Lingua Italiana

Cristiana De Santis

Cristiana De Santis insegna Linguistica dell'italiano e Didattica dell'Italiano all'Università di Bologna. Per il portale Treccani ha scritto di lingua della politica e didattica della lingua e letteratura italiana. Tra le pubblicazioni recenti, “Grammatica italiana essenziale e ragionata. Per imparare, per insegnare”, scritta con Michele Prandi (UTET, 2020), e “La sintassi della frase semplice” (Il Mulino, 2021). Cura un blog di divulgazione linguistica rivolto agli insegnanti: valenziale.blogspot.com

Pubblicazioni
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L’analisi del periodo: un gioco da ragazzi?

 

Nel percorso spiraliforme che accompagna lo studio scolastico della grammatica, il primo incontro con l’analisi del periodo è spesso molto (troppo) precoce. Gli insegnanti, adusi all’idea che la conquista delle competenze di lettura (comprensione) e scrittura (corretta, non solo ortograficamente) sia indissolubile dall’esercizio tassonomico dell’analisi grammaticale e logica e in assenza di un curricolo verticale nei programmi ministeriali, che proponga una gradualità di contenuti coerente con lo sviluppo cognitivo degli apprendenti – non esitano a spingersi oltre il limite della frase semplice (già in sé ricca di complessità) per affrontare la sintassi della frase complessa o periodo.

Come accade per l’analisi logica, a ispirare la riflessione scolastica sul periodo (etimologicamente: unità ciclica, completa nella forma e compiuta nel significato) non è un modello scientifico di riferimento, ma il desiderio di esaurire un elenco di “tipi” di frasi tramandato dalla tradizione: coordinate, principali e subordinate, e poi tutti i tipi di subordinate, messe sullo stesso piano e classificate sulla base del contenuto.

Questo tipo di percorso si basa su alcuni presupposti:

-         che si debba partire dal piccolo per arrivare al grande, come nel gioco delle costruzioni (sintassi vuol dire in effetti “costruzione”, ma i parlanti sono già in grado di costruire frasi e periodi prima di imparare ad analizzarli)

-         che i pezzi vadano considerati per il loro contenuto prima che per la forma (come se non fosse la combinazione di forme a creare contenuti)

-         che l’analisi dei pezzi singoli porti in modo automatico all’assemblaggio, e quindi al risultato finale (dimenticando la frustrazione del bambino che apre la scatola dei lego)

-         che tutte le frasi e i periodi che produciamo assomiglino agli esempi del libro di grammatica (come la costruzione all’immagine sulla scatola), e come tali vadano analizzati.

 

Cambiamo gioco: dalla costruzione alla decostruzione

 

Si poterebbe proporre un percorso più modesto e sensato, ispirato ancora a un gioco da bambini (e bambine), ma che guardi alle regole e insieme alle scelte? Proviamo.

Il periodo è una frase “complessa”, i cui costituenti sono altre frasi semplici (cioè costruite intorno a un verbo singolo, saturato dai suoi argomenti), ribattezzate all’uopo “proposizioni”. Si tratta dunque di una strategia di collegamento finalizzata al trasporto di contenuti “pesanti”. Contenuti che vengono ripartiti tra le frasi o in modo paritario (coordinazione) o in modo gerarchico (subordinazione). Tra le frasi che formano il periodo è comunque presente una frase di testa, chiamata principale, che funziona da motore e traina le altre.

Lasciando da parte per il momento la coordinazione per concentrarci sulla struttura reggente-subordinate, se proviamo a osservare i periodi come se fossero dei modellini di camion, possiamo subito introdurre una distinzione: c’è il periodo-autocarro, il periodo-autotreno e il periodo-autoarticolato.

L’autocarro è un mezzo di trasporto singolo, con una cabina motore e un cassone di carico integrati tra di loro. Funzionano allo stesso modo i periodi in cui una prima frase costruita intorno a un verbo (come sembrare, credere, pensare ecc.) regge una seconda frase che lo completa (chiamata perciò “completiva”, soggettiva o oggettiva), senza la quale la prima frase non starebbe in piedi.

L’autotreno, con una cabina autonoma che traina uno o più rimorchi, corrisponde a un periodo con una frase principale cui si collegano una o più frasi subordinate (chiamate nello specifico “avverbiali” o “circostanziali”) dai contenuti più vari (strumento, causa, motivo e fine dell’azione; circostanze spaziali e temporali che fanno da cornice all’evento espresso dal verbo della principale), che si aggiungono liberamente alla sovraordinata.

Nell’autoarticolato, infine, abbiamo una cabina con un semirimorchio snodabile: funzionano in questo modo il periodo ipotetico (in cui la premessa, introdotta dal se..., deve necessariamente portare al rimorchio una conseguenza), ma anche il periodo che contiene una frase comparativa (in cui, per esempio, a un tanto… segue un quanto…) o una frase consecutiva (talmenteche…), caratterizzate da un rapporto di interdipendenza con la principale.

 

Questo tipo di riflessione sul periodo potrà essere successivamente ampliata prendendo in esame le diverse forme delle frasi (in particolare il modo verbale: indicativo e congiuntivo nella forma "esplicita", cioè con un soggetto espresso e indipendente; infinito e gerundio nella forma "implicita", con soggetto non espresso controllato dalla principale) e il diverso tipo di “gancio” (congiunzioni come che, perché ecc. nella forma esplicita; preposizioni come di, a, da, per... nella forma implicita). Ma il primo, imprescindibile dato da mettere a fuoco è il tipo di legame sintattico (che, come abbiamo visto, può essere di completamento, di aggiunta o di correlazione) e quindi la rilevanza di ciascuna frase nella struttura complessiva (le completive e le “interdipendenti” sono necessarie alla completezza del periodo, le avverbiali sono facoltative).

Andrà poi distinto e isolato un tipo di frasi, le relative, che funzionano in modo particolare: sono introdotte da un pronome (come che) che, all’interno di una frase semplice, si attacca al nome antecedente e lo espande: non un vero e proprio rimorchio, dunque, ma una specie di baule che si monta sul tetto di un’auto.

Questo tipo di riflessione, basata sulla struttura, permette tra l’altro di dare indicazioni precise sull’uso della punteggiatura: mai tra una principale e una completiva (come neppure tra soggetto e verbo, o verbo e oggetto); sì tra una principale e una subordinata avverbiale, o tra due avverbiali; prima di una relativa solo se attributiva e non restrittiva (che funziona cioè come un aggettivo che attribuisce qualità e non restringe la portata del nome).

 

Dalla classificazione alla trasformazione

 

Un altro tipo di riflessione, alternativa alla classificazione, è basata sul concetto di trasformazione. Di fatto, la frase complessa costituisce uno sviluppo della frase semplice: tutte le posizioni sintattiche (soggetto, oggetto, espansioni di vario genere) possono essere occupate, anziché da un'espressione nominale (o un pronome), da una frase. Come i robot che si mutano in macchine, così possiamo provare a trasformare un “complemento” in una frase:

 

1a) Ho dimenticato l’appuntamento.

1b) Ho dimenticato che avevo un appuntamento.

 

2a) Ho dimenticato l’appuntamento per distrazione.

2b) Ho dimenticato l’appuntamento perché sono distratto.

 

Questo tipo di approccio ha il vantaggio di abituare a riconoscere e manipolare la struttura della frase, e a riflettere sulle alternative a disposizione del parlante quando si tratta di saturare una valenza del verbo (es. 1) o di collegare due fatti, come una conseguenza alla sua causa (es. 2).

 

Nei livelli superiori di scuola si potrà poi riflettere sulla possibilità di scegliere tra diversi tipi di “ganci” (connettivi), più o meno articolati, più o meno capaci di mettere in rilievo il contenuto trasportato. Invece di per, volendo rendere esplicita la causa, potrei usare la locuzione a causa di:

 

2c) Ho dimenticato l’appuntamento a causa della mia distrazione.

 

Per mettere in primo piano la causa rispetto all’effetto nella prospettiva del periodo, sceglierò siccome, anziché perché:

 

2d) Siccome sono distratto, ho dimenticato l’appuntamento.

 

Se invece voglio concatenare due fatti lasciando all’interlocutore il compito di stabilire il rapporto di causa-effetto, mi limiterò a disporli in sequenza, uniti da una congiunzione coordinante (e), o separati (nello scritto) da un segno di punteggiatura, con l’eventuale rinforzo di un elemento anaforico (così, perciò) :

 

2e) Sono distratto e (così) ho dimenticato l’appuntamento.

2f) Sono distratto: (perciò) ho dimenticato l’appuntamento.

 

Nel primo caso abbiamo fatto ricorso alla coordinazione, nel secondo caso alla giustapposizione, chiamata “asindeto” e trattata come un’anomalia nella grammatica tradizionale, ma frequentissima nella comunicazione parlata.

 

Tra scritto e parlato

 

Scritto e parlato hanno strategie di costruzione sintattica diversa, legate al diverso grado di pianificazione, sulle quali sarà bene riflettere, anche per non banalizzare (bollandole come scorrette) fenomeni in atto nell’italiano contemporaneo, come la semplificazione delle relative (col ricorso al cosiddetto "che polivalente": non c'è niente che ho bisogno, come canta Jovanotti), del periodo ipotetico e delle completive (col ricorso all'indicativo pro congiuntivo).

Analogamente, testi scritti di tipo diverso presentano un diverso grado di complessità sintattica, legato a fattori come: lunghezza media degli enunciati, maggiore o minore ricorso all’ipotassi vs paratassi, livelli di incassatura delle subordinate (di primo, secondo, terzo grado ecc.), scelta e dosaggio dei tempi verbali (consecutio temporum).

L’analisi del periodo, del resto, può essere utilmente fatta anche nel triennio delle superiori a partire dall’osservazione delle scelte d’autore: dal grande al piccolo, dunque, dal testo alla grammatica. Si potrà per esempio guardare da vicino la costruzione dell’orazion picciola di Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno, con il suo sapiente dosaggio di coordinazione, subordinazione e giustapposizione (altrove integrate dal ricorso a una strategia tipica dell’italiano antico: la paraipotassi). Per farsi un’idea di come è cambiata la sintassi nella storia dell’italiano, invece, basterà confrontare un periodo del Decameron con uno dei Promessi Sposi.

 

Letture consigliate

Adriano Colombo, La coordinazione, “Grammatica tradizionale e linguistica moderna” (serie diretta da G. Graffi”), Carocci, Roma, 2012.

Giorgio Graffi, La frase: l’analisi logica, “Grammatica tradizionale e linguistica moderna” (serie diretta da G. Graffi”), Carocci, Roma, 2012.

Michele Prandi, L’analisi del periodo, “Grammatica tradizionale e linguistica moderna” (serie diretta da G. Graffi”), Carocci, Roma, 2013.

Michele Prandi, Cristiana De Santis, Le regole e le scelte. Manuale di linguistica e di grammatica italiana, seconda edizione, utet, Torino, 2011.

Francesco Sabatini, Carmela Camodeca, Cristiana De Santis, Sistema e testo. Dalla grammatica valenziale all’esperienza dei testi, Loescher, Torino, 2011.

Gianpaolo Salvi, Le parti del discorso, “Grammatica tradizionale e linguistica moderna” (serie diretta da G. Graffi”), Carocci, Roma 2013.

Stefano Telve, L’italiano: frasi e testo, Carocci, Roma, 2008.

Laura Vanelli, Grammatiche dell’italiano e linguistica moderna, Unipress, Padova, 2010.

