Lingua Italiana

Maria Carmela D’Angelo

Maria Carmela D’Angelo è docente di materie letterarie negli Istituti secondari in Italia, ha insegnato per anni presso numerose istituzioni scolastiche italiane all’estero per conto del MAECI, avendo modo di confrontarsi con differenti realtà di apprendimento sia linguistiche sia ambientali. Le scuole di Addis Abeba, Caracas, Barcellona e, da ultimo, l’Università di Groninga, dove ha svolto le mansioni di Lettore occupandosi della diffusione della lingua e cultura italiana in tutto il territorio olandese, le hanno dato modo di mettere in atto e sperimentare le proprie competenze nell’ambito della glottodidattica LS, in collaborazione mutua con le Università Ca’ Foscari di Venezia e quella per Stranieri di Siena. La sua Tesi di Dottorato “L’italiano dello sport: prospettive glottodidattiche e pratiche interculturali” è il frutto delle ricerche, tuttora in corso, su tematiche sportive sotto diversi punti di vista: lingua, letteratura, impatto socio-culturale.

Pubblicazioni
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Folla, campioni e gregari: arriva la poesia del Giro

 

Il ciclismo è il massimo di possibilità poetica consentito al corpo umano.

Una bicicletta può ben valere una biblioteca

Alfredo Oriani, La bicicletta, Bologna, Zanichelli 1902

 

 

Le prime corse a tappe sono dell’inizio del Novecento, il Tour de France nel 1903, il Giro d’Italia nel 1906. La Gazzetta dello Sport, nata nel 1896, in occasione del Giro d’Italia si trasforma da bisettimanale a trisettimanale, per poi diventare definitivamente quotidiano durante l’edizione del 1913 della corsa ciclistica.

 

La gentile signora di Roberto Roversi (2003)

 

Unica passione vedere sull’asfalto passare il Giro d’Italia

e parlare di Napoleone.

Il vento fra i raggi

ascoltare le gomme sibilare

brillare la luce delle nuvole sulle maglie dei ciclisti

poveri cristi bagnati di sudore

[…]

 

Il grande Circo del Giro d’Italia

La folla

Del grande ‘circo’ che accompagna il Giro, la folla è sicuramente una delle componenti essenziali. Così Dino Campana ne Il Giro d’Italia in bicicletta (1913) – del quale si conoscono almeno sette versioni differenti, anche nel titolo; una di queste, Traguardo, risulta non a caso dedicata a A F. T. Marinetti- dopo aver assistito alla prima tappa del V Giro d’Italia del 1913, racconta con un ritmo incalzante, in un crescendo frenetico marcato dalle continue ripetizioni di sillabe e parole dai suoni aspri e striduli, la corsa dal punto di vista della folla, dei corridori, della strada come «un tutto inseparabile» che si muove secondo «le cadenze di una festa orgiastica» (Barsella):

 

Dall’alto giù per la china ripida

o corridore tu voli in ritmo

infaticabile. Bronzeo il tuo corpo dal turbine

tu vieni nocchiero del cuore insaziato.

Sotto la rupe alpestre tra grida di turbe rideste

alla vita primeva, gagliarda d’ebbrezze.

Bronzeo il tuo corpo dal turbine

discende con slancio leggero

vertiginoso silenzio. Rocciosa catastrofe ardente d’intorno

e fosti serpente anelante col ritmo concorde nel palpito indomo

fuggisti nell’onda di grido fremente, col cuore dei mille con te.

Come di fiera in caccia di dietro ti vola una turba

 

L’anno dopo, nella terza delle Immagini del viaggio e della montagna (1914), Campana di nuovo racconta una gara ciclistica con toni appena più misurati; i doppi punti marcano il climax del giubilo e dell’esaltazione degli atleti che superano se stessi nello sforzo fisico:

 

L’aria ride: la romba a valle i monti

squilla: la massa degli scorridori

si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori

balzano: e grida ed oltre varca i ponti.

E dalle altezze agli infiniti albori

vigili, calano trepidi pei monti,

tremuli e vaghi nelle vive fonti

gli echi dei nostri due sommessi cuori…

hanno varcato in lunga teoria:

nell’aria non so quale bacchico canto

salgono: e dietro a loro il monte introna

[…]

E si distingue il loro verde canto

 

Leggere questi versi significa collocarsi nel contesto culturale del contemporaneo movimento futurista: il quadro di Umberto Boccioni Dinamismo di un ciclista, pure del 1913, e il componimento ciclistico-futuristico di Escodamé Michele Leskovic Poema della bicicletta dedicato A Girardengo (1925), soprannominato ‘il campionissimo’, che vede il ciclista farsi tutt’uno con il mezzo meccanico:

 

[…] I paracarri attenti cronometrizzano la corsa il mio corpo raccolto e compatto si geometrizza secondo i piani e le forze della bicicletta ne vive la precisione meccanica gambe=bielle salire scendere salire scendere instancabili cocciute […]

 

I gregari

(la cui etimologia latina riporta all’idea di gregge) sono i protagonisti della filastrocca di Gianni Rodari:

 

Il gregario (1959)

 

Filastrocca del gregario

corridore proletario,

che ai campioni di mestiere

deve far da cameriere,

e sul piatto, senza gloria,

serve loro la vittoria.

Al traguardo, quando arriva,

non ha applausi, non evviva.

Col salario che si piglia

fa campare la famiglia

e da vecchio poi acquista

un negozio da ciclista

o un baretto, anche più spesso,

con la macchina per l’espresso.

 

E dei versi di Silvio Ramat, Grand Tour (1997):

 

La scena si bagna d’un rosso crudo.

Sempre è bega cruenta fra gregari.

Se uno ha fatto il furbo al rifornimento

non è questione di premi, è di stile.

 

Stille sudori casti

dei portatori d’acqua - dedizione

nella polvere della bassa classifica

ai prìncipi. Per strappare l’abbuono

quelli volano ai valichi, dai nomi

veleggianti sul torrido luglio.

[…]

 

E di quelli di Roberto Roversi (1992):

 

Gregario aiutati

che il ciel t’aiuta dice il gregario di sé

mentre pedala il sole

mentre pedala la pioggia

mentre serve il padrone cavaliere che pedala fra le nuvole bianche di primavera

mentre pedala l’erba bagnata o l’asfalto che risplende nero

mentre pedala il freddo che non ha più voce

mentre pedala gli alberi della campagna forati dal fulmine

mentre pedala i muri della periferia tutti segnati da crepe

mentre strizza le labbra e beve il fango perché ha sete

strabuzza gli occhi perché l’ala del sonno rapace lo copre

pedala la neve dura che cade e sembra un sasso

 

Ogni verso segna un momento, un gesto, la dura vita di chi ha scelto di rimanere sempre una ‘ruota’ indietro.

Di questa dolorosa anti-epicità, dove «la figura del vincitore non sempre prevale» ma al contrario «figure di anti-eroi emergono nei ruoli gregari, nelle immagini di congenita inettitudine alla corsa o alla vittoria» (Barsella) si fa interprete, negli anni Sessanta e seguenti, Vittorio Sereni in La poesia è una passione? (racconto in versi, 1964):

 

[…] La domenica

D’agosto era, fuori, al suo colmo

e tutta Italia sulle piazze

nei viali e nei bar ferma ai televisori ...

[…]

Il campione che dicono finito,

che pareva intoccabile dallo scherno del tempo

e per minimi segni da una stagione all’altra

di sé fa dire che più non ce la fa, è alla morte

ancora ce la fa, è quello il suo campione.

Lo si aspettava all’ultimo chilometro:

“se vedremo spuntare

laggiù una certa maglia . . .” e qualcosa l’annuncia,

un movimento di gente giù alla curva,

uno stormire di voci che si approssima

un clamore un boato, è incredibile è lui

è solo s’è rialzato ha staccato le mani

ce l’ha fatta. . . e dunque anch’io

posso ancora riprendermi, stravincere.

[…]

 

La domenica è quella del 30 agosto 1953 quando tutta l’Italia è ferma, davanti alla TV che dà la notizia della vittoria di Fausto Coppi al Campionato del Mondo a Lugano. Il poeta si sente vicino a Coppi che molti consideravano “finito”: se Coppi ce l’ha fatta, anche lui, grazie alla poesia, non solo può risorgere ma addirittura “stravincere”.

La stessa sensibilità torna più tardi in Festival (1978), accompagnata dalle «immagini della corsa che passa e sconvolge il quotidiano assetto della città italiana di provincia. Ma questa è una gara “alla meno”, a chi arriva ultimo. La volata au ralenti passa costretta nel corridoio dove non c’è folla ma solo squallidi oggetti dietro le vetrine (manichini ortopedici, fiale, etichette adesive, brevetti), simboli della civiltà robotizzante che ha ormai tolto epos alla macchina e che formano per il poeta “un muro di nausea”. È la corsa dei fuori tempo massimo che pedalano all’indietro invertendo il moto progressivo della bicicletta. Qui non c’è più traguardo vittorioso ma ritirata, dove il volo si trasforma in moto negativo» (Barsella).

 

I tempi da quanto

tempo stanno dandoci torto?

Eccolo sempre più angusto

sempre più stipato di vetrine con

fiale brevetti manichini ortopedici

etichette adesive il corridoio

-e in questa volata

au ralenti dove i nati per perdere

si contendono

la maglia dei fuori tempo massimo

pedalando all’indietro

lungo un muro di nausea

quelli che erano – o parevano –

arrivati di slancio.

 

Sempre in Cucchi (1993), la vittoria del proprio campione diviene la proiezione della vittoria di un’intera classe sociale, fino ad assumere connotazioni politiche: è «la vittoria dei colori giusti» (Barsella):

 

La tua maglietta rossa sarà la più bella,

e con un simbolo chiaro, proprio qui sul petto.

Lo diceva il giovane dal braccio ferito,

e lui capiva e non capiva.

Sarà stato il ’50, il ’51,

gli parlava della corsa dei fiori,

la Milano Sanremo.

Dopo l’ultimo scatto, e passata la fontana,

sorriderai nella vittoria dei colori giusti,

e avrai le braccia alzate del campione.

 

La tappa

Altri poeti raccontano il ciclismo su strada interpretando liricamente scene appartenenti al ritmo quotidiano delle corse, come le strategie d’attacco, la fuga in solitaria o lo scatto improvviso di Alberto Bevilacqua in

 

Traguardi di tappa ciclistica facendo l’amore (2005)

 

il minaccioso sorpasso, lo scatto

nel rettilineo,

l’alzarsi sul sellino, l’effetto di pedale

per non lasciarsi isolare o sorprendere

(«mio bel Tourmalet, Aubisque infuocato,

e di’, te lo ricordi il casco di Robic

testa di vetro»…)

la fitta ai polpacci, il convulso

scuotersi dalla testa ai piedi

se la fila s’allunga

  • cambiare a ritmo, a tempo, insinuare

finzioni,

mentre sul fiato grosso, insomma

ingannarlo il rivale:

[…]

 

la solitudine del Campione in Coppi in vetta (1993) di Nicola Ghiglione:

 

Crollandosi il sudore come una

mosca sul naso, a tutto vento

giunse sulla cima, solo.

Dietro il vuoto

dell’intera salita,

uno spartiacque di gente

sui tornanti

che quasi si scopriva

 

Ma anche la scalata, il raggiungimento della vetta interpretata da alcuni alla stregua della metafora dantesca del Purgatorio nel passaggio al Paradiso, una delle ultime poesie se non l’ultima in assoluto, di Mario Luzi

 

Il termine (2009)

 

Il termine, la vetta

di quella scoscesa serpentina

ecco, si approssimava,

ormai era vicina,

ne davano un chiaro avvertimento

i magri rimasugli

di una tappa pellegrina

su alla celestiale cima.

Poco sopra

alla vista

che spazio si sarebbe aperto

dal culmine raggiunto…

immaginarlo

già era beatitudine

concessa

più che al suo desiderio, al suo tormento.

Sì, l’immensità, la luce,

ma quiete vera ci sarebbe stata?

Lì avrebbe la sua impresa

avuto il luminoso assolvimento

da se stessa nella trasparente spera

o nasceva una nuova impossibile scalata…

Questo temeva, questo desiderava.

 

E poi l’arrivo al traguardo, forse l’ultimo anche nella vita, metaforicamente parlando, di Gianni Clerici in

 

Tour (2005)

 

Ne te déchire pas encore

mon Vieux coeur

 

Aspetta ancora un poco

a sdrucirti

vecchio palmer

pesato

di troppa soma

chilometri e chilometri

di delusioni

e fughe velleitarie

da me stesso

 

Dietro la curva attende

il sento il vedo

l’ultimo traguardo.

 

E in Nicola Ghiglione:

 

Traguardo volante (1993)

 

I corridori pedalano si parlano

Ai buoni inizi solo della corsa

Quando la prima fuga ancora non si indovina

di qualcuno di cui si è poco parlato

E se ne va veloce a basso vento

spingendo dal fianco un fresco sibilo

come la freccia che vola più lontano.

Ma chi l’incalza al traguardo volante

è una specie di maglia più dipinta

che già la spunta; un muto orgoglio

è dentro al viso del primo sconfitto,

che si volge solo un poco a chi lo sprona

forse come fosse un tremito di addio.

 

Per finire con il momento della premiazione e la inquadratura dell’obbiettivo sul corpo degli atleti in Franco Buffoni:

 

Preceduti dalle gambe delle miss (1999)

 

Preceduti dalle gambe delle miss

salgono al podio sei polpacci d’oro

d’argento e di bronzo,

la conchiglia rigonfia.

Prima che un’acre chiazza di viola più scuro

si erga dalle ascelle a un cielo

di tulipani gialli

 

I Campioni

Il ciclismo ha una specifica caratteristica, quella di essere fonte d’ispirazione sia colta che popolare, di mettere insieme intellettuali e gente comune in una passione trasversale (Giuntini); sin dalle origini, porta in sé il senso della «liberazione dalla povertà e la rivalsa sociale rivissuta attraverso l’identificazione con i campioni, soprattutto dal punto di vista di coloro che nelle epiche gesta non possono identificarsi; di coloro che guardano e non possono montare in sella, “della razza di chi rimane a terra”» (Barsella). I Campioni sono veri e propri eroi agli occhi della folla che li segue soprattutto in quanto prova vivente della possibilità di eccellere grazie solo e unicamente alle doti fisiche e ai grandi sforzi e sacrifici spesi per affermarsi; è proprio la loro umile origine – il vincitore del primo Giro, Luigi Ganna, era un muratore; Costante Girardengo un contadino, Alfredo Binda uno stuccatore, Gino Bartali e Fausto Coppi contadini e poi garzoni – a giustificare l’abitudine alla fatica e alla privazione.

Come per altri sport, si creano delle vere e proprie fazioni, a favore dell’uno o dell’altro campione, soprattutto quando i rivali sono due, e le sfide sono ogni giorno dietro la curva come quelle tra Binda e Guerra e, più tardi, quelle tra Coppi e Bartali. Così Roberto Roversi fotografa quest’ultima nel quadro dell’Italia contadina del secondo dopoguerra:

 

Quando Coppi e Bartali correvano in bicicletta (2006)

 

1. I sette soli d’estate fischiano sulla pianura

cascano sopra il fieno, la canapa, la valle.

Approdano anche le grandi navi del vento favonio

sulle spalle della pianura padana appena sgelata.

Prima dell’uomo il suo respiro calmo.

Prima del corridore il suo furore.

La ruota striscia, sibila dento la pietra aguzza.

La mano sul manubrio è gialla.

Gialla e astuta come la zampa dell’aquila pescatrice.

Lenzuoli colorati coprono di nebbia

le labbra senza testa di duemila pini scatenati

QUANDO COPPI E BARTALI CORREVANO IN BICICLETTA.

2. QUANDO BARTALI E COPPI.

Il Galibier è una vetta

Il Tourmalet è un’altra vetta.

Cime naturalmente tempestose e discese nei boschi precipitose.

La gente aspetta in un silenzio feroce.

QUANDO BARTALI E COPPI CORREVANO IN BICICLETTA.

 

3. L’Italia è contadina

nei campi i buoi bianchi dalle corna di luna.

Una guerra terribile è ancora vicina

con le ossa fra le macerie della strada.

Ma questa strada non ancora asfaltata porta ad un’altra strada.

Gli operai in tuta azzurra lasciavano di giuocare a palla per guardare e

Coppi leggero leggero come un pensiero appoggiato sulle

ruote dell’ombra che aveva strani bagliori saliva.

QUANDO BARTALI E COPPI.

4.QUANDO BARTALI E COPPI CORREVANO IN BICICLETTA

La partenza è l’Aubisque.

L’arrivo è l’Izoard.

Minuti di ritardo. L’episodio cruciale. E al tramonto

sul traguardo il colpo di reni, un colpo di pedale.

La memoria non si caccia via coi sassi come un cane.

La memoria è storia non è oblio.

QUANDO COPPI E BARTALI

ero giovane anch’io.

Gino sembrava un tedesco, Fausto un gatto

anzi no, una livra

e andava su storto per la fatica prima di scomparire

sotto un ponte dietro l’acqua del fiume.

Era sudato e come un lume senza più olio è andato a morire.

