a un atto eticamente scorretto e contrario alla forza del bene? Per rispondere può venire in aiuto un discorso parabolico che, sempre nel Vangelo di Matteo, spiega la necessaria presenza del male, soprattutto quando non richiesta: nessuno ha seminato la zizzania insieme al grano, eppure questa è cresciuta destando scalpore. «Un nemico ha fatto questo!»: mentre l’uomo vorrebbe raccoglierla per eliminarla dalla vista e dal suo pensiero, il testo sacro ci insegna che, invece, la fastidiosa erba infestante deve crescere insieme al grano fino alla mietitura, affondare le radici e manifestarsi nella sua totalità all’interno delle pieghe del bene. Il male, insomma, si deve vedere. Anche per ristabilire un ordine. Ma non deve essere oggetto di scandalo, deve essere accettato come parte integrante del tempo del mondo e delle sue verità.

 

I debitori sulla lapide

 

Il paradosso relativo a questa manifestazione necessaria del peccato –  che solo nel suo concretizzarsi garantisce un nuovo equilibrio all’umanità – sembra essere poi collegato a un’altra locuzione comune al nostro linguaggio: essere la pietra dello scandalo. L’espressione di origine biblica, nell’antica Roma dona il nome a una pratica legale che consisteva in una pubblica umiliazione: i debitori insolventi, seduti sopra una lapide, dovevano confessare a gran voce la cessione dei beni. L’esposizione al pubblico ludibrio aveva dunque la funzione di ristabilire, nelle coscienze dei cittadini, gli esempi di giustizia e ingiustizia. E se osservare significa già decidere (dal latino de-caedere, “tagliare via”, “selezionare”), è chiaro come lo scandalo, impersonato dal colpevole, risulta essere anche qui fondamentale per la memoria collettiva.

 

Riduzione a "inciampo"

 

Tuttavia, nell’attuale accezione, sembra che lo scandalo sia relegato solo alla sfera morale: svuotato del suo significato storico-biblico, per il quale è connesso al cammino dell’umano, il termine oggi non supera la traduzione dal greco “inciampo”, qualcosa che disturba ma non educa. Le origini, invece, che dalla radice a pettine ebraica sono entrate nel nostro vocabolario, sono l’inizio del vero scandalo e di un’apertura ciclica all’imperfezione. Gli errori della storia, infatti, non si consumano, come le comete, in un periodo limitato: essi ricompaiono sulla scena nella forma di nuove figure e disposizioni – nuovi scandali, appunto – , le quali attraggono irrimediabilmente ‘adam, sempre pronto a credere in ciò che un tempo aveva rifiutato e ad ascoltare, con orecchio «dissueto alla materna voce», il richiamo del peccato originale.

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_134.html

Suttaterra, il suono del tumulto interiore

La radice dell’ombra

 

Se Fred Botting, citando Northrop Frye, riassorbiva il gotico nella vasta categoria del romance, giustificando la sua natura di «story of elsewhere» − lontana nel tempo e nello spazio −, ecco che la lingua di questo viaggio dell’ombra e nell’ombra non può che abbracciare l’idioma archetipico del dialetto, una voce che in Suttaterra (pp. 120, Tunué, 2017), il nuovo romanzo di Orazio Labbate, è ancora protagonista e pulsa in una direzione ben precisa: verbalizzare la materia. Ma «le parole impiegano diversi Aldilà per concretarsi». Tra scorie mariane e un cerchio di vita che gira come un orologio, tra i fumi metallici e un sonno chimico di memoria e assenza, una luce «ectoplasmatica» si posa su poche righe di una lettera, che rinnovano confuse sensazioni. Le cose «ammutolite» non sospirano, non parlano. Eppure «la nostra ombra è la sostanza più vera». Un’accezione instabile, anche se ormai troppo presente in questo Eden che brucia. Sembra quasi che il male sia un nulla fatto di carne e di sangue. E forse è ora di restituire a esso il suo linguaggio. Mentre dietro la schiena si moltiplica una «non-notte» che comunica con cielo e inferno, un disperato groviglio verbale si aggrappa a questa contorsione continua, che trasporta proprio una «materia per rebus e meccanismi». La cura stilistica non prevede solo deformazioni oniriche e virtuosismi dal sapore biblico-apocalittico («Santa era la carne», «Il sangue è la vita», «glossolalia della burrasca», «Questo è il mio Logos»), ma emerge una volontà espressiva al confine con il ritmo poetico nel riprodurre quasi il suono di questo tumulto interiore, basti pensare alla sequenza frequentissima di vibranti dedicate alla furia del vento – «lo scirocco [...] si alzò con rumore di uragano [...] arretrò [...] aumentò ancora fino a divenire un’assordante sirena» – e alle forme verbali onomatopeiche – «come se raschiasse via gli organismi che rilascia il mare sulle cose», «rimescolare l’impeto [...] un flusso imperscrutabile» – che ricreano oscure movenze. Poche tappe – “Viaggio verso la morta”, “La nave”, “Gela”, “Il castello della morta” – e una potenza fonica che trattiene la memoria del mito, come quella voce del vento nata da un battito d’ali d’uccello, perfettamente in linea con il topos classico del presagio. Le foglie, infatti, «gemono» mentre l’aria «sfrega» la loro superficie, come se stesse aspettando la scintilla di un fuoco, e sulla highway che immette verso la costa dell’Atlantico, ai lati del cruscotto della Pilato Mercedes di Giuseppe Buscemi – figlio di quel Razziddu del romanzo precedente Lo Scuru –, «la lettera vibra come un sudario inquieto», una “s” che, insieme a tante altre tracce dell’alfabeto, riconduce sempre al nucleo vivido del cuore. Un vero e proprio sottocodice di nefanda profezia guida il becchino nel suo viaggio – «un ciclo», come ogni corso vitale –, costellato di tempo epico e iper-specificazione spaziale: il luogo di finzione, pur lottando contro gli elementi di realtà, riesce a trovare nel regno crepuscolare di Suttaterra un «senso metafisico»: tutto, dalla suggestione biblica e sublime delle scelte formali alla prosa densa e cinematografica, è rispettoso di uno spettro che si fa lingua e delle parole altre, come quelle del Diario di Bernardino Renfield, Capitano, ritrovato a bordo della nave che condurrà Buscemi al Mediterraneo gotico di Gela. Ecco che nei sei paragrafi sembra dissolversi, proprio come un fantasma, il Verbo dell’Aldilà, che si carica di peccato originale e «firmamento nero», così come è il mare – area semantica centrale (anche nell’intreccio narrativo) del romanzo –, dove «cadono le anime che non superano la soglia». Che l’incubo sia il movente di eccesso diabolico non è dato, in realtà, sapere: il richiamo di Maria, l’amata defunta del becchino, si intreccia, infatti, a un’altra voce che risuona nel cosmo e si scaglia sul torace dell’uomo. Perché è «un recinto paradossale» che nasconde un segreto. E proprio Edgar Allan Poe diceva che non c’è maggiore peccato, maggior violazione di quella del cuore umano.

 

Fiamme e segno

 

«Non-morto, sono, e non-nato. [...] Qui sono giunto per il tuo peccato». Sembra che la strada percorsa da Buscemi sia un lungo tappeto di segni. Se la lingua è ombra, è anche vero che essa viene costantemente illuminata da una «elettricità» per nulla «precaria». Così, già a partire dal “Prologo”, si «accumulano» lampi improvvisi, fiamme che rincorrono il corpo di Maria – fiamme «nelle vene» –, «icone di luce», «coriandoli di brace» che insieme al cielo, in un climax ascendente, si fondono, di nuovo, al canto oscuro del vento, che è «scirocco» e allo stesso tempo «uragano», è «un’assordante sirena» nata per chiudersi in una «fiamma agghiacciata». Non è un caso che siano proprio i sensi, definiti dal Confessore «bambini randagi, neri, orrendi e contorti», a guidare la conversione «alla definitiva disperazione» di Buscemi», che poco prima di affrontare l’ultimo portale – il castello – riesce a percepire il suo corpo a partire dall’udito, anche se l’eco orrifica pronuncia una lingua che non fa alcun rumore. C’è qualcosa che tra i profumi della notte e del rame si consuma da troppo tempo: «l’odore di bruciato di quell’albero» – della Genesi, come è riportato nel diario di bordo – «si sente fino a qui». Ecco che il vento, allora, si trasforma nel veicolo perfetto di questo ricordo multiforme, proprio perché rilascia nell’atmosfera una scia chimica, ossidrica, «alterata ed elettrica», come quella che si respira nel “Luna Park del Bambino Gesù”. «Il tuo peccato non smetterà di riprodursi. Passato, presente e futuro». Una sentenza – quella del «tempo dell’uomo» – tuona e rimbomba come il cuore del protagonista, quando, di fronte a uno specchio, si accorge che la sua faccia è «guasta» e «l’amore che credeva di provare, pure». Fiamme ovunque per un battito che muore là dove inizia la vita. Il ventre – frammentato nelle immagini e nei dialoghi – chiude, infatti, il cerchio del viaggio di Buscemi e dell’esistenza stessa. Un uovo di luce artificiale, in quella «interiorità malferma», brilla a tratti. «L’uovo della pancia! Furono possenti i suoni dell’ultima parola. Poi si ammutolirono lasciando a mezz’aria una traccia affumicata». Luccica un coltello, e l’uomo cade in mare. Un cerchio nero si fonde nella sede vacante del cuore. E da lì, scende come un «boccone incandescente» nel corpo della terra.

 

Beatrice Cristalli

    

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_132.html

Come parla la critica letteraria del web. Un'indagine / 4

Presentiamo la quarta e conclusiva  puntata di un'indagine volta ad analizzare le caratteristiche salienti delle riviste di critica letteraria e letteratura on line che si sono maggiormente distinte negli ultimi anni. La prima puntata si può leggere qui, la seconda qui, la terza qui.

 

Costanti visibili

 

La letterarietà, come più volte hanno sostenuto Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo, si è rivelata ormai come una specie di mito, un eterno quid inafferrabile ed eterno. L’eccesso di una possibile scientificità di quel sur-significato che il terreno letterario alimenta – essendo contemporaneamente «cosa» e «significato» –, non ha comportato tuttavia una rinuncia, da parte del critico, alla teoria letteraria, ovvero a tutti quei concetti e categorie generalizzanti che rafforzano la necessaria integrazione fra metodo formale e prospettiva storico-sociale. Eppure, oggi, le realtà critiche del digitale difficilmente permettono di tracciare movimenti comuni, soprattutto in virtù di un profilo storico di formazione molto diversificato tra gli intellettuali. Non si tratta solamente di chi fa ancora fede alle cosiddette «genealogie accademiche», come Claudia Crocco riportava in una sua lunga indagine su Le parole e le cose, bensì s’intende il rapporto con la critica del passato, che, tuttavia, non può essere semplificato nel concetto di norma. La domanda, allora, non sarà solamente chiedersi chi è titolato a parlare di libri, ma in che modo è possibile analizzare questa polifonia di voci per trarne un messaggio, una direzione verso la quale il discorso critico si sta muovendo. Con forte evidenza emergono delle costanti, che prima di essere metodologiche sono tematiche, e possono concretizzarsi, in questa ultima puntata di critica della critica, come un punto di partenza per riflessioni future. Fondamentale, per la struttura delle piattaforme online, una precisa comunicazione con la sede cartacea, che trova anche in Alfapiù – laboratorio digitale di idee e di scritture della storica rivista Alfabeta – una conferma. Come un vero e proprio quotidiano, il sito propone l’uscita settimanale “#Alfadomenica” con un sommario ricco di argomenti e iniziative, connessi direttamente al “Cantiere Alfabeta”, un forum accessibile ai soli iscritti che si propone non solo di creare uno spazio di dibattito ma di pubblicare importanti contenuti d’archivio, «in particolare testi e numeri della prima serie di Alfabeta e contenuti di Alfabeta2 2010-2014». Cuore di un percorso rispettoso dei dettami del cartaceo, Alfapiù si avvale di originali rubriche per la promozione dell’interdisciplinarità, di quella antropologia del presente con la quale la critica deve fare i conti. Tra gli “Speciali”, che si configurano come la raccolta di più interventi a tema – si pensi al gruppo dedicato a Sandro Penna uscito nel mese di ottobre 2017 – spiccano approfondimenti dalla forma saggistica, ma non eccessivamente accademica. Lo spirito critico ben modulato secondo quell’interventismo culturale insofferente alla pura informazione non dimentica la nuova prospettiva offerta dal medium, che obbliga, per una generatività dei contenuti, ad adottare forme grandangolari e alternative – rizomatiche – per diffondere un messaggio sul nostro presente culturale. Tra le puntate del sito che rispettano maggiormente tale impostazione, si ricordano “Interférences”, «pezzi mensili di taglio e tema variabilissimi, ma accomunati da interazioni (anche inattuali) con fenomeni francofoni e francesi di società, arti e scritture» e le preziose annotazioni di “Semaforo” a cura di Maria Teresa Carbone. E tra gli altri articoli liberi, con piacevole sorpresa, si traccia un filo rosso, un interesse rappresentato in particolar modo dalla seconda costante che nei diversi portali analizzati ermerge con prepotenza: il ritorno della riflessione teorica in merito all’esercizio poetico. L’articolo di Guido Marzaioli “Teoria e poesia: il bicchiere mezzo pieno”, che si apre con un riferimento all’intervento di Paolo Giovanetti pubblicato nel numero 61 (giugno 2016) sulla rivista il verri, insiste proprio sul tentativo di ristabilire eventuali universali in grado di qualificare l’ambito del poetico, ovvero «il rapporto io/soggetto/soggettività, il rapporto tra poesia e prosa», senza dimenticare «lo sconfinamento tra generi per quanto riguarda alcune scritture che, tuttavia, vengono ancora “rubricate” nell’ambito della poesia». Anche Cultweek, il magazine online diretto da Maurizio Porro, da tempo, nella sezione “Letteratura” – in uscita ogni lunedì secondo una vera e propria programmazione settimanale per ambito culturale – riserva attenzione alle più interessanti realtà poetiche: la rubrica de “Il libro di poesia” si propone, infatti, non solo di analizzare un’intera raccolta, ma di fornire al lettore lo spettro disciplinare che caratterizza la scrittura dell’autore. A conferma di una buona ricettività letteraria, troviamo riflessioni sulla non-fiction in versi – si pensi all’articolo dedicato ad Antonio Turolo e alle poesie di “A parte il lato umano”  – , approfondimenti (anche dal taglio stilistico) in merito alle nuove proposte editoriali – “Il dolore dell’altro” di Samuele Petrangeli inserisce il messaggio de “Lincoln nel Bardo” in un contesto più ampio, sociologico e antropologico – e riletture commentate, talvolta in prima persona, di tutti quei testi che possono definirsi fondamentali per la storia letteraria italiana e internazionale, come “Il barone rampante” di Calvino presentato da Francesca Caminoli nella rubrica “Letti ieri, letti oggi”.