 

 

Immagine: Mattoncini di Lego

 

Crediti immagine: Ralf Roletschek [GFDL 1.2 (http://www.gnu.org/licenses/old-licenses/fdl-1.2.html)]

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Dall’arte all’arte: percorsi per occhi e orecchi bambini

 

Da molti anni alcuni musei hanno cominciato a dotarsi di strumenti dedicati alla fruizione degli allestimenti artistici e degli ambienti che li accolgono da parte dei più piccoli: didascalie, pannelli collocati ad altezza bambino, schede mobili con testi semplificati (spesso bilingui) e scritti in font ad alta leggibilità; pubblicazioni specifiche e kit didattici con giochi e indovinelli che invitano cercare e scoprire da vicino i capolavori; visite guidate e laboratori organizzati nell’ottica di coinvolgere in tutti i sensi i bambini nel processo di creazione delle opere d’arte; contenuti multimediali interattivi o accessibili a distanza pensati per raccontare il percorso espositivo o per prepararne la visita ...  Leggi tutto l'articolo in formato PDF

 

Immagine: Agnolo Bronzino, Ritratto di Eleonora di Toledo col figlio Giovanni, 1545, Galleria degli Uffizi, Firenze

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Emancipazione grammaticale, grammatica ragionata e cambiamento linguistico

 

In un recente articolo uscito sul Portale Treccani ho messo in discussione i presupposti del cosiddetto “italiano inclusivo”, rifacendomi al concetto di “grammatica ragionata” e “ragionevole”, che merita un approfondimento. Il riferimento è a una tradizione che risale alla pubblicazione della Grammaire de Port-Royal (1660), frutto della collaborazione tra il grammatico Claude Lancelot e il filosofo Antoine Arnauld, considerata il punto di partenza delle moderne scienze del linguaggio. Come scrivevano nella Prefazione i due autori, l’intento dell’opera non era quello di descrivere il buon uso di una lingua ma quello di sforzarsi di «penetrarne le ragioni e di fare secondo scienza ciò che gli altri fanno solo per abitudine». Questo filone di grammatica filosofica ha conosciuto un grande sviluppo nelle grammatiche pedagogiche del XIX secolo, che si ponevano l’obiettivo di «far riflettere l’alunno su ciò che sa anziché insegnargli la propria lingua» – come scriveva Carlo Antonio Vanzon, autore di una Grammatica ragionata della lingua italiana (1828). Pratiche simili di emancipazione intellettuale, opposte alla pedagogia tradizionale basata sulla spiegazione del maestro, furono sperimentate anche nella didattica del francese come lingua seconda dal rivoluzionario Joseph Jacotot, il “maestro ignorante” cui è dedicato il volume omonimo del filosofo Jacques Rancière (2008).

Quando si parla di “emancipazione grammaticale”, ci si rifà a questa tradizione nella consapevolezza che una conoscenza approfondita e non dogmatica della grammatica della nostra lingua possa favorire pratiche di emancipazione intellettuale in grado di guidare a un uso della lingua non eversivo, ma consapevole e responsabile.

Per avventurarsi su questa strada non basta una conoscenza della grammatica di tipo “scolastico”: che si limiti cioè a mettere in relazione una serie di fenomeni con una lista di etichette, pretendendo di catalogare in modo univoco le diverse forme, come se a ciascuna di esse corrispondesse sempre un’unica funzione. Occorre una conoscenza scientifica della grammatica, basata sulla linguistica moderna, che ci consenta di liberarci di molti stereotipi grammaticali tramandati dalla scuola e di affrontare in modo non superficiale problemi complessi, che intrecciano più livelli della descrizione linguistica (fonologia, morfologia, sintassi, testualità) come accade per il genere grammaticale, del quale qui si discute.

L’innesto della speculazione filosofica nella riflessione grammaticale – nella tradizione della “grammatica filosofica” praticata da Otto Jespersen e Ludwig Wittgenstein – ci consente poi di affrontare in modo più fine il tema dei rapporti tra lingua, pensiero e realtà, che pure si pone quando si parla di una categoria formale come il genere grammaticale.

Un altro utile riferimento per comprendere l’orizzonte nel quale ci muoviamo è rappresentato dalle riflessioni di Antonio Gramsci, che non solo ci aiutano a cogliere la portata di ogni nuova questione linguistica che si impone nella società, ma ci permettono di sfumare la nostra idea di norma grammaticale, suggerendo la via per «una normatività di carattere diverso, più elastico, più “da ragionevole a ragionevole”» (Postille alla Grammatica di Panzini, cit. in Martinelli 1989). Sulla differenza tra una norma prescrittiva e una norma descrittiva mi permetto di rimandare a Prandi e De Santis (2019: cap. II).

 

Parlare di generi a scuola

In questo intervento approfondirò alcune questioni grammaticali inerenti la marcatura del genere in italiano scegliendo il punto di vista di una particolare “agenzia della norma linguistica”: la scuola, istituzione che – per vocazione e tradizione – ha il compito non solo di insegnare la lingua italiana, ma di educare alla riflessione grammaticale e, più in generale, di formare uno spirito critico che dovrebbe essere applicato anche ai fatti di lingua.

Ho già insistito sull’importanza, per ogni insegnante, di aggiornare le proprie conoscenze intorno al concetto di “genere”: sia per distinguere il genere (inteso come categoria socio-culturale) dal sesso biologico, sia per evitare la sovrapposizione automatica tra il genere in un’accezione extralinguistica (cui si fa riferimento quando si parla di “identità di genere”) e il genere grammaticale (categoria linguistica che in italiano oppone Maschile e Femminile in modi complessi, non riducibili all’opposizione ‘del maschio’ / ‘della femmina’).

Proverò qui a mostrare l’utilità, per l’insegnante, di approfondire le conoscenze sul genere grammaticale alla luce della linguistica moderna: scopriremo così che il genere, in italiano, è una caratteristica intrinseca del nome, che si manifesta anche in altre parti del discorso attraverso forme varie (che non si limitano all’opposizione di desinenze del tipo -o/-a) e non agisce solo sulla forma delle singole parole, ma incide sulla costruzione delle frasi e dei testi.

 

Ancora sul genere grammaticale

Il genere, in effetti, si presenta come un tipico fenomeno di “interfaccia”, che riguarda a un tempo: la morfologia flessiva (la flessione del nome e dei pronomi personali) e la morfologia derivazionale (sia per la presenza di suffissi specializzati per esprimere il femminile/maschile, come -tore/-trice, sia per la possibilità di formare un femminile dal maschile, capa da capo, e viceversa, divo da diva – tecnicamente si parla di “mozione”, Thornton 2004); la sintassi della frase (per la regola dell’accordo, che impone il genere del nome ai suoi determinanti, tipicamente gli articoli, e modificatori aggettivali; la marca di genere si manifesta inoltre in alcune forme verbali accordate al soggetto, anche a distanza); la testualità (attraverso l’uso dei pronomi di ripresa); la fonetica sintattica (il fenomeno della selezione di varianti eufoniche e l’elisione o troncamento di articoli e aggettivi è regolato anche dal genere del nome). Ridurre il genere grammaticale a una mera questione ortografica che possa essere “risolta” inserendo un simbolo non alfabetico (o un simbolo fonetico) nella nostra grafia mostra quanto ci sia da fare per promuovere uno studio ragionato e aggiornato della grammatica.

Per non cadere in aporie e nelle semplificazioni tipiche del populismo linguistico, dobbiamo imparare (e insegnare) a muoverci nella grammatica dell’italiano con strumenti adeguati allo studio di una lingua moderna e viva, utilizzando spiegazioni scientificamente fondate dei fenomeni osservabili. (Chi volesse approfondire, può rivolgersi a volumi agevoli e aggiornati come Coletti 2021 o De Santis e Prandi 2020).

 

Conoscere le regole per padroneggiare le scelte

La nostra lingua, come ogni lingua naturale, è un potente dispositivo simbolico che trae il suo fondamento da una singolare combinazione di regole e scelte (Prandi 2006). Se la grammatica tradizionale insisteva sulla cogenza delle regole (e delle innumerevoli eccezioni a corredo), la linguistica moderna ha rivendicato il peso delle scelte nella costruzione dei nostri testi e discorsi. Scelte che sono offerte dal sistema, prima ancora che dall’ambiente linguistico in cui siamo immersi: si tratta cioè di opzioni che si aprono a ogni parlante all’interno del territorio della grammatica, man mano che dalle strutture centrali (fonologia, morfologia, nucleo della frase) ci spostiamo verso quelle più periferiche (frase espansa, frase complessa, costruzione del testo). Una padronanza sicura delle regole unita a una altrettanto solida conoscenza del repertorio delle scelte ci mette in grado di sfruttare al meglio le risorse della lingua e di esercitare la nostra libertà di parlanti in modo responsabile e accettabile da chi si muove nello stesso spazio linguistico.

Flessione e formazione delle parole, come pure il fenomeno sintattico dell’accordo, fanno parte di quel territorio delle regole “regolanti” della nostra lingua che dobbiamo conoscere e rispettare se vogliamo che i nostri discorsi vengano accolti e compresi. Non possiamo scegliere i suoni con cui comporre le parole della nostra lingua e tantomeno decidere dall’oggi al domani di cambiarli. Le vocali dell’italiano standard sono sette: altrettanti suoni pieni che possono costituire il nucleo di una sillaba, individuare la sede dell’accento, chiudere e distinguere le parole, dando col loro timbro una fisionomia diversa a ciascuna di esse. Tolleriamo che questa gamma venga ridotta nell’uso (non è facile distinguere nella pronuncia è aperta da é chiusa e ò aperta da ó chiusa), accettiamo di accogliere occasionalmente suoni nuovi in parole che prendiamo in prestito da altre lingue, adattandoli magari alla nostra pronuncia (è il caso della u in computer, realizzata come la ü di würstel), ma non di introdurre stabilmente suoni che dovrebbero sostituire quelli che conosciamo, riorganizzandone necessariamente le relazioni (la o e la e di computer non vengono realizzate come vocali indistinte, o schwa, secondo la pronuncia inglese, ma come una qualsiasi o ed e atona). D’altra parte, se accettassimo di introdurre un suono come la vocale indistinta nel nostro sistema dovremmo fare in modo che la nuova vocale “faccia sistema”, tenuto conto delle restrizioni connaturate a un suono “senza qualità né quantità” come lo schwa o scevà, che può essere una variante di suoni vocalici atoni o funzionare come vocale d’appoggio, ma non è di per sé un suono con valore distintivo di parole.

Ancora più difficile accettare che si modifichino le regole che presiedono alla formazione e combinazione delle parole, elevando una vocale indistinta allo statuto di desinenza o morfema flessivo (arrivando ad opporre un suono singolare e uno plurale…). Decidere di agire sulla terminazione delle parole per occultare il genere non equivale infatti a intervenire su una convenzione grafica (non si tratta di cambiare la lettera finale per scegliere uno o due simboli più “neutri” per l’occhio): significa modificare in profondità le regole morfologiche di una lingua come la nostra, che affida la marcatura di genere a strategie stratificate, che comprendono il ricorso a desinenze di vario tipo, oltre che a suffissi più o meno specializzati (-tore/trice nella coppia direttore/direttrice, -ente nell’ambigenere presidente).