 

Due giorni dopo la morte dell’altro Campione, Alberto Bevilacqua, nipote di Toni Bevilacqua vincitore di due mondiali dell’inseguimento (1950 e 1951) e di una Parigi-Roubaix (1951 ), gli dedica questi versi:

 

A Gino Bartali (Corriere della sera, 7 maggio 2000)

 

Ti vedevo per casa, da bambino,

perché Zio Toni mio omonimo passista

ti stava spesso a ruota, dicevi:

il mio correre è come uno che si sbada

a ridere a cantare

e se ne accorge dopo: al Vélo

parigino Cocteau e quei due versi:

«Come dalla ressa delle rondini

esce un rondone a picco»

che fu sacro al rito dell’aruspice:

profeti dell’Italia che era

tu e l’aquila biancoceleste, non

del suo avvenire a cui salta la catena.

 

Anche nel ciclismo rimane viva l’idea di bicicletta associata al volo tanto che i membri della più famosa squadra ciclistica italiana, la Bianchi, vengono soprannominati aquilotti, mentre Coppi è l’airone e Bartali l'arcangelo della montagna, anche in virtù della sua fede cattolica.

 

L’airone (a Fausto Coppi), di Alda Merini (2 gennaio 1960):

 

Nessuno resterà soffocato dal tempo

l’indomito cavallo d’acciaio

continuerà metro dopo metro

a solcare le innumerevoli ascese

lungo un calvario d’ infinite fatiche…

 

E tu, chino sopra la strada sterrata

ti abbandonavi a quel traguardo di vita

come l’urlo maledetto che si perde

nell’’irta scalata al Col de l’Izoard…

 

Mentre il corpo si frantumava

dentro una tela lacerata dal male,

spiccavi il volo interminabile

verso nuove cime innevate

come un uomo felicemente libero

consumato nel canto della vittoria…

 

Ora non resta che un fantasma

che si aggira tra le nostre rovine

e si perde nel respiro del vento

l’airone ha per sempre chiuso le sue ali…

 

Tornando indietro ai primi corridori, è Maurizio Cucchi a intitolare una delle sue poesie al friulano Bottecchia (1987), Botescià per i francesi, in quanto vincitore del Tour nel 1924 e nel 1925, la cui morte rimane ancora oggi misteriosa:

 

[…]

Ragazze dagli occhi chiari,

dagli occhi senza fatica,

sappiate ammirarne il passo,

la gloria che spezza i garretti.

Perche solo così

il povero si esprime.

 

Mentre Nicola Ghiglione rievoca le gesta di Girardengo e la Sanremo (1993), ma soprattutto l’entusiasmo della folla inebriata anche solo evocandone il nome

 

Ed era dietro all’urlo

una fiammata di case irresistibili

una voce che era passata

ad altra voce a un tratto

e risaliva dalla polvere ancora

nella luce. Sola su la strada maestra

quella cieca mistura di più ruote

era sorta dentro a un nome

e la notizia più agile e più pronta

come se la maglia tricolore

dentro avesse tutta una corona

di scintille e già avesse raggiunto il mare

per tutta la riviera. Il solo nome Girardengo

scritto già sui muri dal mattino:

era l’incanto per le nostre

giovani vite, un preludio per

una festa grande un solo suono

che arrivava con i corni delle auto

e trasaliva al riverbero più forte

il nostro antico evento.

 

Alberto Figliolia racconta quelle di Alfredo Binda (2005), alias il signore della montagna:

 

Pagato per non correre l’infelice

tuo destino d’invincibile.

Gloria di Cittiglio,

vincevi senza batter ciglio

stracciando eterni secondi

o alimentando inesistenti rivalità,

poiché non avevi rivali in realtà

al superbo primato del tuo pedalare.

 

Tre volte sul tetto del mondo

sfrecciando senza posa,

il ghigno diabolico del vincitore

controvoglia...

Pagato per non correre l’infelice

tuo destino d’invincibile.

 

Tappa dopo tappa, Giro dopo Giro,

potente automa, sincronia

di movimenti senza fine

uguali eppur diversi,

quando s’è creata una piega amara

nel volto implacabile

dell’imbattuto? Hai celato

qualche piaga interiore

agli ignoti ostili o ai tuoi compagni,

Alfredo dominatore?

 

Tra gli ultimi, un Campione sfortunato, Marco Pantani, il Pirata (di Cesenatico) che Giorgio Mariotti ricorda sul Corriere della sera del 7 marzo 2008, a poco più di quattro anni dalla sua morte:

 

Ma anche nel tuo Tour

personale il distacco

non sarebbe poi troppo se tu

possedessi lo scatto

che ti riscatta, lo stacco

verticale, il fatale colpo di pedale

che quando la strada sale

trasforma Pantani

in Pantani.

 

 

Bibliografia

S. Barsella, Bicicletta: il mito e la poesia, in ITALICA (1999) Vol. 76 Number 1, pp. 70-97.

A. Brambilla (cur.), nota introduttiva di Sergio Giuntini, Biciclette di carta. Un’antologia poetica del ciclismo, Arezzo, Limina 2009.

M. Pelliti, Versi ciclabili, Napoli, Orientexpress 2007.

http://www.bibliotecadellabicicletta.it/libri-nel-giro-2/edizione-2020/biciclette-di-poesie/ poesie sul ciclismo lette da attori e attrici.

 

Immagine: Riders in the 1991 Giro d'Italia climbing Sestriere on stage 13, Savigliano-Sestriere, 192 km

 

 

Crediti immagine: 田所 佐史 tadokoro, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons

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Il pedale melodico del poeta

 

Cos’è la bici?


Due ruote più tre tubi


più la libertà

Haiku in bicicletta, Pino Pace (2014)

 

Occorre sfogliare le raccolte dei poeti per trovare liriche nelle quali compare la bicicletta e per questo è piuttosto difficile (in alcuni casi inutile?) cercare di definire cosa s’intenda per ‘poesia della bicicletta’. Vero è che «la bicicletta in poesia è molto più di un inanimato corpo-telaio meccanico» (Giuntini) e la sua sola presenza lascia una traccia significativa nella poetica dei singoli autori.

 

Le ali e i suoni della bicicletta

L’esperienza della velocità che porta con sé la metafora del volo, così come la sensazione di libertà che accompagnano l’andare in bicicletta si ritrovano anche nelle poesie dagli anni ’30 del Novecento in poi, questa volta con l’aggiunta di  elementi sonori (Barsella), spesso da interpretare a livello lirico-simbolico.

È il caso di Le biciclette (1946-47), dedicata allo scrittore Libero Bigiaretti, quasi una ballata, quasi un’autobiografia, dove Giorgio Caproni racconta la storia di un’intera generazione:

 

La terra come dolcemente geme


ancora, se fra l’erba un delicato


suono di biciclette umide preme


quasi un’arpa il mattino! Uno svariato,


tenue ronzio di raggi e gomme è il lieve,


lieve trasporto di piume che il cuore


un tempo disse giovinezza – è il sale


che corresse la mente. E anch’io ebbi ardore


allora, allora anch’io col mio pedale


melodico, sui bianchi asfalti al bordo


d’un’erba millenaria, quale mare


sentii sulla mia pelle
[...]

E ahi rinnovate biciclette all’alba!


Ahi fughe con le ali!
[...]

Ma delicatamente a giorno torna


il suono dei bicicli, e dalle mura


trovano un esito i treni che l’orma


antica dei pastori urgono
[...]

Ed i bicicli ronzano funesti


ora che l’uomo s’intana la notte


perché nel sonno l’altro non lo desti


di soprassalto

 

Il suono delle biciclette/bicicli, il ronzio di raggi e gomme e poi bicicli, si accordano con il pedale melodico del poeta, «in un alternarsi di alti e bassi di felicità e delusione sul doppio binario di una storia d’amore e morte (è l’immediato devastato dopoguerra)» (Barsella).

Il ronzio di Caproni diventa fruscio dei velocipedi in Vittorio Sereni In me il tuo ricordo (1938-40), che racconta la partenza dell’amata:

 

In me il tuo ricordo è un fruscio

solo di velocipedi che vanno

quietamente là dove l’altezza

del meriggio discende

al più fiammante vespero

tra cancelli e case

e sospirosi declivi

di finestre riaperte sull’estate.

[...]

E là leggera te ne vai sul vento,

ti perdi nella sera.

 

Il volo si ritrova pure in Eugenio Montale, ma questa volta non è più tanto metaforico, visto che il poeta e la sua donna, anch’essa angelicata come nelle liriche primo novecentesche, letteralmente ‘volano’, cioè cadono, insieme, da un tandem:

 

Nubi color Magenta (1930)

 

Nubi color magenta s’addensavano

Sulla grotta di Fingal d’oltrecosta

Quando dissi “pedala,

angelo mio!” e con un salto

il tandem si staccò dal fango, sciolse

il volo tra le bacche del nalto.

[...]

 

E sempre in Montale si profila l’immagine dei bimbi il cui volo in bicicletta è meglio di qualsiasi medicina.

 

Al mare (o quasi) (Quaderno di quattro anni, 1977)

 

[...] E c'è anche qualche boccio

di magnolia l’etichetta di un pediatra

ma qui i bambini volano in bicicletta

e non hanno bisogno delle sue cure

[...]

 

Anche la ciclista del primo ’900 ritorna più tardi nei versi di Giorgio Caproni, dal titolo “parlante”:

 

Scandalo (1959)

 

Per una bicicletta azzurra,

Livorno come sussurra!

Come s’unisce al brusio

Dei raggi, il mormorio!

Annina sbucata all’angolo

ha alimentato lo scandalo.

Ma quando mai s’era vista,

in giro, una ciclista

 

L’Annina è la madre del poeta, che la ricorda con amore: «Parlo della ragazza che fu prima che io nascessi – una figura che appartiene, in questo senso, più alla leggenda, alle fotografie che ho visto, ai discorsi ascoltati, che alla storia. Era una donna molto vivace; fu una delle prime ad andare in bicicletta per le vie di Livorno, additata da tutti come oggetto di scandalo».

Un ciclista (questa volta al maschile) compare anche ne La veneta piazzetta (1939) di Sandro Penna, e ci si chiede che ruolo abbia la bicicletta in questi versi. Di nuovo quello di far ‘volare’ il giovane ciclista che ha però il tempo di chiedere in un soffio melodico “vai solo?” «Il volo disegna un luogo incantato di sogno e memoria in cui i giovani ciclisti si affiancano e il soffio delle parole, il frullio d’ali e il fruscio di ruote si fondono in un’immagine solare» (Barsella):

 

La veneta piazzetta

 

La veneta piazzetta

antica e mesta, accoglie

odor di mare. E voli

di colombi. Ma resta

nella memoria - e incanta

di sé la luce - il volo

del giovane ciclista

vòlto all’amico: un soffio

melodico: “vai solo?”

 

L’idea di volo/velocità (degli anni o della bicicletta?) resiste nei versi di Luciano Erba insieme al riferimento, già novecentesco, al “cavalcare”:

 

Gli anni Quaranta (1977)

 

Sembrava tutto possibile


lasciarsi dietro le curve


con un supremo colpo di freno


galoppare in piedi sulla sella


altre superbe cose


più nobili prospere cose


apparivano all’altezza degli occhi.


Ora gli anni volgono veloci


per cieli senza presagi


[…]

 

Quando poi i ciclisti sono tanti, diventano uno sciame, un’onda: e i colombi di Penna diventano pavoncelle in Volarono di Giuseppe Ungaretti (Amsterdam 1933), resa poetica degli appunti presi durante il viaggio in Olanda; ne «la fila dei ragazzi in bicicletta già essendo davanti all’Aja e accelerando la cosa verso la Reggia» della mitica Wilhelmina, il poeta riesce a cogliere in uno scatto fotografico una scena ancora oggi ricorrente nel paesaggio olandese, cittadino e non.

 

Di sopra dune in branco pavoncelle


Volarono e, quella sera, troppo vitrea,


Si ruppe con metallici riflessi


A lampi verdi, turchini, porporini.


Pavoncelle calate qui,


In Sardegna svernato, l’altro giorno.


Le odo, mentre camminano non viste,


Che, frugando se capiti un lombrico,


Per non smarrirsi, di già è buio, stridono.


 Tornate al nido, all’alba domattina,


Lo troveranno vuoto,


E la prima dozzina degli ovetti


Scovati («Zitti!» «Piano!») dai monelli,


Si porta in bicicletta a Guglielmina,

 

 È Primavera. 

 

Sono gli stessi ragazzi e ragazze che circolano nella Milano di Luciano Erba con la cartolina (o una carta da gioco) messa tra le ruote per imitare il suono di un motorino e sentirsi più grandi. Chi non l’ha fatto negli anni ’70?

 

Quale Milano? (L’ippopotamo 1989)

 

La cartolina tra i raggi della ruota

imitava un suono di motore

quando in via XX Settembre

si scendeva dal Parco in bicicletta:

perché a Milano, per biliardo che sia

vi sono strade in salita e in discesa

più frequenti nei sogni e nei ricordi

specie se legate a un primo incontro

a un saluto guantato di viola.

 

Operai, contadini, gente di ogni dove.

La bicicletta entra nel corpus poetico di Umberto Saba per raccontare la drammatica vicenda del postino, anche lui alato messaggero, “eroicamente” caduto nel compimento del suo “umile” incarico:

 

In morte di un fattorino telegrafico (morto a Bologna, per una caduta di bicicletta, scendendo l’erta dell’Osservanza) (1914)

[…]

Pareva in sella alato messaggero;

discese in cauto, ruinò dall’erta,

che al giovanile suo ardimento piacque;

trovò al soccorso la strada deserta;

un muro,e come cadde morto giacque.

[…]

 

La poesia di Saba introduce una diversa prospettiva, quella della bici del proletariato, dei contadini, degli operai, quando, ormai prodotta su più larga scala e più accessibile economicamente, passa a svolgere un ruolo centrale nella quotidianità della giornata lavorativa. «Le ali, in senso metaforico, permettono a fasce della società italiana di rompere gli schemi: gli operai nel primo decennio del Novecento utilizzano la bici per andare al lavoro, le donne vivono una liberazione e vedono la bici come simbolo del nascente movimento femminista» (Pivato).

 

È il gasista di Montale:

 

Costa San Giorgio (1933-38)

 

Un fuoco fatuo impolvera la strada.

Il gasista si cala giù e pedala

rapido con la scala sulla spalla.

Risponde un'altra luce e l'ombra attorno

Sfarfalla, poi ricade.

[…]

 

È il ragazzo con la tuta di Penna (Poesie, 1927-38):

 

È pur dolce il ritrovarsi

per contrada sconosciuta.

Un ragazzo con la tuta

ora passa accanto a te.

 

Tu ne pensi alla sua vita

a quel desco che l’aspetta.

E la stanca bicicletta

ch’egli posa accanto a sé.

 

Ma tu resti sulla strada

sconosciuta ed infinita.

Tu non chiedi alla tua vita

che restare ormai com’è.

 

Come si diceva in anteprima, la critica letteraria che si pone il problema di quali siano gli “scrittori della bicicletta”, osserva che «Non è sufficiente trovare scritto la parola ‘bicicletta’, per inserire l’autore fra gli scrittori della stessa», ma detto questo, quanta liricità c’è nella bicicletta che carica su di sé tutta la stanchezza – grazie alla figura retorica dell’ipallage – del giovane a fine giornata? Penna racconta, oltre al sentimento di «inafferrabilità dell’oggetto del desiderio», soprattutto «Un ambiente fatto di cose minime, di funzioni e riti della quotidianità della gente comune» (Barsella) e il mondo dell’operosità italiana, nei quali la bicicletta occupa un posto di primo piano. Quel posto che si ritrova anche nei versi di Luciano Erba, tra i fonditori di

 

Tramonto a Montluqon (Il nastro di Moebius, 1980)

 

Attendersi al solo ponte della città

sopra l’acqua ammalata. Cercarsi

tra lunghe pedalate di fonditori

lasciare che il giorno ci abbagli

dietro ardenti armerie

che ai piloni urti il sonno

di molli flottiglie di detriti.

[…]

 

e gli operai di

 

Milano (Il nastro di Moebius, 1980)

 

Curva tesa e verde del treno

si arriva

c’è caldo lungo dalle fonderie.

L’operaio pedala al suo vagone

arenato nell’orto

si legge ancora

III classe in numeri gialli

qui sento tutti i viaggi

 

Le due ruote, al di là dell’ambito lavorativo, significarono per le classi popolari la possibilità di muoversi autonomamente, testimoniata anche in poesia dall’uso che se ne faceva in particolare nella Bassa Val Padana dove si scorgono gli uomini intabarrati di Cesare Zavattini – in Straparole «si potrebbe fare un ritratto dell’Emilia parlando delle biciclette; anche se ce ne sono in tutto il mondo, sembra qui la loro sede naturale, nella Bassa padana dove all’improvviso arrivano da una carraia o da un portone […] gli emiliani non usano la bicicletta per tragitti faticosi, laboriosi, ma corti, cortissimi, o per nulla, la usano dunque come il cappello, che non si può abbandonare, poiché fa parte della persona anche quando è inopportuno» – in Da li me bandi (1973) – alla bicicletta è legato l’uso nell’Ottocento, proseguito fino agli anni ‘50, del tabarro (un tipo di mantella), che il governo fascista aveva proibito in quanto tipico degli anarchici e dei contrabbandieri, tanto che a Venezia c’era il detto oh quanti contrabbandi se sconde coi tabari, pur essendo l’unico capo di vestiario dei contadini per coprirsi.