 

Nuove formule per il real time

 

Un click è più veloce di una mano che sfoglia il giornale. La scoperta di un testo e di un discorso letterario intorno a esso sopraggiunge, oggi, in anticipo rispetto alla dinamica meccanica che riserviamo al mondo del cartaceo. E proprio in questo ecosistema digitale di produzione e consumo di cultura è sempre più difficile canalizzare gli stimoli letterari propri di una guida critica attraverso la quale ognuno di noi può formare il proprio percorso. Perché, se da un lato il real time, sul piano di fruizione e condivisione, può rilanciare un articolo come un boomerang da un tweet a un altro – Francesco Pacifico in un’intervista rilasciata alla redazione di Sul Romanzo dichiarava che «la condivisione culturale è una cosa che si dà solo su internet, al momento» –, dall’altro la velocità con la quale la piattaforma web produce contenuti letterari rischia di snaturalizzare il discorso critico, che, in realtà, richiede distacco e studio. «Sul fatto se sia un blog o una rivista o altro ancora, la questione non è pacifica tra i suoi stessi componenti», ma la realtà di minima&moralia, nata nel 2009 dall’ambiente della casa editrice minimum fax, si configura come un portale di approfondimento culturale indipendente e completo, capace di mantenere un dialogo meditato con la società letteraria. Fedele al concetto di complessità, intesa come molteplicità di voci, il sito offre al lettore-esploratore numerose interviste – “Discorsi sul metodo” di Vanni Santoni tesse un interessante panorama del fare creativo di ogni scrittore –, recensioni (spesso riprese su testate cartacee, come l’inserto culturale “Robinson” o “Pagina99”), tracce narrative significative, come l’estratto del capitolo 4 dell’ultimo libro di Luigi Manconi “Non sono razzista ma”, e interventi sulle maggiori iniziative del settore, basti pensare all’articolo dedicato alla prima edizione di “FILL, nuovo festival di letteratura italiana a Londra”, che riporta direttamente le parole degli autori che hanno cercato, sotto la guida creativa di Livia Franchini, di confrontarsi sulle «potenzialità della comunicazione linguistica e della traduzione attraverso la pratica poetica». Un’altra idea di fare letterario e di fare critico è, invece, quella rappresentata da Finzioni Magazine, «un sito che parla di libri» fondato nel 2008 da Jacopo Cirillo e Carlo Zuffa. Al centro dunque il lettore e quel rapporto unico con il testo che, secondo quanto dichiarato nella sezione “about”, deve essere semplice e divertente. Anche la grafica e le rubriche rispondono perfettamente allo spirito di Finzioni, che si allontana dalla critica letteraria classica per adottare una linea non necessariamente migliore o peggiore, ma diversa e fortemente concentrata sulla promozione del piacere della lettura: non si parla più, infatti, di interviste ma di “Molte birre con...” oppure di una «traduzione di un traduttore», in riferimento all’articolo dedicato a Giovanni Arduino. Non mancano, tuttavia, le rubriche: tra le principali, “Coming boom”, con scadenza mensile, raccoglie una selezione di libri e graphic novel in uscita, mentre recentissima è “Una cosa piccola ma buona”, che, come si legge nel post di presentazione di Facebook, «avrà come protagonisti due libri brevi che hanno qualcosa in comune e Silvia Pelizzari, con pazienza, srotolerà il filo che li unisce per darcene i capi». Per aumentare la superficie relativa del mondo letterario, tuttavia, esiste un’altra storica realtà critica del digitale che è stata in grado di applicare, nella dimensione del discorso critico, una formula solitamente usata per detersivi e yogurt. Anche nel nuovo sito totalmente rinnovato, Satisfiction, rivista ideata da Gian Paolo Serino e diretta da Paolo Melissi, mantiene la promessa del “soddisfatti o rimborsati” in merito a tutti i testi recensiti sul portale. Più di trenta rubriche d’autore (si pensi a “Hotel Pincio” di Tommaso Pincio o “Fascetta nera” del giornalista Alberto Forni) e grande cura contenutistica per scelta e messaggio “provocatorio” da diffondere: l’atteggiamento critico adottato per scuotere il lettore si concretizza, infatti, in più forme, dalle interviste (ne “L’Intervista”) a “Céliniana”, rubrica curata da Andrea Lombardi, «tra i massimi esperti europei dello scrittore francese», sino all’appuntamento giornaliero de “I furbetti dell’inchiostrino”, che svela, attraverso la penna di Serino, «tutti i retroscena del “marchetting”, limitandosi sempre ai fatti scritti e mai alle persone». Se la langue della critica, come direbbe Ferdinand De Saussure, è, di fatto, ancora attiva e formativa – semplicemente è, esiste e non è dunque morta – sono la parole e la sua strategia comunicativa a caratterizzare un particolare discorso critico, che si avvale anche di tutto ciò che supera la parola e poi ritorna in essa. Perché tutto è importante in questo linguaggio, che si carica costantemente di speculazione, militanza e scelte per il nostro reale che cambia, e non smette di rappresentare il tassello del più ampio processo con il quale la nostra cultura avanza.

 

  1. Bechelloni, Università di carta. L'editoria accademica nella società della conoscenza, Milano, Franco Angeli, 2010.
  2. Casadei, Letteratura e controvalori: critica e scritture nell'era del web, Roma, Donzelli Editore, 2014.
  3. Di Girolamo, Critica della letterarietà, Milano, Il Saggiatore, 1978.
  4. Guglieri, M. Sisto, Verifica dei poteri 2.0. Critica e militanza letteraria in Internet (1999-2009), Palermo, Palumbo, 2010.
  5. Iannuzzi, L’informazione letteraria nel web. Tra critica, dibattito, impegno e autori emergenti, Milano, Biblion Edizioni, 2009.
  6. La Porta, G. Leonelli, Dizionario della critica militante. Letteratura e mondo contemporaneo, Milano, Bompiani, 2008.
  7. Turchetta, Critica, letteratura e società. Percorsi antologici, Roma, Carocci, 2017.

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_127.html

Come parla la critica letteraria del web. Un'indagine / 3

Presentiamo la terza di quattro puntate di un'indagine volta ad analizzare le caratteristiche salienti delle riviste di critica letteraria e letteratura on line che si sono maggiormente distinte negli ultimi anni. La prima puntata si può leggere qui, la seconda qui. La puntata finale dell’indagine sarà pubblicata nel novembre del 2017.

 

L'istituzione nella rete

 

In un'intervista del 1991 su Repubblica, Franco Fortini dichiarava, in merito alla riformalizzazione della critica militante, che l'università ha un merito, quello di predisporre per la critica un isolamento operoso che si viene a configurare come l'unica salvezza di un discorso autorevole (non autoritario) e libero: «La critica accademica è specialistica, ma in qualche modo si ricicla nel quotidiano. È specialismo, ma si fa motore di un processo culturale diffuso che giunge fino alle masse». Il percorso da lui individuato anticipava già quanto sarebbe successo con le cosiddette riviste specialistiche nel web: la critica che si arrocca nell'istituzione ed elegge come proprio pubblico gli studenti, con l'avvento del digitale, ha dovuto operare una scelta, ovvero aprirsi alle utenze delle altre realtà, e non solo sulla scia di un'esigenza pratica di risparmio di denaro e di tempo. Remo Ceserani, nella sua inchiesta del 2014 pubblicata su La Ricerca, presentava un quadro aggiornato della situazione americana ‒ a partire dalle riflessioni di Robert Darton, professore dell'Università di Princeton ‒ e individuava non solo un ampio cambiamento di sistema in corso che coinvolge le ex testate a pagamento, ma forme nuove e più democratiche di diffusione di cultura accademica, pur con grandi difficoltà. Prima tra tutte, l'interesse effettivo del pubblico. Perché se è vero che l'orientamento della critica del digitale si fonda ancora, per quanto riguarda i migliori esempi degli ultimi anni, su ricerca e approfondimento specialistici, è altrettanto vero che la piattaforma della rete, contraddistinta da una naturale ambiguità e velocità di mode e contenuti, obbliga necessariamente i portali istituzionali ad assecondare l'aggancio di tale movimento. Un esempio italiano è Enthymema, la rivista online dell’Università degli Studi di Milano diretta da Stefania Sini. Di spessore internazionale e ad accesso aperto, il portale accademico «si propone di essere uno spazio di discussione e di interrogazione sulla letteratura». Accanto ai saggi di teoria, critica e filosofia della letteratura, sono pubblicati contributi inediti a opera di studiosi e professori, traduzioni di opere recenti e aggiornate sulla riflessione letteraria nonché interviste e recensioni, spesso archiviati in sottogruppi tematici per ogni uscita, come per esempio The Boundaries of Fiction a cura di Julia Ivanova (n° 10 del 2014) oppure le sezioni dell'ultimo numero (18 del 2017) dedicato a Wolfgang Iser (Verso un'antropologia letteraria). In formato pdf ‒ scaricabile ‒ e con note e bibliografia completa, viene reso  pubblico, identificabile e ben organizzato ciò che dalla metà degli anni Settanta era definito letteratura grigia, ovvero quella gamma di documenti di natura accademica non pubblicati attraverso i normativi canali di diffusione. Il nuovo modello di comunicazione di conoscenze specialistiche, sempre più in sintonia con gli spazi nuovi e altri della rete, si avvale, tuttavia, anche di progetti didattici fuori da essa, ma in continuo dialogo con il panorama culturale contemporaneo che le due dimensioni trattengono: il ciclo di incontri del 2016 I rivoli della teoria letteraria. Riletture e aperture si fondava proprio su un dialogo fecondo sul ruolo conoscitivo, sociale ed etico degli studi letterari nel mondo di oggi. E a dimostrazione che la teoria e la critica accademica comunicano con tutto ciò che ci circonda ‒ anche l'ormai consueto vagabondaggio social ‒ risulta molto completa l'analisi operata da Paolo Sordi sull'ultimo numero del 2017 (Il narratore algoritmico), che approfondisce l'inganno ‒ non troppo scontato ‒  dell'ecosistema narrativo di Facebook.

 

Scelte (critiche) e non scoperte

 

Ma accanto alle riviste spiccatamente accademiche, come è stato confermato più volte nelle altre puntate dell'indagine, resistono altre scritture di approfondimento che sfuggono alle etichette, evidenziate da Marco Faini, dei tre generi di critica, ovvero accademica, militante e dei blog. Nuovi Argomenti, rivista di grande tradizione letteraria fondata nel 1953 da Alberto Moravia e Alberto Carocci, presenta sì una sezione blog all'interno del sito, ma sono i numeri cartacei a uscita trimestrale a delineare il percorso di ricerca, ognuno dei quali segue un preciso filo conduttore, talvolta presente in alcuni posts del portale. In un'era in cui la bibliodiversità non basta, la redazione interpreta la qualità del prodotto saggistico e letterario sulla base di un'accurata selezione di testi e di attuali linee di scrittura, come l'articolata riflessione di Elisabetta Mondello sull'immagine dell'adolescenza nella parabola del romanzo novecentesco (L'età difficile), o ancora la pubblicazione dell'introduzione di Genealogie del racconto a cura di Giacomo Raccis e Damiano Sinfonico, che offre un percorso-guida dello scenario contemporaneo del genere, dalle specificità italiane alle altre contaminazioni e tradizioni, sino a delineare una vera e propria  «geografia della narrazione». Lo spazio "2NA", come recita "Istruzioni per l'uso", si presenta invece come una rubrica che raccoglie testi ‒ in prosa e in poesia ‒ che giungono alla redazione su iniziativa degli autori, «senza nessuna richiesta da parte della rivista» e, dunque, lontani dai condizionamenti editoriali. Quasi sempre preceduti da densi dialoghi che ripercorrono le strategie narrative, i ricordi e la teoria poetica degli scrittori, i passi selezionati aprono a rinnovate sensibilità letterarie, come le riflessioni emerse dal confronto sulla narrazione tra Antonio Russo De Vivo e Francesco Pacifico: «Mi interessa vedere cosa diventerà la scrittura, perché oggi la scrittura è ancora lì, legata al passato, ancora distante dai grandi mutamenti in atto dovuti alla massificazione dell’utilizzo del web». Una sezione specifica, invece, è dedicata esclusivamente alla poesia, che risulta essere un campo d'indagine e di ricerca fondamentale anche per il cartaceo: "Poesie del giorno" e "Officina Poesia", le pagine curate da Maria Borio insieme ad altri redattori, oltre a pubblicare inediti preziosi e di risonanza internazionale, offrono al lettore una storia, quella tra testo e immagine, basti pensare all'immersione della poesia di Vittorio Magrelli nei disegni di Massimo Dagnino che, anch'egli poeta, «risponde con segno partecipato» (Pollicino quater).

 

L'editoria nella rivista, e viceversa

 

Ad aver colto l'importanza di un grandissimo numero di lettori di poesia e, allo stesso tempo, di promotori di nuove correnti stilistiche, è anche una rivista giovane, ma che vanta di una redazione d'esperienza nel mondo web della critica letteraria. La Balena Bianca, nata ufficialmente nel 2012 dopo un lungo periodo di gestazione, ha inaugurato da poco la rubrica interna a "Poesia" dal titolo con hashtag "#maestri/pionieri", che, attraverso riflessioni parallele su poeti “maestri” e giovani (o meno giovani) innovatori in prima persona e con uno stile colto ma molto accessibile, mira a enucleare le principali caratteristiche della poetica degli autori scelti. Una splendida utopia, quella della critica poetica sul web, che riflette la natura del nome della rivista: Moby Dick è una scommessa e una proposta terrificante, alla pari di una critica letteraria che, proprio in virtù del suo non essere definizione, scatena sempre paura. Ma questo, del resto, è quello in cui crede il gruppo di critici e scrittori, che al Tropico del Libro confessava quanto sia faticoso scegliere un'arte sempre «esposta al rischio di un’eccessiva piattezza o, al contrario, di un’eccessiva tortuosità». Insieme a "Poesia" è la pagina "Letterature" a costituire il cuore pulsante della rivista: il discorso letterario, decisamente attento alle nuove uscite editoriali ‒ ma non "del momento", come testimonia l'articolo di Paolo Bonari su La Novità di Paul Fournel ‒ tesse una mappatura aggiornata delle tappe che la letteratura sta compiendo, dalle nuove strategie narrative alle riletture di autori dimenticati dal canone, seppur attualissimi, come emerge dall'articolo di Valentina Di Cesare dedicato a Fausta Cialente. Non è casuale l'uso del lessema "mappa". La Balena Bianca ospita già da un anno gli articoli che rientrano in "Rar", un progetto letterario e artistico creato da Federica Patera con la collaborazione di Andrea Sbra Perego che si propone di portare alla luce, in forme inedite e originali, legami tra opere di autori molto diversi tra loro, oltre le storie stesse e quasi con la volontà di creare un textum unico: «Scrivere, spiegare e fermare nero su bianco la lettura invece della scrittura; cosa può avvenire quando le informazioni, le sensazioni, le trame e le frasi si mischiano» è la novità di questa rassegna o «sistema di gestione di archivi» in cui parole-chiave, citazioni e simboli si intrecciano vorticosamente. Di tutt'altra impostazione è, invece, la ricerca di Cultora, quotidiano online di informazione culturale edito da Historica e fondato da Francesco Giubilei. C'è qualcosa che, nella critica letteraria italiana del web punta sempre più a costruire una permeabilità virtuosa tra tutti i livelli della comunicazione letteraria. La pagina dedicata alla "Letteratura" predilige, accanto a qualche recensione e intervista, un costante aggiornamento della situazione dell'editoria e delle iniziative dell'ambiente: dalle novità del mercato agli approfondimenti culturali, dalle curiosità storiche (e non) sulle più interessanti biblioteche del mondo agli aggiornamenti sui premi o festival del libro, gli articoli offrono al lettore-esploratore una buona proposta teorica e operativa dei movimenti editoriali che accompagnano la crescita di una risposta letteraria. Il progetto culturale ha, inoltre, sfidato la sua culla natale ‒ il web ‒ per impegnarsi nella gestione di ben due librerie, una a Roma e una a Milano. Il contatto fisico e reale della letteratura con una comunità attiva può contribuire, infatti, a sollecitare un nuovo dibattito critico, che dalle righe del portale online rimbalza alla carta delle opere ‒ fornite direttamente dagli editori ‒ e viceversa.

 

Bechelloni, Università di carta. L'editoria accademica nella società della conoscenza, Milano, Franco Angeli, 2010.

Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Il Saggiatore, 1965.

Guglieri, M. Sisto, Verifica dei poteri 2.0. Critica e militanza letteraria in Internet (1999-2009), Palermo, Palumbo, 2010.

Iannuzzi, L’informazione letteraria nel web. Tra critica, dibattito, impegno e autori emergenti, Milano, Biblion Edizioni, 2009.

La Porta, G. Leonelli, Dizionario della critica militante. Letteratura e mondo contemporaneo, Milano, Bompiani, 2008.

Moresco, A. Voltolini (a cura di), Scrivere sul fronte occidentale, Milano, Fetrinelli, 2002.