Ancor prima, non dobbiamo dimenticare che il parlato è la prima dimensione linguistica che ci riguardi, quella da cui si dovrebbe partire nella descrizione del funzionamento di una lingua, oltre che quella in cui entra effettivamente in gioco la dimensione performativa (il “fare cose con le parole”). Da questo punto di vista, rendere indistinta la vocale finale vorrebbe dire rendere irriconoscibili le parole che pronunciamo in un contesto comunicativo, come il parlato, che è meno pianificato dello scritto e che non permette di tornare indietro in caso di errore o di incomprensione. Chiaro che, per rendercene conto, dovremmo essere disposti e capaci di portare certe proposte al livello del parlato (al di là di esperimenti modesti che vanno poco oltre l’esemplificazione episodica) e di non farci distrarre dalla pervasività dello scritto negli usi “social” e più volatili della lingua, né dall’effetto di verità illusorio creato dagli algoritmi.

 

Una falla nella lingua

A scuola si può e si deve riflettere su questi punti, distinguendo tra la sostenibilità e l’efficacia di interventi isolati, che agiscono su singole parole, e la proposta poco sostenibile di segni che creano una falla nella lingua: perché inseriscono un elemento estraneo al sistema che finisce per essere usato in modo incoerente (come mostra l’analisi del verbale ministeriale fatta da Marazzini 2022) e, anche quando venga usato in modo più coerente (come nei testi comparsi su alcuni giornali e libri a stampa), obbedisce a regole arbitrarie, decise a tavolino (come se si trattasse di mere norme tipografiche) e non coerenti con le regole della nostra lingua. (Su questi e altri limiti linguistici intrinseci alle proposte del sito italianoinclusivo.it rimando allo studio di Giuliana Giusti, 2022).

Vale la pena ribadire che si tratta di operazioni molto diverse da altre iniziative legate alle politiche “di genere”, come la promozione dei femminili dei nomi di professione e carica come sindaca, ministra, architetta, ingegnera, formati secondo le regole della nostra lingua e perfettamente grammaticali. Se questi potevano suonare “nuovi” e suscitare come tali una reazione di rifiuto legata al “sentimento linguistico” di questo o quella parlante (che li giudicava “brutti”), l’occultamento delle desinenze non può non suscitare una reazione più profonda: legata non solo alle abitudini di ascolto, ma alla percezione della violazione di un sistema comune di regole, acquisite in modo libero e spontaneo, sulla cui stabilità contiamo come su quella del terreno su cui camminiamo e il cui rispetto ci garantisce di esprimerci in modo non solo corretto, ma comprensibile e socialmente accettabile.

Diverso è anche l’effetto rispetto alle soluzioni suggerite nelle linee guida sul genere adottate da molte istituzioni del nostro Paese (si veda MIUR 2018), come il raddoppiamento di forme (maschile e femminile, non necessariamente in quest’ordine: la lettrice o il lettore) e le strategie di “oscuramento" del genere come i nomi generici o collettivi (la persona, il personale) o le strutture sintattiche che consentono di mettere in secondo piano l’agente, come le forme impersonali e passive (per approfondire il tema della diatesi si può leggere De Santis 2021).

Il ricorso a queste strutture, che richiede impegno in chi produce il testo e può creare un effetto di appesantimento in chi lo legge, va valutato in relazione alla tipologia testuale, tenuto conto della cautela che alcuni usi della lingua (come quello istituzionale) impongono, se vogliamo salvaguardare la leggibilità dei testi. Il possibile svantaggio legato alla scelta di queste soluzioni è comunque controbilanciato da due caratteristiche: possono essere praticate nello scritto come nel parlato e non precludono la possibilità di trattare automaticamente i testi con programmi (di sintesi e riconoscimento vocale, traduzione immediata, interrogazione rapida ecc.) che ne consentono la fruizione anche a chi non abbia accesso al codice comune (o alla sua forma orale/scritta).

 

Tra grammatica e lessico: nominare il nuovo

A scuola si potrà riflettere anche sulla differenza di impatto e di accettabilità di proposte che puntino all’arricchimento del nostro vocabolario, anziché alla forzatura delle regole grammaticali. Il vocabolario, infatti, a differenza della grammatica di una lingua, non è un insieme chiuso ma un insieme aperto, continuamente ampliabile, e come tale più adatto a piegarsi al nostro bisogno di nominare il nuovo, di rinominare il noto, di estendere il significato di parole esistenti perché abbraccino nuove realtà; diversamente dalla grammatica, del resto, che non deve rendere conto di nessuna realtà (Wittgenstein 1990), il vocabolario può essere considerato un indice molto sensibile della cultura di un popolo (Sapir 1972).

L’insegnante sensibile potrà far notare come la coniazione di alcuni neologismi abbia contribuito a rendere “visibili” fatti che prima rimanevano isolati e senza nome. Femminicidio, per esempio, è una parola che ha permesso di prendere coscienza di un fenomeno drammatico e di adottare provvedimenti per contrastarlo. Paraolimpiadi (con il derivato paraolimpico/a) ha dato riconoscimento e sicurezza alle persone con disabilità che praticano sport a livello agonistico. Sono solo due esempi di creatività lessicale che sfruttano i procedimenti tipici di formazione delle parole in italiano, ma potremmo aggiungere anche sigle lessicalizzate, come LGBTQIA+ (dove però l’inserimento del segno matematico, nell’alludere a una pluralità di identità, ha bloccato la possibilità di formare derivati), o i tanti prestiti dall’inglese come stalking, a indicare un tipo di molestie ora perseguibili per legge.

Sempre in ambito lessicale, è possibile oscurare e sostituire parole che risultino offensive o discriminanti alla luce di una mutata sensibilità, che punta a riconoscere e valorizzare anziché stigmatizzare le differenze. Vanno in questa direzione le iniziative volte a contrastare le “parole ostili” (hate speech): iniziative che in ambito scolastico andrebbero inserite in un contesto più ampio di sensibilizzazione a un uso responsabile della lingua. Con l’avvertenza che anche simboli e parole “identitarie”, usate per escludere o stigmatizzare ciò che è diverso da sé o non rafforza le proprie convinzioni (si veda il termine terf, usato in modo spregiativo da alcune femministe per escluderne altre dal dibattito), possono diventare strumento di offesa e aprire la strada a un “linguaggio autoritario” non meno sprezzante e intollerante di quello che si vorrebbe contrastare, capace di imporsi con la forza del conformismo culturale. Di fronte a questo tipo di linguaggio possiamo difenderci esercitando «una cautela nell’ascolto e nella lettura, una consapevolezza che c’è una predisposizione alla suggestione in noi, che deve essere messa a freno, che deve essere sorvegliata» (Pontiggia 2004).

 

La libertà linguistica tra norma e uso

Ultimo punto, non meno importante, sul quale riflettere in classe: di un uso responsabile della lingua dovrebbe far parte anche il rispetto della dimensione ‘altra’ della lingua, che non è un corpo individuale sul quale possiamo agire in base al nostro desiderio, ma un dispositivo simbolico che ci impone di passare le nostre scelte al vaglio della norma condivisa dall’intera comunità di parlanti. Non perché la norma linguistica non sia storicizzabile e quindi modificabile (come vedremo più avanti) ma «perché la norma ha un valore sociale e, inoltre, il suo rispetto aiuta la mutua comprensione» (Albano Leoni 2020: 40).

Nella lingua, come in altri ambiti sociali, il diritto del singolo individuo all’autodeterminazione e alla libera espressione deve trovare un terreno di mediazione con le esigenze della collettività: l’uso linguistico individuale deve scendere a patti con l’uso sociale, eludendo le tentazioni dell’indifferenza e dell’anarchia, per non diventare abuso. Di questa dialettica tra creatività e sottomissione vive l’autentica libertà linguistica, come ci ha insegnato Benvenuto Terracini (1963), nostro precursore degli studi sociolinguistici.

Del resto, come parlanti e scriventi, da un lato chiediamo alla lingua di piegarsi alle nostre esigenze espressive (è il caso degli usi letterari, la cui analisi impegna molte energie a scuola) o al nostro bisogno di riconoscibilità (è il caso di usi identitari e mobilitanti, tipici delle comunità che lottano per i diritti civili), dall’altro abbiamo bisogno di un sistema stabile di regole condivise e ne reclamiamo continuamente il rispetto in nome anche di quel senso di appartenenza a una certa comunità linguistica che tanta parte ha nella costruzione della nostra identità. Si spiega così, del resto, il successo di tante rubriche di consulenza linguistica e pubblicazioni “salvalingua”.

Dove, se non a scuola, possiamo diventare sensibili a questo valore immateriale della lingua, intesa come “bene comune”, il cui rispetto è garanzia di democrazia? Riconoscere autorità alla lingua che spontaneamente parliamo, e che ci permette di comunicare, è infatti il primo passo per poter entrare in relazione attraverso le nostre differenze e disparità (Muraro 2013).

Pertiene poi alla scuola, anche in ottica di educazione alla cittadinanza, il compito di abituare alla flessibilità degli usi, alla capacità cioè di muoversi agilmente all’interno della lingua, adattandola alle diverse situazioni comunicative: dall’informalità della comunicazione personale alla formalità di quella istituzionale, dalla “elasticità” dei testi più aperti all’interpretazione (quale può essere un brano letterario) alla “rigidità” del testo di legge (sulla distinzione si veda Sabatini 2016).

 

La lingua cambia, sì, ma come?

La nostra lingua è viva e in movimento, è vero, e come tale non è immutabile; è anzi aperta a innovazioni che, con un ritmo accelerato nell’ultimo mezzo secolo di storia linguistica, hanno determinato cambiamenti non sconvolgenti, ma significativi. Si tratta di “innovazioni” che vengono più spesso dal parlato spontaneo che dallo scritto, e che tendono a risalire “dal basso” (cioè da varietà di lingua informali, portate alla semplificazione) più che a calare “dall’alto” (come accade per quegli anglismi «che sembrano rispondere più alla moda della lingua feticcio che a un vero bisogno linguistico», Albano Leoni 2020: 44). In ogni caso, a prescindere dalla loro provenienza, i fenomeni innovativi vanno valutati sulla lunga durata e in relazione al “volume linguistico” effettivo acquistato nel tempo e nello spazio sociale, al di là degli effetti di distorsione legati alla pervasività del mezzo (lo scritto dell’uso colto ieri, lo scritto trasmesso attraverso i social media oggi).

Prendiamo per esempio l’ortografia, che appare il settore più stabile della nostra lingua (Serianni 2006): quello in cui per ogni insegnante è più facile distinguere tra giusto e sbagliato. Certo, la conoscenza dei testi dei secoli scorsi ci mette a contatto con grafie oggi mutate, come lagrima, giovine, quistione. Nella nostra storia linguistica personale possiamo inoltre essere testimoni di cambiamenti: per esempio la normalizzazione della grafia analogica famigliare in luogo di familiare, o la promozione della grafia sé stesso. Certo è che in Italia non abbiamo avuto interventi di riforma dell’ortografia, come è avvenuto di recente in altri Paesi, quali Francia o Germania. Né si sono diffuse proposte occasionali legate all’uso militante della lingua, come il simbolo k (al posto della c “dura” o palatale) usato dai movimenti studenteschi del secolo scorso in scritte murali, volantini e tazebao. Ci sono stati nell’ultimo secolo alcuni interventi di regolarizzazione grafica dovuti all’azione della scuola, che ha promosso per esempio le grafie ha e ho (in luogo di à e ò) e ha stabilito una volta per tutte quando inserire la i (muta) nella grafia dei plurali in -cia e -gia.