 

 

 

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Il cerchione magico

 

In sella dunque, la testa sul manubrio e l’anima al vento.

Alfredo Oriani La bicicletta 1902

 

All’inizio era…

Dalla draisina, chiamata così in onore del Barone Von Drais che s’inventa nel 1817 una  Laufmachine, letteralmente una “macchina da corsa” – un telaio in legno con seduta regolabile e lo sterzo collegato alla ruota anteriore –, di fatto un modo di macinare chilometri stando seduti, al velocipede o biciclo che vede l’aggiunta dei pedali nel 1861 e la trasformazione del telaio con una ruota anteriore molto alta, un “cavallo di ferro”, considerando la posizione di chi la montava e l’idea di farne una cavalcatura: così nasce la futura bicicletta. Sembra che la prima invenzione si debba alla necessità di trovare un’alternativa all’uso dei cavalli, vittime della carestia del 1816, mentre del secondo sembra che lo stesso d’Annunzio, provetto cavallerizzo, ne abbia cavalcato uno descritto come

 

un grottesco dinoterio minocenico dal diametro più lungo di una ruota da carro e dietro una rotellina minuscola come la carrucola di un pozzo; in mezzo e in alto, issata da un telaio di ferro, una sella rigida, che dava a chi vi era seduto l’aspetto di un funambolo

 

Contro il nuovo mezzo si schierano sia il conte Monaldo Leopardi (1831)

 

Camminavo sol pensoso

per solinghe prode amene

quando un mostro fragoroso

la mia quiete alta turbò!

[..]

Tu progresso maledetto

Sii per sempre dal mio canto:

ché nel muscolo perfetto

hai riposto ogni pensier

 

sia Matilde Serao, che la definisce “l’atroce macchina” tanta “paura e disgusto” le suscita.

Queste due testimonianze non sono che lo specchio di quel conservatorismo antiprogresso che si traduce nella proibizione dei sindaci di andare in bicicletta nei centri cittadini così come nel divieto dei vescovi ai preti promulgato nelle conferenze episcopali del 1903 e del 1909.

Dagli anni ’80 del XIX secolo, quando la moderna bicicletta compare in Gran Bretagna, se da un lato tarda ad essere inserita come termine nuovo nei dizionari al posto di velocipede – Panzini docet –, non molto tempo dopo comincia a comparire nelle prime composizioni poetiche, che rimandano alla celebrazione, a dire il vero soprattutto nelle opere in prosa, della libertà e autonomia negli spostamenti acquisite grazie alle due ruote, «senza preoccupazioni come per un cavallo, senza servitù come in treno» scrive il cicloturista Oriani, e della possibilità di intraprendere itinerari di un certo impegno – le prime guide turistiche del Bertarelli risalgono a quel periodo –, per lo più appannaggio di ricchi borghesi che, oltre ad avere tempo a disposizione, se ne potevano permettere l’acquisto, facendone magari dono ai ginnasiali al compimento del ciclo di studi – come ricorda Gozzano –, oltre al pagamento di una tassa di circolazione, mentre i più snob tra i nobili romani iniziavano a scorrazzare con il nuovo mezzo nelle loro gite sulla regina viarum, la via Appia.

Molti di loro ne sono talmente entusiasti da esternare la loro gioia quasi fanciullesca nei loro scritti, dove prevale la voglia di libertà, l’idea(le) di una vita sana, all’aria aperta, un invito alla trasgressione fino a intravedere nuove occasioni di incontri amorosi.

Tra questi Olindo Guerrini (alias Lorenzo Stecchetti), che dopo un iniziale rifiuto dovuto per lo più alla frequenza degli incidenti occorsi su strada e puntualmente riportati dalle cronache cittadine, passò al bando opposto, sulle orme del figlio, novello ciclista, appassionandosi a tal punto da «riunire in questo volumetto vari scritti di argomento ciclistico, pubblicati già quasi tutti nel giornale milanese La bicicletta, ora Corriere dello Sport […] Se queste pagine valessero a convertire uno solo alla bicicletta, od almeno a rendergli meno antipatico questo dilettoso esercizio che conferisce forza, allegria e salute a chi lo pratica, sarei soddisfatto e mi riterrei troppo ricompensato per l’operetta minima che offro ai lettori».

Il corpus del Guerrini conta su almeno 5 poesie, tra le quali le più famose In bicicletta (1897)

 

Giammai, scoccata da una man feroce

dall’arco teso non fuggì saetta

come sul suo sentier corre veloce

la bicicletta

[…]

Io corro, io volo sulla bicicletta

Questo ideal delle cavalcature

[…]

Di nuovo in bicicletta (1897)

 

[…]

Sovra il ferreo corsier passo contento

come a novella gioventù rinato e

sano e buono e libero mi sento

 

e Pedalando (1903)

 

Le campagne di fior son coperte.

L’aria odora di donna e di mughetti

Ed io rimo per te queste parole

In bicicletta respirando il sole.

[…]

 

I ciclisti che volano

I primi appassionati ciclisti che invocavano la necessità di «un inno che sia [...] la glorificazione del ciclismo tutto quanto», spinsero la Domenica del Corriere a indire per conto del Touring, il 10 giugno 1900, un Concorso letterario, vinto proprio dal Guerrini, secondo alcune malelingue in virtù della sua carica di Vice Console per Bologna dello stesso Touring – agli inizi (1894) Touring Club Ciclistico Italiano –, in polemica con Vittorio Betteloni, e il suo Canto dei ciclisti, il quale, profondamente offeso, in più occasioni fornisce le prove della genericità delle rime del rivale legate non specificamente all’uso della bicicletta bensì al desiderio di fare passeggiate con qualsiasi mezzo, in auto, con carro trainato da cavalli o persino a piedi.

La sua ode invece sarebbe stata innegabilmente ispirata dal mezzo a due ruote, anche nella glorificazione dei benefici sul corpo generati dal suo utilizzo:

 

«Avanti, avanti! Rapidi,

precipitando a volo,

noi divoriam lo spazio,

radendo appena il suolo»

[…]

Non può corsier contendere

d’agile forza e snella,

non può con noi, di fulgida

macchina curvi in sella,

né de la corsa il nobile

torci supremo onor.)

[…]

«Fansi d’acciaio i muscoli*

ne l’esercizio ardito;

s’espande il sen da l’aria,

che l’urta invigorito;

l’occhio ogni vario ostacolo

addestrasi a fuggir

 

E noi voliamo, fervidi / a l’opre della pace;

[…]

 

*il muscolo perfetto di Monaldo, di cui sopra

 

Nei versi riportati fin qui, come in altri successivi, si percepisce la fisicità della bicicletta attraverso la menzione dei pezzi che la compongono: la sella in Betteloni, il manubrio e i pedali in Guerrini. Addirittura i futuristi, le cui testimonianze in tema ciclistico si riducono a pochissime liriche del primo ventennio del ’900, si concentrano su singoli elementi della bicicletta: La catena di Luciano Folgore (alias Omero Vecchi)

 

Il matrimonio è un tandem eccellente

Però se l’uomo o l’altra, pedalando

Fa la serpetta o sterza malamente

Tutti e due si bisticciano pensando:

Quosque tandem durerà la pena

Perché mai si rompe la catena?

 

e La camera di Farfa

 

La camera

d’aria

della bicicletta

poveretta

un colpo si sparò

e l’amico copertone

dalla disperazione

s’afflosciò

 

La personificazione della camera d’aria unita a quella del copertone che l’avvolge, seppure ironica, richiama all’umanizzazione del mezzo da parte dei poeti, e invita a soffermarsi sul sentimento di fusione con il mezzo meccanico in una sorta di «prolungamento del corpo umano, a cui obbedisce decuplicandone le potenzialità fisiche. La mobilità e libertà che ne derivano dischiudono al ciclista nuovi orizzonti di percezione del reale (e di tutte le sue implicazioni metafisiche), che prima dell’avvento della bicicletta non erano immaginabili. Di fatto il ciclista, non diversamente da centauri e sirene, non è più del tutto uomo ma costituisce un essere ibrido», così Pedroni, e Barsella che parla di «fusione aereodinamica del corpo e della macchina», ravvisando questo aspetto in più di una lirica. È questa fusione a permettere all’uomo di “volare” sulla bicicletta, eccitato dal brivido della velocità, altra immagine ricorrente nelle liriche dell’epoca, e in molte di quelle più tarde, anche se in un contesto lirico diverso.

Nei versi seguenti, si assiste pure a una sorta di compenetrazione, questa volta delle ruote e dei pedali ai piedi che diventano ali, dando vita a una figura quasi angelica: «La bicicletta provoca infatti il passaggio dalla condizione terrena a quella di creatura sovrannaturale frapponendo con la velocità un diaframma tra il ciclista e il mondo che lo circonda» (Barsella).

Sono soprattutto le donne, seppure “angeliche”, a vivere la bicicletta come strumento di emancipazione – basti pensare che persino la Regina Margherita se ne invaghì – come testimoniato da Guido Gozzano, che usa per la prima volta in ambito poetico il termine tecnico ciclista nella sua Le due strade (1907), sempre che non si sia ispirato alla contemporanea A giovinetta ciclista di Tommaso Cannizaro, dove il poeta fotografa il passaggio veloce, quasi una freccia, e deciso, di una ragazza, tanto reale quanto ultraterrena:

 

Sul tuo ferreo corsiero

tu come spada ritta

per via lunga e diritta

in corto abito nero

passi, con ciglio altero,

nella tenebra fitta

quasi rapida slitta,

come dardo leggiero.

Erta, passi ed immota

Senz’ombra di fatica

sulla sottile ruota,

sognar fai chi ti vede

di qualche fata antica

da l’aligero piede

e crede

a un miraggio divino

del vento vespertino

 

I versi di Gozzano, nei quali la bicicletta compare sette volte, tracciando una sorta di ritmo alla sequenza narrativa raccontata dal poemetto, ci mostrano l’incontro tra Graziella, la “signorina” ciclista “ardita, forte, bella”, che compare dall’alto di una collina, e una conoscente di vecchia data, dalla bellezza ormai sfiorita, preoccupata della troppa autonomia della ragazza: “Signora si ricorda quelli anni?” “E così bella vai senza cavalieri in bicicletta?” […], insieme al narratore al quale lascia momentaneamente il mezzo per proseguire un tratto a piedi.

 

[…] Dalle mie mani, in fretta,

prese la bicicletta. E non mi disse grazie.

 

Non mi parlò. D’un balzo sali, prese l’avvio;

la macchina il fruscio ebbe d’un piede scalzo,

 

d’un batter d’ali ignote, come seguita a lato

da un non so che d’alato volgente con le rote.

[…]

Volò come sospesa la bicicletta snella:

“O piccola Graziella, attenta alla discesa!”

 

“Signora! Arrivederla!” Gridò di lungi, ai venti:

di lungi ebbero i denti un balenío di perla.

 

Graziella è lungi. Vola vola la bicicletta […]

 

Gli accenni leggeri a un amore nostalgico-crepuscolare – la bimba vivace di un tempo, ora giovinetta, incarna la «consolazione alla malinconia, all’inesorabile “discendere alla Morte”» (Pedroni) – si trasformano in gioia di vivere e desiderio per l’amata ne La fiera (1918) di Corrado Govoni

 

Tu pedalavi vaporosa avanti,

ed io a volo dietro il tuo cappello,

come in un delizioso carosello

mosso da Dio sol per noi amanti.

Sull’erba della darsena intrecciammo

le nostre impolverate biciclette

 

In tutte queste poesie, comprese quelle del Guerrini, e poi Serra, è già presente quello che Maramotti definisce «il corredo linguistico e metaforico proprio delle rime sulla bicicletta: la bicicletta, i ciclisti, o il volare, l’andare, il frusciare delle ruote, la lucentezza del metallo». Ma non solo. In questi stessi poeti si rinnova, a volta con espressioni che sembrano veri e propri calchi, l’accostamento, o forse meglio l’identificazione tra cavallo e mezzo meccanico, l’anticavallo di breriana memoria: dal ferreo corsiero di Guerrini e Cannizaro al destrier fremente di Renato Serra in

 

Guardando la bicicletta (1903)

 

sprazza e abbarbaglia del destrier fremente

l’acciaio al raggio degli aprichi soli,

e alle cure troviam dolce nepente

nella lunga ansia dei sonori voli

 

Renato Serra, attivo ciclista della prima ora come Guerrini, scrive di sé, delle sue corse in bicicletta tra Romagna e Toscana – con la sua rossa Peugeot, vincerà una medaglia d’oro in una gara ciclistica militare –, del suo sentirsi libero e soprattutto autonomo.

Ed è sempre in Romagna dove risuona l’onomatopeico dlin … dlin ... del campanello pascoliano (La bicicletta 1903) e la bicicletta ‘tinnula’ ne La rosa delle siepi (1907) dello stesso Pascoli, che a differenza di Serra e Guerrini non era un assiduo delle due ruote, secondo la testimonianza della sorella. È proprio quel dlin dlin che ricorre alla fine di ognuna delle tre strofe a dare il ritmo alla composizione, che riflette tutti i tratti del simbolismo del poeta, che racconta di una passeggiata in campagna con una bicicletta che rimane «evanescente, senza pedali, senza ruote, senza sellino» allo stesso modo che il ciclista «non pedala, non fatica e sembra non controllarne la corsa» (Pedroni); solo alla fine

 

La piccola lampada brilla
per mezzo all’oscura città.
Più lenta la piccola squilla
dà un palpito, e va…
dlin… dlin…

 

Bibliografia

S. Barsella, Bicicletta: il mito e la poesia, in ITALICA (1999) Vol. 76 Number 1, pp. 70-97.

G. Bosi Maramotti, La bicicletta nella letteratura Note in margine, 1998.

A. Brambilla (cur.), nota introduttiva di Sergio Giuntini, Biciclette di carta. Un’antologia poetica del ciclismo, Arezzo, Limina 2009.

M. Pedroni, Poesia ciclistica delle origini: Betteloni, Cannizaro, Gozzano, Pascoli, Stecchetti, in Versants. Rivista svizzera delle letterature romanze (2001) n. 40, pp. 185–205.

 

 

Immagine: Dancing bicycle

 

Crediti immagine: Zoran Tairovic, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, attraverso Wikimedia Commons

 

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Lo stadio: gioia, nostalgia e lutto

 

I versi di Fanciulli allo stadio, appartenenti alla cinquina di Umberto Saba, sono forse quelli che più si allontanano dallo specifico calcistico in quanto al poeta interessa la presenza dei giovani «acerbi» tifosi e i loro modi di fare, ed è a loro che Saba, ritornato bambino, si assimila, quando «lancia[va]no» i nomi dei loro campioni alla stregua di eroi, in contrapposizione con l’immagine superba dei calciatori che invece li ignorano, rivelandosi «odiosi».

 

Galletto

è alla voce il fanciullo; estrosi amori

con quella, e crucci, acutamente incide.

 

Ai confini del campo una bandiera

sventola solitaria su un muretto.

Su quello alzati, nei riposi, a gara

cari nomi lanciavano i fanciulli,

ad uno ad uno, come frecce. Vive

in me l’immagine lieta; a un ricordo

si sposa – a sera – dei miei giorni imberbi.

 

Odiosi di tanto eran superbi

passavano là sotto i calciatori.

Tutto vedevano, e non quegli acerbi.

 

L’esperienza  fanciullesca ritorna anche nell’interpretazione intimistica fornita da Dacia Maraini, che di calcio non si intendeva affatto, sulla passione di Pasolini, suo grande amico: «Secondo me Pier Paolo andava avanti con la testa rivolta all’indietro. Inseguiva un sé stesso bambino che scappava. Quando giocava, quel bambino prendeva corpo assieme al pallone; quando finiva di giocare, tornava l’adulto inquieto e doloroso che era diventato».

 

Lo stadio

L’ultima poesia di Saba riporta al luogo fisico per eccellenza dove il rituale “religioso” di pasoliniana memoria ha luogo e prende vita, lo stadio. Ecco Pasolini (lo stadio è il Dall’Ara dell’amato Bologna):

 

... E so come sia terso in questo ottobre

il colle di San Luca sopra il mare

di teste che copre il cerchio dello stadio...

da Roma 1950. Diario, 1960.

 

Valerio Magrelli, in un’intervista sul suo libro dedicato al calcio, non ha paura a mettere insieme stadi e cattedrali gotiche, ambedue «luoghi di culto per i quali non c’è bisogno di conoscere gli autori», e di pensare alla schedina come un oracolo dell’epoca dei santuari greci, per finire con l’affermare che: «la ricchezza compositiva di questo gioco (il calcio) è straordinaria: come la poesia è linguaggio al quadrato, il calcio è uno sport al quadrato perché è duello individuale, ma è anche forma di solidarietà collettiva, altrimenti non si spiegherebbe questo successo planetario».