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_125.html

Come parla la critica letteraria del web. Un'indagine / 2

Presentiamo la seconda di quattro puntate di un'indagine volta a analizzare le caratteristiche salienti delle riviste di critica letteraria e letteratura on line che si sono maggiormente distinte negli ultimi anni. La prima puntata si può leggere qui. Le prossime puntate saranno pubblicate in luglio e settembre del 2017.

 

Mutare la sede del discorso critico non significa necessariamente sconvolgerne il metodo e gli obiettivi. Se esiste un «oggetto di osservazione», come ricordava Franco Fortini nella Verifica dei poteri, esiste sempre un destinatario al quale rivolgere le scelte, i giudizi, le domande che ridefiniscono il nostro essere nel mondo. Esiste, dunque, un ruolo ‒ quello dell’attività critica ‒ che nelle versioni più attuali, non smentisce mai la sua etimologia: con krínein s’intende fin dall’antichità l’operazione di discernere e valutare un’opera d’arte, ma, come la storia linguistica insegna, il termine greco è riuscito a caricarsi del peso metodico della teoria e della poetica, sino a definire, a partire dal periodo positivistico di fine Ottocento, uno status quasi scientifico di ricerca, volto a risolvere una questione non solamente descrittiva ma anche interpretativa. Ebbene, chi intende intraprendere lo studio critico non può non dimenticare questa molteplicità di sguardi, riuscire a parlare di tutto «a proposito di una concreta e determinata occasione», che vada a oltre il supporto stesso d’indagine ‒ nel nostro caso un testo ‒ e, soprattutto, oltre l’etichetta di semplice “intermediario” di parole.

 

Essere critici oggi

 

Ma chi è titolato a fare ciò oggi, sul web? La critica è una lettura «profilata», secondo una definizione di Roland Barthes, che tuttavia sembra coinvolgere una qualifica professionale non strettamente «preconfezionata». Del resto, l’esperienza di Nazione Indiana  vedeva come primi animatori del web alcune figure che, all’interno del campo letterario, occupavano la posizione di «nuovi entranti» o «dominanti», per lo più scrittori e intellettuali diversi, ma accumunati da uno stesso grado di intensità e di radicalità, di riflessione, di scrittura, di stile d’intervento. Spirito dialettico e valori comuni, insomma, come i nativi americani, che trovano una risposta estetica nelle penne del logotipo ideato da Giuseppe Genna. Lo «spartiacque» del 2005, secondo un pensiero di Gherardo Bortolotti del 2011, ha inoltre determinato in modo decisivo la strutturazione successiva dello spazio culturale. Ancora oggi, l’affinità dei testi pubblicati sulle due colonne che compongono la home del sito, resta determinata esclusivamente dalla consonanza tra le sensibilità e le scelte degli autori, dando corpo a un diffuso plurilinguismo che copre uno spettro ampio di interessi e modalità d’intervento. Ai fini di una produzione degna di vivere un tempo più lungo di quello della pagina di carta, il critico dovrà sviluppare una nuova qualità: essere competente ‒ non semplicemente specialista e filologo ‒ e fondere l’impostazione del giornalista con quella del letterato. Il cambio di paradigma non nega affatto il compito di mediazione della critica, ma le chiede altresì una selezione aperta in favore di comunità possibili, dinamiche e progressive così come è lo scenario attuale di interessi culturali. Ecco perché, accanto alla tipologia recensoria, sul blog di Nazione Indiana troviamo approfondimenti che dimostrano una particolare attenzione alle nuove forme contemporanee letterarie, come gli articoli recenti a puntate sull’orizzonte della “hypertext poetry” (Formati per fare ebook di Fabrizio Venerandi) o sulla semantica tecnologica che si fa corpo e figura, una proposta di «ricerche in lavorazione» che rientra nel laboratorio di scrittura Prove d’ascolto, le cui tracce vengono ospitate nel portale con supporto grafico (Prove d’ascolto #1 di Daniele Bellomi, con una nota di commento di Alessandro De Francesco). Ma non mancano rilanci contemporanei delle letture critiche ‒ si pensi a Parlare il Roland-Barthes: frammenti di un pastiche di Ornella Tajani ‒ e letture critiche di una semiologia che parla del nostro tempo (Urlo grafico di Marino Magliani, con una intervista a Fabrizio Piumatto), il tutto sommato a un’accuratissima selezione di lunghi estratti in prosa e poesia, dagli esiti sperimentali.

 

La recensione è critica

 

«Certamente tutti possono parlare di libri, meno persone sanno farlo con gli strumenti giusti, giocando con il complesso e delicatissimo confine tra oggettivo (stile, lessico, organicità narrativa, poetica o argomentativa) e soggettivo (contenuti)». Gloria Ghioni, fondatrice di CriticaLetteraria crede in un’urgenza militante che, ormai distante dagli specialismi e dalle dimensioni autoreferenziali, prediliga tuttavia un’unica discriminante: la professionalità. Ed è ciò che lega il gruppo del sito ‒ «di uno spazio in più, impegnato, per chi crede nel potere nelle parole», così si legge nella sezione “Chi siamo” ‒ , da ormai dieci anni a servizio di un lettore «dal volto umano» che, secondo un pensiero di Massimo Onofri, alla critica non chiede come funziona la letteratura, ma addirittura che cos'è la vita. La recensione, in questo senso, rappresenta un’occasione di dibattito sull’esperienza che va oltre una semplice «riproposizione rimescolata della sinossi». Scrivere bene non basta. Proprio perché un libro è sempre causa e condizione di un nuovo movimento del reale e nel reale, occorrerà valorizzare il testo seguendo il potere d’indagine delle parole, e non il mero soggettivismo o la cura arida della notazione. Anche il recensore, prosegue Gloria Ghioni, «deve metterci un tocco di letteratura». Precisa selezione a monte e linea editoriale comune ma sfumata, per interessi e competenze: l’officina di CriticaLetteraria si fonda su un’analisi ad ampio raggio del panorama editoriale ‒ sono presenti anche interviste e segnalazioni di festival letterari ‒, che sappia restituire equilibrio tra le valutazioni estetico-formali e l’interpretazione ideologica di testi per lo più letterari e saggistici, non necessariamente etichettabili come ultime uscite. A dimostrazione del fatto che esiste un lettore esploratore attento all’approfondimento vero e proprio, la rubrica “#PagineCritiche” si configura come una sorta di appuntamento settimanale nel quale riscoprire testi impegnativi  dal taglio metaletterario ‒ si pensi all’articolo Sulla critica letteraria giapponese di Valentina Zinnà ‒, ma anche linguistico, politico, scientifico, sociale, insieme a diverse riflessioni sullo statuto della critica e della letteratura, come l’analisi sul rapporto tra scrittore e lettore di Manganelli in Alla (ri)scoperta dell’inutile necessità della letteratura di Gloria Ghioni. Un'altra rivista culturale dedica un’intera rubrica al dialogo costante tra poesia, racconti, romanzi e «tutto ciò che c’è intorno: la realtà, il contemporaneo». Il lavoro culturale, nato nei corridoi dell’Università di Siena, si presenta come «uno spazio aperto per l’elaborazione critica delle opinioni», un angolo della rete nel quale immergersi ‒ come viene sottolineato nella citazione de Il cavaliere inesistente di Calvino che apre il rispettivo focus “Milleuna” ‒ e concentrarsi su studi precisi e ricchi di citazioni interne in materia letteraria e non solo. Dal dibattito sulla conoscenza tra spirito umanistico e scienza in L’“altrui mestiere” dello scrittore e il ponte tra le due culture di Marta Occhipinti ai casi editoriali delle nuove traduzioni, come il confronto ravvicinato tra le diverse edizioni dell’Antologia di Spoon River in Quando i poeti traducono i poeti di Iuri Moscardi, il lavoro culturale offre percorsi inediti ‒ dalla esibita forma saggistica ‒ che abbracciano più testi, nei quali “il letterario” risulta ispezionato anche nei suoi contenuti antropologici e politici, coerentemente all’impostazione dell’intero corpus di rubriche dedicate alle scienze umane e alle pratiche sociali di un mondo in costante velocità e specializzazione.

 

La grande scommessa tra web e carta

 

In una umanistica digitale non crede invece gran parte dei direttori e intellettuali d’oltreoceano. Il cosiddetto «giornalismo lungo», secondo le posizioni del magazine storico Harper’s, non può in alcun modo rientrare nelle dinamiche di viralità, immediata fruizione e condivisione, come risulta da quanto rilasciato in un’intervista da Christine Smallwood: «Il Web è fatto per le opinioni immediate e i commenti taglienti: non è quello che facciamo ad Harper’s. Ma se è questo il futuro, probabilmente non fa per noi». Il panorama delle riviste indipendenti degli Stati Uniti, tuttavia, è più complesso di quanto si pensi. Già nel volume The Little Magazine in Contemporary America (2015), curato da Ian Morris e Joanne Diaz, i numerosi saggi e le interviste avevano tentato di circoscrivere la linea comune adottata: in effetti, era emerso che il timore nei confronti delle piattaforme online derivasse unicamente da una mancata percezione del pubblico di lettori. Il passaggio dalla carta al web, dunque, è risultato possibile solo grazie a quei gruppi editoriali che potevano contare su una reputazione stabile e di alto livello. In ogni caso, la comunicazione tra le due dimensioni non viene annullata, anzi, n+1, magazine letterario fondato nel 2004, predilige, oltre al formato sfogliabile con cadenza semestrale, il caricamento di contenuti online sul corrispettivo sito ogni settimana. In Italia, un esperimento simile ha coinvolto uno storico mensile italiano d’informazione culturale, fondato nel 1984: L’indice dei libri del mese. Ispirato proprio ai periodici internazionali, quali The Times Literary Supplement e The New York Review of Books, la rivista, che promuove il dibattito pubblico sociale e culturale attraverso convegni e premi ‒ in particolare l’”Italo Calvino” per la narrativa inedita ‒, ha saputo rinnovarsi proponendo una piattaforma (L’indice online) che seguisse con cura i contenuti e  i fili conduttori del cartaceo, ma con una pianificazione aggiornata delle riflessioni sulle novità e i problemi editoriali, come viene evidenziato nella rubrica “Geografie”, dedicata a preziosi itinerari «di parole» letterari e semantici. Basti pensare, per esempio, al recente approfondimento di Edoardo Esposito ‒ dal titolo Rivista Tradurre, dal web alla carta stampata ‒ , o ancora, sempre dal numero di giugno 2017, Tradurre Reading at Random, l’ultima opera di Virginia Woolf di Massimo Scotti. Ben articolate e ricche di suggestioni ‒ anche visive, tra fotografie e illustrazioni d’autore ‒ le altre sezioni interne, in particolare “Letture”, un osservatorio sull’attualità narrativa non solo italiana, ma anche straniera, nonché sulle novità del fumetto e dei testi per l’infanzia. Riconoscibilità del testo in esame e breve didascalia tematica: le recensioni dell’Indice mantengono un’impostazione classica che completa il cartaceo ‒ ugualmente scaricabile in pdf ‒ con una multimedialità necessaria, dalle immagini ai video, sino alle interviste a scrittori e intellettuali e agli incontri con gli illustratori del mese, raggiungibili (e soprattutto condivisibili)  con i link dei social e delle pagine ufficiali.

 

 

Testi citati o soggiacenti

F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Il Saggiatore, 1965.

F. Guglieri, M. Sisto, Verifica dei poteri 2.0. Critica e militanza letteraria in Internet (1999-2009), Palermo, Palumbo, 2010.

G. Ferretti, S. Guerriero, Storia dell'informazione letteraria dalla terza pagina a Internet. 1925-2009, Milano, Feltrinelli, 2010

G. Iannuzzi, L’informazione letteraria nel web. Tra critica, dibattito, impegno e autori emergenti, Milano, Biblion Edizioni, 2009.

A. Moresco, A. Voltolini (a cura di), Scrivere sul fronte occidentale, Milano, Fetrinelli, 2002.

AA.VV, La critica come critica della vita. La letteratura e il resto, a cura di S. Lutzoni, Roma, Donzelli, 2015.

F. Fiorentino, Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura, Macerata, Quodlibet, 2011.

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_121.html

Medusa, il romanzo dell’ossessione semiotica

Solo l’uomo che non teme l’abisso, scriveva Karl Jaspers, può accedere alle nuove coordinate che reggono mondo e individuo. La metafisica va oltrepassata. A questo punto, ci si rassegna a una comprensione che vuole essere a tutti i costi luce. La realtà che Luca Bernardi traduce nel romanzo Medusa si rifugia, infatti, nelle ombre di una «zona liquida», un bacino di un linguaggio psicotico che si oppone ai cosiddetti «quadri di esperienza» per creare un ordine impossibile. La sensazione è quella di un’inedita vertigine. Ogni sistema logico diventa instabile, così come la passerella oscillante sulla quale la prosa si carica di una coerenza semantico-lessicale unica e di uno stile telegrafico fondati su un fondamentale principio dissociativo. Perché la schizofrenia ‒ ambigua ma ben strutturata ‒ del narratore e del suo verbo trova una sua ragione proprio nel concetto di scissione: la mente (phren) è separata (schizo) in due mondi, dove l’uno si specchia nell’altro, riducendo al minimo la prevedibilità del reale. In un universo progressivamente derealizzato, nel quale si muovono «gli Obsoleti», i «Senzavolto», «i parlanti», «il Putapadre», «le madri», il mentore «Scardanelli» nonché i compagni dell’anti-eroe di età indefinita, non occorre tanto domandarsi verso quale confine della follia creativa essi possano ritrovare una sede definita, bensì come sia possibile capirsi e comunicare nel mondo «con entità adoperanti linguaggi tarati su parametri diversi».

 

La morfologia del disagio

 

La morfologia del disagio che si insinua tra bizzarri neologismi («logoterrorista da tagliatelle», «alambicchi metempsicotici», «supercereale», «respirodimenticanza») e deformazioni esasperate del logos ordinario («mi si sciolgono le mani», «il ronzìo soffia i piedi», «le identità dondolano e fischiano», «siamo mica in un surgelatore di istanti?») sottintende una missione chiarissima: se bisogna sospettare delle parole ‒ in particolare quelle che «risucchiano i più nell’uno» ‒, se il significato è davvero una «moneta appestata», e ancora, se l’unica possibilità comunicativa dell’uomo risiede in una «smania di ripetizione variata», è necessaria una ricerca al contrario nella corporeità del linguaggio stesso, per accedere a una costellazione del «metasignificato» lontanissima da quella «serie denotativa» entro la quale ci muoviamo da sempre. La teorizzazione di questo «glossario del mugolio» o «grappolo» linguistico, capace di trasporre il nostro codice nelle forme utilizzate da «persici, mantidi, pleiadiani», insiste, con un lessico che trasfigura la lezione accademica, su un problema di fondo: il segno. Il segno che è la «sindrome» dell’individuo e viceversa, il segno che testimonia una scelta comunicativa ‒ falsa ‒ dovuta a un «contatto troppo esclusivo e prolungato con un altro», che può essere anche «assenza» di quest’ultimo. Gli insetti ‒ in particolare gli amatissimi scarafaggi che esigono dal folle genio novità comunicative ‒ non sono individui. Non temono la morte, comunicano senza segni. Il «guaio», dunque, è l’uomo.