In generale, tuttavia, prevale in questo ambito un “istinto linguistico conservatore” (Renzi 2012) che giustifica le resistenze verso le nuove proposte: come scriventi abbiamo bisogno di decidere con sicurezza e rapidità la forma corretta, sapendo di poter contare su un sistema di regole stabili e condivise. E ciò vale a maggior ragione quando ci spostiamo dal territorio dell’ortografia, che riguarda le convenzioni grafiche di rappresentazione della lingua, a quello della grammatica, che concerne le strutture portanti della lingua.

Sarà utile riflettere come in questo settore i cambiamenti, per riprendere una metafora di lunga durata nel pensiero linguistico, siano paragonabili ai movimenti geologici di “deriva” più che a quelli tettonici («la deriva di una lingua è costituita dalla selezione inconscia, compiuta dai suoi parlanti, di quelle variazioni individuali che si concentrano in una certa direzione», Sapir 1969: 155). In generale, approfondendo la dimensione storica di una lingua di tradizione come l’italiano, si potrà prendere coscienza della tendenza ad accogliere il nuovo senza rinunciare al vecchio, come accade nelle strade di tante nostre città, nel mobilio delle nostre case, nei nostri guardaroba.

 

La lezione dei pronomi personali

Un esempio evidente di questa stratificazione storica è dato dal nostro paradigma dei pronomi personali che, oltre alle distinzioni di genere e numero, mantiene l’opposizione esistente in latino tra pronomi riferibili ad animati (come lui/lei) e inanimati (esso/essa), nonché quella tra forme aventi funzioni sintattiche diverse (lei soggetto, la oggetto diretto, le oggetto indiretto): di fatto, l’italiano conserva residui del sistema dei casi latino (nominativo, accusativo, dativo). A ciò va aggiunto che il sistema pronominale ha subìto profonde ristrutturazioni, che hanno limitato o ampliato gli ambiti d’uso di alcune forme: egli è un pronome soggetto che ha un impiego ristretto sia dal punto di vista della distribuzione (si usa come anaforico e solo in posizione non marcata) sia delle situazioni comunicative (nell’italiano contemporaneo è relegato allo scritto formale); gli è un pronome dativo maschile singolare che tende a imporsi nel parlato (senza forzature patriarcali) a spese del femminile le e del plurale comune loro, generalizzando un uso autorizzato nei pronomi atoni combinati (Glielo dico può riferirsi a lei, lui, loro). Che la deriva della lingua vada spontaneamente verso una forma non marcata rispetto al genere è mostrato anche dall’evoluzione di loro soggetto, che si impone a scapito di essi/esse. E forse proprio su questa forma (come suggerisce Giusti 2022) potrebbero convergere le scelte delle persone non binarie: non come mero calco dell’inglese they, ma alla luce di un’attenta considerazione delle possibilità di evoluzione suggerite dal nostro sistema.

Sicuramente, comunque, l’uso dei pronomi è uno dei punti sui quali ha senso discutere in classe, a maggior ragione se ci si confronta con una generazione che ritiene opportuno chiedere e specificare quale sia il pronome voluto in relazione all’identità di genere, e lo fa riferendosi alle forme inglesi he/she. In effetti, a differenza dei nomi, che si limitano a classificare referenti, i pronomi identificano direttamente referenti, attribuendo subito un genere grammaticale. Non a caso anche l’inglese, che di regola non marca il genere nei nomi (né negli articoli e aggettivi riferiti al nome), distingue forme maschili e femminili quando si parla di una terza persona, e non solo nei pronomi personali ma nei possessivi (his/her,di lui/di lei’).

Se alla prima persona l’identificazione avviene in modo immediato con chi parla (io), alla terza persona bisogna fare una scelta tra pronome M e F; già alla seconda persona, del resto, il tu deve essere negoziato con chi ascolta (anche in relazione all’esistenza del pronome allocutivo di rispetto lei). Questa scelta può avvenire sul piano discorsivo nel rispetto delle preferenze individuali quando queste siano manifestate all’interno di ecosistemi linguistici (come la classe) che ci consentano di conoscere le persone e di nominarle nel rispetto delle loro esplicite volontà.

Quanto alle proposte di pronomi nuovi per nominare nuove realtà, queste dovrebbero essere attentamente valutate alla luce della complessità del sistema linguistico, che per la funzione di soggetto necessita di forme adatte a comparire in posizione tonica (sede normalmente preclusa alla vocale indistinta) e richiederebbe comunque altre forme del pronome oltre a quella del soggetto (si tratterebbe di sostituire non solo lui/lei, ma gli/le e la/lo). Prima di valutare le nuove proposte, del resto, sarebbe necessario emanciparsi da forme che la scuola si sforza invano di tenere in vita (come egli ed ella, che resistono tenaci nei paradigmi dei verbi), come pure dalla convinzione che si debbano bandire forme legittime di intensificazione pronominale al servizio della messa a fuoco della persona (l’aborrito a me mi, a torto considerato un errore), normalmente diffuse in altre lingue quali lo spagnolo e il francese. Sarà utile anche riflettere sul fatto che l’italiano, a differenza di lingue come francese e inglese, ci solleva dall’obbligo di esplicitare sempre il pronome soggetto davanti alle forme verbali: i paradigmi ricchi e differenziati dei verbi consentono infatti di risalire agevolmente alla persona (con l’eccezione di alcune forme del congiuntivo).

Questi elementi di complessità ci fanno subito rendere conto di come ogni soluzione che pretenda di agire sul genere delle parole in modo semplicistico, con espedienti grafici o sostituzioni occasionali di forme pronominali, sia destinata a incontrare legittime resistenze, e non solo da parte delle autorità in fatto di lingua (tale è considerata in Italia l’Accademia della Crusca), ma da parte di ogni parlante che abbia una conoscenza approfondita e ragionata della grammatica italiana, non ferma al dogma scolastico.

 

Dalla grammatica alla matematica: i quantificatori

Gli interventi per una lingua inclusiva toccano anche un’altra categoria importante di parole, tradizionalmente rubricate sotto la categoria degli aggettivi determinativi, sottocategoria degli aggettivi (o pronomi) indefiniti: si tratta dei quantificatori, parole come tutto e tutti, poco e tanto, che ci danno informazioni sulla quantità di referenti numerabili o sulla quantità approssimata di una sostanza. Non si tratta di parole come le altre: sono operatori logici, che possono acquistare valori di volta in volta diversi. Tutto e ogni, per esempio, non sono sinonimi: entrambi si riferiscono alla totalità di un insieme, ma tutto/tutti lo precisa in senso sommativo, ogni lo precisa invece in senso distributivo o moltiplicativo a seconda dei contesti.

Magari non ci pensiamo quando scriviamo Car* tutt* nell’intestazione di una mail, ma non possiamo non pensarci quando risolviamo un problema matematico. La verità è che, quando si fa grammatica a scuola, ci si dimentica del valore di queste parole: si etichettano frettolosamente, assicurandosi al più di aver distinto il pronome dall’aggettivo; per l’aggettivo si specificano magari le marche di genere e numero, senza preoccuparsi di cosa conti davvero per la comprensione del testo.

Anche quando si parla di lingua inclusiva ci si concentra sul genere trascurando la complessità del numero e il funzionamento delle parole che, nella lingua, servono per quantificare la realtà. Davvero Car* tutt* è più universale di Cari tutti? Il logico Andrea Iacona (2022) ci invita riflettere su questo punto in un articolo apparso di recente sul Portale dell’Accademia della Crusca che vale la pena di leggere.

Tornando dai numeri alle lettere: ho già avuto modo di accennare a come l’inserimento di simboli non alfabetici possa compromettere la fluidità di lettura, a maggior ragione in una lingua come l’italiano, caratterizzata da una forte coerenza tra grafia e fonetica (si legge come si parla). La salvaguardia della consistenza grafica delle parole diventa allora una condizione necessaria per garantire una lettura agevole, e non solo nel primo apprendimento.

Un insegnante responsabile – di fronte a questi argomenti – trarrà le conclusioni opportune.

 

Per finir(la)

Chiudo tornando all’inizio: occorre una conoscenza più approfondita e meditata dei fatti linguistici, aperta al dubbio dove questo abbia ragione di essere nutrito, che ci metta in grado di riconoscere l’arbitrarietà costituiva della lingua (cioè il carattere astratto e non motivato delle unità linguistiche e l’indipendenza della grammatica dalla realtà), che è cosa diversa dall’arbitrio individuale, cioè dalla volontà del singolo di imporsi senza riferimento a (o a scapito di) norme esteriori. Per citare ancora un linguista più evocato che letto, Edward Sapir, «nuove esperienze culturali rendono spesso necessario ampliare le risorse di una lingua, ma tale ampliamento non è mai un’aggiunta arbitraria ai materiali e alle forme già esistenti; non è che un’ulteriore applicazione dei principii già in uso e, in molti casi, non è quasi altro che un’estensione metaforica di vecchi termini e significati» (1972: 7). Del resto, «un’organizzazione linguistica, a meno che non ceda a un’altra lingua che ne prenda il posto, tende, in gran parte perché è inconscia, a conservarsi per un tempo indefinito e non ammette che le sue fondamentali categorie formali siano seriamente influenzate dal cambiamento dei bisogni culturali» (ivi: 28).

Se le ragioni linguistiche non seducono e non persuadono il nostro giovane pubblico, possiamo sempre tornare ai testi poetici della tradizione: lì, meglio che altrove, apprezzeremo la capacità delle parole di creare mondi possibili. A patto di mantenerne salda l’identità fino all’ultima vocale, disposta a cadere solo per ragioni di metrica.

Volgiamoci anche alla poesia contemporanea. Per ascoltare il grido gentile di chi, nel «mondo invaso da ultracorpi», vede lacerarsi quanto abbiamo di più caro: «il sogno di una lingua condivisa» (Valerio Magrelli 2006: 74 s.).

Più grammatica e più poesia, dunque. Per continuare a comunicare con la lingua comune. Per rimanere umani nel mondo post-umano.

 

 

Testi citati

F. Albano Leoni, Lingua e dialetti, in Enciclopedia italiana, Appendice X, vol. II (M-Z), Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2020, pp. 39-46.

V. Coletti, Nuova grammatica dell’italiano adulto, Bologna, il Mulino, 2015 e 2021.

C. De Santis, Quantificatori, in Enciclopedia dell’Italiano, diretta da R. Simone, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. II, M-Z, 2011.

C. De Santis, La sintassi della frase semplice, “Le strutture dell’italiano contemporaneo”, Bologna, il Mulino, 2021.

C. De Santis e M. Prandi, Grammatica italiana essenziale e ragionata, Torino, UTET, 2020.

G. Giusti, Inclusività della lingua italiana, nella lingua italiana: come e perché. Fondamenti teorici e proposte operative, “DEP. Rivista telematica di studi della memoria femminile”, n. 48, 1/2022, pp. 1-19.

A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, a c. di V. Giarratana, Torino, Editori Riuniti, 1994.

O. Jespersen, The Philosophy of Grammar, London, Routledge, 2010 (1a ed. 1924).

A. Iacona, Cari tutti, Accademia della Crusca, 8 gennaio 2022.

V. Magrelli, Post scriptum. Addio alla lingua, in Disturbi del sistema binario, Einaudi, 2006.

C. Marazzini, L’italiano sotto assedio tra asterischi e chiocciole, “Il Mattino”, 7 febbraio 2022.

R. Martinelli, Un dialogo tra grammatici. Panzini e Gramsci, “Belfagor”, n. 6, 30 novembre 1989, pp. 681-688.

MIUR, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del MIUR, a c. del gruppo di lavoro MIUR coordinato da C. Robustelli, Roma, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2018.