Ed è lo stadio, causa la sua centrale importanza, ad essere presente in molte poesie sportive, strettamente connesso con la folla, il traffico, il rito domenicale che lo popola:

 

Come si costruisce uno stadio

In questo limpido mattino

sono un architetto

di luminosi compassi: traccio perimetri sportivi

[…]

Carlo Martini

 

Allo stadio andavamo presto…

Allo stadio andavamo presto,

non volevamo perdere la partita prima della partita.

In campo, uguali da confonderli

a dei giocatori veri, i ragazzi

delle squadre chiamate primavera.

[…]

Giovanni Raboni, da Ultimi versi, postumo, 2006

 

Stadio

Plaudisce

La cangiabile folla,

dice che la bellezza fugge

come all’arrotino la scintilla

Mario Tobino, da L’asso di picche, 1974

 

Sillabare Italia

Oh Italia sugli scudi di Dio

in centomila t’invocano allo stadio

incatenati al sole del pallone

[…]

Giuseppe Brunamontini

 

Motus in fine velocior

Scendeva la nebbia sullo stadio

E fu veloce, anzi più veloce alla fine

Era l’Inter

Una volta tanto

Luciano Erba, da Poesie, 1951-2001, 2002

 

Domenica sera

[…]

Impazienti i semafori

Aspettano fra sbadigli,

verdi, rossi e gialli

che il traffico riporti

dallo stadio

voci lacere e stanche;

[…]

Carlo Bernari, da 26 cose in versi, 1977

 

Un legame particolare, quasi intimo, si avverte negli scritti di Vittorio Sereni, il quale viveva in via Paravia, molto vicino allo stadio milanese di San Siro, soprannominato la Scala del Calcio, per via dell’atteggiamento sempre critico da parte dei suoi tifosi, e dove – confessa il poeta in una lettera –, è «bellissimo andarci di giorno, durante le ore di lavoro, e girare là intorno in quel gran vuoto e silenzio».

È il giorno del suo compleanno, il 27 luglio, le squadre sono ferme per la pausa estiva:

 

Altro compleanno

A fine luglio quando

da sotto le pergole di un bar di San Siro

tra cancellate e fornici si intravede

un qualche spicchio dello stadio assolato

quando trasecola il gran catino vuoto

a specchio del tempo sperperato e pare

che proprio lì venga a morire un anno

e non si sa che altro un altro anno prepari

passiamola questa soglia una volta di più

sol che regga a quei marosi di città il tuo cuore

e un’ardesia propaghi il colore dell’estate.

da Poesie, 1995

 

Sereni pensa allo scorrere della vita, con l’immagine del “suo” stadio davanti agli occhi: nessuna punteggiatura, solo un flusso emotivo senza pause. Perché, come il poeta ci fa sapere: «Non credo che esista un altro spettacolo sportivo capace, come questo, di offrire un riscontro alla varietà dell’esistenza: ai suoi andirivieni, rovesciamenti, imprevisti, contraccolpi. Ma anche alle sue stasi, alle sue ripetizioni, alla sua monotonia: la tua squadra ha appena vinto lo scudetto e la Coppa dei Campioni, e perciò stesso hai creduto di poter finalmente placare il tuo antico fantasma di tifoso? Beh, ti sbagliavi, e di grosso, perché è già tutto ricominciato, è tutto da rifare».

 

Domenica sportiva

[…]

Giro di meriggio canoro,

ti spezza un trillo estremo.

A porte chiuse sei silenzio d’echi

nella pioggia che tutto cancella.

da Elogio olimpico, 1960

 

A fine partita tutto torna silenzioso, il “catino” ritorna vuoto e il tempo riparte e ripete se stesso, partita dopo partita, anno dopo anno.

La stessa esperienza, ma in veste di cronista sportivo, è raccontata con una vena malinconica mista a smarrimento da Lino Cascioli

 

Interno di uno stadio

[…]

Il rumore di festa è rotolato

lontano come un tuono, oltre i confini

della pioggia gelata e del silenzio.

Ma i sogni della gente son rimasti

impigliati ai pennoni, ad agitarsi

irrequieti, tra le sgocciolature

dell’inverno, aspettando un’altra sfida,

come bandiere senza più paesi,

che nitriscono al vento, per partire

verso un’altra domenica. È così

che ogni sera di festa mi distacco

da ciò che mai nessuno scriverà,

da ciò che non è stato mai narrato,

da uno stadio che certo non esiste,

da una città che non conosco. Forse

sono solo tristezze di un cronista.

 

Il Grande Torino

L’ultimo luogo è quello della tragedia aerea di Superga, alla quale alcuni poeti dedicano i loro versi intrisi di stupefatto dolore e rispettosa celebrazione: quel 4 maggio, quella pioggia insistente non se li scorda più nessuno.

 

Ai campioni del Torino di Mario Luzi

[…]

Niente c’è più, niente c’è più, o un barbaglio?

niente, niente, non c’è più niente, piove

qui dove noi diciamo Rigamonti,

Castigliano, Maroso, Ballarin.

 

(la stella di Superga) di Silvio Ramat

così la gloria loro insieme luca

Dante, Par., XII, 36

[…] Non vi chiedo

nulla di quel piovoso 4 maggio

Ma qualcosa, o spiriti granata,

confidate all’ansioso ospite, ditegli

se altra stirpe degna di voi sia nata,

giglio schietto, dalle vostre ferite,

e in che girone cercarla, se spezza

il cilicio di un’eterna orfanezza…

 

Me grand Turin di Giovanni Arpino

T’las vinciù ’l mund,                              Hai vinto il mondo,

a vint’ani t’ses mort.                             a vent’anni sei morto

Me Turin grand                         Mio Torino grande

me Turin fort.                                       mio Torino forte.

 

Collina di Superga di Giancarlo Mursia Re

Una campana singhiozza le ore

giù dalla collina e lungo il fiume

(e l’urlo ha fatto vibrare le case)

Spalanca, cielo, una tua porta d’oro

una porta d’oro per farli passare.

Così sono andati

(e l’angoscia ha fatto silenti le cose)

Una campana singhiozza le ore

giù dalla collina e lungo il fiume.

 

La cripta di Superga di Loris Maria Marchetti

Ma l’olocausto di quel pugno di eroi 

riconsacrò anzi col sangue più fecondo 

quella basilica e quel colle. Ora il riposo 

vi accomuna e quale sia la vostra sede 

sono annientate le dicerie risibili.

 

perché purtroppo anche i campioni muoiono, ma la loro memoria resta.

 

Il minuto di Giuseppe Brunamontini

Un colossale manifesto di lutto

steso sul campo e la squadra sopra

per il minuto di silenzio, sperduta

fra cornici nere e nuvole di burrasca.

 

 

Bibliografia

F. Acitelli, La solitudine dell’ala destra. Storia poetica del calcio mondiale, Torino, Einaudi Tascabile, 1998.

G. Bàrberi Squarotti G., Sport e letteratura, in Bottiglieri N. (cur.), Letteratura e Sport, Atti del Convegno Internazionale (5-6-7 Aprile 2001, IUSM, Foro Italico, Roma), Arezzo, Limina, 2003, pp. 85-122.

A. Brambilla, «Sport et scrittura», in «Italies», 23 | 2019, 275-290.

F. Brenna, Poeti interisti, «Paragone letteratura», III serie, vol. 72, no. 153-154-155, 2021, pp. 136-67.

G. Brunamontini, Antologia della letteratura sportiva italiana, Roma, Società Stampa Sportiva, 1984.

V. Magrelli Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto, Torino, Einaudi, 2010.

D. Pastorin, Miti, dribbling e metafore, in «L’Indice», Lunedì, 14 Luglio 2014

G. Spallone Calcio e causeries: la Babele dei linguaggi, in Bottiglieri N. (cur.), Letteratura e Sport, Atti del Convegno Internazionale (5-6-7 aprile 2001, IUSM, Foro Italico, Roma), Arezzo, Limina, 2003, pp. 379-92.

L. Surdich, A. Brambilla (cur.), Il calcio è poesia, Genova, il melangolo, 2006.

G. Titta Rosa, F. Ciampitti (cur.), Prima antologia degli scrittori sportivi, Arezzo, Limina, 2005 (1934).

 

Sul tema Poesia e calcio Maria Carmela D’Angelo ha scritto:

 

Tifo, amore e fantasia

In principio era Saba

 

Immagine: Una formazione del Torino nella stagione 1948-1949, via Wikimedia commons

 

 

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In principio era Saba

[…] per non parlare della bellezza visiva dello spettacolo,

dei gesti necessari dei giocatori durante lo svolgimento della gara.

Umberto Saba

 

I colori

Nelle poesie calcistiche spesso il campo si riempie di colori, soprattutto quelli delle squadre; vedi la maglia nero-stellata di Simonotti Manacorda, o «le bandiere dai tanti colori / cerchiati in blu» della Sampdoria di Enrico Testa, o ancora in Giovanni Giudici quelli del Genoa, combinati con il simbolo della squadra.

 

Nella città d’Ilaria

Nella città d’Ilaria sugli spalti,

cara, ricordi tu quando passarono

ridenti alla fortuna i calciatori:

[…]

e poi giovani

a piedi li seguivano e fanciulle

con rosse e azzurre vesti che sul seno

ostentavano il balzo del Grifone

[…]

da Fiorì all’improvviso, 1953

 

Un tardo colloquio

[…]

Malinconia di un’ultima partita

Vista insieme – che fu

Un cinque a due trionfo

Del tuo fantasma nerazzurro un débacle

Per i miei scassati rossoblu.

E poi niente per tanti anni. Con altri

Non con te il colloquio.

da Quanto spera di campare Giovanni, 1993

 

dove il «fantasma nerazzurro» è quello di Vittorio Sereni, insieme al quale Giudici assiste a un’Inter-Genoa, loro due tifosi-amici-rivali.

Gli stessi colori neroazzurri fanno il paio con il bianconero avversario in un’altra lirica, questa volta di Vittorio Sereni.

 

Domenica sportiva (Inter-Juve)

Il verde è sommerso in neroazzurri.

Ma le zebre venute di Piemonte

sormontano riscosse a un hallalì

squillato dietro barriere di folla.

Ne fanno un reame bianconero.

[…]

da Frontiera, 1966

 

e in un’altra del fiorentino Silvio Ramat:

 

(piccolo ultrà)

[…]                              Ma oggi

Chi è in testa? Non mi raccapezzo. E appena

m’incammino verso un punto più fosco,

uno sfrascare d’attardato, un pianto

che io solo conosco. L’invincibile

mio avversario di allora. Si dispera

stretto nei panni del piccolo ultrà:

spazza umiliata il suolo

la fastosa bandiera bianconera.

da Pomerania, 2000

 

Ma il vero antesignano degli effetti visivi, soprattutto cromatici, è Umberto Saba – «le maglie rosse / le maglie bianche» di Tredicesima partita e i giocatori «rosso/alabardati” e il «verde tappeto» di Squadra paesana –, il primo vero poeta del calcio

 

Lezioni da Trieste

Non si può parlare di calcio e poesia senza “mettere in campo” le Cinque poesie per il gioco del calcio di Umberto Saba (i titoli stessi Squadra paesana, Tre momenti, Tredicesima partita, Fanciulli allo stadio, Goal fanno luce sulle sue scelte descrittive), con l’aggiunta di Cuore come viene spiegato nella Storia e cronistoria del Canzoniere1: «Anche la poesia seguente (Cuore appunto) benché collocata fuori dal piccolo gruppo, ne fa, in qualche modo, parte: […] l’immagine dell’‘ultima corsa’ è presa in parte dal gioco del calcio, dall’affannoso correre in su e in giù dei calciatori coi quali il poeta si era, come il resto del pubblico, identificato».

Accostatosi quasi per caso al mondo del calcio – Saba accompagna la giovane figlia Lina a vedere alcune partite della squadra di calcio cittadina, la Triestina – senza alcuna ambizione da tecnico, né tantomeno da tifoso, dichiara, parlando in terza persona, che «Quasi tutto quello che si scrive sullo sport – compresi i semplici resoconti dei giornali – gli piace e lo diverte; quasi tutto (ma specialmente le descrizioni delle partite di calcio) porta – egli dice – l’impronta della calda vita». E continua: «È (il gioco) più popolare che ci sia oggi, ed è quello in cui si esprimono con più appassionata evidenza le passioni elementari della folla. L’atmosfera che si forma intorno a quegli undici fratelli che difendono la madre è il più delle volte così accesa da lasciare incancellabili impronte in chi ci è vissuto dentro. […] Che dire poi di quello che succede tra il pubblico e i giocatori quando una squadra paesana riesce a segnare un goal contro una squadra superiore (la cui superiorità molte volte è dovuta a denaro) e rinnova, sotto gli occhi dei concittadini, lucenti alle lacrime, il miracolo di Davide che vince il gigante Golia?».

È così che, nel momento in cui le inserisce come gruppo omogeneo per tematica nella raccolta di poesie cronologicamente contemporanee, dà vita a una poetica integrata, visto che i motivi di fondo restano coerenti con la sua visione del mondo e la sua maniera di esprimerla liricamente.

I critici si sono espressi in vario modo sull’interesse di Saba per il calcio, ma è Surdich a mettere tutti d’accordo: «Saba, straordinario precursore, inaugura una strada caratterizzata da una costante: l’adesione all’evento sportivo come pretesto per andare, nel momento della riconnotazione letteraria, oltre l’aspetto tecnico e agonistico, tipico della comunicazione cronachistica e referenziale»; detto altrimenti da Spallone, il poeta prova interesse per il calcio grazie all’intrigo che provoca di per sé il racconto footbolistico per la sua intrinseca ecletticità, ed è per questo motivo che nelle poesie a esso dedicate «metteva insieme la cornice, il gesto atletico e il pensiero del portiere: cornice: “La folla / unita ebbrezza / par trabocchi nel campo”; gesto atletico: “Correvano su e giù le maglie rosse”; psicologia: “Della festa / egli dice / anch’io son parte”»; è così che Saba trasferisce in versi il mondo del calcio, fotografando nei minimi dettagli le emozioni dei calciatori e degli spettatori.

In Squadra paesana, che racconta l’ingresso in campo della Triestina, rivive il sentimento del poeta alla vista di quei giovani felici e spensierati, che non hanno ancora visto il giorno in cui «le angosce imbiancheranno i loro capelli»; Saba si dichiara uguale a loro, in quanto partecipa delle emozioni del gioco, e nello stesso tempo diverso, quando descrive la vicenda agonistica prendendo le distanze da tutti gli altri tifosi.

 

Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-alabardati,

sputati

dalla terra natia, da tutto un popolo

amati.

Trepido seguo il vostro gioco.

Ignari

Esprimete con quello antiche cose

Meravigliose

Sopra il verde tappeto, sull’aria, ai chiari

Soli d’inverno

Giovani siete, per la madre vivi;

vi porta il vento a sua difesa. V’ama

anche per questo il poeta, dagli altri

diversamente – ugualmente commosso.

 

Nella lirica Tre momenti Saba, nel suo ruolo di osservatore, narra le fasi della partita, dall’inizio fino ai festeggiamenti; vi traspare l’amore che tramite i comuni idoli può unire nella gioia intere città.

 

Di corsa usciti a mezzo il campo, date

prima il saluto alle tribune.

Poi, quello che nasce poi,

che all’altra parte rivolgete, a quella

che più nera si accalca, non è cosa

da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome.

 

Il portiere su e giù cammina come sentinella.

Il pericolo lontano è ancora.

Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora

una giovane fiera si accovaccia

e all’erta spia.

 

Festa è nell’aria, festa in ogni via.

Se per poco, che importa?

Nessuna offesa varcava la porta,

s’incrociavano grida ch’erano razzi.

La vostra gloria, undici ragazzi,

come un fiume d’amore orna Trieste.

 

La genesi di Tredicesima partita sembra legata a un episodio che vede Saba andare allo stadio di Padova di nuovo con la figlia per assistere a una partita di calcio e, in risposta ad un gesto gentile dei tifosi che le regalano un mazzetto di fiori, dedica loro questa poesia in cui un gruppo resiste al freddo per vedere fino alla fine la partita dei loro beniamini, scaldandosi «solo di se stessi», e lui in mezzo a loro: «Sono, nella loro semplicità, versi che vanno molto al di là del gioco dei calcio; potrebbero essere capiti e commuovere anche quando gli uomini non giocassero più a calcio, e non si sapesse più nemmeno in che cosa consisteva quel gioco e perché suscitasse negli spettatori tante passioni».

 

Piaceva

essere così pochi intirizziti

uniti,

come ultimi uomini su un monte,

a guardare di là l’ultima gara.

 

Per Saba infatti il calcio è assimilabile all’evento sportivo tout court che raccoglie tutti gli uomini in una comunità che vive, grazie ai suoi ero’, la straordinaria quotidianità dello sport.

Goal racconta il momento più alto della partita, quello della realizzazione della segnatura, anticipando la regia televisiva moderna, secondo Darwin Pastorin: «Il portiere, in primo piano, che ha appena subito la rete, il compagno che tenta di consolarlo; poi l’inquadratura si allarga sugli spalti, sulla folla; ritorna il primo piano, ma questa volta sul portiere, l’altro, che gioisce per la segnatura della propria squadra. Non vi sembra di rivedere le immagini odierne di Sky, Mediaset e Rai?».