 

La neolingua del “quisquigliante”

 

«Se l’io è un occhio, dico, cos’è la bocca?». Inizia, così, un’ossessione semiotica che nelle parole non può trovare spazio ‒ gli «universi» fuggono ‒ , ma che delle parole non può fare a meno, perché «sono loro a provarci» con lui: la traduzione «metalinguistica», allora, deve costantemente nutrirsi di una metafisica extraterreste, dalla quale attingere, solo dopo un surreale scambio di umane necessità ‒ i sentimenti e l’amore («robaccia», «quella roba di ieri sera») ‒, il materiale per il DSA, il Dizionario Semiologico Abissale, che, senza troppa sorpresa, si presenta come un’altra sigla possibile per il Disturbo Specifico dell’Apprendimento. Quasi a dimostrazione che la distorsione linguistica e le posizioni strabiche assunte dal protagonista nei confronti della realtà possano configurarsi esse stesse come nuove chiavi per creare una certezza. Tra psicopatologia e creatività, infatti, scorre un filo sottile. La prima delle opere “sicure”, nate dalla dissociazione mentale del protagonista, è la nuova lingua, il «quisquigliante», un porto sicuro dal quale egli ‒ ormai «mediatore commerciale» e «lessicografo» ‒ non si allontana mai, neanche quando ritorna, provvisoriamente, nel quotidiano. Ma il filtro dell’abisso, che rende il mondo un campo minato di uova metalliche che «raddoppiano il sole», di «sabbia impestata» e di tentacoli fuori e dentro il mare, a differenza del linguaggio puro della psicosi, promuove una rete di scarti non del tutto indecifrabile, perché è giocato entro la coppia binaria di senso e follia, creazione e distruzione. La parola trattiene non una, bensì molteplici verità. L’effetto di questa anti-logica allucinata non può che tradursi in una prosa densissima e consapevole delle proprie contraddizioni. Così, accanto a significativi recuperi linguistici dello slang giovanile ‒ «bimbiminkia colorati», «sound», «tvb», «house», «bella lì», «selfiemania», «app sudtirolese» ‒ troviamo un gergo specialistico e volutamente ricercato ‒ «coazione», «proclività», «rousseauiano entusiasmo», «ebefrenia», «catacresi», «parusia» ‒ che, talvolta, scade in semplificazioni sospette, come quello «spaziotempo» che poteva essere cronotopo, oppure quel «cosiddetto cielo» troppo reale in un mondo che respira «grumi d’aria» e che presto, dopo la pubblicazione del Dizionario frattale, «andrà in salamoia».

 

Parole come cose, ma infette

 

Ebbene, le parole vengono usate come cose, come parti scisse del sé, ma trattengono ugualmente un’infezione dalla quale con fatica l’uomo riesce a liberarsi. Anche se il dialogo è ben simulato, la solitudine riemerge da un’acqua torbida, in particolar modo nella prosa ‒ decisamente più immediata ‒ della seconda parte del romanzo (Adriatico): in uno scioglimento parziale di senso, ogni cosa si apre alle rivelazioni e prepara l’epilogo di questa indagine nel limite. La «luna si slabbra», «un raggio scuce i tronchi», e lo scarafaggio, ormai impaziente, «raspa avanti e indietro». Del resto, la instancabile voce fuori campo in corsivo ‒ forse una proiezione narcisistica del protagonista ‒ poteva già essere chiaro sintomo di un’assenza di comunicazione con l’Altro. Il monologo impazzito di domande, retorica e giudizi, nel quale la costante del diminutivo ironico e di modestia ‒ «faccino», «prenderla larghina», «bel giornettino», «voglietta di condivisione» ‒ non è altro che l’ennesima alterazione (questa volta linguistica) del nuovo mondo, avverte che di «filtro medusa» si può effettivamente parlare. Eppure il superamento di quella «discrepanza fra specie e individuo detta coscienza» attraverso il Dizionario rimane un’utopia. L’io è «la colpa». L’io che anche in un mondo scombinato non può mentire a sé stesso. «La mia morte è una bambina bionda», «la mia morte è il mio piccolo amore»: sotto il segno del rimosso ‒ che «cola di padre in figlio» ‒ , il passato galleggia in lontananza. Le parole diventano, allora, silenzio o «bolle». Le stesse parole che per diventare illuminazione richiedono sempre un nascondimento. «E così, dico correndo nel mare».

 

 

Immagine: Testa di Medusa

 

Crediti immagine: Peter Paul Rubens [Public domain]

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_118.html

Come parla la critica letteraria del web. Un'indagine / 1

Presentiamo la prima di quattro puntate di un'indagine volta a analizzare le caratteristiche salienti delle riviste di critica letteraria e letteratura on line che si sono maggiormente distinte negli ultimi anni. Le prossime puntate saranno pubblicate a giugno, luglio e settembre 2017.

 

 

L’indagine non si propone di accertare la capacità di produrre critica nella vasta offerta di informazione letteraria del web che, come testimonia il capillare censimento di Gian Carlo Ferretti e Stefano Guerriero (Storia dell'informazione letteraria dalla terza pagina a Internet. 1925-2009), ha raggiunto da tempo un ottimo livello, bensì intende cogliere i diversi atteggiamenti con i quali la critica può incidere (ancora) sulla realtà attraverso il web, in virtù della sua ontologica forza interpretativa e trasformativa, ovvero diffondere, come sostiene Remo Ceserani, «sapere, conoscenze, immagini della realtà e del mondo, atteggiamenti della sensibilità e modelli di comportamento». Interrogare la scena contemporanea non è un fatto scontato né tantomeno immediato, se l’obiettivo è quello di essere davvero generativi.

 

Un’«aristocrazia senza terra»

 

C’è chi pensa a Internet come un’immensa biblioteca in cui perdersi e chi crede ancora nell’assenza di affidabilità del medium in merito alle materie di cultura. La critica è morta da tempo, la rete è solamente il regno della confusione. L’ultimo decennio, tuttavia, sembra aver smentito il tutto. Perché l’errore di tali prospettive risiede nel non porre sufficiente attenzione a un mondo letterario web che non è affatto esente da precisi meccanismi di selezione, creazione e diffusione, così come non lo è il suo pubblico di lettori-esploratori, bene di primaria importanza per il successo di una rivista che sappia coltivare il discorso letterario secondo nuovi stili e atteggiamenti critici originali. Già Bruno Pischedda, nel saggio La webletteratura della nuova Italia, individuava nel fenomeno letterario del digitale «interessanti processi di assottigliamento qualitativo» e una stratificazione tipologica atti a modificare ‒ di nuovo ‒  la realtà della blogosfera che caratterizzò gli esperimenti precedenti. «Literary criticism is […] work, a technique, a skill»: su questo siamo tutti d’accordo. Ma le dichiarazioni che Peter Stothard, direttore del Times Literary Supplement, rilasciava nel 2012 in un’intervista pubblicata su The Indipendent, oggi ci appaiono probabilmente superate, in quanto, non solo non si è verificata un’erosione dei «contenuti librari, testuali», ma l’opinione pubblica ne è uscita piuttosto consolidata. Il lettore-esploratore sa riconoscere la differenza tra un discorso di critica e un’opinione, e non è detto che debba per forza scegliere una sola strada. Non è detto nemmeno che quest’ultimo prediliga testi brevi e semplificati, considerate le specificità del medium di riferimento. Il discorso critico vero e proprio ‒ e non il parlare solo di libri ‒ passa, oggi, attraverso proposte disinibite ed efficaci di nuovi mediatori, più in sintonia con le competenze di ordine multimediale e comunicativo nonché più attenti alle «tipologie» e «caratteri», sui quali da sempre insiste Vittorio Spinazzola.

 

Una rinnovata coscienza intellettuale

 

La critica «non aiuterà a vivere» come la Letteratura di Todorov, ma agisce direttamente sulla temporalità del mondo ordinario, venendosi a configurare come una tra le tante fonti di idee.

E proprio tra il tempo e lo spirito di due zeri si racchiude la cifra della possibilità di doppiozero ‒ rigorosamente con la “d” minuscola in senso lacaniano ‒, progetto editoriale no profit online dal 14 febbraio 2011. «Sfidare criticamente i conformismi contemporanei», così si legge nella sezione “Chi siamo” del sito, che è anche casa editrice: il processo intellettuale, che ha la forma di un dono ed è promosso da più di 900 scrittori, critici e studiosi, pur rimanendo fedele ai luoghi tradizionali della critica, allarga il campo di osservazione a discipline specifiche, quali la sociologia, l’antropologia, l’architettura, il web stesso, che rientrano nella categoria “Idee”. L’impronta letteraria con cui ogni articolo viene curato si fonda, infatti, su una ricerca costante di linguaggio e tematiche attuali. Accanto alle recensioni, troviamo diverse riflessioni sul corso della post-modernità, che poggiano, quasi sempre, su basi letterario-filosofiche e su scelte comunicative disponibili alla sperimentazione, secondo un atteggiamento «amichevole-seminariale» che non incrementi il distacco tra cultura e realtà ma che, allo stesso tempo, non trasfiguri la storia e la verità delle parole utilizzate: così compaiono, tanto nelle recensioni quanto negli approfondimenti, lessemi quali certitudo, welfare to work, parrhesia, Auflockerung, logos, solo per fare qualche esempio. Anche l’apporto iconografico si inserisce in un preciso intento simbolico e di contaminazione dell’immaginario: dalle fotografie alle opere di pittura e scultura, il tutto si fonde in un completo messaggio di rimandi, che talora supera anche la sede stessa dell’articolo per ricongiungersi ad altri sguardi sullo stesso tema, come quello del corpo, trattato nei primi due mesi del 2017 in Eugenio Borgna. Per un’etica di parola (Nicole Janigro), Il gesto del sarto. Cosa può un taglio? (Alessandro Foladori), Di quale corpo ci parla Foucault? (Francesco Bellusci).

 

 

 

Responsabilità collettiva e percezione del Reale

 

 

 

Sull’importanza del rapporto tra letteratura e realtà si schiera un’altra rivista, il cui formato può rientrare anche nel blog propriamente detto. Nel «tentativo di rispondere a una mutazione che ci investe», Le parole e le cose esercita l’attività critica prediligendo non solo la tipologia saggistica, ma anche veri e propri estratti narrativi e poetici, come i recenti sei inediti di Andrea de Aliberti (Dall’interno della specie). Molti degli interventi critici, secondo quanto riporta una nota di apertura, vengono riproposti su testate nazionali, riviste cartacee e raccolte editoriali, a testimonianza del fatto che il prodotto culturale promosso dal web non si presenta in termini oppositivi alla terza pagina o alla sede tradizionale di informazione letteraria, anzi, costruisce, una rappresentazione complementare del dibattito critico, della storia ‒ la nostra ‒ attraverso le parole della letteratura, e viceversa. Titoli immediati (Il sintomo Lacan, Perché si scrive male?, Costellazione Gerontion, La pornografia come oggetto poetico) e cura per le fonti bibliografiche: Le parole e le cose adotta, in uno spazio semplice e dal taglio minimalista a griglia unica, nuove strategie stilistiche e strutturali per diffondere una personale ‒ e plurale ‒  traduzione della società, una rinnovata visione critica delle dinamiche del mondo letterario (Il sintomo Lacan), mediatico (Odio Internet) e anche linguistico (La lingua dei giovani accademici, per riportare un esempio recente), grazie a un tono “militante” colto e mai forzato.

 

Non tutta la comunicazione è verbale

 

Dietro il rapporto tra prodotto critico e medium ospitante, non vi è solamente un’ansia di rinnovamento, ma un’oculata indagine sul rapporto contenuto-forma-comunicabilità. L’elaborazione teorica non si presenta più come un’unità isolata di senso, ma come un’esperienza calata in un contesto più ampio. Il Colophon, rivista letteraria online su Medium dal 2015, ha sviluppato un discorso organico e immediatamente riconoscibile di critica, insistendo proprio sulla inscindibilità di questi tre aspetti. «Le parole sono importanti», ma non bisogna dimenticare, come Franco Carlini insegna, che sono racchiuse in un testo scritto e che questo, nella pagina, si presenta come un’immagine. Grafica, layout di apertura, corpo testuale, interlinea e font sono stati studiati per garantire al lettore un senso di pulizia e ordine, evocato dalle illustrazioni minimaliste. Le modalità di informazione letteraria sono eterogenee, ma l’impostazione critica riflette una coesione d’insieme, dettata anche dal fatto che Il Colophon si definisce una rivista bimestrale a tema. Dalle interviste ‒ si ricordi la recente a Rossella Milone (Un osservatorio sul racconto) ‒ agli editoriali di Michele Marziani ‒ l’ultimo, indaga proprio la posizione degli intellettuali (e dei lettori) in merito alla narrativa breve ‒ e ancora alle recensioni o alle riflessioni in prima persona ‒ Il lettore che non so essere di Paolo Ferrucci affronta un tema attualissimo, la eccessiva analiticità che soffoca il piacere della lettura ‒ emerge l’interiorizzazione di una delle regole più importanti dello stato della webzine letteraria: il cambiamento. In balia di un presente “continuo”, esistere, essere riconoscibili e fruibili, significa «mutare e mutarsi incessantemente», riformularsi, dunque, ancora una volta, per dare una nuova voce e un nuovo volto all’insostituibile discorso critico sulle cose.

 

Testi citati o soggiacenti

G. Ferretti, S. Guerriero, Storia dell'informazione letteraria dalla terza pagina a Internet. 1925-2009, Milano, Feltrinelli, 2010.

R. Ceserani, Guida allo studio della letteratura, Bari, Laterza, 2002.

G. Iannuzzi, L’informazione letteraria nel web. Tra critica, dibattito, impegno e autori emergenti, Milano, Biblion Edizioni, 2009.

B. Pischedda,  La Webletteratura della Nuova Italia, in V. Spinazzola (a c. di), Tirature ‘11, Milano, Fondazione Mondadori – il Saggiatore, 2011.

A. Moresco, A. Voltolini (a cura di), Scrivere sul fronte occidentale, Milano, Fetrinelli, 2002.

T. Todorov, La letteratura in pericolo, Milano, Garzanti, 2008.

V. Gheno, Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi), Firenze, Franco Cesati Editore, 2016.

F. Carlini, Lo stile del web. Parole e immagini nella comunicazione di rete, Torino, Einaudi, 1999.

G. Policastro, Dai «Novissimi» ai lit-blog, Roma, Carocci Editore, 2012.

 

Sitografia

Doppiozero: http://www.doppiozero.com

Le parole e le cose: http://www.leparoleelecose.it

Il Colophon: http://ilcolophon.it

Alfabeta2: http://www.alfabeta2.it

L’indice dei libri del mese: http://www.lindiceonline.com

Critica Letteraria: http://www.criticaletteraria.org

Nuovi Argomenti: http://www.nuoviargomenti.net

Enthymema: http://riviste.unimi.it/index.php/enthymema

Nazione Indiana: http://www.nazioneindiana.com

Minima&Moralia: http://www.minimaetmoralia.it

Cultora: http://www.cultora.it (Letteratura)

Finzioni Magazine: http://www.finzionimagazine.it

Lavoro culturale: http://www.lavoroculturale.org

Cultweek: http://www.cultweek.com (Letteratura)

La Balena Bianca: http://www.labalenabianca.com

Satisfiction: http://www.satisfiction.me/

 

 

/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_109.html

Attraverso Tabucchi. Viaggio nell'opera di Antonio Tabucchi


 

 

Alessandro Iovinelli

Attraverso Tabucchi. Viaggio nell'opera di Antonio Tabucchi

Roma, Novecento libri, 2018

 

Risonanze e silenzi

 

«La noiosa questione della verità [...] in letteratura non esiste, perché la letteratura è una realtà parallela». Abbiamo allora due opzioni: forzare l’invenzione cercando di mettere ordine nella lingua oppure accettare il Gioco del rovescio e abbandonarsi al mosaico di storie che precedono tutti gli elementi testuali. Per Antonio Tabucchi, però, non vi è una strada maestra. Del resto, la verità, come sottolinea in Autobiografie altrui, esiste in una forma che non riusciamo mai a carpire del tutto. E se essa passa inevitabilmente attraverso la lingua, come in una rete, lascia scorie pesanti e appuntite. Da qui, dall’analisi di questi detriti ipertestuali, semantici e sintattici, il critico Alessandro Iovinelli sviluppa un’analisi quasi investigativa del tessuto tabucchiano: coerentemente con una struttura che rispetti la «filosofia della scrittura», come sottolinea Silverio Novelli nell’Introduzione, il saggio Attraverso Tabucchi. Viaggio nell’opera di Antonio Tabucchi (Novecento Libri, 2018) mette a fuoco, in più puntate o capitoli tematici, lo sviluppo operato dall’autore del fattore lingua sotto molteplici aspetti, dal «tentativo fallito» o «atto perverso» della traduzione dal portoghese alle figure del discorso che trattengono il non detto e il non visto (ellissi in primis), senza dimenticare l’importanza della narrazione iconografica. Se uno «scrittore è soprattutto la sua lingua»,  e se la lingua tutto trattiene – anche e soprattutto quando non dice –, sono i dettagli a rievocare ciò che sta prima (o sotto, nel sostrato) di una storia. La posta in gioco, per Iovinelli è infatti non tanto la scoperta della verità, ma «la maturazione di un’intesa consonante con le ragioni del testo e i sentimenti di tutti gli attori chiamati in scena».