L. Muraro, Autorità, Torino, Rosenberg & Sellier, 2013.

L. Renzi, Come cambia la lingua: l’italiano in movimento, Bologna, il Mulino, 2012.

L. Romito, Scevà, in Enciclopedia dell’Italiano, diretta da R. Simone, Istituto dell’Enciclopedia Italiana vol. II, M-Z, 2011.

F. Sabatini, Lezione di italiano. Grammatica, storia, buon uso, Milano, Mondadori, 2016.

L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Roma-Bari, Laterza, 2006.

G. Pontiggia, Il linguaggio autoritario nell’uso quotidiano della parola [1985], in ID., Il residence delle ombre cinesi, Milano, Mondadori, 2004, 197-211.

G. Pontiggia, Per scrivere bene imparate a nuotare. Trentasette lezioni di scrittura, a c. di C. De Santis, Milano, Mondadori, 2020.

M. Prandi, Le regole e le scelte. Introduzione alla grammatica italiana, Torino, UTET, 2006 e 2020.

M. Prandi e C. De Santis, Manuale di linguistica e grammatica e italiana, Torino, UTET, 2011 e 2019.

J. Rancière, Il maestro ignorante, a c. di A. Cavazzini, Sesto S. Giovanni (MI), Mimesis edizioni, 2008 (ed. orig. 1987).

E. Sapir, Il linguaggio. Introduzione alla linguistica, trad. it. di P. Valesio, Torino, Einaudi, 1969 (ed. orig. 1921).

E. Sapir, La lingua [1933], in Cultura, linguaggio e personalità. Linguistica e antropologia, trad. it. di G. Percoco, Torino, Einaudi, 1974 (ed. orig. 1949).

B. Terracini, Lingua libera e libertà linguistica. Introduzione alla linguistica storica, Torino, Einaudi, 1963 e 1970.

A.M. Thornton, Mozione, in La formazione delle parole in italiano, a c. di M. Grossmann e F. Rainer, Tübingen, Niemeyer, 2004, pp. 218-227.

L. Wittgenstein, Grammatica filosofica, trad. it. di D. Antiseri, Firenze, La Nuova Italia, 1990 (ed. orig. 1969).

 

Immagine: Memory birth, digital drawing 2010, by Tammy Mike Laufer

 

Crediti immagine: Tammy Mike Laufer, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, attraverso Wikimedia Commons

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Schwa.html

L’emancipazione grammaticale non passa per una e rovesciata

 

La petizione “pro lingua nostra” (contro lo schwa) lanciata dal linguista Massimo Arcangeli ha rilanciato il dibattito sull’uso di simboli che dovrebbero rendere la nostra lingua più “inclusiva”. Prima di condannarli, proviamo ad analizzarli dal punto di vista di una grammatica ragionevole. Per fornire appigli a chi voglia scegliere con responsabilità e cognizione di causa, nel rispetto delle regole comuni e a tutela di chi è più debole*.

 

 

Una premessa è d'obbligo: sono una grammatica italiana, anche se non parlo come un libro stampato. Come studiosa della nostra lingua ho lavorato e lavoro alla frontiera tra norma e usi della lingua, con attenzione ai fenomeni dell'italiano in movimento e alle esigenze dell’apprendimento e insegnamento dell'italiano, oggi.

La prospettiva “ragionevole” con cui guardo alla lingua è profondamente influenzata, oltre che dalla letteratura linguistica e filosofica, dalla mia lettura di Gramsci. Considero la norma linguistica il frutto di un comune accordo, il cui rispetto tutela chi è più debole, e guardo alla grammatica che la descrive come a uno strumento di possibile emancipazione. A patto che sia scientificamente fondata e alleggerita del peso sia delle misconcezioni (accumulatesi in secoli di trasmissione dogmatica) sia delle semplificazioni veicolate oggi dai social media (in modo più pervasivo e non necessariamente più democratico).

Questa premessa mi pare necessaria non tanto in funzione “autoritativa”, cioè per dare valore a quanto sto per dire, ma per chiarire il mio posizionamento: parlo in quanto donna (consapevole che le condizioni che fino a ieri rendevano la mia parola meno credibile la legittimano oggi, almeno all’interno del dibattito in questione); parlo in quanto studiosa (con la serietà e la responsabilità che ciò comporta, a prescindere dal genere di appartenenza); parlo in quanto persona caratterizzata da un certo tipo di sensibilità e da convinzioni che ritengo opportuno esplicitare.

In questo intervento guarderò a lati positivi e negativi delle proposte fatte da chi vorrebbe rendere la lingua italiana più rispettosa delle differenze di genere, scegliendo il punto di vista di una linguista e insegnante responsabile, che cerca di guardare con pari sensibilità e sensatezza alle richieste di “manipolazione” linguistica finalizzate alla (in)visibilità di genere. Come rimanere in ascolto del bisogno di riconoscibilità di cui sono manifestazione, evitando di irrigidirsi in una normatività insofferente, e provare a rilanciare la sfida innalzando il livello del dibattito?

 

Di che genere stiamo parlando?

In primo luogo, intervenendo nel dibattito, bisognerebbe prendere in esame (possibilmente senza pregiudizi ideologici) il «genere» inteso come categoria socioculturale, distinguendolo dal concetto di «sesso (biologico)»: si tratta di un’accezione relativamente “nuova” del termine genere, frutto di un calco dell’ingl. gender, accolta dai dizionari italiani più aggiornati. Un esame delle diverse definizioni circolanti del termine consentirà di mettere a fuoco i temi al centro del confronto tra generazioni. L’accezione di ‘appartenenza all'uno o all'altro sesso, spec. con riferimento al contesto culturale o professionale dell'individuo: discriminazioni di genere’ (Zingarelli), che ha ispirato tante azioni politiche per le pari opportunità, è la stessa cui fanno riferimento oggi le comunità militanti per i diritti civili? O ciò di cui si dibatte è piuttosto il concetto di identità di genere, locuzione registrata dal nuovo De Mauro e così definita dal vocabolario Treccani: ‘la costellazione di caratteri […]  che definiscono il genere in sé stesso in quanto posseduto, accettato e vissuto dall’individuo nella storia familiare da cui proviene e nella società in cui vive’? Un anglismo, ancora una volta, benché nascosto dalla perfetta italianizzazione della locuzione.

Analogamente, bisognerebbe distinguere il genere come categoria socio-culturale dalla categoria grammaticale di «genere», che in italiano oppone Maschile e Femminile e si manifesta attraverso la differenziazione di forme pronominali e di desinenze nominali, oltre che nei meccanismi dell’accordo (per esempio tra il nome e l’articolo che lo determina o l’aggettivo che lo modifica). Il genere Neutro (di cui si reclama il bisogno) esisteva in latino, è vero, ma era usato prevalentemente per distinguere ciò che è inanimato da ciò che è animato, ed è scomparso per morte naturale nella “catastrofe” che ha portato alla nascita dell’italiano. Il maschile si è presto imposto, anche perché statisticamente più diffuso, affiancando alla funzione marcata rispetto al genere (maschile come opposto al femminile) quella non marcata rispetto al genere (maschile generico o inclusivo). Si è discusso e si discute della regola che prevede, in presenza di parole di genere diverso, l’accordo al maschile plurale: esistono in effetti altre possibilità, come l’accordo di prossimità o quello di maggioranza, esplorate in altri momenti storici o in altre lingue. Ma non dobbiamo dimenticare che il maschile generico, per quanto frutto di una convenzione, viene acquisito come forma indipendente ed è spontaneamente applicato nel parlato: scegliere di eluderlo vuol dire costringersi a complesse acrobazie linguistiche quando si parla e, nello scritto, a manipolazioni che possono generare incomprensioni.

Rimanendo nel territorio del singolare (d’altra parte, il genere è una proprietà individuale), dobbiamo tenere presente in primo luogo che nella lingua maschile non vuole dire necessariamente ‘del maschio’ né femminile ‘della femmina’ (questa identificazione automatica è una banalizzazione frutto di un pregiudizio realistico che nulla ha a che vedere con la grammatica). In secondo luogo, la categoria del genere si manifesta in modi complessi, non riducibili all’opposizione di desinenze (come -o/-a) nella flessione di nomi, articoli o aggettivi. A livello morfologico, infatti il genere grammaticale agisce anche nella formazione delle parole (con l’alternanza di suffissi in parole come let-tore/let-trice, per esempio); in molti casi, inoltre, la codifica del genere non è affidata alla morfologia del nome, ma dell’articolo che lo determina (il parlante, la parlante). A livello sintattico, poi, la selezione delle forme finalizzata all’accordo delle parole (il bravo lettore, la brava lettrice) deve interagire con la selezione delle diverse varianti a scopo eufonico (l’abile lettore, il buon lettore).

Di fronte a soluzioni come allǝ lettorǝ o lз lettorз (presenti in un articolo di questo stesso Portale) si può obiettare che lettorǝ rimane un nome maschile, anche se ha nascosto la coda, e che lз lettorз è una sequenza priva di eufonia oltre che di grammaticalità (che peraltro genera omofonia con l’elettore). Quanto al nuovo pronome “non-binario” lǝi citato nel testo, la fragilità della proposta appare subito evidente se consideriamo la complessità del nostro sistema linguistico, che per la funzione di pronome soggetto necessita di forme adatte a comparire in posizione tonica (sede preclusa alla vocale indistinta) e richiederebbe comunque altre forme oltre a quella funzionante come soggetto (si tratterebbe di sostituire non solo lui/lei, ma gli/le e la/lo).

Decidere di agire sulla terminazione o sul corpo delle parole per occultare il genere, in ogni caso, non equivale a intervenire solo sull’ortografia (non si tratta di cambiare una lettera, sostituendola con un simbolo più “neutro”): vuol dire intaccare in profondità la morfologia della nostra lingua, smagliandone anche la sintassi (che non può prescindere dalla regola dell’accordo) e la testualità (l’accordo delle parole, anche a distanza, è uno dei requisiti della buona formazione dei testi perché contribuisce alla coesione, cioè alla compattezza del discorso).

Sarebbe comodo, certo, pensare di estendere un espediente ‘semplice’ (facilmente accessibile oramai sulle tastiere alfanumeriche) per risolvere i nostri problemi di (in)tolleranza e convivenza civile, se non ci fosse una controindicazione tanto forte da agire come dissuasore: non solo avalleremmo una soluzione semplicistica, ma ci sottrarremmo alle regole grammaticali della nostra lingua, acquisite in modo libero e spontaneo da ogni parlante madrelingua.

A differenza infatti dei femminili dei nomi di professione e carica come sindaca, ministra, architetta, ingegnera, formati secondo le regole della nostra lingua e perfettamente grammaticali (per quanto “nuovi” possano suonare alle nostre orecchie di parlanti), l’occultamento delle desinenze costituisce una forzatura del sistema. Forzatura che – nell’alimentare il nostro senso di appartenenza a una comunità ristretta in cui ci riconosciamo (di militanti per i diritti civili o di simpatizzanti verso la causa), o la nostra “distinzione sociale” (mostrandoci conformi alla “correttezza” sociale e politica imperante) – ci esilia dalla comunità più ampia di parlanti.