 

Il portiere caduto alla difesa

ultima vana,

contro terra cela

la faccia, a non vedere l'amara luce.

Il compagno in ginocchio che l'induce,

con parole e con la mano, a sollevarsi,

scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla – unita ebbrezza – par trabocchi

nel campo: intorno al vincitore stanno,

al suo collo si gettano i fratelli.

Pochi momenti come questi belli,

a quanti l’odio consuma e l’amore,

è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere

– l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima,

con la persona vi è rimasta sola.

La sua gioia si fa una capriola,

si fa baci che manda di lontano. /

Della festa – egli dice – anch’io son parte.

 

L’ultimo verso ribadisce il concetto-guida che permea l’intero gruppo: il sentimento dell’essere umano di essere parte di una condizione collettiva, specie nei momenti della gioia, sempre precari e sempre fugaci.

Il testo di Goal, nonostante l’anglicismo del titolo, si ritrova più volte riproposto dal regime per fini propagandistici (con intento salutistico) nonostante si collochi, insieme alle altre liriche, ben lontano dal tono esaltato e focoso che l’epoca fascista soleva privilegiare.

 

Spaziani, Penna, Caproni, Montale e Vivaldi

Altri poeti si accostano al fenomeno calcistico rimanendo lontani da qualsiasi atteggiamento riconducibile al tifo o alla sua celebrazione; al contrario, assumendo talvolta posizioni critiche.

Unica testimonianza femminile, Maria Luisa Spaziani, che secondo Surdich dà voce a Montale nel distico di apertura de La partita, e rimane «statua di ghiaccio» di fronte a tanta energia sprecata nel calcio:

 

La partita

“Vorrei che quel pallone non toccasse

terra, fuggisse per azzurre vie...”

 

Tumultuano i tifosi. Io rimango

statua di ghiaccio. Nulla in me si muove.

 

Calcio che pompi splendide energie

certo da Dio destinate altrove.

da Football, 1990

 

A Montale è dedicata l’unica poesia in cui Sandro Penna accenna al calcio annotandone unicamente l’atmosfera festosa

 

(a Eugenio Montale)

La festa verso l’imbrunire vado

in direzione opposta della folla

che allegra e svelta sorte dallo stadio.

Io non guardo nessuno e guardo tutti.

Un sorriso raccolgo ogni tanto.

Più raramente un festoso saluto.

Ed io non mi ricordo più chi sono.

Allora di morire mi dispiace.

Di morire mi pare troppo ingiusto.

Anche se non ricordo più chi sono.

da Poesie, 2000

 

Questi versi finali sembrano riconnettersi a quelli di Giorgio Caproni, che pure richiamano l’evento calcistico:

 

Considerazione

Il sesso. La partita

domenicale.

La vita

così è risolta.

Resta
(miseria d’una sorte!)

da risolver la morte.

da Res amissa, 1991

 

Anche se chiamato in causa, Eugenio Montale non scrive poesie sul calcio, ma vi accenna quando parla di sport e patriottismo rispetto al quale dice di trovarsi «totalmente allergico»; infatti «alcuni miei amici se ne rendono conto non senza farmi notare quanto più piena e completa sarebbe stata la mia vita qualora il brivido di un gol “nazionale” avesse mai scosso i miei precordi. Purtroppo nulla di simile è mai accaduto. […] non riesco a trovare alcun nesso tra una pedata al pallone, o agli stinchi di qualcuno, e il così detto orgoglio nazionale».

Tifoso forse no, ma sicuramente ammiratore di uno dei più grandi calciatori di sempre, si rivela Cesare Vivaldi tanto da riprendere l’incipit di Walt Whitman, O Captain! My Captain! scritto in morte del Presidente statunitense Abraham Lincoln (1865):

 

A Silvio Piola

(capitano della nazionale a 40 anni)

Che vedi in fondo al cuore, capitano?

Che fissano i tuoi occhi oltre l’azzurro

del cielo? Un altro azzurro cui – lontano

ormai negli anni – non offusca il puro

riverbero la nebbia? Il campo è verde

come allora! Ed allora? Capitano,

o vecchio capitano, il campo è verde:

ma tu sei vecchio, vecchio, capitano!

Su, scrolla il capo, stringi i denti, guida

l’attacco dallo spalto dei tuoi anni

giovani sempre, sempre vivi, tu

la cui maglia non hanno stinto tutti

gli uragani del secolo. Tu guida

serena, dallo spalto dei tuoi anni.

Da «la Repubblica», 2 giugno 1990 (orig. 1952)

 

________________

1 Dopo avere elaborato tra il 1944 e il 1947 una fitta serie di annotazioni personali, il poeta pubblica Storia e cronistoria del Canzoniere nel 1948, dove commenta in terza persona, sotto lo pseudonimo di Giuseppe Carimandrei, le poesie in esso contenute.

 

 

Bibliografia

F. Acitelli, La solitudine dell’ala destra. Storia poetica del calcio mondiale, Torino, Einaudi Tascabile, 1998.

G. Bàrberi Squarotti G., Sport e letteratura, in Bottiglieri N. (cur.), Letteratura e Sport, Atti del Convegno Internazionale (5-6-7 Aprile 2001, IUSM, Foro Italico, Roma), Arezzo, Limina, 2003, pp. 85-122.

A. Brambilla, «Sport et scrittura», in «Italies», 23 | 2019, 275-290.

F. Brenna, Poeti interisti, «Paragone letteratura», III serie, vol. 72, no. 153-154-155, 2021, pp. 136-67.

G. Brunamontini, Antologia della letteratura sportiva italiana, Roma, Società Stampa Sportiva, 1984.

V. Magrelli Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto, Torino, Einaudi, 2010.

D. Pastorin, Miti, dribbling e metafore, in «L’Indice», Lunedì, 14 Luglio 2014

G. Spallone Calcio e causeries: la Babele dei linguaggi, in Bottiglieri N. (cur.), Letteratura e Sport, Atti del Convegno Internazionale (5-6-7 aprile 2001, IUSM, Foro Italico, Roma), Arezzo, Limina, 2003, pp. 379-92.

L. Surdich, A. Brambilla (cur.), Il calcio è poesia, Genova, il melangolo, 2006.

G. Titta Rosa, F. Ciampitti (cur.), Prima antologia degli scrittori sportivi, Arezzo, Limina, 2005 (1934).

 

Sul tema Poesia e calcio Maria Carmela D’Angelo ha scritto:

 

Tifo, amore e fantasia

 

Immagine: Una formazione della Triestina nella stagione 1974-1975, via Wikimedia commons

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_381.html

Tifo, amore e fantasia

Il calcio è come la poesia, un gioco che vale la vita. Voglio dirglielo: anche il poeta ha il proprio campo ove parole, colori e suoni vanno verso l’esito felice. Fa anche lui il gol o lo lascia fare, dando spazio alle ali, al lettore che cammina al fianco e che entra in porta con lui, nella felicità di aver colpito il segno.

Alfonso Gatto, articolo-lettera a Gianni Rivera (il Giornale, 7 maggio 1975)

 

Il decathleta nascosto

Il genere poetico che si ispira allo sport è molto più ricco e fecondo di quanto si immagini, forse a causa della scarsa visibilità dovuta spesso all’estrema dispersione editoriale – caso esemplare quello de Il decathleta, poesia di Primo Levi pubblicata nel quotidiano La Stampa del 7 settembre 1984 –; inoltre alcune liriche non sono immediatamente rintracciabili perché inglobate nel Corpus di un autore, che rimanda più alla poetica dello scrittore che a contenuti specifici.

Vengono in aiuto alcune raccolte antologiche tematiche, per forza di cose anch’esse incomplete, a presentare con le dovute osservazioni critiche la scrittura in versi di autori più o meno affermati, così come quella di professori universitari e/o critici che si occupano ugualmente di letteratura italiana seria – l’aggettivo è usato polemicamente – (Folco Portinari, Giorgio Bárberi Squarotti, Pier Massimo Forni, Silvio Ramat) o dei giornalisti-scrittori (Giovanni Arpino, Gianni Mura, Lino Cascioli), fino ai dirigenti sportivi (Giulio Abbiezzi), per citare solo alcuni casi.

 

Voci dalle antologie

Già nel 1934, nella Prima antologia degli scrittori sportivi, Titta Rosa nel mettere a punto una definizione di letteratura sportiva, includendo quindi anche la produzione lirica, la definisce come quella letteratura che «del sentimento, o dei sentimenti sportivi, è riuscita a far materia d’arte, che ha assunto codesti sentimenti nella sfera dell’espressione artistica», mettendo così a tacere tutti i critici intellettuali che ne nega(va)no l’esistenza.

Tali sentimenti, dice Surdich in una più recente antologia sulle poesie calcistiche, ispirano componimenti dalle molteplici sfaccettature, dalla «valenza metaforica» o del «groviglio psicologico», allo «sprofondamento memoriale tra malinconia, allarme e disincanto» o ancora a una sorta di «narratività stralunata».

Questa varietà ha portato di necessità a cercare il bandolo di una matassa multicolore, arrivando a scegliere, tra le possibili alternative, quella di cominciare dai versi scritti dai poeti che ne sono tifosi, se non addirittura giocatori essi stessi, e quindi Magrelli, Sereni, Pasolini, Acitelli tra i tanti, per continuare con quelli di scrittori che non sono, in primo luogo Saba, e poi altri, che hanno narrato liricamente i luoghi del calcio.

 

Le storie

Tra le monografie poetiche dedicate al calcio, prima in ordine di tempo quella di Fernando Acitelli, che secondo Gianni Mura «si colloca fra una partecipata raccolta di figurine Panini e una sorta di Spoon River del pallone dove si mescolano morti, viventi e viventi che non giocano più».

Giocatore semiprofessionista, ma soprattutto tifoso e spettatore, Acitelli compone ritratti in versi il cui titolo corrisponde al nome e cognome di 184 giocatori, dai campioni alle promesse che non lo sono mai diventati; attraverso una suddivisione cronologica in paragrafi, ripercorre la Storia, con la S maiuscola, del calcio attraverso i suoi protagonisti dagli inizi del ’900 agli anni ’90; nel 2018 usciranno dalla stessa penna i duecento sonetti de La tristezza delle ripartenze che raccontano il nuovo millennio con tutti i cambiamenti ad esso connessi.

Acitelli fa delle scelte precise: «non mi interessa il fatto tecnico, il gesto atletico fine a se stesso. Parto da lì invece per raccontare delle storie, quelle storie che spesso si svolgono a riflettori spenti.» Così l’espressione che dà il titolo al volume, La solitudine dell’ala destra, «è tratta dalla poesia su Angelo Domenghini che tutte le persone della mia generazione ricorderanno col suo stile in fondo così poco raffinato. Il suo essere sghembo, il suo essere molto approssimativo ha catturato tutti i tifosi»:

 

[…] Don Chisciotte disciplinato

e generoso, spuntato compasso

che mima un cerchio, spesso incarnasti

la solitudine dell’ala destra,

collocazione estetica

e ansia al margine

 

Tra i tanti giocatori, non poteva mancare Renato Cesarini

 

[…] La “zona Cesarini” è un tardo

manifesto surrealista, stilato

in nome tuo per quei tuoi assolo

in gol prima della fine

 

protagonista anche della poesia, ma quanto diversa – anche perché questa volta, il tiro dell’ultimo minuto non è andato a buon fine –, di Giovanni Raboni, intitolata appunto

 

Zona Cesarini

Il tiro, maledizione, ribattuto


sulla linea nell’ultima convulsa


mischia a portiere


nettamente fuori casa, fuori causa, col dito


mignolo, con la spalla, con l’occipite, con


la radice del naso


dell’avversario accorso, guarda caso,


da metà campo […]

 

da Nel grave sogno, 1982

 

La seconda raccolta monoautoriale, edita da Einaudi nel 2010, è di Valerio Magrelli, Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto, ovvero 90 prose poetiche, tante quanti sono i minuti di una partita di calcio, suddivise nei due tempi canonici; Magrelli racconta la storia del suo rapporto con il calcio, da giocatore nei campi erbosi e nei cortili a tifoso, dall’infanzia fino all’addio, ormai quarantenne, al campo di gioco (24’I), come annunciato nel titolo della silloge. Un addio raccontato anche da Pier Massimo Forni:

 

Lettera a un amico

[…]

Sai, ho il gioco affranto, elegante,


del buon centravanti a fine carriera,


protegge la palla col corpo


il moto di spalle un’alta


conversazione;

 

non vedi come parto distante


come per far venire sera


con che stacco e ironia io sia spento e sublime?

È grande solo il decoro


con cui prendo la via dello spogliatoio,


i calzoncini intatti, il numero alla schiena.

 

da Stemmi, 1977

 

Magrelli ricostruisce in una sorta di memoriale quei momenti riconoscibili da qualsiasi ragazzo che abbia vissuto esperienze simili:

 

23’ I Buio-azzurro, e mio figlio era dell’Inter, quando decisi di portarlo a vedere una partita in notturna fra la sua squadra, in trasferta, e la mia*. […] Lui avrà avuto dodici anni, e quella era la sua prima volta, immerso nella folla, attonito e silenzioso, eccitato ma estraneo al pathos che lo circondava: perché lui era dell’Inter. […]

(*AS Roma calcio)

 

Anche questa esperienza padre-figlio riporta a quella di altri poeti, come Maurizio Cucchi:

 

‘53

L’uomo era ancora giovane e indossava

Un soprabito grigio molto fine.

Teneva la mano di un bambino

Silenzioso e felice.

Il campo era la quiete e l’avventura

C’erano il kamikaze

Il Nacka, l’apolide e Veleno*.

[…]

da Poesie 1965-2000, 2001

*nell’ordine: il portiere Giorgio Ghezzi, lo svedese Lennart Skoglund, gli attaccanti István Nyers e Benito Lorenzi (protagonista della poesia di Alberto Fgliolia, Benito Lorenzi detto “Veleno”) dell’Inter degli anni ’50

 

e Cesare Garboli, tifoso genoano:

 

[…]

Foste voi le prime maglie

Ch’io vidi sopra il prato a righe bianche,

rossoblù, foste voi il primo

sospetto che la vita fosse arte.

da Madrigali all’amarezza e alla maturità, 1983

 

Magrelli continua a raccontare:

 

3’ II Reti, pali, traverse: ma vogliamo mettere i maglioni che si appallottolavano uno sull’altro per delimitare lo spazio della porta? C’era qualcosa di magico in quel gesto, e nel computo meticoloso della distanza tra le due estremità, ripetuto e ripetuto su richiesta dell’avversario. Tutta una discussione per stabilire centimetri ideali, immaginari. Era un segno allo stato puro, un gesto zen attorno a cui si disponeva il gioco come una sacra rappresentazione.

 

Quest’ultima espressione riporta inevitabilmente all’esperienza di un altro letterato giocatore e tifoso, che ha fatto del calcio una vera e propria esperienza mistico-letteraria, Pier Paolo Pasolini: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro».

 

Il gioco e il tifo

Pasolini fu frequentatore appassionato di campetti di periferia dove giocava con quei ragazzi, protagonisti poi di Ragazzi di vita, che lo avevano ribattezzato Stukas, dal nome del bombardiere della Luftwaffe, per il suo ruolo di ala:

 

Mercoledì 6 marzo (sera)

Al Trullo il sole, come dieci anni fa. 

«Fèrmete, a Pa’, da du’ carci co’ nnoi!»

Giorgio, Giannetto, Carlo, il Moro,

e gli altri, i pigri venticinquenni,

già un po’ stempiati, con qualche annetto di galera;

[…]

La partitella, nel cuore della borgata,

[…]

Pietro II, in Poesia in forma di rosa, 1963

 

A quelle stesse ambientazioni di borgata, al calcio “pasoliniano periferico” di giocatori senza pretese, si ispira Franco Buffoni:

 

Il terzino anziano

Erano invecchiati

anche quelli della sua età

con la barba verde tra i piedi

e l’odore di maglia a righe,

ma lui restava

in difesa,

pesante, a sentirsi i figli

crescergli contro

e vendicarsi.

da Nell’acqua degli occhi, 1979

 

Pasolini, grande tifoso dei rossoblù del Bologna, come Davide Rondoni e Paolo Volponi, dichiara: «Non ha importanza, non è determinante dove si è nati [riferendosi al suo trasferimento dal Friuli], conta quando e dove si sono avuti i primi approcci con il calcio, per diventare un appassionato, un tifoso. Il tifo è una malattia giovanile che dura tutta la vita»; tanto che «Io abitavo a Bologna. Soffrivo allora per questa squadra del cuore, soffro atrocemente anche adesso, sempre. L’attesa è lancinante, emozionante. Dopo, al termine della partita è un’altra faccenda, ci si rassegna al risultato, o si esulta».