 

Anche il buio pesa

 

L’importante è cercare. Che sia una voce, una traccia interpretativa o un dialogo mancato, conta l’attenzione che il lettore – precisamente l’ascoltatore, per Tabucchi rivolge non solo al testo narrativo, ma all’esistenza reale ed extraletteraria del personaggio, che, sul filo sottile dell’interpretazione e della testimonianza, si serve dell’affabulazione per costruire una mappa interrogativa e piena di contraddizioni irrisolte. Perciò, proprio nella struttura linguistica di Sostiene Pereira, Iovinelli sottolinea la funzione narrativa quale «atto linguistico corrispondente a un’azione e non [...] pura enunciazione di un dato». Sarebbe troppo semplice servirsi della sola letterarietà per un mediatore come Pereira: «Il testimone è colui che produce la verità attraverso la parola». È, infatti, una noiosa questione la verità, ma è pur vero che è la spinta che muove questo linguaggio ibrido tra voce del personaggio, dell’autore e del narratore. C’è, muove le formule ripetitive, i parallelismi sintattici, le stringhe avverbiali. Ma non si vede. Anche se, come sostiene Iovinelli, «non potremmo mai definire un autore secondo la categoria dell’ellissi per il semplice fatto di averla talvolta utilizzata», nel sistema di scrittura tabucchiano non si può non riconoscere che tale figura del discorso risulta essere assolutamente decisiva. La letteratura, prosegue il critico, in quanto dimensione fittizia, può conservare solo «situazioni che possono essere rappresentate come una presenza-assenza, come un vuoto di significati e un eccesso di significati [...], come un “buco nero”». Il paragone con i buchi neri è calzante e molto funzionale all’analisi critica: se tutte le informazioni cadono nella reticenza, nelle approssimazioni e imprecisioni del discorso («sentì invece una grande nostalgia, di cosa non saprebbe dirlo, ma era una grande nostalgia di una vita passata e di una vita futura, sostiene Pereira»), che cosa e per quale motivo questo buco prende vita e si trasforma nell’universo narrativo? Forse per «inesprimere l’esprimibile». Tabucchi riesce a materializzare il rovesciamento di uno dei capisaldi dell’estetica che Roland Barthes tracciava nella prefazione ai suoi Essai critiques del 1964, per arrivare a una rappresentazione della realtà anche in una sola emissione di voce (Un universo in una sillaba). Non può permettersi di chiudere, però, il meccanismo narrativo: il libro «non finisce mai dove finisce», poiché si dilata nel tempo e nello spazio come un piccolo universo.

 

Tra memoria collettiva e segreti extraletterari

 

Anche quando un segreto si rivela sotto forma di paradosso (a volte ritardato), secondo quella «criptocomicità» tanto cara a Pessoa, risponde fedelmente al significato originale di fictio, ovvero di creazione e produzione. La rivelazione di un mistero non significa più niente nell’ora del tessuto narrativo. Dimensione temporale, funzione del comico e falsi ricordi sembrano intrecciarsi, secondo l’analisi di Iovinelli, nella personale visione del mondo di Tabucchi. Ne I morti a tavola possiamo addirittura ricavare una legge oggettiva e universale sulla vita, che è essenzialmente tempo accartocciato – come la bottiglia vuota del protagonista di Clof, clop, cloffete, cloppete – o semplicemente una «cosa sfasata [...] fuori orario». Nemmeno nel «pozzo sepolto» della memoria sono sedimentati i ricordi: essi non sono altro che un racconto di esistenze, l’illusione mobile per «non impazzire» di fronte alla mancanza di un senso. Ma vi è anche, sottolinea il critico, un secondo tema dominante nella posizione tabucchiana sulla memoria: il déja vu, un già visto mai successo, consente ai personaggi – e a noi – di accedere al valore collettivo di lontane reminescenze, a quel «qualcosa che sapevamo da sempre e non volevamo sapere» (Controtempo). E proprio nell’incontro tra testo e figura, tra «parola e fotogramma», il linguaggio del sogno e dell’iconografia costituisce uno dei percorsi più originali attraverso cui l’enigma si infittisce e, allo stesso, tempo crea una possibilità: recuperare «un altrove ipotetico che il pittore non dipinse», la moltiplicazione del rovescio. Quel Racconto con figura che supera la realtà e la interpreta, nascondendone «i grandi segreti [...] in un buco fatto in un albero secolare» perché rimangano «tappati lì, per l’eternità».

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_161.html

Cantare la verità. Parole di donne nella poesia contemporanea - 1

Era il periodo Borges, come lo definisco nei miei diari. Leggevo molta saggistica e poesia, seguendo linee precise di ricerca. Le penne erano tutte maschili, ma questo non mi ha mai turbato. Era il periodo Borges e ricordo perfettamente una tensione nuova verso qualcosa che nella mia libreria non trovava risposta. Avevo bisogno di qualche verso di donna. Il motivo, forse, non c’era, ma una precisa eco mi stava chiamando. Sapevo, a livello inconscio e non certamente (ancora) critico, che solamente un verso femminile poteva avere le parole giuste per quel me-individuo. Non era, dunque, un’esigenza da donna nei confronti di una donna. Era qualcosa di più alto, oltre il genere e la storia. Tutto era concentrato in quella lingua già data di Roman Jakobson, quel patrimonio di fonemi che non incontra mai il suo creatore, ma è costantemente in contatto con un’utenza. Nel mio caso specifico, con un’utenza che carica lo stesso strumento comunicativo del suo limite e della sua inesattezza. E, allo stesso tempo, lo vuole proteggere dalle scorie. Avevo bisogno di questo. Avevo bisogno di un linguaggio o di una lingua?

 

Un medium da attraversare

 

Nel 2012, in un’intervista di Rai Edu Letteratura, Maria Grazia Calandrone rilascia una dichiarazione molto precisa del fare poetico, che esula da discorsi di genere o appartenenza: «La scrittura è una forma autistica di isolamento che però fa sentire in comunicazione con una parte profonda di tutti [...] Si potrebbe definire la condizione di chi scrive una solitudine corale». Nello stesso anno, Einaudi pubblica il sesto volume di Nuovi poeti italiani a cura di Giovanna Rosadini, e la selezione di voci appartenenti a questa solitudine è interamente al femminile. Esiste, in un’area poco indagata e risolta (sempre tenendo in considerazione la dimensione non definitoria della letteratura), qualcosa che lega non solo le poetesse incluse nella collana “bianca”, ma che può costituire una testimonianza – o un semplice punto di partenza – per riflettere sulla poesia contemporanea femminile. Ma prima di capire cosa sia effettivamente l’oggetto, la motivazione e la storia di questa coralità – che esiste –, c’è un medium da attraversare. Del resto, non si può non guardare alla riflessione metalinguistica: il momento enunciativo, come ha ben evidenziato Gian Luigi Beccaria, è già nel Novecento unica possibilità di identità e manifestazione di limite. Al femminile, la questione, poi, si complica. Ed è proprio qui, tra la figura di Amelia Rosselli – unica poetessa presente nella antologia di Pier Vincenzo Mengaldo (1978) – e le declinazioni di questa lingua di invenzione (lat.) e creazione che può nascere una domanda, ovvero quale sia, nello scenario contemporaneo femminile, l’atteggiamento nei confronti del linguaggio.

 

Cercare e creare il codice                                                

 

Parlo di linguaggio consapevolmente. È vero che «la “parole” è indispensabile perché la lingua si stabilisca; storicamente il fatto di “parole” precede sempre» (F. de Saussure), ma l’indagine sul femminile penso che possa (ormai) abbandonare la ricerca di una sua lingua o parole, appunto. C’è un linguaggio unico, la langue poetica, dalla quale le penne attingono da secoli. Ma se quest’ultima rimanesse nella sua forma astratta – e forse perfetta – non ci sarebbe comunicazione. Nel momento in cui questo verbo segnico e incontaminato viene a contatto con un’umanità (socialmente definita), diviene sì messaggio, ma allo stesso tempo si sfalda, perde pezzi. E potere. Comunicare non è combinare semplicemente segni linguistici e identificare il rispettivo valore semantico. In poesia, questo processo, anche se non fa uso di una lingua altra, vede la parola, come diceva Giudici circa la voce della Rosselli, «affidata a una pazza traiettoria» che continua sì a veicolare il «significato da dizionario», ma riesce ad accogliere in sé aree di segno e di significato discordi. Nella sua tesi di dottorato dal titolo La poesia femminile italiana dagli anni settanta a oggi. Percorso di analisi testuale (2009), Ambra Zorat analizzava la duplice tensione (non solo stilistica) che coinvolge le voci contemporanee: un’urgenza espressiva che usa il linguaggio non solo per manifestarsi (identificazione), ma anche per cercare una possibile verità (delimitazione del reale). Vero e realtà son infatti lessemi che ricorrono nelle liriche delle dodici autrici presenti nella edizione curata dalla Rosadini, la quale, nella nota introduttiva, riconosce una «fiducia nello strumento linguistico» da parte delle stesse, «pur nella diversità dei loro conseguimenti stilistici». Domandarsi se il linguaggio, nel corpus – in continuo divenire – del contemporaneo femminile, sia limite o forza, potrebbe anche non essere esaustivo per la comprensione del medium che le donne trasformano, ma è inevitabile imbattersi nella molteplicità epressiva che sottende una ricerca di chiarezza, quella «forma più essenziale / ciò che resta togliendo tutto» (Antonella Bukovaz) che, liberata da qualche peso, vuole creare il mondo.

 

Tensioni (nuove) verso la parola

 

«Senza avvertire il peso della tradizione o l’"ansia dell’influenza" [...], ma con un senso di libertà giocosa nel manipolare quella tradizione, e di gratitudine verso i poeti che ci hanno precedute»: con queste parole Paola Loreto mi descrive ciò che di questa coralità al femminile la colpisce e la convince, perché genuino e leggero, come è anche l’abitare «con molto più agio e fiducia - direi quasi naturalezza - il proprio momento nella storia e la propria relazione con il linguaggio: il materiale e il mezzo che ha per esprimersi, per essere». Un uso aperto della regola, come Paolo Giovannetti scrive nel suo saggio La poesia italiana degli anni Duemila (Carocci), sembra attraversare anche la lirica femminile, che, consapevole del bagaglio linguistico della tradizione (maschile e femminile), non intende creare una lingua, ma si confronta con un «eccesso di autocoscienza espressiva» da chiarire. Che non sempre si accompagna, come il complesso panorama letterario del contemporaneo conferma, a una semplificazione (brevitas). Recitavano così alcuni versi di Jolanda Insana: «non ho accesso alla parola/ e quando con fatica dico fame/ faccio vento e non posso masticare// è un’ossessione la bocca/ poi che si mangia i denti e fa sputazza».

 

 

Bibliografia e link utili

F. de Saussure, Corso di linguistica generale, trad. It. T. De Mauro, Roma-Bari, Laterza, 2011 (ed. or. Cours de linguistique générale, Lausanne-Paris, Payot, 1922).

M. G. Calandrone, La vita chiara, Intervista Rai Edu Letteratura del 18 marzo 2012.

G. L. Beccaria, Poesia del Novecento: il detto e il non detto, in M. A. Bazzocchi, F. Curi (a cura di), La poesia italiana del Novecento. Modi e tecniche, Bologna, Pendragon, 2003.

P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Arnoldo Mondadori, 1978.

A. Rosselli, Le poesie, a cura di Emmanuela Tandello, prefazione di Giovanni Giudici, Garzanti, 1997.

Nuovi poeti italiani, vol. VI, a cura di Giovanna Rosadini, Torino, Einaudi, 2012.

A. Zorat, La poesia femminile italiana dagli anni settanta a oggi. Percorso di analisi testuale, 2009. La tesi di dottorato è scaricabile online al seguente link: https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/3771/4/Zorat_phd.pdf.

P. Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila. Un percorso di lettura, Roma, Carocci, 2018.

J. Insana, La stortura, Garzanti, 2002.

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_151.html

Poesia 2.0. La poesia presa nella Rete - 4

Questa è la quarta e ultima puntata di un'indagine volta ad analizzare le caratteristiche della produzione poetica che sceglie la via di Internet.

 

Fare i compiti

 

Primo indizio: apri la antologia. Le trovi alla fine della poesia, occupano una paginetta circa, sono costituite da almeno dieci domande di natura stilistica. Hai già capito. Confesso che anche io, a scuola, sbuffavo alla sola vista di “analisi del testo”. Individua le figure metriche e retoriche, motiva il lessico utilizzato dall’autore, stendi un commento all’opera e così via. Mentre svolgevo il compito, desideravo solo fermare il tempo e rileggere la poesia. Rileggerla anche dieci volte, in silenzio, lontano da una finalità. Fortunatamente poche esperienze di questo tipo mi segnarono, la mia professoressa di italiano del liceo non amava i percorsi convenzionali e grazie al suo metodo sviluppai una sensibilità ricettiva del testo poetico, se così si può dire, fuori dagli schemi. Poi, nel mio percorso di studio e ricerca personale, incontrai i testi di Pier Vincenzo Mengaldo. La mia vita cambiò, ma questa è un’altra storia. Quello che voglio sottolineare è che la poesia, già nei banchi di scuola, è presente per fornirci gli strumenti di un cambiamento, che possono parlarci solo e se si imposta un percorso che educhi non solo alla ricezione del testo – s’intenda anche tutto ciò che si muove intorno a questo −, ma anche alla complessità del fare poetico. Ora che mi imbatto in unità didattiche e programmi, il quadro mi è chiaro, e la tendenza naturale che mi spinge alla connessione di discipline e dintorni – a un viaggio unico, ma a tappe – mi permette di scorgere ogni sfumatura della poesia, che è visione, valore linguistico, processo comunicativo, pensiero produttivo e tanto altro ancora. Potrei tediarvi all’infinito. La poesia, insomma, è tutte le cose? Mario Luzi direbbe che è in tutte le cose. In quest’ultima puntata dell’indagine, che si concentra sul rapporto imprescindibile tra didattica e poesia, mi piacerebbe arrivasse un messaggio in più: la poesia è essa stessa un potentissimo strumento didattico. Fuori e dentro la classe.

 

Medicine per il «dissueto orecchio»

 

Fuori e dentro la classe, dicevamo, ma anche e soprattutto nel web. Contro il primo dei luoghi comuni, ovvero che “la poesia è solo dei morti”, ho scoperto –  relativamente da poco, lo ammetto – un blog nato a scuola, per la scuola e oltre. Già il titolo I poeti sono vivi, esemplificativo della posizione estetica e metodologica, si pone come un’esortazione a immergerci nella fattualità del testo poetico odierno, che è ancora utile e, appunto, vivo. Dal 2012 il progetto promosso da Pordenonelegge.it e dal Liceo “Leopardi-Majorana” di Pordenone, e realizzato da Roberto Cescon insieme ad alcuni importanti compagni di strada, ovvero Tommaso Di Dio, Maddalena Lotter, Rossella Renzi, Giulia Rusconi e Francesco Tomada, si propone di presentare una poesia al giorno in classe, «uno dei pochi posti dove ancora si sente menzionare questa parola,che quasi sempre viene trattata come una cosa lontana dal presente e incomprensibile se non con le “pinze” di concetti articolati e complessi, che scoraggiano qualsiasi entusiasmo». Il manifesto del sito, che è racchiuso nella colonna a destra della copertina, rinnova un’urgenza, quella di ritornare ad avere «una confidenza» con quest’arte, che «si nutre» proprio del nostro orizzonte quotidiano. È qualcosa che, insomma, è molto più vicino a noi di quanto crediamo. Basta abituare l’orecchio e non propriamente la vista, anche perché, come ci insegna Leopardi ne Alla primavera, la poesia intrattiene una intima connessione col suono, che inevitabilmente capta rumori antichi di cui non si sa l’origine. Il sentire poetico passa di lì, attraverso le distanze che non hanno bisogno di confini, attraverso un ascolto lungo che, nel primo approccio, supera l’astratto e il concetto per arrivare dove deve arrivare. Ristabilire una connessione con questa sfera già in ambito scolastico permette, dunque, di educare – di nuovo e diversamente – all’esperienza estetica. Da qualche tempo una parola da accademia che sappiamo solo pronunciare. Ma non a scuola. Ovviamente.