D’altra parte, come è stato notato, l’uso non omogeneo e incoerente dei simboli non alfabetici (come l’asterisco o il cosiddetto schwa nei testi che lo adottano) mostra da sé i limiti dell’operazione. Nell’uso che viene fatto dello schwa, a rigore, non si potrebbe neppure parlare di simbolo: si tratta più propriamente di un logo linguistico, dal momento che manca la corrispondenza con un suono effettivamente realizzato nella lettura (per questo motivo, qui e altrove, si parla di “e rovesciata”). Non è possibile pronunciare un asterisco; quanto allo schwa, realizzare il suono indistinto indicato dal simbolo fonetico avrebbe come risultato quello di portare progressivamente al troncamento delle parole che pronunciamo, rendendole irriconoscibili – peraltro in un contesto comunicativo (il parlato) che è meno pianificato dello scritto e che non permette di tornare indietro in caso di errore o di incomprensione. Che le proposte più discusse trovino un loro naturale limite di applicazione nella lingua parlata – che è la “natural favella”, la “lingua viva e vera”, attraverso cui passano i nostri scambi quotidiani – dovrebbe farci fermare e riflettere.

Usare una lingua rispettosa del genere e dei generi non vuol dire usare una lingua eslege e agrammaticale, ma sfruttare al meglio le risorse della lingua facendo proposte coerenti e sostenibili, sapendo dove collocare il limite degli interventi.

 

Senza generalizzare né "genderizzare"

In questo testo ho scelto volutamente di ricorrere a costruzioni che aggirano la marcatura di genere per mostrare come si possa, usando la lingua responsabilmente e nel rispetto della grammatica, parlare di genere senza forzature banalizzanti. Chi, essendo sensibile al tema dei diritti civili, preferisce questa strada a quella dell’occultamento delle desinenze con vari stratagemmi grafici lo fa non per conservatorismo o per purismo, ma nella convinzione che non si possono eludere le regole che presiedono alla costruzione dei nostri discorsi senza renderli incomprensibili a quella parte della popolazione che non ha un pieno dominio del codice (chi non è madrelingua, per esempio) o ha un accesso limitato alla varietà scritta o parlata della lingua (per situazioni di cecità, sordità, dislessia e altre forme di neurodiversità). Tutte queste persone, che hanno diritto di accedere ai testi e ai discorsi in ogni situazione comunicativa, beneficiano peraltro del trattamento automatico della lingua tramite programmi di sintesi e riconoscimento vocale, traduzione immediata ecc. che presuppongono la riconoscibilità delle parole e la loro analisi morfologica ai fini dell’etichettatura o tagging. D’altra parte, anche le nostre semplici ricerche sul web, nonché i suggerimenti che riceviamo in caso di errori di digitazione, funzionano grazie a tecnologie linguistiche cui ogni abile utente della rete farebbe fatica a rinunciare.

Se non vogliamo che la nostra lotta contro la xenofobia e l’abilismo, oltre che contro il sessismo, appaia come un pretesto utile per alzare la voce, non possiamo ignorare queste istanze.

 

Chi includiamo nella 'lingua inclusiva', e chi escludiamo?

Quando usiamo un linguaggio “inclusivo” dovremmo chiederci di quali diritti stiamo promuovendo la visibilità, e a danno di quali altri. Non si tratta di giudicare belle o brutte, buone o cattive le soluzioni che occultano il genere grammaticale rendendo irriconoscibili e irrelate le parole, ma di ritenerle sostenibili o insostenibili. Non si tratta di mettere al bando sedicenti “esperimenti”, ma di valutarne le conseguenze quando le sperimentazioni escono dall’uso militante e della comunicazione scritta personale. Compromettendo i diritti delle minoranze meno rumorose, tra cui rientrano anche “i minori” che vorremmo formare a un dominio sicuro del codice scritto, oltre che a un immaginario ricco e non stereotipato.

Come scrive il neuroscienziato Stanislas Dehaene in Imparare (2019), «Per imparare a leggere, solo l’allenamento fonetico, che richiama l’attenzione sulla corrispondenza tra lettere e suoni, attiva il circuito della lettura e consente di imparare in modo efficace».

Salvaguardare la consistenza grafica delle parole, dunque, è una condizione necessaria per garantire l’apprendimento della lettura, nonché la fluidità nella lettura adulta (che si appoggia sul riconoscimento immediato delle parole attraverso le lettere iniziale e finale). Una ragione in più per frenare gli entusiasmi nei confronti delle proposte gender-fair di natura “creativa” che, offuscando le desinenze, compromettono la leggibilità dei messaggi scritti. Ciò accade in particolare quando non ci si limita a inserire asterischi o altri simboli in luoghi “sensibili” del testo – come l’intestazione o la fine di un messaggio o di una conversazione (car* collegh*, ciao a tutt*) – ma si pretende di estenderli a tappeto (o ad libitum) senza preoccuparsi del tipo di testo con cui si ha a che fare e della coerenza della scelta: sottovalutando peraltro le conseguenze politiche di un gesto che, più che valorizzare le differenze, le nasconde. E finisce, anche nel discorso pubblico, per occultare le disuguaglianze, che nella nostra società non riguardano solo l’appartenenza di genere.

Una intersezionalità che non faccia i conti con la stratificazione sociale e culturale della popolazione e con la nostra storia (anche linguistica) rivela i propri limiti, prima che quelli del mondo patriarcale che vorrebbe combattere.

Come ha ben mostrato Andrea Moro nel volume La razza e la lingua (2019), appellarsi poi alla teoria (scientificamente molto discussa) del “relativismo linguistico” per giustificare le forzature del sistema è un’ipotesi poco attraente per chi voglia “decolonizzare” il proprio pensiero e combattere il razzismo insieme con il sessismo. Del resto, anche uno dei padri del relativismo, il linguista (più evocato che letto) Edward Sapir, scriveva: “Nuove esperienze culturali rendono spesso necessario ampliare le risorse di una lingua, ma tale ampliamento non è mai un’aggiunta arbitraria ai materiali e alle forme già esistenti; non è che un’ulteriore applicazione dei principii già in uso”.

 

Per una lingua non museificata, non autoritaria

Non possiamo tacere infine che anche simboli e parole “identitarie” brandite come armi e usate in modo indistinto possono diventare strumento di offesa, oltre che di difesa, e aprire la strada a un “linguaggio autoritario” non meno sprezzante e intollerante di quello che vorremmo contrastare, capace di imporsi con la forza del conformismo culturale. Con il rischio di trasformare una nobile causa in una moda linguistica da sfruttare commercialmente, come mostrano gli esempi di gender washing messi in atto da aziende e istituzioni a scopo di autopromozione.

Per contrastare queste derive autoritarie possiamo solo appellarci alla responsabilità individuale e all’affezione verso l’italiano per la capacità che ha di garantire a ogni parlante quel senso di appartenenza a una comunità che tanta parte ha nella costruzione della nostra identità (altrimenti, perché fare la fatica di continuare a parlare e scrivere in una lingua ‘antieconomica’ come la nostra?).

Rispettare la lingua comune è un dato imprescindibile se vogliamo essere compresi e rispettati.  E rispettare una lingua vuol dire in primo luogo riconoscerne la dimensione ‘altra’: non trattarla alla stregua di un corpo individuale sul quale possiamo agire in base al nostro desiderio, ma come dispositivo simbolico, che ci impone di passare le nostre scelte al vaglio della norma condivisa dall’intera comunità di parlanti. Non ha senso, per esempio, dire che la lingua è “binaria”, come se fosse una persona con un orientamento sessuale definito: la lingua è un sistema astratto e come tale si spiega con la lingua – "la grammatica non deve rendere conto di nessuna realtà", ha scritto Ludwig Wittgenstein.

L’uso linguistico individuale, insomma, deve scendere a patti con l’uso sociale per non diventare abuso. Solo a questa condizione, del resto, la lingua può rimanere una fonte inesauribile di mediazioni: si tratta di trovare un terreno di mediazione tra il nostro diritto all’autodeterminazione e alla libera espressione da una parte e le esigenze della collettività dall’altra. A garanzia della comprensibilità reciproca, che è presupposto della democrazia.

E ciò è tanto più vero nei testi istituzionali, in cui l’affezione per l’italiano dovrebbe portarci a valorizzare la lingua comune intesa come bene culturale”, da preservare in una dimensione non museificata, ma neppure subordinata alle logiche di agende politiche e sociali in rapido cambiamento.

 

Chi volesse approfondire la prospettiva della grammatica filosofica o alcuni dei concetti qui appena accennati può leggere:

C. De Santis, La sintassi della frase semplice, Il Mulino, Bologna, 2021.

C. De Santis e M. Prandi, Grammatica italiana essenziale e ragionata, Torino, UTET, 2020.

M. Prandi e C. De Santis, Manuale di linguistica e grammatica italiana, Torino, UTET, 2019.

 

*Il contributo anticipa i contenuti di un intervento più ampio in uscita in uno Speciale Lingua Italiana-Treccani.it del prossimo mese.

 Crediti immagine: Giggity miggity, Public domain, attraverso Wikimedia Commons

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Ordito, trama, fili e “testura” della tela-testo

 

Il volume Testualità (Roma, Carocci, 2021, 377 pp.) costituisce il quinto e penultimo capitolo di una grande opera dedicata alla storia dell’italiano scritto (Storia dell’italiano scritto, a cura di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin), riletta alla luce delle più aggiornate metodologie di analisi linguistica, col supporto di strumenti lessicografici e ampie basi di dati spogliabili elettronicamente. I curatori hanno affidato, come di consueto, a studiose e studiosi di rilievo la trattazione dei diversi aspetti del tema indagato: in questo volume, la dimensione testuale in ottica diacronica.

 

Attraversamenti

 

Al centro viene posto dunque il testo nella sua dimensione (etimologicamente) tessile, talora rigida talora elastica (per riprendere la nota opposizione sabatiniana), con trame più e meno fitte, motivi predisposti dal gusto del tempo e dalle tecnologie disponibili, richiami che sempre si stabiliscono con modelli anche lontani, ricami sovrapposti dall’ingegno individuale.  

Come sottolineano i curatori nell’Introduzione al volume, alcuni concetti chiave della linguistica del testo attraversavano già altri volumi della collana, data la rilevanza che questa dimensione di analisi ha acquistato negli studi degli ultimi cinquant’anni: non solo nella considerazione dei tipi di testo e delle strategie generali di composizione, ma nello studio fine della funzione che singole parole (anche “semplici” articoli) possono assumere nell’architettura complessiva di un testo.

 

Le coordinate contestuali del discorso

 

L’articolo di Massimo Palermo ordisce la tela del volume, ripercorrendo lo sviluppo della linguistica testuale, a partire dal cambiamento di prospettiva suggerito a metà del secolo scorso dai fortunati studi di Eugenio Coseriu e di Harald Weinrich: un percorso che innesta su una solida componente ermeneutica (rappresentata in Italia dai lavori della pioniera Maria Elisabeth-Conte) un deciso orientamento funzionale (secondo la via indicata in Europa da Michael Halliday e intrapresa tra gli altri da Michele Prandi, con la sua valorizzazione delle «risorse a disposizione del parlante», p. 19) e una rinnovata attenzione alle coordinate contestuali del discorso, eluse dalla tradizione formalista, incentrata sulle strutture di frase e affezionata a «metafore che sottolineano il carattere discreto e la stabilità, fornendo un’immagine della lingua come oggetto fisso e altamente strutturato (come un edificio o un albero)» (la citazione, di Langacker, si trova a p. 23). In questo libro, invece, prevale l’immagine dei fili intessuti in una tela a maglie più e meno fitte, più adatta a descrivere «un contesto complesso, a molte voci o a molti capi», come scrive la filosofa Francesca Rigotti in un libro dedicato alla pervasività delle metafore della tessitura nella costruzione del discorso filosofico occidentale (Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare, il Mulino, Bologna, 2002, p. 81).