Queste parole ricalcano quelle di Giovanni Raboni: «Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita, di se stessi, di quello che si è stati, di quello che si spera di continuare a essere. È un segno, un segno che ognuno riceve una volta per sempre, una sorta di investitura che ti accompagna per tutta la vita, un simbolo forte che si radica dentro di te, insieme con la tua innocenza, tra fantasia, sogno e gioco». Detto con le parole di Vittorio Sereni: «La radice del tifo da campionato di calcio è reperibile qui: nel punto in cui avverti il nesso tra il tuo carattere e la sembianza, cifra che la squadra assume ai tuoi occhi, per analogia ma anche per contrasto o semplicemente per complementarità rispetto all’immagine che hai di te stesso. Diventa una metafora della tua esistenza, la sorte della squadra […] è un possibile diagramma del tuo destino: o, con parole meno solenni, di come vanno o possono andarti, nel bene e nel male, le cose».

È proprio il tifo a fare da guida nella geografia calcistica dei poeti sportivi: gli interisti, a quanto sembra la schiera più folta, con Vittorio Sereni come capofila, Franco Fortini, Luciano Erba, Giovanni Raboni, Maurizio Cucchi, Giulio Abbiezzi, Franco Buffoni, Flavio Fontana, Alberto Figliolia, e infine Alberto Bertoni, come pure Giancarlo Sissa, Giampiero Neri, Elio Tavilla, e Fabio Scotto, Fabrizio Bernini, Pier Massimo Forni e Ernesto Livorni. Molto più ridotta la lista dei seguaci di altre fedi calcistiche: prima di tutto il Milan, che può contare su Alfonso Gatto, Franco Loi – che scrive in dialetto – e Milo de Angelis, mentre la Sampdoria su Enrico Testa e Paolo Bertolani; la Juventus su Stefano Simoncelli, mentre la sua antagonista, il Torino, su Giovanni Arpino (che, pur da tifoso juventino, coniò il termine tremendismo riferito ai granata e dedicò una poesia emozionata al Grande Torino) e Giorgio Bàrberi Squarotti:

 

Torino

[…] ho patito infinite sconfitte, anche un sei a zero

Quando di là c’erano Marisa e il gallese e l’argentino*,

reti sbagliate un metro dalla porta,

e le nostre ali peggio delle galline spennate,

[…] arrivederci, oggi abbiamo vinto,

non chiediamo di più, il mondo non è finito

finché si gioca la partita.

da 1991

*il “Trio Magico” della Juventus: Giampiero Boniperti, John Charles, Omar Sívori (1957-1961)

 

per finire con il Casale Monferrato di Giorgio Simonotti Manacorda:

 

Casale

Si ritaglia in un cielo di cemeno

La doppia forbice di Calligaris,

sarà in maglia nero-stellata

la notte.

da I baffi di Bleriot, 1961

 

Poeti-tifosi, spesso insieme allo stadio di San Siro come Raboni, Cucchi, Sereni a mandarsi strali quasi lirici:

durante una trasferta del Bologna nello stadio milanese, Pasolini scrive a Vittorio Sereni: «Intanto ti avverto che domenica il mio cuore è a Milano, insieme a quello grassoccio di Volponi: tutti e due a palpitare fino sull’orlo della trombosi. E mi dispiace che la gioia nostra sarà la tua disfatta…», al quale risponde l’interista sfegatato: «Come Teodorico morente vedeva Severino Boezio, ieri ho visto al 90° sul cielo di San Siro effondersi il tuo ghigno e il serafico sorriso di quel volpone di Volponi».

Quel Sereni così amante del calcio da dedicargli poesie anche durante la prigionia trascorsa tra Marocco e Algeria (1943-1945):

 

Rinascono la valentia e la grazia

Rinascono la valentia

e la grazia.

non importa in che forme – una partita

di calcio tra prigionieri:

specie in quello

laggiù che gioca all’ala.

[…]

da Diario d’Algeria 1947

 

 

 

Bibliografia

F. Acitelli, La solitudine dell’ala destra “Storia poetica del calcio mondiale”, Torino, Einaudi Tascabile, 1998.

G. Bàrberi Squarotti G., Sport e letteratura, in Bottiglieri N. (cur.), Letteratura e Sport, Atti del Convegno Internazionale (5-6-7 Aprile 2001, IUSM, Foro Italico, Roma), Arezzo, Limina, 2003, pp. 85-122.

A. Brambilla, «Sport et scrittura», Italies, 23 | 2019, 275-290.

F. Brenna, Poeti interisti, «Paragone letteratura», III serie, vol. 72, no. 153-154-155, 2021, pp. 136-67.

G. Brunamontini, Antologia della letteratura sportiva italiana, Roma, Società Stampa Sportiva, 1984.

V. Magrelli Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto, Torino, Einaudi, 2010.

D. Pastorin, Miti, dribbling e metafore, L’Indice, Lunedì, 14 Luglio 2014

G. Spallone Calcio e causeries: la Babele dei linguaggi, in Bottiglieri N. (cur.), Letteratura e Sport, Atti del Convegno Internazionale (5-6-7 aprile 2001, IUSM, Foro Italico, Roma), Arezzo, Limina, 2003, pp. 379-92.

L. Surdich, A. Brambilla (cur.), Il calcio è poesia, Genova, il melangolo, 2006.

G. Titta Rosa, F. Ciampitti (cur.), Prima antologia degli scrittori sportivi, Arezzo, Limina, 2005 (1934).

 

Immagine: Renato Cesarini

 

Crediti immagine: El Gráfico, Public domain, attraverso Wikimedia Commons

 

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Le canzoni descrittive (con un po’ di storia dentro)

In questa ultima rassegna  delle canzoni incentrate sullo sport, ci si avvicina ai testi nei quali è prevalente l’aspetto di caratterizzazione dei personaggi, del paesaggio o della situazione alla quale si fa riferimento. A questo genere appartengono alcune tra le più celebri canzoni italiane, spesso trasmesse alla radio, ma anche più volte ripetute a grande richiesta durante i concerti dei vari cantautori; la loro popolarità è dovuta soprattutto al fatto che i protagonisti sono spesso vere e proprie leggende e miti della nostra storia sportiva.

 

È il caso di Nuvolari di Lucio Dalla, che riprende le gesta di uno dei più grandi piloti automobilistici di tutti i tempi, Tazio Nuvolari (1892-1953).

 

Nuvolari è basso di statura, Nuvolari è al di sotto del normale


Nuvolari ha cinquanta chili d’ossa Nuvolari ha un corpo eccezionale


Nuvolari ha le mani come artigli,

 

[…]


Il suo sguardo è di un falco per i figli,


i suoi muscoli sono muscoli eccezionali!

 

[…]


Nuvolari è bruno di colore, Nuvolari ha la maschera tagliente


Nuvolari ha la bocca sempre chiusa, di morire non gli importa niente…


 

In questa descrizione del tutto realistica che dipinge il ritratto di un uomo per certi versi sotto la norma, l’aggettivo ripetuto eccezionale fa invece presagire l’unicità di Nuvolari, protagonista di eventi sportivi già di per sé fuori dal comune per quell’epoca, ovvero la prima metà del ’900.

L’attenzione si centra poi sulla rappresentazione dello scenario che vede il passaggio del Mantovano volante, così definito dai suoi corregionali: la pianura, gli alberi della strada, “sui muri cocci di bottiglia” (tipici dei muretti a secco che fanno da confine nelle campagne italiane), la polvere. La descrizione ribadisce e accresce le componenti combattive, quasi eroiche, del pilota e del suo temperamento. Nuvolari, infatti:

 

Corre se piove, corre dentro al sole


Gli uccelli nell’aria perdono l’ali quando passa Nuvolari!


Quando corre Nuvolari mette paura…


perché il motore è feroce mentre taglia ruggendo la pianura


Gli alberi della strada


strisciano sulla piana,


sui muri cocci di bottiglia


si sciolgono come poltiglia,


tutta la polvere è spazzata via!

 

Infine c’è la gente, ci sono gli spettatori:

 

Quando corre Nuvolari, quando passa Nuvolari,


la gente arriva in mucchio e si stende sui prati,


quando corre Nuvolari, quando passa Nuvolari,


la gente aspetta il suo arrivo per ore e ore


e finalmente quando sente il rumore


salta in piedi e lo saluta con la mano,


gli grida parole d'amore,


e lo guarda scomparire


come guarda un soldato a cavallo,


a cavallo nel cielo di Aprile!

 

[…]

 

Quando passa Nuvolari ognuno sente il suo cuore è vicino

 

 

Non manca infine l’aspetto magico che rende la figura di Nuvolari una vera e propria leggenda:

 

Nuvolari ha un talismano contro i mali

 

[…]


Tre più tre per lui fa sempre sette


Con l’alfa rossa fa quello che vuole


dentro al fuoco di cento saette!


C'è sempre un numero in più nel destino quando corre Nuvolari…



Elemento accentuato, nel finale della canzone, dalla rievocazione di un episodio realmente accaduto a Nuvolari, che lungo la sua lunga carriera ha subito numerosi incidenti:

 

In gara Verona è davanti a Corvino


con un tempo d’inferno,


acqua, grandine e vento


pericolo di uscire di strada,


ad ogni giro un inferno


ma sbanda striscia è schiacciato


lo raccolgono quasi spacciato!


Ma Nuvolari rinasce come rinasce il ramarro


batte Varzi, Campari,

 

Borzacchini e Fagioli


Brilliperi


e Ascari.

 

 

Quest’ultima strofa rimanda alla storia dell’automobilismo dei primi 50 anni del Novecento, che trova riferimenti nella letteratura, per esempio in Questa storia (2005), in cui Alessandro Baricco racconta le vicende di un appassionato di auto e motori, ambientate appunto tra l’inizio ’900 e gli anni ’60, ma anche nel Manifesto del Futurismo (1909) di Tommaso Marinetti al punto 5 che sembra ricalcare il ritratto di Nuvolari appena delineato nella canzone: Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
Vi sono poi altri elementi che riguardano la produzione artistica, come suggerisce la visione di quadri della stessa epoca di Giacomo Balla (1871-1958) Velocità d'automobile (1912 + 1913), Velocità astratta (1913), Velocità d'automobile + luce + rumore (1913), Velocità astratta + rumore (1913-1914), Forma rumore motociclista (1913-1914), dove il mito della velocità è portato al più alto livello di esaltazione e la storia di Tazio si inquadra perfettamente, anche sotto il profilo cronologico.

 

Continuando con altri testi di taglio descrittivo, numerose e ricche di spunti sono le canzoni dedicate al ciclismo e ai suoi protagonisti. Data la loro frequenza, è possibile addirittura ricostruire una storia di questo sport e della sua evoluzione: dai primi ciclisti storici Girardengo e Sante (protagonisti della canzone, intrigante già dal titolo, Il bandito e il Campione di Francesco De Gregori), al binomio Coppi-Bartali con il loro rapporto di amore/odio (in Coppi di Gino Paoli e Bartali di Paolo Conte), dove si ricorda la concorrenza con i francesi in strofe diventate famose:

 

quel naso triste come una salita


quegli occhi allegri da italiano in gita


e i francesi ci rispettano

 

che le balle ancor gli girano


[…]

 

quel naso triste da italiano allegro


tra i francesi che si incazzano
,

 

 

per passare al Gimondi degli anni ’70 (Gimondi e il cannibale di Enrico Ruggeri e Sono Felice – che sfrutta il gioco di parole felice agg./Felice nome proprio di Gimondi – di Elio e le storie tese) con il suo rivale di sempre Eddie Merckx, per finire con le liriche dedicate a Mario Pantani, detto il “pirata” per via della bandana in testa (L’ultima salita dei Nomadi e E mi alzo sui pedali degli Stadio, tra le altre).

Sempre all’ambito ciclistico rimanda una delle prime liriche dedicate a questa specialità, Ciao Mama (1960) di Buonocore-Azzella, cantata da Gino Latilla e dal gruppo vocale Quartetto Cetra, che mostra un quadro autentico del ciclismo d’altri tempi, molto diverso da quello ipertecnologico e dopato dell’attualità:

 

Ciao Mama,


io vado vinco a torno,


puoi metter sin da adesso


l’abbacchio dentro il forno,


ho messo la maglietta tua di lana,


Ciao Mama, Ciao Mama


Il Commissario Tecnico mi chiama,


Ciao Mama,
vedrai che vincerò



Ciao Mama,


il medico che dice,


se faccio ‘sta salita,


s’infiamma l’appendice,


ma
in cima alla salita c’è la fama,


Ciao Mama, Ciao Mama


qualcuno dalla macchina mi chiama,


Ciao Mama vedrai che vincerò...

 

Saluto i tifosi del bar dello sport,


Ninetta, gli amici, ragazzi e bebè


ma
in cima a tutti quanti,


un bacio ed un saluto voleranno a te


Ciao, Ciao...

 

 

Ciao Mama,


hai visto che volata,


fra poco torno a casa,


prepara la frittata,


avremo un po’ di gloria e un po’ di fama


che bello, Ciao Mama

 

Per ora solamente molta fama


Ciao Mama, spadella i maccheron….

 

 

Le cose importanti per il corridore dell’epoca sono la maglietta di lana della mamma; “il medico che dice, se faccio ‘sta salita, s’infiamma l’appendice”; i tifosi del bar dello sport da un lato, il Commissario Tecnico, la salita e la volata che danno Fama - non si parla ancora di soldi – dall’altra. A questo stesso mondo umile e modesto appartengono i riferimenti alla cucina popolare: abbacchio, frittata, maccheroni, incluso il gioco di parole sottinteso fama/fame.

 

Per i primi ciclisti, spesso provenienti da famiglie contadine e operaie, la filosofia era “tanta fatica per un poco di gloria” (Viene su dalla fatica E dalle strade bianche La fatica muta e bianca Che non cambia mai da Coppi di Gino Paoli). Per gli autori di Ciao Mama, affettuosamente scherzosi, al primo posto viene ancora e sempre la Mama, pronunciata senza la doppia “emme”, come si usava nel settentrione nelle parlate familiari, in quanto riprende il saluto tipico dei corridori alla radio prima, alla televisione poi.

Questi testi tracciano un vero e proprio percorso culturale, secondo il concetto di lingua come «precipitato della cultura» (Freddi 1994), perché, come sostiene il glottologo, «la lingua non è solo il riflesso di una realtà concreta, ma esprime anche l’immaginario di un popolo, incarna la visione che un popolo ha di sé, i suoi sogni, le sue fantasie».

 

Riferimenti bibliografici

Lorenzo Coveri, L’italiano e le canzoni, in Accademia della Crusca, 27 gennaio 2012, accademiadellacrusca.it

Giovanni Freddi, Glottodidattica. Fondamenti, metodi e tecniche, Torino, Utet Università, 1994.

 

 

Maria Carmela D'Angelo cura e scrive la serie intitolata Le canzoni dello sport:

 

Inni (o quasi)

Le canzoni che insegnano (o disegnano la vita)

 

Immagine: Bartali e un giovane Coppi al Giro del 1940, attraverso Wikimedia Commons

 

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Le canzoni che insegnano (o disegnano la vita)

Ci sono canzoni a tema sportivo che hanno (avuto) successo in Italia per il loro contenuto pedagogico. In esse infatti, si canta di uno sport considerato come possibilità di incontro con l’altro in una relazione di sana competizione; di valori universali quali amicizia, solidarietà, fratellanza; di sentimenti quali ambizione, delusione e frustrazione.

Tra queste, una delle più famose è sicuramente quella che Francesco De Gregori dedica al figlio, La Leva Calcistica della Classe ‘68, il cui testo è considerato dal commediografo e attore Davide Enia «il più riuscito e completo sul mondo del pallone. Quella canzone di De Gregori rappresenta la vetta suprema della descrizione narrativa del calcio, alla quale né la tv, né il cinema e ancor meno i libri che sono stati scritti sull’argomento sono riusciti ad avvicinarsi»; un giudizio confermato da Antonello Venditti il quale, parlando della sua amicizia con De Gregori e di questa canzone in relazione alla sua Grazie Roma, racconta «io e Francesco siamo sempre stati complementari. Mentre la mia è un coro, quella è un romanzo, un piccolo romanzo, è letteratura».

La canzone esce nel 1982, anno in cui gli Azzurri vincono il mondiale di calcio. La coincidenza non è affatto casuale, in quanto la vittoria rappresenta in qualche modo la riscossa al fallimento della generazione della rivolta studentesca, quella del Sessantotto appunto – calciatori tristi che non hanno vinto mai e appese le scarpe, ridono dentro ai bar –, alla quale il titolo e in generale il testo fanno riferimento.

La lirica mantiene un carattere piuttosto narrativo, quasi un dialogo tra un padre e il figlio, l’allenatore e il padre del ragazzo, che sta facendo un provino:

 

Nino cammina che sembra un uomo

con le scarpette di gomma dura

dodici anni e il cuore

pieno di paura  

 

con numerose inserzioni di espressioni metaforiche connesse all’ambiente sportivo:

 

appendere le scarpe a qualche tipo di muro = smettere di giocare

mettere il cuore dentro le scarpe = giocare con passione

correre più veloce del vento =  correre velocissimo

pallone stregato/ rimaneva incollato al piede = pallone con qualità magiche, straordinarie

il ragazzo si farà = il ragazzo maturerà

 

e tre parole chiave coraggio - altruismo - fantasia che si ritrovano in numerose altre canzoni sportive e riassumono la filosofia della canzone, insieme a cuorepauraterra/polvere.