 

Ricezione e generatività

 

«Chi legge poesia, infatti, deve accettare di essere in qualche modo attratto e distratto dalla materialità sonora di un testo, che richiede una modalità di attenzione diversa, quindi, rispetto a una storia o a un’argomentazione». Di un’attenzione diversa, di una strategia personale e umana tratta la rubrica di Simone Giusti Una poesia per insegnare, nata nel 2012 dall’incontro con la redazione della rivista La ricerca (Loescher Editore), che sul web e per il web cresce, come un puzzle, grazie alle voci contemporanee del panorama poetico. Formato post, modalità comunicativa inedita e obiettivo chiarissimo, ovvero spiegare non una poesia, ma, nella pratica vera di condivisione di esperienza, «far provare alle persone la possibilità di compiere un’esperienza estetica attraverso la fruizione di un’opera poetica». Coerentemente a una didattica della letteratura, la scelta di parlare in prima persona si pone come necessaria per «far capire ai miei alunni che senso ha la letteratura nella vita di una persona», prosegue l’autore, «a cominciare dalla mia». Se l’obiettivo di una lettura di una poesia è quello di oltrepassare il testo, di usarlo come insegnamento e non come sequenza di parole da imparare a memoria, risulta essere molto importante preparare gli alunni al salto, quello che spingerà loro verso la generatività, ovvero verso una lettura consapevole, che sa guidare al cambiamento e al miglioramento. La prospettiva è dunque ribaltata ed è interamente dedicata alla dimensione di chi legge un testo e impara qualcosa. Simone Giusti mi consiglia due nomi, Jean-Marie Schaeffer e Marielle Macé, i quali si stanno occupando proprio dei problemi legati alla fruizione delle opere letterarie e del loro impatto sulla vita delle persone. «La poesia, in particolare, sarebbe in grado di far compiere esperienze estetiche mettendo in gioco le risorse attenzionali delle persone in un modo singolare, diverso da quello richiesto dalla fiction»: per questo un’educazione efficace deve abbracciare anche un «ritardo nella comprensione delle informazioni contenute nel testo». Perché una poesia può funzionare senza che si intervenga con un approccio analitico. Funziona e basta. E, per fortuna, la poesia non è una somma di figure retoriche. Anzi, quello che spesso viene omesso – per motivi a me tuttora ignoti! – è che il nostro stesso pensiero è il risultato di accorgimenti altamenti retorici. Lo diceva anche Nietzsche. La forma della poesia ci appartiene, perché la retorica non è un accessorio della parola, è esattamente la parola nelle sue manifestazioni. È la sagoma di un vestito che possiamo indossare. Se riusciamo a vederlo.

 

*Giornalista e critica letteraria

 

Prima puntata

Seconda puntata

Terza puntata

 

Risorse cartacee

Afribo A., Poesia contemporanea dal 1980 a oggi: storia linguistica italiana, Carocci, Roma, 2007.

Berardinelli A., Cordelli F., Il pubblico della poesia, Castelvecchi editore, Roma, 2004.

Casadei A., Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente, Bruno Mondadori, Milano, 2011.

Cavallo G. - Chartier R., Storia della lettura, Laterza, Roma-Bari, 1995.

Ferretti N., La parola nascosta. Percorsi didattici nella poesia, Carocci, Roma, 2004.

Mortara Garavelli B., Prima lezione di retorica, Laterza, Roma - Bari 2013.

Nancy J., La custodia del senso, EDB, Bologna, 2016.

Renzi L., Come leggere la poesia, Il Mulino, Bologna, 1985.

 

 

 

Immagine: Di Hans Braxmeier [CC0 o CC0], attraverso Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_148.html

Poesia 2.0. La poesia presa nella Rete - 3

Questa è la terza di quattro puntate di un'indagine volta ad analizzare le caratteristiche della produzione poetica che sceglie la via di Internet.

 

Con la coscienza a pezzi

 

Non è vero che la gente non legge. Non è vero che la gente legge solo testi brevi. La gente legge solo testi che sanno farsi capire, e oggi c’è, come non mai, una necessità di ri-educare alla comunicatività gli autori, i blogger, gli scrittori stessi. I poeti. Penso che sia giusto così, pubblicare libri per la parola, che vive, esattamente come l’uomo, questa oscillazione tra una realtà che va avanti da sola e una che nasce, muore, si carica costantemente dei desideri e delle paure del mondo. È quello che la disciplina pedagogica chiama tensione tra «contesto concreto» e «contesto concettuale»: ecco, se le nostre parole – per quanto giuste, autentiche e significative – continuano a ruotare nella seconda sfera –, nel momento dello scontro con un corpo, che fa parte anch’esso del concreto in quanto prima o poi termina il suo corso, produrranno un suono che non significa nulla, che non oltrepassa le rocce, la sua stessa intenzione. Tutta questa bellissima e inutile metafora per dire che la sfera astratta, oggi, ha molte più possibilità di entrare nelle cose. Siamo, dunque, molto fortunati. Una mutazione del campo letterario attraverso i nuovi strumenti web, che divengono ruolo di filtro, promozione e discussione, dovrebbe spostare di nuovo l’asse, rivitalizzare lo scritto, accettarlo come qualcosa che si muove – velocissimo –, che vive. L’importante è che ci si svegli. Sono d’accordo anche io con chi afferma che il poetico è un testo che diventa – deve diventare! – altro. Per esempio un atteggiamento verso le cose. Ma non sono d’accordo con chi, dopo aver fatto questo gran salto concettuale, si ferma lì e continua a pensare, a pensare, a pensare. È tutto molto appagante – coccolarsi in extremis nelle nostre esercitazioni mentali e visive – fino a quando, mi ricorda Andrea Sirotti in una recente chiacchierata, si presentano un sacco di persone ai festival letterari e sulla poesia, senza avere, però, il libro dell’autore per l’autografo. In mano solo l’opuscoletto dato all’entrata. E nessuna vergogna. Quando si dice che la poesia è un evento, non si intende propriamente uno spettacolo. Trecento posti in sala conferenza ci fanno fare sonni tranquilli? Tutte le riviste che parlano di poesia parlano effettivamente a un pubblico?

 

Tre vettori e poche chiacchiere

 

«Si deve scrivere poesia come un atto naturale, sapendo però che è un atto altamente culturale»: Pier Damiano Ori ha ragione, la poesia ha sì a che fare con qualcosa di biologico e di psicologico ma, a differenza di un gesto spontaneo, deve fare i conti con la responsabilità del suo messaggio e del suo mezzo, che, ricordiamo, viene accolta da qualcuno e si trasforma in responsabilità di leggere. Si spera. Starei ore, lo giuro, a parlare di poesia, del suo essere e non essere, ma la verità è che mi interessa molto più osservare la sua direzione. Insomma, i vettori che vedo, tenendo in considerazione anche la rete, sono tre: uno che riguarda il percorso (di ricerca) di chi scrive poesia, uno che riguarda la diffusione di un messaggio nel pubblico – le fasi «verticale» e «orizzontale» che sottolinea Alessio Arena –, e infine uno che riguarda la declinazione e le strategie adottate dal contemporaneo poetico. Per osservare devo guardare al pacchetto completo, che comprende autori, lettori-esploratori, redattori di blog e riviste, poeti, semplici curiosi. Ho un binocolo pesantissimo tra le mani. La poesia degli anni zero conferma di voler essere in rete e di volerla abitare. Come? Nella mia precedente inchiesta dal titolo Come parla la critica letteraria del web tiravo le somme, in particolare nell’ultima puntata, di quanto analizzato nel panorama letterario della rete. Senza alcuna pretesa di valutare, notavo l’emergere di costanti che prima di essere metodologiche erano tematiche, e tra queste spiccava un interesse nei confronti della realtà poetica – anche quella più sperimentale –. Sono le rubriche ad accogliere un discorso letterario sulle uscite editoriali o sui progetti poetici più interessanti, rubriche che sono fiere di distinguersi dalle zone di critica o di approfondimento saggistico. Stilistica pura (o quasi) che rilancia una comunicazione colta ma non accademica e atteggiamento «amichevole-seminariale»: parlare di poesia è una missione molto difficile, perché il materiale da decifrare già in sé contiene quel non-detto che fa della poesia uno spartito musicale da eseguire. Non si può eliminare il tempo e la storia che risiedono dietro un’opera poetica svelandone troppi segreti, ma non si può neanche mettere in tasca un messaggio sull’esistenza e sull’uomo senza avvisare. Alla fine, si torna sempre lì, al primo problema della comunicazione: il contesto.

 

Messaggi vi(si)vi

 

Ogni portale web che decide di dedicarsi interamente alla realtà poetica ha lo stesso obiettivo, ovvero, secondo Giuseppe Nibali Guzzetta, rilanciare un «messaggio complesso», «superare le galere date da una certa interpretazione di McLuhan» ed essere «accattivanti e profondi, contemporanei e antichi». Queste le linee strategiche presentate in merito al nuovo progetto Poesia del nostro tempo, rivista online diretta da Christian Sinicco e nata da Argo con la collaborazione di Midnight Magazine. Le concretizzazioni poi, sono molteplici. C’è chi, come nel caso di Interno Poesia di Andrea Cati, punta su una scelta stilistica di comunicazione non verbale, offrendo una sorta di «playlist» di poesie del contemporaneo e non, attraverso immagini in bianco e nero e pubblicazione dei versi, e chi, come la storica rivista Atelier, coniuga l’elemento visivo della foto dell’autore con versi (editi o inediti) con una breve ma completa biografia. Anche in questo caso, una costante si presenta forte e chiara per un nuovo passaggio di riflessione: l’immagine. «Allora, Crocetti, fai la trecentottantunesima rivista di poesia?». «No – risposi – faccio la prima». In un’intervista rilasciata a Tradurre, il fondatore di Poesia Nicola Crocetti segnalava l’importanza, già nel 1988, di presentare visivamente gli autori, addirittura in copertina. Un’operazione che creò scalpore e alimentò la diffidenza di molti accademici, che rifiutavano un progetto editoriale decisamente pop. Eppure qualcosa era già cambiato. Presentare un’opera o un semplice verso significa fare domande alla lingua che si vuole usare e al contesto, che è da un lato lo spazio che accoglie, dall’altro il bacino di utenza che vive. Sembra che non sia così scontato, anche se tutti parlano dell’importanza del lettore. Mi chiedo spesso quale sia la percezione che le persone hanno di un verso, se sentono le parole senza orecchie. Se percepiscono che la sua sostanza è la nostra, è fatta dello stesso slancio dei muscoli. Una educazione – nuova, a questo punto – all’osservazione di chi legge credo possa rivelarsi molto utile per chi scrive, che va di pari passo a un ri-adattare le proprie aspirazioni letterarie alle esigenze di chi si muove, per trasformare, finalmente, uno o più messaggi esistenziali in qualcosa di ordinato e concreto. E ciò significa, come dicevamo nella prima puntata dell’indagine, creare situazioni reali di scambio in grado di aprire il paradiso social o dei portali digitali. Farlo respirare. Farlo vivere del movimento di chi legge davvero, e non nel movimento confuso delle mode.

Beatrice Cristalli

(Giornalista e critica letteraria)

 

Prima puntata

Seconda puntata

 

Risorse cartacee

Afribo A., Poesia contemporanea dal 1980 a oggi: storia linguistica italiana, Carocci, Roma, 2007.

Berardinelli A., Cordelli F., Il pubblico della poesia, Castelvecchi editore, Roma, 2004.

Cadioli A.- Decleva E. – Spinazzola V., La mediazione editoriale, Il Saggiatore, Milano, 2000.

Casadei A., Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente, Bruno Mondadori, Milano, 2011.

Cavallo G. - Chartier R., Storia della lettura, Laterza, Roma-Bari, 1995.

Marchesini M., Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia, Quodlibet, Macerata, 2014.

Nancy J., La custodia del senso, EDB, Bologna, 2016.

 

Immagine: Di Hans Braxmeier [CC0 o CC0], attraverso Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_145.html

Poesia 2.0. La poesia presa nella Rete - 2

Questa è la seconda di quattro puntate di un'indagine volta ad analizzare le caratteristiche della produzione poetica che sceglie la via di Internet. Cliccare qui per leggere la prima puntata.

 

Fatti e parole, parole e fatti

 

L’entrata di un vocabolario, secondo Jean e Claude Dubois (Introduction à la lexicographie) «un enunciato in cui il soggetto e/o l’elemento topico è l’entrata di cui il predicato è la definizione», manifesta un doppio statuto: è un termine della lingua − analizzabile secondo procedure linguistiche −  e allo stesso tempo è un «fatto di cultura», ovvero esce dai binari di significante e significato per rinviare a un’analisi antropologica e scientifica. Già stai facendo una smorfia. No, queste cose vanno dette. Ed è bene dirle senza troppe semplificazioni. Perché se il lessema-hashtag #instapoet entra nel Vocabolario Treccani c’è qualcosa di nuovo che significa. Così recita l’incipit: «instapoet (Instapoet) s. m. e f. Chi pubblica i propri componimenti poetici, di solito brevi e accompagnati da immagini, nei siti di relazione sociale in Rete, in particolare Instagram». La prima volta che trovai questa parola sui quotidiani, confesso, scoppiai a ridere. Mi chiesi, a una prima lettura superficiale, perché qualcuno dovrebbe riconoscersi in una etichetta così limitata. Pensiamoci bene. Proprio perché la poesia, già nel suo regime segnico è il suo fuoriuscire, l’oltrepassare il testo e noi stessi, l’idea di sentirsi autore di e per un mezzo social lo trovavo davvero strano. Ma, c’è un ma. Dietro a instapoet avvertivo che si nascondeva un problema molto più serio. Una «categoria» non nasce da sola. Nasce, esattamente come una pianta, se c’è un terreno fertile. Se c’è, come ben evidenzia Matteo Marchesini in Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia (Quodlibet, 2014) in merito al nostro caso, una «progressiva perdita della capacità di distinguere i poeti veri». Il punto di partenza risiede allora qui, tra la poesia che «non è più indispensabile per capire la nostra cultura» e l’intellettuale che diviene sempre più un manichino spoglio in quella famosa vetrina senza negozio di cui parlavo nella prima puntata. Addirittura, sempre secondo Marchesini, «il poeta italiano non solo è emarginato, ma non è neanche considerato uno scrittore (dei narratori che compongono versi si dice: “scrittore e poeta”, identificando la narrativa con la scrittura tout court)». Ed è inutile che sbuffi, tu che scrivi versi. Quante volte – e mi ci metto anche io – ti è venuto spontaneo presentare qualcuno (o presentare te stesso) in quel modo? Dire semplicemente «poeta» crea, infatti, imbarazzo. Non è una cosa nuova. Non posso e non voglio dimenticarmi di quella riflessione in forma di ricordo che Giovanni Giudici racchiudeva in Andare in Cina a piedi (Ledizioni, 2017). Lo scambio di battute tra il prete curioso di quello «scrivere versi» e il poeta in preda a un senso di colpa cosmico si conclude con una dolorosa sconfitta: «"Ah, versi?! E ha pubblicato?". "Ho pubblicato". Ma non basta. Insiste per sapere se io sia all’altezza di Tizio e Caio e mi fa dei nomi. "Che cosa vuol che le dica", mi difendo». Ma non dovevamo parlare di Instagram? Appunto.