Ai cenni sulla storia della disciplina si accompagna la (ri)definizione di alcuni concetti chiave, come la distinzione tra testo e discorso, o tra regole grammaticali e regole testuali, e l’introduzione di altri concetti emergenti come quello di «grado di codifica di una relazione» (sviluppato da Prandi) o quello di texture con cui il gruppo basilese che ha per capofila Angela Ferrari) indica l’insieme dei legami linguistici e concettuali che tengono insieme un testo (del termine inglese – mutuato da Hallyday che opponeva texture e structure – Emilio Manzotti e Luciano Zampese hanno proposto l’adattamento italiano testura). Trovano spazio in questa panoramica anche forme nuove del testo come gli ipertesti e iperdiscorsi, legate alla specifica modalità comunicativa realizzata dallo scritto in interazione dialogica caratteristico dei nuovi media (un saggio a parte all’interno del volume, firmato da Gianluca Lauta, è dedicato proprio al discorso digitale). Il tema delle tipologie testuali, qui solo accennato, è ripreso nel volume da Anna Maria De Cesare, che approfondisce le classificazioni di testi in tipi e generi anche in chiave storica, con un’attenzione particolare per la scrittura scientifica.

 

«Esiste una linguistica testuale diacronica?»

 

Il cuore dell’articolo di Palermo è rappresentato dalla risposta alla domanda “Esiste una linguistica testuale diacronica?”, che occupa l’intero paragrafo secondo e, riprendendo alcuni temi già sviluppati nel suo volume del 2013 (Linguistica testuale dell’italiano, il Mulino, Bologna), approfondisce il tema della variabilità delle risorse e delle strategie testuali distinguendo tra aspetti relativamente stabili (come la coesione determinata dal collegamento interfrasale e dalle catene anaforiche) e aspetti soggetti a forte mutamento (come la gestione della progressione tematica). In generale, a differenza dei cambiamenti che hanno interessato gli aspetti grafici, fonologici e morfo-sintattici della lingua, quelli testuali sono meno visibili sia perché coinvolgono unità più ampie sia perché investono più spesso la funzione che non la forma. Palermo si sofferma su alcuni aspetti già indagati in suoi lavori precedenti, come la presenza e la selezione del pronome personale soggetto, riconducibile a ragioni pragmatico-testuali e non meramente sintattiche. Una gamma interessante di fenomeni testuali analizzabili in chiave storica è offerta da quelli che Palermo raggruppa sotto le etichette di «ipocoesione e ipercoesione» (p. 47 s.), con una terminologia ricalcata sui concetti prandiani di ipocofica e ipercodifica (di «iperconnessione e ipoconnessione» parla invece Davide Mastrantonio nel contributo dedicato ai connettivi). L’ipercoesione è rappresentata per esempio, all’interno dello stile periodico latineggiante tipico dei prosatori trecenteschi, dalla coniunctio relativa o dall’uso di connettivi come il conciossiacosaché stigmatizzato da Alfieri lettore del Galateo di Giovanni della Casa: fenomeni sui quali ritorna all’interno del volume il saggio di Letizia Lala dedicato ai coesivi.

 

Il cambio di sensibilità inaugurato dall’Illuminismo

 

A tal proposito, possiamo osservare che tutta la famiglia delle locuzioni esprimenti la causa o il motivo presenta nei primi secoli una grande ricchezza di forme che inglobano spesso un elemento anaforico (è il caso di ciò nel nesso causale conciossiacosaché) o cataforico (come ciò nella finale acciocché), solo in alcuni casi cristallizzatesi in congiunzioni univerbate, con tendenza a eliminare il coesivo integrato (acché) o a sostituirlo con un nome incapsulatore (affinché, locuzione costruita intorno al sostantivo maschile fine, soppianta progressivamente acciocché: cfr. De Santis in Prandi, Gross e De Santis [2005]). Dell’evoluzione storico-linguistica che porta a sentire questi elementi di collegamento come macchinosi e pesanti, almeno a partire dal Settecento, Palermo dà una chiave di lettura persuasiva, che chiama in causa non solo il modello razionale della prosa francese, ma un cambio di sensibilità inaugurato dall’Illuminismo, che riorienta il patto comunicativo tra autore e lettore all’insegna della fiducia e della cooperazione interpretativa (p. 49).

 

Tipologie testuali

 

Gli ultimi due paragrafi danno conto di due filoni di ricerca recenti nell’ambito della linguistica testuale: da un lato, quello che indaga le «tradizioni discorsive» che si formano a seguito della ripetizione e convenzionalizzazione di certi tratti tipici di un genere testuale, dall’altro la pragmatica storica, che negli ultimi anni ha studiato l’evoluzione semantica di molti connettivi italiani.

Difficile dar conto della ricchezza di stimoli che vengono dalla lettura dei tanti saggi documentatissimi che compongono il volume, ricco di esempi attinti a testi di poesia e prosa (non solo letteraria) dal Duecento al Duemila. Nel saggio di Anna Maria De Cesare, oltre che dell’evoluzione storica delle tipologie testuali, si dà conto degli strumenti di indagine comuni utilizzati come fonti del volume: archivi e banche dati a carattere diacronico filologicamente affidabili create negli ultimi decenni in seguito allo sviluppo della linguistica informatica (al tema è dedicato il volume di uno dei curatori, Lorenzo Tomasin, Impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia, Carocci, Roma 2017).

 

L’intertestualità

 

Il saggio di Chiara de Caprio indaga un tema che intreccia linguistica testuale, teoria letteraria e studi retorici, l’intertestualità, partendo da procedimenti locali come la citazione e l’allusione che realizzano «sottili modulazioni dialogiche tra voci» (p. 93), attraverso forme sempre più esplicite e convergenti con il procedere dei secoli, in un gioco di contaminazioni che raggiunge l’acme nella prosa di scrittori novecenteschi come Italo Calvino o Cesare Garboli (mi piacerebbe aggiungere Giuseppe Pontiggia, abilissimo sperimentatore di forme saggistiche polifoniche e risuonanti). Potrebbe stupire constatare che una modernità costruitasi sulla base del rifiuto del principio di autorità continui ad affidarsi ad argomenti di autorità come la citazione: in realtà, come ha ben scritto Myriam Revault d’Allonnes (Le pouvoir des commencements. Essai sur l’autorité, le Seuil, Paris 2006), il dispositivo viene riutilizzato dai Moderni per inserirsi in una dimensione temporale che è parte ineludibile del meccanismo che porta ad autorizzarsi e a riconoscere al proprio dire un’autorità di tipo nuovo, a carattere generativo, che si dispiega nel farsi del testo. Una seconda parte dell’articolo di De Caprio affronta poi le forme esplicite e implicite, dirette e indirette di riproduzione dei discorsi, sulla scia degli studi di Mortara Garavelli e Calaresu.

 

La dialogicità

 

Emilia Caleresu torna in prima persona, all’interno del volume, sul tema della dialogicità, indagando l’insieme dei segnali testuali che segnalano l’apertura di un dialogo tra autore e lettore, ricostruiscono o citano discorsi altrui, oppure portano a espressioni riflessioni autoriali. Viene qui affrontato il tema della stilizzazione dell’oralità all’interno del testo scritto, in particolare nei dialoghi, e della diversa incidenza della dialogicità in tipi di testi diversi, alcuni dei quali mostrano a livello storico una chiara tendenza a ridurre i segni di dialogicità in direzione di una maggiore impersonalità (è il caso del testo scientifico).  

 

Una terna di saggi sulla coesione

 

Il volume si chiude con una terna di saggi dedicati alla descrizione delle risorse al servizio della coesione: oltre a quello già citato di Letizia Lala sui coesivi, quello di Davide Mastrantonio su un tipo di coesivi che ampliano lo sguardo verso i “movimenti testuali”, i connettivi (con un’opportuna sezione dedicata alla definizione della categoria, sulla cui utilità oggi ci si interroga, data la sua natura composita e multifocale), e uno di Luca Cignetti sulla deissi, un fenomeno solitamente indagato in ambito pragmatico e qui inserito in ragione della sua funzione di cerniera tra testo e contesto.

Al lettore o alla lettrice specialista gioverà un confronto tra le tante prospettive (e linee di fuga) di questo volume e quelle delineate in un altro volume uscito quest’anno per lo stesso editore: Orizzonti della linguistica. Grammatica, tipologia, mutamento di M. Prandi, P. Cuzzolin, N. Grandi, M. Napoli, che intreccia la prospettiva della linguistica funzionale con i contributi della tipologia linguistica e della linguistica storica, offrendo un decentramento utile a chi si appresti a guardare al passato con le lenti del presente.

 

Andare a scuola di testura

 

All’insegnante o alla persona di cultura sarà utile riflettere su quanta enfasi si dedichi, fin dai libri di testo per la scuola primaria, alla classificazione dei testi in tipi e sottotipi, e su quanto poco si sappia a scuola della “testura”, della grana del testo indagata in questo e in altri strumenti pubblicati dallo stesso editore (tra cui, da ultimo, Le strutture del testo. Teoria ed esercizi, di Angela Ferrari, Letizia Lala e Luciano Zampese), fatta di fili visibili e invisibili che dobbiamo imparare a saggiare per cogliere la ricchezza mobile e cangiante del testo, cominciando da quello letterario.

 

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La sintassi del lessico. Manuale di linguistica aperto all'informatica e alla filosofia

 

Marco Fasciolo, Gaston Gross

La sintassi del lessico. Manuale di linguistica aperto all'informatica e alla filosofia

Novara, De Agostini Scuola/Utet Università, 2020

 

Il volume costituisce la versione italiana di Manuel d’analyse linguistique. Approche sémantique-syntaxique du lexique (Presses Universitaires du Septentrion, 2012), curata da Marco Fasciolo, docente di Linguistica a Parigi presso la Sorbonne Université, con Introduzione di Michele Prandi, linguista di estrazione filosofica di cui Fasciolo è stato allievo in Italia prima di continuare le sue ricerche in Svizzera, dove ha conseguito il Dottorato sotto la guida di Emilio Manzotti, e poi in Francia, dove ha ottenuto un Master in Linguistica informatica nell'Università di Paris 13, che ospitava il glorioso LLI (Laboratoire de Linguistique Informatique), poi LDI, creato da Gaston Gross. Se il traduttore compare in prima di copertina, addirittura come primo autore, è perché il libro (analogamente per quanto era accaduto col volume di Michele Prandi, Gaston Gross, Cristiana De Santis, La finalità. Strutture concettuali e forme d’espressione in italiano, Olschki, 2005) non è una semplice traduzione, ma un altro libro, che dal primo trae origine, arricchito di contributi originali e capitoli interamente nuovi opera del traduttore-autore. La traduzione e l’adattamento, del resto, hanno comportato anche un’operazione di “conciliazione” del testo di partenza con il filone di ricerca linguistica italiana più aperto al dialogo con la linguistica informatica francese. L’apporto di Fasciolo al volume originale (un manuale di linguistica generale con un taglio incentrato sul lessico) è dato proprio dall’innesto, nell’approccio al trattamento automatico dei dati linguistici tipico della scuola francese di Gaston Gross (la cui terminologia era già stata introdotta nel volume citato di Prandi, Gross e De Santis, al quale si rimanda per la trattazione della finalità), di una grammatica e una lessicologia “filosofiche”, nel solco del quadro concettuale e metodologico sviluppato da Michele Prandi: una prospettiva di analisi attenta a esplicitare i presupposti dei ragionamenti posti alla base della descrizione linguistica.