A questa filosofia si richiama anche la più recente (1999) e autobiografica, come lo stesso Ligabue dichiara, Una vita da mediano, uscita in un primo momento come singolo e poi inserita nell’album Miss Mondo, del quale decreta il successo insieme a Si viene e si va, motivo di punta dell'estate 2000.

La parola centrale di tutta la lirica è proprio il mediano del titolo, termine polisemico, a partire dal senso letterale della vita di tutti i giorni, e cioè mediano (agg.) = medio, intermedio, mezzano, che sta in mezzo, utilizzato nel campo semantico specifico della Statistica e della Matematica a indicare un valore medio; per proseguire nella fattispecie nel campo calcistico: centrocampista, mediano, di spinta, di interdizione o di appoggio, che argina le azioni degli avversari e ricostruisce il gioco:

 

a recuperar palloni

nato senza i piedi buoni

lavorare sui polmoni

una vita da mediano

 

con dei compiti precisi

a coprire certe zone

a giocare generosi

sempre lì

lì nel mezzo

finché ce n’hai stai lì

una vita da mediano

 

da chi segna sempre poco

che il pallone

devi darlo a chi

finalizza il gioco

una vita da mediano

 

che natura

non ti ha dato

né lo spunto della punta

né del dieci che peccato

 

Ligabue parla evidentemente di quel ruolo sul campo di calcio per poi trasferirlo metaforicamente sul campo della vita. Ricalcando l’altruismo di De Gregori, il cantautore consiglia anche lui di “giocare generosi”, mentre affronta il tema dell’essere mediano, ovvero «quello che Ligabue riteneva di essere, sia sul campo da pallone che in ambito musicale. Uno che fatica, che recupera palloni, che fa il “lavoro sporco” ma che non ha il piglio del fuoriclasse, non ha il guizzo e forse neppure la capacità di incassare gli applausi come fa invece un numero 10».

Ligabue dichiara infatti che, in questa canzone

 

C’è una metafora calcistica ma si parla della fatica di vivere, nel senso che la vita è un piacere ma anche qualcosa che un po’ ci si deve guadagnare con il sudore e con la volontà. Io credo che la gente consapevole difficilmente pensa di essere benedetta dal genio o talento e che, se vuole produrre qualcosa, deve farlo faticando. Io sono così. Non sono nato con il numero 10 sulle spalle, non sono nato Platini, e anche in musica, i 9 sono ben altri, sono i Bob Dylan, i Kerouac. Questo non vuol dire che il ruolo di mediano non abbia un suo valore; è un ruolo di qualità, anche se un po’ nell’ombra.

 

Sullo stesso piano di valori si ritrova Gianni Morandi con Uno su mille (1985), che proprio nel ritornello, utilizza come metafora del successo nella vita quella del ciclista, che lavora duramente fino, forse e non sempre, alla vittoria. I mediani nel mondo del pallone non sono nient’altro che i gregari in quello della bici.

 

Se sei a terra non strisciare mai

se ti diranno sei finito… non ci credere

devi contare solo su di te

 

Uno su mille ce la fa

ma quanto è dura la salita

in gioco c'è la vita

 

Interessante il confronto con il brano degli Articolo 31 intitolato Come uno su mille (1998), dove le citazioni e i riferimenti ad altri testi sono numerosi:

 

- il titolo stesso Come uno su mille (Morandi)

- «capivo già che uno su mille ce la fa ma come è dura la salita in gioco c’è la vita vita vita uno su mille ce la fa uno su mille... guarda dentro di te forse ti scoprirai uno su mille. Uno su mille ce la fa ma come è dura la salita in gioco c’è la vita vita vita uno su mille ce la fa uno su mille...» (Morandi)

- «“C’è chi preferisce barare o bleffare in salita attaccarsi al primo e farsi trascinare come il treno alla locomotiva» (Morandi)

- «“di quanto larghe c’hai le spalle» (De Gregori)

- «relegato per anni al ruolo panchinaro» (Ligabue)

- il gioco, questa volta virtuale, come metafora della vita: «ero uno come tanti cioè nessuno in particolare a forza preso e messo a giocare a una partita a questo gioco virtuale che ha nome vita dove sei originale o cover e non c’hai un altro gettone quando appare game over, è finita devi esser 1 o uno qualsiasi degli altri 999 ti mandano sul palco senza fare prove» (Morandi e Ligabue)

 

Anche Tu corri (2002) dei pluripremiati Gemelli DiVersi, trova il suo parallelo più prossimo nella canzone di De Gregori dalla quale “copia” quasi letteralmente e consapevolmente alcune espressioni – le sue scarpette addosso; Ci sei solo tu, con quella porta davanti … niente paura; particolari sciocchi; tra i palazzi; mette la voglia, fantasia, altruismo per la sua squadra; donne che mai hanno amato davvero – o riprende l’accenno al padre ai suoi tempi frustrato, come quelli del ’68 che non hanno vinto mai, che si vede riscattato personalmente solo ora, grazie al successo della carriera del figlio. Sembra quasi che questa canzone voglia continuare la storia di Nino, ormai cresciuto e famoso.

Il fatto che le canzoni più recenti abbiano così forti richiami ad altre precedenti, non solo testimonia il successo e popolarità delle più ‘vecchie’, ma anche la necessità e forse anche la voglia di inserirsi in un filone di continuità con quelle; soprattutto nella ripresa del ‘messaggio’ da trasmettere: la società non ha bisogno solo dei campioni, ma anche degli altri, senza i quali i primi non esisterebbero e nessuno vincerebbe mai.

A completamento di questa sezione, che intende profilare solo uno dei possibili percorsi nell’orientamento di principi validi a tutto campo, non si può eludere l’argomento tifosi, per il cui approccio si rivela davvero preziosa la canzone  Fuori gioco (2001) di Renato Zero che si muove nel mondo degli Ultras. L’ascolto del brano, nel quale si cantano atteggiamenti di tifo positivo, quindi entusiasmo di gruppo, sostegno alla squadra, passione per lo sport, contrapposti a quelli negativi, quali fanatismo ed esaltazione, suggerisce la visione di un quadro globale della situazione, attraverso la sottolineatura di espressioni negative che contribuiscono a fare un ritratto del teppista prima, per poi fissarsi su messaggi positivi che si intercalano nel testo.

 

Hanno un aspetto enigmatico

un’andatura ignorante

uno sguardo diabolico

che paralizza chiunque

inefficaci gli amuleti

meglio lo scudo stellare

se vuoi davvero disperderli

devi imparare a dribblare...

 

sembra una storia vecchia

di cent’anni fa... e già!

ma sono fatti di oggi...

le violenze e i pestaggi...

un cuore colmo d’amarezza

tanto rumore per nulla

in quella rabbia l’incertezza

qui l’amicizia non brilla

peccato che ti arrendi

e non sorridi più... di più...

 

competere si può

pretendere non so

prevaricare mai

lo stadio esulta

voglia di crescere

ma è sempre la ragione a perdere

perché i coltelli

addio magia (quella delle notti magiche di Un’estate italiana)

chi vi ha sfruttati e offesi

ha una tribuna sua...

quell’ostentata fierezza

è un arbitraggio parziale

vivi soltanto la domenica

tu non mi sembri normale

si può spendere altrove tutta l’energia, se mai

una squadra affiatata

è la mia squadra preferita

lo stadio

esulta ci puoi scommettere

stavolta sarà l’odio a perdere

solo fratelli

insieme qui

chi vi ha feriti e offesi è in fuori gioco sì...

non vi spegnete ragazzi

questa è la vostra partita

dimostrategli ancora

che su quel campo c’è vita...

di che bandiera sei

se non ci stai

più serenità

o una sconfitta sarà... sicuro...

eccitante non so

davvero triste però... l’esempio...

ti nascondi perché

hai paura di te... allora...

 

La lezione, visto che stiamo parlando di insegnamenti, risiede proprio nella capacità dell’Autore di mostrare i due aspetti, violenza vs passione ed entusiasmo, senza pre-giudizi, bensì realisticamente. In modo, perciò, tanto più fondato e persuasivo.

 

Bibliografia di riferimento

R. Bertoncelli, Una vita da mediano: Ligabue si racconta, Firenze, Giunti 1999

Musyance, I migliori libri sulla storia della canzone da leggere.

 

 

Maria Carmela D'Angelo cura e scrive la serie intitolata Le canzoni dello sport:

 

Inni (o quasi)

 

 

Immagine: Il presidente Pertini gioca a scopone con Zoff, Causio e il commissario tecnico Bearzot sull'aereo del ritorno dalla Spagna, con la Coppa del Mondo appena vinta dagli azzurri, via Wikimedia Commons

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Le canzoni dello sport. Inni (o quasi)

Nella miniserie che apriamo con questo articolo, ci si occupa di canzoni dello sport, ovvero di quelle canzoni il cui testo è incentrato su una disciplina specifica o sull’esperienza di una persona o gruppo che la pratichi o ancora su uno dei suoi protagonisti.

Si tratta quasi sempre del prodotto dei più famosi e apprezzati cantautori che usano lo sport come metafora della vita, a volte autobiografica. La conoscenza di queste liriche può essere perciò considerata a buon diritto compatibile con altri approcci alla canzone d’autore italiana, trattandosi di autori quali Renato Zero, Gianni Morandi, Gianna Nannini, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Adriano Celentano, nonché Paolo Conte, Enzo Jannacci, Lucio Dalla, ma anche i più recenti Elio e le storie tese, Baccini, Ligabue, Gemelli diversi, Articolo 31.

Il loro numero e diffusione resta costante nel tempo, tanto da coprire ogni genere musicale, dal lirico al rap, dal liscio al pop.

 

Il ritornello delle notti magiche

 

I recenti successi in ambito sportivo hanno risvegliato entusiasmo ed euforia per le vittorie oltre che richiamare un senso di comunità e di appartenenza.

Quante volte durante il Campionato europeo di calcio, soprattutto nelle fasi finali, i titoli dei giornali hanno parlato di “notti magiche”, riportando frasi e melodia della canzone a oggi più famosa, sicuramente tra le più belle, in ambito sportivo? Il ritornello è stato cantato più volte dagli Azzurri del calcio, riecheggiato poi dai tifosi di tutta Italia.

L’espressione è tratta da Un’estate italiana (1990), di Edoardo Bennato e Gianna Nannini, il testo in cui magia fa rima con follia:

 

notti magiche

inseguendo un goal

sotto il cielo

di un’estate italiana

arriva un brivido e ti trascina via

e sciogli in un abbraccio la follia

 

Mentre è il mondo quello che si incontra grazie al gioco del calcio:

 

Forse non sarà una canzone

a cambiare le regole del gioco

ma voglio viverla cosi quest'avventura

senza frontiere e con il cuore in gola

 

E il mondo in una giostra di colori

e il vento accarezza le bandiere

 

E il goal tanto agognato arriva grazie al sogno e alla favola che sono in ognuno di noi, tutti noi, non solo i giocatori professionisti, ma tutti i ragazzi del mondo:

 

Quel sogno che comincia da bambino

e che ti porta sempre più lontano

non è una favola – e dagli spogliatoi

escono i ragazzi e siamo noi

 

Chievo Verona, un mondo in giallo e blu

 

Espressioni simili si ritrovano nell’inno, secondo la definizione della stessa cantautrice, che (Ivana) Spagna, interista dichiarata, ma veronese di nascita, dedica alla squadra Chievo Verona, un mondo in giallo e blu, appena passata in serie A nel 2001:

 

Ci sembrava un sogno una bella favola

Dai colori giallo blu

Ma la voglia di, di vincere con onestà

Ci ha portati fin quassù.

Tutti insieme uniti

Un quartiere una città

Ora siamo una realtà

[…]

Voci nello stadio, nelle vie della città

Nella curva magica

Sotto gli striscioni, batte il cuore di chi sa

Che lottando vincerà

[…]

ChievoVerona

Tanti amici tanti eroi

Mille bandiere, un coro che sale

 

Un senso di inclusione, Grazie Roma

 

Queste canzoni possono essere “catalogate” tra gli inni sportivi in base a tre fattori: perché si rivolgono per lo più ai tifosi, perché rimandano al senso di inclusione all’interno di un gruppo e perché richiamano emozioni profonde legate a un sentimento di vero e proprio amore; caratteristiche che si ritrovano in Grazie Roma di Antonello Venditti il quale racconta:

 

La grandezza di Grazie Roma è che in due parole dice quello che è presente: “Grazie Roma – ma puoi metterci Fiorentina, Inter, Milan (Ricordo che durante un concerto, non so se a Livorno o a Firenze, e io ero sul palco, quando cantasti Grazie Roma, tutti, pur non essendo tifosi romanisti, si unirono in coro) – che ci fai vivere e abbracciarci ancora, che ci fai sentire una persona sola”. Cioè, in quel momento c’è la gioia del goal e la gioia di sentirsi uomini facenti parte tutti di uno stesso destino, di uno stesso interesse, della fratellanza cosmica se vuoi… Che è una cosa bellissima. È universale. È un rapporto d’amore che parte prima come rapporto personale e poi diventa corale… e l’idea di inno dovrebbe essere proprio questa.

 

Queste parole riassumono non solo il carattere della canzone che dal 1984, anno in cui la Roma vince lo scudetto, viene cantata dai tifosi romani nello stadio alla fine di ogni partita, ma anche l’alto livello di interculturalità che essa riveste. È lo stesso Venditti ad illustrarne la struttura:

 

Grazie Roma la considero una canzone dalla costruzione perfetta. Perché c’è una grande simbiosi tra la città, la squadra e il linguaggio. […] è divisa in tre parti: tu la puoi leggere solamente come Roma, nel senso della squadra di calcio, la puoi leggere come città, e poi c’è una versione nazionale perché la prima parte è cantata in italiano, e nella seconda è come se io mi riprendessi il mio tesoro e lo cantassi solo per i romani.

 

La seconda parte del brano infatti, pur ricalcando lo schema della prima con la ripetizione Dimmi cos’è, cos’è che, introduce la variante linguistica regionale del romanesco: nun/non; voi/vuoi; il troncamento delle finali dei verbi all’infinito – sentì, campà; l’uso del pronome personale oggetto me al posto di mi.

Proprio per il forte significato simbolico che questa canzone occupa nella cultura italiana, assumono particolare importanza alcune espressioni linguistiche che si riferiscono a valori quali l’amicizia, l’unità, la passione, in genere al modo di esprimere le emozioni. In effetti, se si sostituisce ‘Roma’ con un altro luogo, il testo rimane identico per quanto riguarda i suoi significati più profondi:

- amici anche se non ci conosciamo

- uniti anche se siamo lontani

- forte, forte, forte, forte in fondo al cuore

- ci toglie il respiro

- ci parla d’amore

- ci fai piangere e abbracciarci ancora

- ci fai vivere e sentire ancora una persona nuova

- stella grande grande in fondo al cielo che brilla dentro di te e grida forte, forte dal tuo cuore

- me fa sentì importante anche se nun conto niente

- me fa re quando sento le campane la domenica mattina

- me fa campà ‘sta vita così piena di problemi

- me dà coraggio se tu nun me voi bene

 

Roma Roma Roma

 

Lo stesso cantautore ha scritto altre canzoni dedicate al calcio tanto da ricevere nel 2001 il diploma di Socio d’Onore della Associazione Calcio e Cultura, «in segno di riconoscenza per il modo con cui rappresenta nelle sue creazioni musicali e nel suo stile di vita un messaggio positivo del calcio visto come fenomeno sociale e di costume». Tra queste, Roma Roma Roma il cui titolo originale è Roma (non si discute, si ama), del 1975, inno ufficiale della squadra che viene invece cantato prima di ogni partita, famoso e apprezzato anche in terra straniera dove viene considerato al secondo posto tra gli inni più belli, dopo quello del Liverpool (You ’ll Never Walk Alone):

 

Roma, Roma, Roma

Core de sta città

Unico grande amore

De tanta e tanta gente

Che fai sospirà

Roma, Roma, Roma

Lassace cantà

Da sta voce nasce un coro

So cento mila voci che hai fatto innamorà

 

Due inni per la Juve

 

Altri inni di squadre più o meno famose ritornano su locuzioni simili, come in Grande Juve, bella signora, prodotto da Fonit Cetra nella stagione 1997-1998, dove il ritornello fa: È bianconera la bella signora. Juve tu sei la squadra del cuore, mentre nell’inno di Paolo Belli (2012) Juve, storia di un grande amore si parla di eroi e di cuore:

 

Simili a degli eroi

Abbiamo il cuore a strisce[…]

Bianco che abbraccia il nero

Coro che si alza davvero per te

Portaci dove vuoi

Siamo una curva in festa

Come un abbraccio noi

 

Milan, da Tony Renis a Emis Killa e Saturnino

 

Così come in Milan Milan, scritto e cantato nel 1988 da Tony Renis e Massimo Guantini, inno ufficiale della squadra per alcuni decenni:

 

Camminiamo noi, accanto ai nostri eroi […]

Con il Milan nel cuore

 

Nel nuovo inno #Rossoneri (2015) di Emis Killa & Saturnino, rispettivamente rapper e bassista, si racconta invece la storia del Milan

 

Sì, 1899, è la data che tengo a memoria

A.C. Milan uguale vittoria

In Europa si è fatta la storia

Milanisti nel cuore

Sono undici in campo e milioni là fuori

Rossoneri guerrieri

Anche all'estero sentono i cori

E una realtà partita da qua

La città della Madonnina

 

Il Cuore Toro degli Statuto

 

Sempre a Milano, i nerazzurri si affidano, tra gli altri, a Una vita da mediano, il brano in cui Ligabue, storico tifoso interista, cita Lele Oriali e la sua generosità in campo, mentre il Torino ricorre a diverse liriche degli Statuto, tra le quali Cuore Toro usato nel 2006 all’entrata delle partite in casa e Grande, dall’album Riskatto, dedicato al mitico Grande Torino appunto.