 

Il riuso non è il retweet

 

A complicare questa «mutazione genetica» dei poeti e della poesia, che, sempre secondo Marchesini, va ricondotta al periodo successivo agli anni Quaranta, stanno due atteggiamenti, quali la «poeticità privatistica» e «l'autoreferenzialità gergale». Essi non solo hanno confuso i contorni (già) opachi del fare poetico, ma hanno preparato, se così si può dire, il terreno. La poesia, divenendo qualcosa di irriconoscibile, ha “permesso” a certe etichette di manifestarsi. Anche perché, come ovvia risposta di chi crede in un verbo ma non riflette abbastanza sulla contemporaneità e, soprattutto, sul percorso storico che dobbiamo sempre tenere vivo, la poesia doveva essere in ogni caso ancora riconoscibile e percepibile, in un modo diverso, «stilizzato». Ecco che, in circostanze non sospette, a un certo punto compare il fantomatico hashtag, che funge da abito contemporaneo per quei poeti che vogliono proprio definirsi instapoets e per chi, invece, si ritrova, senza saperlo, in un sottobosco davvero surreale. Prima di attraversare il nuovo campo di osservazione del «cos’è un instapoet, cosa fa», restiamo ancora un po’ nel «perché un instapoet». Un perché in più non ha mai fatto male a nessuno, anzi. L’ho chiesto a Guido Catalano, che non si sente affatto tale: «La mia poesia non nasce per il web, la poesia nasce per altro». È vero, in ogni caso, che la sua poesia si «sposa bene con il web». Ma si tratta di una fase successiva di condivisione. Mi racconta che è stato da sempre perseguitato dalle etichette. Anche prima dell’avvento dei social, quando negli anni 2000 spopolavano i primi blog – dimensione prima per la diffusione di un possibile libro – era considerato una webstar. E che quando ha scoperto di essere considerato un instapoet si è domandato cosa significasse davvero quell’«insta»: scrivere poesia «instantanea» o «per Instagram»? Forse tutte e due le cose. E poi, la poesia degli instapoets è altro rispetto alla poesia? Possiamo definirlo un «fenomeno»? Simone Di Biasio coglie l’universo che risiede là, oltre una scelta non meramente lessicale. Non si tratta di una «manifestazione altra» della poesia: le idee degli instapoets «girano attorno a essa vorticosamente, proprio come vorticoso è il movimento della rete, capace di portarti in alto e poi sbatterti di nuovo a terra in brevissimo tempo. Sfruttano l’aura della “poesia” per abbassarne l’aura stessa. Ma mentre la poesia nasce autonomamente come fenomeno (stavolta sì) psico-artistico, l’Instapoetismo nasce come strumento che sfrutta le occasioni di Internet». Siamo, dunque, nella sfera dell’intenzione. È lì, nella volontà di creare a tavolino due o tre righe, a capo, – anche perché, come mi ricorda Di Biasio, «l’andare a capo è spesso una esigenza spaziale da digitale, non una questione ritmica» – che la parola poetica perde qualcosa. Perde, secondo Giovanna Cristina Vivinetto, «la profondità»: questa «poesia d’occasione» che raccoglie like e non condivide, al di fuori dei pixel, una «totalità  in funzione», come invece potrebbe fare, è sì riconoscibile, ma in una nuova prospettiva. È riconoscibile nella sua mancanza. È, sempre secondo la Vivinetto, una «poesia indistinguibile, nel senso che potrebbe essere scritta da chiunque: manca la voce di un Io riconoscibile che evidenzi la sua cultura, i suoi modelli, la sua tanta lettura pregressa (di cui, ovviamente, è carente)». E allora, è chiaro come, in questo universo di fruitori della velocità improvvisata, il riuso sia lasciato in disparte. A titolo informativo, il riuso non è il retweet.

 

Prima e dopo un’instapoesia

 

 

«La poesia sta bene ovunque: sui muri, sulla pagina, sul profilo Instagram della poetessa che non conoscevo ma a cui per fortuna sono arrivata. È un bene, dunque, che stia anche sui social, e non mi fa paura». Martina Germani Riccardi mi fa riflettere su un altro aspetto, che mi/ci permette di arrivare allo stadio di «cos’è un instapoet, cosa fa». Perché Internet, come già evidenziato, non rappresenta un ostacolo alla parola. Rappresenta, piuttosto, un’occasione di sperimentazione. È naturale, per chi è abituato a pensare in versi, associare a una fotografia un verbo poetico. Anzi, forse è dalla fotografia o dall’opera d’arte che può nascere un processo creativo. Lalla Romano, se fosse ancora tra noi, avrebbe un profilo Instagram perfetto. Lei che è riuscita in Lettura di un’immagine (Einaudi, 1975) a spostare la lettura su un altro piano: «le immagini sono il testo e lo scritto un’illustrazione», si legge nella Prefazione. Ma gli esempi sono tantissimi. Dunque, non stupiamoci della grande novità di queste “pratiche social”. È cosa sta prima e dopo la parola-accesso (o parola-eccesso) veicolata dai poeti del web il focus del nostro stupore. Mettiamo per davvero a fuoco la lente. Cos’abbiamo? Un’intenzione, dicevamo, che trasforma il mezzo in fine – «non è l'urgenza di un altro momento» a scatenare la scrittura, sostiene Chiara Mazzetti –, una poesia che può assomigliare a un gioco di parole, e poi? Mi manca cosa c’è dopo. Sì, sono d’accordo con te, che annuisci e sai dove voglio arrivare. E invece non lo sai. Perché è quel “nulla” che sta nella terza posizione, nell’ultima, quella di uscita, di riuso e di storia, che mi permette di vedere l’icona social da un’altra prospettiva. Prova a fare una ricerca con l’hashtag #instapoetry o #instapoet: troverai caos e cose buffe. Troverai, soprattutto, pochissimi oggetti coerenti alla sfera d’azione dell’instapoetismo. Ecco perché, forse, dovremmo chiamarlo «fenomeno», come precisa Giovanna Cristina Vivinetto, nel senso etimologico del greco fainomai, che significa apparire. Se la poesia, secondo il pensiero di Titos Patrikios, che Simone Di Biasio condivide, «cerca risposte a domande non ancora poste», la poesia-che-nasce-per-i-social «a domande nuove risponde sempre allo stesso modo». O forse non risponde. Non risponde perché non può rispondere. È solo un nome vuoto.

 

 

 

 

Bibliografia

 

Risorse cartacee

 

Afribo A., Poesia contemporanea dal 1980 a oggi: storia linguistica italiana, Carocci, Roma, 2007.

Cadioli A.- Decleva E. - Spinazzola V., La mediazione editoriale, Il Saggiatore, Milano, 2000.

Casadei A., Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente, Bruno Mondadori, Milano, 2011.

Cavallo G. - Chartier R., Storia della lettura, Laterza, Roma-Bari, 1995.

Genna G., Io sono, Il Saggiatore, Milano, 2015.

Marchesini M., Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia, Quodlibet, Macerata, 2014.

Nancy J., La custodia del senso, EDB, Bologna, 2016.

 

 

Immagine: Di Hans Braxmeier [CC0 o CC0], attraverso Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_91.html

Book blogger. Scrivere di libri in Rete: come, dove, perché


 

 

Giulia Ciarapica

Book blogger. Scrivere di libri in Rete: come, dove, perché

Firenze, Franco Cesati Editore, 2018

 

«Internet doveva renderci liberi, democratizzarci, ma il risultato è che ha dato solo libero accesso alle invasioni barbariche [...] la gente non scrive più, tiene blog; invece di parlare invia SMS; niente punteggiatura, niente grammatica, TVTB, IMHO, ROTFL». Giuseppe Antonelli, in una giornata di studio tenutasi all’Università di Salerno nell’aprile 2015, apriva il suo intervento riproponendo queste battute. Poco importa se la citazione è tratta da una serie tv americana (Californication), importa invece ascoltare i nostri pensieri mentre la si è letta. Sono luoghi comuni che sicuramente, per un certo periodo di tempo, hanno influenzato anche noi. Ma, come molti esempi di scrittura ed «evoluzionismo linguistico» del web hanno confermato e continuano a confermare ogni giorno, sulle piattaforme digitali non solo è possibile rilanciare la parola – Franco Carlini in Lo stile del web. Parole e immagini nella comunicazione di rete (Einaudi) parlava di un «poderoso ritorno» – è, soprattutto, possibile fare critica letteraria 2.0. Come? Per fare il cosiddetto #bookblogger non occorre affidarsi unicamente all’improvvisazione, alla velocità delle mode. Lo sa bene Giulia Ciarapica, che nel suo Book blogger. Scrivere di libri in Rete: come, dove, perché (Franco Cesati, 2018), struttura in ben sette capitoli tutti i passaggi necessari che devono accompagnare il lavoro di chi, in un portale personale e non, si accinge a parlare di libri. Già dalla Prefazione risulta chiarissima la missione: «il book blogger, o blogger culturale, è prima di tutto un lettore e, ancora prima, un osservatore, un “esploratore”». Consolidare questo primo stadio sarà fondamentale per una buona ricezione e, di conseguenza, per una recensione convincente e autorevole.

 

Una idea-di-rete

 

La lettura, che ci piaccia o no, è una attività complessa, e non deve stupirci  il fatto che rifletta l’intero sistema letterario: non un recinto in cui riconoscere le proprietà distintive e basta, ma un atteggiamento che necessariamente rimanda ad altro da sé, insiste sul ritorno. Ecco perché l’autrice pone l’attenzione, sin dalle prime pagine, sugli strumenti della lettura e dell’analisi: seppur «pochi» – si parte sempre con uno scaffale di critica ragionato, con una lista letteraria di carta e del digitale culturale in continua evoluzione – saranno proprio quelli a guidarci in una missione tutt’altro che immediata. Anche la scelta del libro, a seconda dei casi, nasconde una competenza: è vero che non esiste una risposta univoca al «perché proprio quello?», ma accanto alla possibile linea editoriale che dobbiamo rispettare, ai dettagli che ci colpiscono (e che potrebbero colpire l’utenza del mio blog), accanto alle personalissime sensazioni a caldo che ci attraversano dopo aver letto la quarta di copertina, in noi deve essere presente una idea-di-rete per la quale strutturiamo e rendiamo fruibile la recensione. «Scrivere di letteratura oggi, infatti, significa confrontarsi con il web, conoscere e gestire strumenti profondamente diversi». La stessa autrice riporta, a tale proposito, un esempio tratto dalla sua esperienza, ovvero l’idea di #AduaSelfie, diventata virale in poche ore sui social. Il ritratto a metà volto presente sulla copertina del romanzo di Igiaba Scego (Giunti) si prestava, infatti, per una strategia di condivisione molto personale, per tutti i lettori. Ecco che «il messaggio forte, inclusivo, partecipativo di questo selfie (“anche io sono Adua”)» ha contribuito a una promozione visiva che si intrecciava perfettamente al testo pubblicato su blog. È chiaro, però, che alla base di tutto – anche delle strategie comunicative  – sta una attenta lettura critica, una traduzione personale e consapevole del libro.

 

Una verità da sbrogliare

 

L’interiorizzazione parte, allora, da quella che Giulia Ciarapica sintetizza come “Autopsia del testo”, titolo riuscitissimo che apre il terzo capitolo. Centrale, non a caso. Riordinare le idee, rileggere – le fasi sono sempre tre – e sfogliare prima e dopo il lavoro critico permettono, infatti, di scoprire più dettagli all’interno del testo, nonché individuare i «contenitori da riempire con la nostra analisi». Incipit e finale, intreccio e personaggi, tipo di narratore, stile e linguaggio, struttura generale del testo, messaggio finale: l’educazione alla ricerca dell’articolazione del senso, come insegnava Leo Spitzer, passa necessariamente da qui, tra i piani della strutturazione, i dialoghi, le sfumature che uniscono forma e contenuto. E tutto questo, sottolinea più volte l’autrice, è importante per la comprensione di qualsiasi testo o «tessuto», dietro al quale, più o meno nascosta, sta una verità da sbrogliare. I paragrafi ricchi di esempi letterari ci conducono, infine, alla prima e delicata fase di stesura: «sciogliere alcuni nodi rimasti». Per «mantenere intatto lo spirito critico» dobbiamo farci «le domande giuste», ovvero quelle che ci aiutano a fare ordine sulla evoluzione del nostro pensiero e sullo stile da adottare per veicolarlo, che muta in rapporto al mezzo. «È un articolo per un blog, un pezzo per un giornale, per una rivista? Per un video? Da postare sui social?»: ogni livello di comunicazione – «non possiamo sottovalutare la potenza del linguaggio e le forme di espressione» – ha le sue regole, ed è un bene essere sempre allenati a coglierne di nuove in tutti i testi che incontriamo.

 

Abbattere il “muro di testo”

 

La forma è contenuto. Il contenuto è forma. «Trattata la questione dell’organizzazione e del contenuto della recensione, non ci resta che affrontare quella della struttura», una struttura che Giulia Ciarapica definisce «fisica» perché visibile, condivisibile, rintracciabile nella rete. Il paragrafo che chiude quest’altro capitolo centrale ripropone, ancora una volta, un esempio che coinvolge l’autrice in modo diretto: «Se avessi deciso di pubblicare questo estratto come un unico blocco, avrebbe causato un effetto “muro di testo” piuttosto respingente». La riorganizzazione del discorso deve trovare un’armonia con la composizione grafica del blog e con tutte quelle strategie (non solo comunicative) che il supporto ci offre. Ecco che già inserire qualche immagine tra un paragrafo e l’altro – la suddivisione in paragrafi non è mai cosa scontata –, enfatizzare con il grassetto, utilizzare tag o etichette, fare attenzione al mondo SEO per la rintracciabilità nel web non solo permettono di trasformare completamente un testo, ma, oggi, garantiscono alla nostra recensione di veicolare in modo efficace un messaggio. «Il libro», scrive Giulia Ciarapica, «è un oggetto “vivo” e, come tale, soggetto a cambiamenti, evoluzioni, modifiche: anch’esso ha bisogno di stare al passo coi tempi, di adeguarsi alle nuove tecnologie». Il penultimo capitolo “La video recensione” ci presenta, con grande chiarezza, l’universo dei #booktubers, fatto di luoghi, linguaggi, stile, sintesi, schemi e competenze comunicative. Dietro al canale Youtube, infatti, c’è di più. Attraverso delle vere e proprie interviste ad alcuni recensori del tubo digitale, l’autrice ricostruisce le tecniche più gettonate per stendere, ad esempio, una mappa di discorso, oppure, per “creare” un linguaggio adatto al video. Quest’ultimo aspetto, in tutto il libro di Giulia Ciarapica, viene più volte affrontato: come nella scrittura di una recensione, così nella promozione web occorre sempre più riflettere sulla efficienza della nostra comunicazione. Ecco che il «farsi comprendere» non può essere banalizzato nell’utilizzo di una lingua semplice e/o quotidiana. La creatività, la curiosità nei confronti delle continue interazioni digitali, la ricerca di un nuovo codice riflettono un percorso complesso e stimolante. Esattamente come deve essere il lavoro letterario. Perché, anche qui, leggere, come abbiamo visto, non significa solamente leggere. E scrivere non significa solamente scrivere.

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_140.html

Poesia 2.0. La poesia presa nella Rete - 1

Questa è la prima di quattro puntate di un'indagine volta ad analizzare le caratteristiche della produzione poetica che sceglie la via di Internet. 

 

La linfa della conoscenza

 

«Il gambo è una parte allungata che regge il fiore. Se lo togliamo, il fiore muore». Rimango circa dieci secondi ferma a pensare. «Senti ma cos’è la poesia per te? Parlavamo del gambo. Come la vedi? Possiamo dire che il gambo è come la poesia? È necessario?». Mi guarda senza alcun timore e, poco dopo,inizia a grattarsi la testa come un vecchio sapiente. Su queste cose i bambini non sbagliano mai, anzi, hanno solo da insegnare. «Ma certo, la poesia è il sentimento. Pensa a un mondo di persone che non provano nulla! Il gambo è la poesia, ci fa stare su!». Si conclude così questa chiacchierata tra me e Viola, 7 anni. Ho sempre pensato che i bambini trattengono il poetico più di chiunque altro. Non si tratta di competenza né di formazione, penso che la loro sensibilità sia affine a quella conoscenza archetipica che Freud, ne Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di W. Jensen attribuiva proprio ai poeti, ovvero a quelle «figure preziose che sono solite sapere una quantità di cose fra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta». Ecco perché la poesia sfugge al logos che siamo abituati a esercitare, mentre si nutre di un altro logos, molto lontano dalla «mera intelligenza delle parole», come sostiene Tommaso Di Dio. Essa, prosegue lo scrittore e poeta, è «un esercizio di conoscenza del mondo, e attraverso il mondo, di se stessi». Il verso non può e non deve colpirci e basta: a legittimare il movimento della parola poetica è la sua stessa natura rituale, una continua oscillazione tra noi e il foglio, tra gli spazi bianchi delle pause e un pezzo del nostro vivere, tra il ritorno testuale e la memoria. Mario Luzi aveva sintetizzato in poche righe il progetto di questa danza che si fa, nel suo vortice incontrollabile, un vero e proprio evento: «È impossibile», si legge nel suo saggio Vicissitudine e forma, «chiamarsi fuori, impossibile ritrarsi indispettiti da ciò che accade; [...] non c’è nulla del resto in cui anche tu non debba in qualche modo sentirti accaduto». La poesia accade perché noi siamo accaduti, e lo siamo non in un posto qualunque, bensì nel flusso della storia: nessun avvenimento-in-poesia esiste in sé, ma soltanto in rapporto con una concezione dell’uomo eterno, con quella percezione di totalità – essenziale, da sempre – che oltrepassa la bugia colorata dello schermo. Se pensiamo, anche solo per un momento, che il verso poetico possa nascere e morire in pochi secondi, se pensiamo di poter leggere dieci pagine di poesia e ammettere di non avere un conto in sospeso con la nostra coscienza, se pensiamo che quella cometa «che arriva da lontano» ci attraversi e basta, siamo davvero sulla strada sbagliata. La poesia è più e altro della poesia stessa.

 

«Cyber statuetta»

 

È chiaro che, arrivati a questo paragrafo, abbiamo tutti annuito e ci siamo sentiti al sicuro. Ma solo per un attimo. Tra un po’, sul tram che ci riporta a casa, scorgeremo sul nostro smartphone una miriade di nuovi stimoli. Un post di un nuovo poeta di cui non ho sentito fino a ora parlare, una foto con una poesia – che bella, la salvo e poi la condivido sul mio Instagram! – , tantissimi nomi taggati di scrittori che forse potrebbero piacermi, ma non me la sento di andare a fare una ricerca. Salvo tutto con uno screenshot, adesso la mia memoria finalmente avrà nuovi contenuti. Adesso, dopo queste azioni, sento di aver fatto persino il mio dovere, alla faccia di chi dice che Internet è solo il male. Ebbene, il “problema” risiede proprio qui. I compiti sociali della poesia, nel nostro contemporaneo schizofrenico, passano necessariamente anche dalla rete attraverso un processo di ri-materializzazione e rimbalzo, che ha aspetti molto positivi, in quanto, facilita le scoperte casuali e, in alcuni casi, permette all’oggetto-libro di ritrovare le sue ragioni, grazie ad articoli, post, didascalie e citazioni. Ma la retorica dell’easy non può convivere con la retorica dell’eccellenza. Noi guardiamo a Internet, oggi, non solo perché, come scrive Federico Ziberna, ci è stato indicato come una «autostrada informatica», quanto perché «è una ovvia evoluzione della vetrina», una vetrina alla quale, non sempre, corrisponde un negozio. Se l’atto poetico e la sua ricezione reclamano un’azione in praesentia, risulta chiaro come dietro a tutti quei nomi nuovi di autori, dietro a tutte quelle parole che leggiamo scorrendo la home di Instagram debbano esistere delle situazioni di scambio reali. Come possiamo pretendere di far nostro il comprendere (cum-prendo) poetico su cui insisteva Davide Rondoni in una puntata di Rai Letteratura se non portiamo con noi un percorso tangibile di scrittura e di storia? Questa posizione teorica ha, poi, delle ripercussioni pratiche, che riguardano “il pubblico nella poesia”, come direbbe Vittorio Spinazzola. È sempre più difficile, oggi, capire quali e quanti sono i lettori di versi –  la poesia oggi circola molto più al di là del libro –, ma è ancora più difficile analizzare la situazione se si abbraccia un’altra prospettiva, dalla quale possiamo coglierela «storicità dei modi di utilizzazione, comprensione e appropriazione dei testi». In una «soggettività che non si confronta» e cambia ogni giorno opinione, mi ricorda Franco Arminio, il testo poetico «si perde»: siamo di fronte a uno «spargimento di sangue di parole» caratterizzato da precarietà e iper-proliferazione, senza dimenticare un’autoreferenzialità progressiva che mina la stessa necessità della scrittura. Il poeta “paesologo” classe 1960 non disdegna, tuttavia, la trasmissione testuale via social, ma è ben consapevole dell’illusione digitale. La metafora del negozio e della vetrina è funzionale, in questo senso, a dimostrare perché, nel flusso della rete, il lettore-esploratore rimanga affascinato dalla «cyber statuetta» (Enrico Testa). Pare che un fenomeno evidente sia il tramonto definitivo del dialogo tra le generazioni di poeti e la conseguente «aggregazione orizzontale» dei nuovi, ma se davvero non è più tempo di una “poesia di generazione” e devono prevalere le individualità, io mi metto nei panni di un giovane universitario del primo anno al quale una giornalista chiede: «Mi sapresti dire qualche nome di poeta contemporaneo che conosci?». Perché mi viene in mente Pasolini? Perché?

 

Ipotesi in progress

 

Un mio professore di università un giorno mi disse che nella vita, per comprendere qualcosa, bisogna operare delle distinzioni. È esattamente quello che fa la memoria: seleziona, verifica, confronta, etichetta, scarta e così via. Ordinare è già conoscere. Siamo al terzo paragrafo e credo che la situazione sia tutt’altro che rosea, anzi. Perché penso a Pasolini se la giornalista ha esplicitamente richiesto un nome di un contemporaneo? Perché non ne conosco nessuno. E sicuramente navigando in rete mi sarò imbattuto in qualche articolo su Valerio Magrelli o su Milo De Angelis, ma non so bene il loro percorso. Non so che fare di fronte a questi nomi. Ebbene, il problema in cui oggi si imbatte il critico, che Nicola Crocetti, in un’intervista uscita su La Lettura del 2015, riconduce alla quantità interminabile di libri di poesia appena usciti e di fronte ai quali egli «perde la trebisonda», è lo stesso del lettore, anzi del lettore giovane che, soprattutto in un percorso scolastico, deve sin da subito interagire con la dimensione del versus. «Viviamo in società dove non esistono più punti certi e fermi di riferimento, sia nel macro, in ambito per esempio ideologico o religioso, per non dire sociale, sia per quanto riguarda i modelli culturali»: la poetessa Giovanna Rosadini solleva un tema caldo, quello della mancanza di guide e di ordine. La mediazione del critico militante, per esempio, è sempre stata «fondamentale per l’orientamento del pubblico dei lettori, anche quelli di poesia». In sostanza, la tracce degli ultimi “lettori forti” non sembrano essere sufficienti. Sempre Tommaso Di Dio, su questa linea, sostiene che «le persone che un tempo si chiamavano colte [...] sono oggi per lo più affascinate da fenomeni legati alla cultura di massa, che sono artisticamente del tutto irrilevanti». Il difetto di conoscenza del lettore, che tuttavia si scontra con il «contagio gioioso» (Valerio Magrelli) della poesia negli ultimi tempi, va attribuito anche a una scarsa educazione alla Poesia. E responsabili sono anche quegli editori che si sentono in obbligo di pubblicare opere di copie imperfette di De Angelis, perché così, oggi, “funziona”. Se già trasmettere una teoria della poesia richiede tempo e ordine, figuriamoci la selezione.

 

Beatrice Cristalli

(Giornalista e critica letteraria)

 

Bibliografia

Risorse cartacee

Afribo A., Poesia contemporanea dal 1980 a oggi: storia linguistica italiana, Carocci, Roma, 2007

Cadioli A.- Decleva E. – Spinazzola V., La mediazione editoriale, Il Saggiatore, Milano, 2000

Cavallo G. - Chartier R., Storia della lettura, Laterza, Roma-Bari, 1995

Freud S., Delirio e sogni nella “Gradiva” di W. Jensen (1907), in Id., Gradiva, a cura di C. Musatti, Torino, Boringhieri, 1961.

Luzi M., Vicissitudine e forma, Rizzoli, Milano, 1974.

Nancy J., La custodia del senso, EDB, Bologna, 2016.

 

Risorse elettroniche

fucinemute.itt - non social, non network e scrittura

 

Immagine: Di Hans Braxmeier [CC0 o CC0], attraverso Wikimedia Commons

/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_51.html

Guida pratica all'italiano scritto (senza diventare grammarnazi)


 

Vera Gheno
Guida pratica all'italiano scritto (senza diventare grammarnazi)
Franco Cesati Editore, 2016

 

Le parole possono essere finestre o muri impenetrabili. Bisogna conoscere il loro ritmo e non appesantirle, rispettare il rapporto che esse intrattengono con la vita. Se la lingua siamo noi, se la lingua è movimento e storia, padroneggiare il proprio idioma è un atto di responsabilità. Sfatiamo subito il mito del «tanto non occorre scrivere bene, l’importante è che il messaggio si capisca»: un atteggiamento simile può nascondere gravi incertezze e lacune linguistiche, che l’individuo, a volte, non vuole ammettere neanche a sé stesso. La serietà delle risorse espressive e la consapevolezza dell’uso della nostra lingua, infatti, riflettono molto più di una semplice comunicazione.

Ecco l’importanza de “I ferri del mestiere” ‒ così si apre il primo capitolo di Guida pratica all’italiano scritto di Vera Gheno (Franco Cesati Editore) ‒, ovvero quelle regole di funzionamento che riguardano tutti i livelli della lingua (morfosintassi, testualità, meccanismi fonologici, lessico ecc.) e che sono accettate da una comunità di parlanti. Perché, a differenza di quanto si possa pensare, nel 2016 ha ancora senso parlare di norma linguistica. A maggior ragione in un momento storico in cui, proprio in virtù del passaggio dall’italiano all’e-taliano, occorre riflettere con moderna coscienza sulla nuova percezione collettiva della tradizione scritta nonché sul rapporto tra libertà espressiva e aderenza alla norma, un insieme di “leggi” che non cambia solo nel tempo, ma anche in base alla situazione comunicativa: «Dalla conversazione informale al colloquio più formale, dal post su Facebook alla tesi di laurea, bisogna ricercare l’equilibrio tra la correttezza formale e l’efficienza, senza cadere né nell’eccessiva rigidezza né nella sciatteria linguistica» (p. 42).

Vera Gheno nella sua Guida pratica invita a riflettere, dunque, sulla complessità della lingua, un esercizio per nulla scontato in una realtà in cui tendiamo a dimenticare ‒ forse anche per presunzione ‒ le competenze necessarie per un’esperienza di scrittura. C’è chiaramente spazio anche per la trans-gressione ‒ non dimentichiamoci dell’etimologia latina ‒, ma solo se la norma è saldamente conosciuta. E l’errore? L’autrice parte proprio da qui, invitandoci, fin dalle prime pagine, a valutare il nostro grado di conoscenza dell’italiano. Ma senza ansie né allarmismi. Anziché “esorcizzare” gli errori, è decisamente più utile valutare i problemi e individuarne le cause. No, dunque, ai cosiddetti grammarnazi, individui fortemente limitati nella costruzione di un proprio «foglio di stile linguistico» e rigidi nei confronti di una norma che vive del suo movimento. Il percorso di una persona che tiene alla propria cultura sarà sempre attraversato dal dubbio, ed è giusto che sia così. Vera Gheno cita, a tal proposito, Umberto Eco: «Essere colti non significa ricordare tutte le nozioni, ma sapere dove andare a cercare». In una grammatica, per esempio. Ma non solo. L’autrice, infatti, segnala numerosi portali web di consulenza linguistica, testi gratuiti che possono servire da vere e proprie guide alla scrittura, manuali specifici e dizionari consultabili online. La lingua cambia continuamente e noi non possiamo farci cogliere impreparati.

 L’importante non è solo conoscere la “cassetta degli attrezzi”, così come la chiama Vera Gheno, ma acquisire correttamente le competenze necessarie per usare questi strumenti, come consultare il vocabolario e leggere con attenzione ‒ fino in fondo! ‒ un semplice lemma. Dal lessico (cap. II) infatti, prende vita questo viaggio nella norma linguistica: Vera Gheno, servendosi di esempi e letture, insiste sulla bellezza della ricorsività potenzialmente infinita della lingua, sulla nozione di prestito e sull’importanza della comunità linguistica, la sola responsabile del successo di una determinata parola: «Se per qualche motivo persone culturalmente o socialmente influenti (degli influencer, si dice oggi) iniziassero a usare fubbia per smog, questo termine potrebbe anche diffondersi: chi può dirlo?» (p. 27). La lingua intrattiene necessariamente un rapporto con la vita, un rapporto che, come ci ricorda Italo Calvino ‒ più volte citato dall’autrice ‒ «diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione» (p. 48). Impariamo a usare, dunque, le parole per quelle che sono, privilegiando la chiarezza, la pulizia e la precisione. Ma anche a come scriviamo qual è, magari, prestiamo una certa attenzione. Perché esprimerci «in maniera sgangherata, come viene, non è insomma indice di libertà espressiva» prosegue Vera Gheno, «quanto piuttosto una possibile esposizione a una condanna “sociale”» (p. 50).

Nel IV capitolo, l’autrice ripercorre alcuni dei nostri dubbi più frequenti (si scrive guadagniamo o guadagnamo? Come faccio a capirlo?) e per ogni caso preso in esame ‒ dal perché si scrive po’ e non *pò alla distinzione tra i due accenti sino al problema della d  eufonica «messa a caso» ‒ fornisce non solo una chiara argomentazione sull’uso, ma presenta tutte quelle eccezioni e licenze poetiche che violano la “regola”. In questa direzione si inserisce anche la punteggiatura (cap. V), un argomento decisamente tabù che causa moltissimi problemi di comunicazione: «In rete gira un meme in cui si legge “Vado a mangiare nonna” vs “Vado a mangiare, nonna”, con il copy “Una virgola salva la vita”: colorito, ma fa capire egregiamente perché ci sia bisogno di saper usare i vari segni» (p. 68). Spesso, sottolinea Vera Gheno, sottovalutiamo le funzioni dei segni interpuntivi: il consiglio migliore che si può dare è quello di leggere tanto ‒ e bene ‒, facendo attenzione al contesto e ai suoi elementi stilistici. La lettura, infatti, oltre a essere un’attività tutt’altro che passiva rispetto al parlare e allo scrivere, è un momento importantissimo per la nostra mente, che deve decodificare un testo e riuscire a produrre una sintesi puntuale. Se non c’è comprensione, non può esserci nemmeno acquisizione degli strumenti per la realizzazione di un testo «che regge», frutto di un pensiero coerente e allenato (cap. VI). Esistono efficaci trucchi per consolidare l’equilibrio tra unità superficiale e unità profonda di un testo. Un esempio? Abituarsi a prendere appunti in modo funzionale (meglio se in modalità “low tech”, con carta e penna) e ritornare a essere lettori lenti e non semplicemente «lettori-esploratori».

Fondamentali, dunque, gli ultimi capitoli che chiudono Guida pratica, dedicati alla stesura effettiva del testo, alla sua revisione e persino alle norme di bibliografia, queste ‒ a volte ‒ sconosciute per i giovani laureandi alle prese con il loro primo “testo lungo”. L’“Appendice comico” di strafalcioni comuni (per esempio, ai posteri LARGA sentenza) con cui Vera Gheno chiude la sua Guida pratica ci fa sorridere. Ma il messaggio del libro, giunti alla fine del viaggio nella norma dell’italiano, è molto chiaro: usare bene la nostra lingua è una cosa seria.