Un breve accenno al ciclismo e alle sigle del Giro d’Italia che, pur non essendo ‘inni’, guardano a questo sport con una grande carica di entusiasmo e amore per i suoi beniamini, insieme ai loro gregari.

 

Un giro d’Italia con Paolo Belli

 

Paolo Belli, già membro dei Ladri di Biciclette, ha scritto numerose liriche da grande appassionato di ciclismo, tra le quali È un gran bel Giro, sigla del 2005, “un vero e proprio inno alla corsa rosa” grazie anche al suo ritornello tormentone:

 

È un gran bel Giro

È un gran bel Giro

È una grande festa

È musica

È un gran bel Giro

È c’ha un bel tiro

Fa suonare tutta l’anima

 

Un Inno Nazionale con Carboni

 

Da ultimo, a mescolare le carte in tavola, anche se non del tutto incentrato sullo sport, Inno Nazionale (1995) di Luca Carboni, che a dispetto del titolo inno in senso stretto non è, ma introduce con termini piuttosto amari, al campanilismo nostrano con tutti i suoi effetti e difetti.

 

Io sono troppo bolognese,

tu sei troppo napoletano

egli è troppo torinese

e voi siete troppo di Bari

sì noi siamo troppo orgogliosi,

loro sono troppo veneziani

e anche dentro la stessa città,

siamo sempre troppo lontani!

E siamo sempre troppo romani,

e si che siamo troppo milanesi

e lo vedi anche allo stadio

che siamo sempre troppo tesi

siamo tifosi poco sportivi

perché siamo troppo fiorentini

e la polizia controlla

che non stiamo troppo vicini!

E allora son troppo bolognese,

tu sei troppo cagliaritano

sventoliamo troppe bandiere,

[…] e sì che il tempo passa

siamo ancora troppo italiani!

 

Bibliografia di riferimento

M. C. D'Angelo, Il calcio nelle canzoni che raccontano l'Italia e gli italiani. Un treno di parole verso gli Europei di calcio 2021, in "Lingua italiana", 16 giugno 2021, Treccani.it

R. Gulisano, Lo sviluppo della competenza culturale attraverso l’insegnamento della storia della canzone italiana, Itals. Didattica e linguistica dell’italiano a stranieri, anno V, n. 15/2007

L. V. e M. Lazzerini, Correndo correndo con Antonello Venditti – fra calcio e musica, Firenze, Marcello Zeppi Editore EDIFIR, 2001

F. Del Sordo, Sport e musica nella storia, in Enciclopedia dello Sport, 2003, Treccani.it

E. Serena, Le lingue nella musica leggera - 1. L’apprendimento (e il non apprendimento) delle lingue straniere nelle canzoni italiane , in "Lingua italiana", 21 gennaio 2020, Treccani.it

E. Serena, Le lingue nella musica leggera - 2. La lingua italiana nelle canzoni, in "Lingua italiana", 24 marzo 2020, Treccani.it

R. Vecchioni, La canzone d'autore in Italia, in Enciclopedia Italiana – VI. Appendice, 2000, Treccani.it

 

Immagine: Tratta da https://www.youtube.com/watch?v=H9U8OlbiBd8

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Europei20.html

Il calcio nelle canzoni che raccontano l’Italia e gli italiani

 

Invece l’Italia da noi era parola quasi niente usata.

Da bambino ho creduto che fosse il nome di una squadra di calcio

per la quale ogni tanto ci si entusiasmava:

giocava di rado e molto meno della squadra del Napoli,

che aveva comunque la precedenza

(Erri De Luca, La musica provata)

 

 

In Italia, come nella maggior parte dei Paesi europei, è indubbio che lo sport più popolare sia il calcio, seguito a ruota dal ciclismo e da altri di importazione statunitense, quali pallacanestro e pallavolo.

L’importanza del gioco del calcio nella realtà sociale e culturale italiana è testimoniata anche dai frequenti accenni a questo sport presenti in diverse canzoni che parlano dell’Italia e degli italiani (vedi), frutto della creatività di alcuni cantautori che usano lo sport come metafora della vita, attingendo non di rado ai propri ricordi.

Nei confronti di alcuni testi di queste canzoni si sono spesso sollevate critiche in merito all’abbondanza di immagini stereotipate o alla descrizione di un idillico rapporto con la madre patria; in questi, così come in quelli che al contrario riportano un atteggiamento più critico nei confronti della stessa, il mondo calcistico è comunque presente, con le sue connotazioni di segno variabile, spesso racchiuse in un solo verso ‘parlante’ o comunque rievocativo di realtà note a tutti.

 

Cosa [è rimasto] degli anni ’80?

 

Scritta nel 1980, La leva calcistica del ’68 di Francesco De Gregori difficilmente può essere considerata un affresco di quegli anni, giacché rappresenta principalmente una grande metafora fuori dal tempo sul coraggio, l’altruismo e la fantasia. Tuttavia, pubblicata nell’album Titanic, uscito nel giugno del 1982, la canzone finì per accompagnare le gesta calcistiche degli Azzurri nel trionfale Mundial spagnolo dell’82: d’altra parte, benché le parole sembrino descrivere alla perfezione la traiettoria sportiva del numero 7 della Roma e dalla Nazionale Bruno Conti («Il ragazzo si farà / anche se ha le spalle strette / quest'altr'anno giocherà / con la maglia numero 7»), da subito la canzone venne associata a un altro protagonista di quel mondiale, Paolo Rossi, il piccolo eroe col fisico da ragioniere – com’è stato detto – capace di far esultare all’unisono milioni di italiani.

Tante piccole istantanee degli anni Ottanta tramanda invece L’italiano di Toto Cutugno (Minellono – Cutugno, 1983), che accenna, tra le altre cose, al rito televisivo della domenica pomeriggio (poi sera), quello della moviola calcistica, introdotta sedici anni prima, nella trasmissione La Domenica sportiva condotta da Enzo Tortora, dal tecnico televisivo Heron Vitaletti e dal giornalista Carlo Sassi, che resterà fino al 1991 il curatore della rubrica:

 

Buongiorno Italia che non si spaventa

E con la crema da barba alla menta

Con un vestito gessato sul blu

E la moviola la domenica in TV.

 

Tutt’altra atmosfera si respira in Una notte in Italia (1986) di Ivano Fossati, dove anche il pallone da calciare fotografa una consuetudine che ogni italiano conosce bene:

 

È una notte in Italia se la vedi

Da così lontano

Da quella gente così diversa

In quelle notti

Che non girano mai piano

Io qui ho un pallone da toccare col piede

 

 

Le notti magiche del 1990

 

Le notti magiche del 1990, l’anno degli ultimi (finora) Mondiali organizzati dall’Italia, furono accompagnate dalla canzone Un’estate italiana (1990) di Gianna Nannini e Edoardo Bennato. Il brano, composto da Tom Whitlock e Giorgio Moroder (titolo originale To Be Number One, Giorgio Moroder Project), fu riproposto in italiano dall’inedita coppia Nannini-Bennato e ottenne un successo senza precedenti non solo in Italia (dove risulterà il singolo più venduto nel 1990), ma anche all’estero, per lungo tempo: «La canzone è stata cantata dai tifosi tedeschi alla fine di Germania-Portogallo 3-1, finale per il terzo posto del Campionato del mondo 2006, ed è stato diffusa dagli altoparlanti durante la premiazione finale dello stesso torneo, vinto dagli azzurri» (cfr. Infiniti testi). L’aspetto più rilevante di questa lirica è che l’Italia resta sullo sfondo a indicare uno stile di vita che insegue la fantasia:

 

Notti magiche

Inseguendo un goal

Sotto il cielo

Di un’estate italiana

 

E negli occhi tuoi

Voglia di vincere

Un’estate

Un’avventura in più

 

Nella magia delle notti “mondiali” si concretizzano i sogni di bambino dei calciatori («non è una favola»), e con loro quelli di tutti i tifosi, come spiega il verso finale della seguente quartina:

 

Quel sogno che comincia da bambino

E che ti porta sempre più lontano

Non è una favola e dagli spogliatoi

Escono i ragazzi e siamo noi

 

E in questa atmosfera di frenetica attesa e di grandi aspettative, che accomuna tutte le squadre e i loro sostenitori, i Campionati mondiali diventano un’occasione di incontro, «un’avventura senza frontiere»:

 

Forse non sarà una canzone

A cambiare le regole del gioco

Ma voglio viverla così quest’avventura

Senza frontiere e con il cuore in gola.

 

E il mondo in una giostra di colori

E il vento accarezza le bandiere

Arriva un brivido e ti trascina via

E sciogli in un abbraccio la follia.

 

I sogni dei tifosi italiani si spensero il 3 luglio nella semifinale persa ai rigori contro l’Argentina di Diego Armando Maradona, che sarebbe stata poi sconfitta cinque giorni dopo in finale dalla Germania Ovest, grazie a un dubbio rigore assegnato dall’arbitro Codesal Méndez a cinque minuti dal termine della gara. Gli sprechi venuti alla luce dopo la manifestazione («quando sono stati fatti i conti ne è venuto fuori un costo complessivo di 7.230 miliardi di lire, dei quali oltre 6.000 provenienti dalle casse dello Stato», Umberto Zappelloni, Il Mondiale che ha segnato per sempre la storia del calcio in Italia, in Il Foglio, 8 giugno 2020) fecero il resto, innescando una lunga sequela di polemiche, culminate nell’istituzione di due commissioni parlamentari (la prima nel 1992, su proposta di Raffaele Costa, la seconda nel 1999 promossa da Athos De Luca).

Le due inchieste non diedero esito, ma la magia di quelle notti era finita per sempre.

 

Gli altri anni Novanta

 

Alle parole cariche di entusiasmo di Bennato e Nannini fa da contrappunto, appena un anno dopo, Povera patria di Franco Battiato, in cui il cantautore siciliano descrive in toni assai cupi la realtà italiana,

 

Povera patria

Schiacciata dagli abusi del potere

Di gente infame, che non sa cos’è il pudore,

Si credono potenti e gli va bene quello che fanno

E tutto gli appartiene.

 

Tra i governanti

Quanti perfetti e inutili buffoni

Questo paese devastato dal dolore

Ma non vi danno un po' di dispiacere

Quei corpi in terra senza più calore?

 

Non cambierà, non cambierà

No cambierà, forse cambierà

 

rimarcando, tra le altre cose, le violenze negli stadi e l’aggressività verbale di un certo giornalismo coevo («Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali?»).

Ancora di stadi e del campanilismo estremo, che causa la violenza tra i tifosi, scrive qualche anno dopo, anche Luca Carboni nel suo Inno nazionale (1995):

 

E lo vedi anche allo stadio

Che siamo sempre troppo tesi

Siamo tifosi poco sportivi

Perché siamo troppo fiorentini

E la polizia controlla

Che non stiamo troppo vicini!

E allora son troppo bolognese,

Tu sei troppo cagliaritano

Sventoliamo troppe bandiere,

Col bastone nella mano

E diventiamo troppo violenti,

E se non ci spacchiamo i denti

Comunque ci promettiamo in coro

Che ci romperemo il culo!

 

Anche l’exploit di Elio e le storie tese, già autori delle note sigle del programma televisivo Mai dire gol, al Festival di Sanremo del 1996, dove arrivano inaspettatamente secondi con il brano La terra dei cachi, restituisce – qui con toni fortemente sarcastici – l’immagine di un’Italia piena di contraddizioni, in cui le stragi restano impunite e sono accettate con muta rassegnazione («Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè»), e i commando omicidi, che ci aspettano per strada «per assassinarci un po’», «se c’è la partita» – panacea di tutti i mali del Bel Paese – si recano negli stadi «sventolando il bandierone non più sangue scorrerà»:

 

Italia sì Italia no Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C’è un commando che ci aspetta per assassinarci un po’.

Commando sì commando no, commando omicida.

Commando pam commando papapapapam, ma se c’è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più sangue scorrerà.

 

Amnesie e stereotipi agli inizi del nuovo millennio

 

Un salto nella prima decade del nuovo millennio ci porta a Io non mi sento italiano (Gaber – Luporini 2003), titolo dell’ultimo album di Giorgio Gaber e di uno dei suoi brani più famosi, quasi una confessione sui sentimenti alterni, tra denuncia e orgoglio, di un’identità sofferta («Mi scusi Presidente / Non è per colpa mia / Ma questa nostra Patria / Non so che cosa sia»). Rivolgendosi al Presidente della Repubblica (allora Carlo Azeglio Ciampi, fiero sostenitore degli ideali nazionali), Gaber mette a nudo la realtà dei calciatori che non sanno o non ricordano l’inno nazionale, così come svelato da impietosi primi piani televisivi, e la circostanza del sentirsi italiani solo allo stadio:

 

Io G. G. sono nato e vivo a Milano

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

[…]

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell’inno nazionale

di cui un po’ mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

[…]

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido “Italia, Italia”

c’è solo alle partite.

 

L’italiano medio, pubblicato un anno dopo dagli Articolo 31, si muove tra gli stereotipi più noti della società italiana, richiamando in particolare l’amore per il canto, magari «con la chitarra in mano» come Toto Cutugno, e quello per il calcio, vero balsamo contro ogni avversità:

 

Io sono un italiano e canto

Non togliermi il pallone e non ti disturbo più

Sono l’italiano medio nel blu dipinto di blu

 

E se ne L’Italia di Piero (2007) di Simone Cristicchi, il protagonista Piero è uno qualsiasi, un italiano tra i tanti, e in quanto tale certamente non avulso dalla passione per il calcio e i calciatori,

 

Piero ha pubblicato un libro per la Mondadori,

Piero è amico sia delle veline che dei calciatori,

come ogni politico lui sta vicino agli elettori,

[…]

Piero ha fatto vincere l'Italia nei mondiali...

 

nel singolo In Italia (2008) del rapper Fabri Fibra, che denuncia i molteplici problemi della nazione, il gioco del pallone diviene uno dei simboli per eccellenza – insieme a Machiavelli e Foscolo! – del «paese delle mezze verità»:

 

Dove fuggi? In Italia

Pistole e macchine, in Italia

Machiavelli e Foscolo, in Italia

I campioni del mondo sono in Italia.

 

Il decennio si conclude con il brano L’Italia (Dati-Masini) di Marco Masini, presentato al Festival di Sanremo del 2009, nel quale la metafora calcio-vita appare definitivamente rovesciata: non è il calcio, infatti, che assomiglia alla vita ma è la vita che assomiglia al calcio. Così canta Masini:

 

È un paese l’Italia

Che rimane fra i pali

Come Zoff!

È un paese l’Italia dove l’anima muore da ultrà

Nelle notti estasiate nelle vite svuotate.

 

La canzone, peraltro, offre l’immagine per niente edulcorata di un’Italia condannata a uno stereotipo di ritorno che non lascia scampo: «È un Paese l’Italia dove tutto va male».

 

Ultimi versi

 

La nostra riflessione giunge fino all’ultimo quinquennio, inaugurato da Salmo che in 90 min (2018) rimanda a scene note a tutti noi:

 

Yah, questa è l'Italia

Scuola alle suore

Squadra del cuore

[…]

L’estate, il fottuto Cornetto

Ragazzi cresciuti al campetto

(Goal per l’Italia)

Poi scendere in piazza per fare a mazzate

[…]

Facciamo fatica a parlare italiano

Ora ho problemi sociali

Fortuna, quest’anno vinciamo i mondiali

 

Nello stesso anno, Lo Stato Sociale in Una vita in vacanza, presentata a Sanremo, annovera tra le possibili professioni degli italiani (il cameriere, l’assicuratore, il bioagricoltore, il toyboy, il santone), anche quelle di campione del mondo e di analista di calciomercato, mentre Fedez e J-Ax in Italiana parlano dei tanti calciatori italiani in vacanza a Formentera, quasi fosse un ritiro della Nazionale («Gli Azzurri sono in ritiro a Formentera»), e aggiungono:

 

Ti racconteremo una storia italiana

Vedrai che il lavoro nemmeno ti sfiora

E anche se piove la musica suona

Abbiamo perso, ma ci credevo

Come ai Mondiali e alle elezioni

 

Di nuovo, bandiere, Mondiali, vincere/perdere, parole chiavi per un’Italia che sembra non (voler) cambiare mai.

 

 

Il ciclo Un treno di parole verso gli Europei di calcio 2021 è curato da Rocco Luigi Nichil

 

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Immagine: Screenshot tratto dal video musicale di Italiana