 

Ma andiamo con ordine, cercando di spiegare le ragioni di un titolo che combina in un unico sintagma due ambiti dell’analisi linguistica solitamente distinti (la sintassi e il lessico), e di un sottotitolo che coordina due ambiti di studio solitamente lontani (l’informatica e la filosofia). Il manuale, in effetti, tenta di far dialogare semantica, sintassi e costruzioni lessicali: lo studio delle parole e del loro significato, tenuto conto del modo in cui questo cambia in relazione alla combinazione e distribuzione delle parole e al grado di “fissità” di determinate costruzioni (che si cristallizzano in espressioni idiomatiche o modi dire). La descrizione è basata su dati raccolti da grandi corpora ed è finalizzata al trattamento automatico della lingua, ma non rinuncia a una verifica epistemologica dei presupposti teorici.

 

La domanda, e insieme la sfida, al cuore del libro è: la sintassi è dentro, al di qua o al di là del lessico? Sappiamo che la linguistica novecentesca ha messo la sintassi in primo piano, ma oggi questo primato, o comunque questa centralità, è messo in discussione da vari approcci che vedono nelle “costruzioni lessicali” un alter o un prius. Alla base, rimane un interrogativo cruciale: la sintassi e la semantica sono guidate da principi comuni? In definitiva, la lingua è una struttura omogenea, formata da strutture isomorfe? A questi interrogativi cerca di rispondere Michele Prandi nelle pagine introduttive, mostrando come vi siano un’area della sintassi, di natura concettuale, interna al lessico e un’area formale, al di là del lessico, che offre il terreno ideale per studiare e ricostruire la prima.

 

Uno sguardo all’indice consente di farsi una prima idea dei contenuti del libro, che mette in primo piano le proprietà relazionali delle parole. Il Capitolo I si intitola infatti Schemi di relazioni e mette al centro le funzioni principali delle parole relazionali: quella di predicato (parola capace di generare relazioni) e quella di argomento (parola capace di entrare in schemi di relazione), cui si aggiunge la funzione sussidiaria di “attualizzazione”, consistente nella diversa realizzazione frasale di predicati e argomenti. Già in questo capitolo si vede all’opera la fusione concettuale realizzata da Fasciolo: la nozione grossiana di predicati “di primo ordine” (che istituiscono processi) e “di secondo ordine” (che stabiliscono relazioni tra processi) entra nel crogiuolo assieme all’idea prandiana di “relazioni concettuali tra processi” cui le frasi complesse (o, in alternativa, la giustapposizione) sono chiamate a dare forma.

 

Il Capitolo II (Frase e predicato) fa interagire la concezione distribuzionale della frase (l’analisi in costituenti immediati, tipica degli approcci formali) con quella concettuale (sviluppata dai logici di fine Ottocento e ripresa dagli strutturalisti francesi, come Lucien Tesnière e successivamente Maurice Gross), messa al servizio di un approccio funzionale. Ne risulta una visione della frase che, pur riconoscendo la bipartizione della frase in soggetto e predicato, e pur attribuendo al soggetto una sua primarietà e autonomia, svincola il concetto di “predicato” dalla funzione di costruzione della frase per farne uno “schema” (di relazioni, come anticipato nel Cap. I) che può manifestarsi in forma di frase oppure no: come è noto, anche un sintagma nominale (qui chiamato espressione nominale, EN; EV è invece l’espressione verbale) può avere valore predicativo, sia se inserito all’interno del “predicato nominale” della tradizione grammaticale, sia isolato in quelle che vengono impropriamente chiamate “frasi nominali”.  

 

Il Capitolo III (Impiego predicativo) si sofferma appunto sul caso prototipico: quello in cui lo schema predicativo si sovrappone al verbo. Prima, però, viene chiarito il concetto grossiano di emploi prédicatif, dato da un insieme di proprietà: schema argomentale, significato, struttura interna del processo (Aktionsart: aspetto puntuale, durativo ecc.), ruoli (tematici), relazioni lessicali (di somiglianza o opposizione, e di gerarchia), legami semantici, attualizzazione, ambito d’uso (generale o specialistico) e forma (coniugazione nel caso del verbo). Le prime due proprietà vengono illustrate con l’aiuto di un’altra nozione sviluppata da Gross, quella di classe d’objets (che in Italia è stata ripresa nei primi lavori di Elisabetta Jezek): insiemi (“iperclassi”) e sottoinsiemi (“classi di oggetti”) – delimitati graficamente da simboli uncinati – che permettono di delimitare i tipi semantici di argomenti e le diverse accezioni dei predicati (che di regola sono polisemici): il verbo bere, per esempio, richiede elettivamente un soggetto <animato> (o <essere vivente>) e un oggetto <inanimato> e <liquido>. Anche per i ruoli (una parte sviluppata nel manuale italiano) vengono distinte categorie generali (agente, paziente, destinatario ecc.) e ruoli particolari (con un verbo di transazione commerciale, per esempio, l’agente, può essere un acquirente o un venditore). I legami semantici sono quelli che, nella terminologia di Fillmore, vengono chiamati frames, “cornici” concettuali (costare, comprare, pagare, per esempio, rientrano nella cornice della transazione o scambio commerciale). Il concetto di attualizzazione chiama in causa un’altra categoria sviluppata da Gross: quella di verbe support, verbo dal significato generale (dare, fare, avere, tenere, mettere ecc.) usato per fare da “supporto” e inserire nella frase nomi predicativi (che, a differenza del verbo, non hanno una coniugazione che permetta di inscriverli nella dimensione della temporalità). L’approfondimento sulla forma di predicati diversi da quello verbale ci mette di fronte alle diverse costruzioni cui uno stesso predicato può dar luogo: si può desiderare qualcosa, avere (provare) desiderio di qualcosa, essere desideroso di qualcosa. 

 

Il Capitolo IV approfondisce la nozione di “classe di oggetti”, utilissima per l’etichettatura in ambito informatico e per la costruzione di quelle reti semantiche sulle quali si basano le nostre ricerche online. Anche in questo capitolo è evidente il tentativo di crasi con la prospettiva prandiana: la descrizione del fenomeno consistente nel trasferire una parte degli argomenti appropriati da un predicato a un altro, che dà luogo agli impieghi figurati, è integrato dalla concezione della metafora come espressione di un conflitto concettuale (neutralizzato nel caso di metafore lessicalizzate, che spesso producono reti o “sciami” di metafore coerenti: si veda l’esempio del denaro trattato come un liquido).

 

La Parte III del volume pone coordinate nuove per lo studio delle parti del discorso, categorie alle quali difficilmente sapremmo rinunciare, ma che impongono un ripensamento dei criteri eterogenei (distribuzionali, concettuali, funzionali) in base ai quali vengono definite. Andrà qui notato l’inserimento della funzione trasversale di “determinante”, necessaria per classificare usi comuni di articoli e aggettivi tradizionalmente definiti “determinativi” (dimostrativi, indefiniti, quantificatori). Interamente nuovo rispetto all’edizione francese è il Capitolo 12 dedicato a determinanti e pronomi (quest’ultima categoria avrebbe meritato forse alcuni approfondimenti volti a distinguere almeno l’uso deittico da quello anaforico).

 

La categoria degli aggettivi risulta articolata in aggettivi qualificativi o predicativi e aggettivi argomentali (ulteriormente divisi in aggettivi di relazione, come (guardia) forestale e aggettivi classificatori, come (foresta) amazzonica. Dai determinativi della tradizione vengono scorporati gli aggettivi anaforici, usati per l’attualizzazione spaziale e temporale.  Anche per gli avverbi viene evidenziato l’impiego anaforico, distinto da quello predicativo e da quello argomentale.

 

La categoria dei verbi appare sfaccettata secondo un’articolazione che ritroviamo anche nelle più aggiornate grammatiche dell’italiano (verbi predicativi, copulativi, causativi, procomplementari, aspettuali, modali, supporto). Anche i nomi appaiono, come nei nostri lavori da Prandi in poi, suddivisi in “relazionali” e “classificatori”.

Per ciascuna categoria di parole lessicali si fa attenzione agli usi idiomatici (la dimensione del figement o cristallizzazione lessicale, qui resa con il termine “fissità”), senza per questo farne il perno della descrizione (ma alla fissità viene dedicata l’intera parte IV). 

 

Particolarmente interessante appare la trattazione della categoria di preposizione, alla quale Gross riconosce il valore di predicato di second’ordine: una possibilità che qui è ristretta ai casi in cui, nella terminologia di Prandi, la preposizione è attiva (per esempio in un’espressione come il libro è sul tavolo), non quando la proposizione collega un verbo al suo argomento (in un’espressione come conto su di te la preposizione è semanticamente vuota e selezionata idiomaticamente dal verbo). I parametri usati per circoscrivere le funzioni delle preposizioni (parametro semantico e parametro informativo), vengono estesi al trattamento delle congiunzioni (Cap. 10), considerate sullo sfondo del più ampio problema della connessione intra- e inter-frastica (o transfrastica) e sempre viste nel quadro delle costruzioni in cui si inseriscono o cui danno luogo.

 

All’interno del capitolo 7, dedicato ai Predicati verbali, particolare interesse riveste la trattazione del concetto di “valenza” in rapporto alla “geometria variabile” delle relazioni verbo-argomenti che struttura la frase prototipica.

La valenza è infatti considerata proprietà elettiva dei verbi, che in base alla valenza possono essere classificati e, opportunamente, vengono qui classificati in base alla costruzione massima (cioè quella contenente il maggior numero di argomenti), anche se non si tratta di quella statisticamente più frequente. Si precisa comunque che la valenza è intrinsecamente correlata all’impiego predicativo, e che il significato di un verbo dipende più dalla natura delle classi di argomenti che dal numero di argomenti (isolabili tramite le prove testuali di staccabilità messe a punto da Prandi). Il confronto con ampie basi di dati offerte dai corpora permetterà poi di verificare i diversi “impieghi” del predicato e le diverse accezioni di un verbo, e di affinarne così la descrizione anche in vista del riconoscimento automatico delle frasi in un testo. Insomma, per tornare all’interrogativo inziale: la sintassi può essere trovata dentro al lessico se assumiamo come unità dell’analisi lessicale non la singola parola, ma la frase modello incentrata su un verbo.

 

Per quanto riguarda la definizione concettuale del verbo, e più in generale del processo di cui il verbo spesso rappresenta il canovaccio, la parte V del volume traccia una distinzione tra Azioni (tipo di processo cui il verbo, nella nostra tradizione grammaticale, finisce per essere ridotto), Eventi e Stati. Per i processi incentrati su eventi viene chiamata in causa la categoria di circostanza (temporale e spaziale), che tipicamente incornicia il processo dall’esterno. Sia le azioni sia gli eventi sono poi precisati in relazione a una serie di parametri che permettono di classificarli: a beneficio sicuramente dei calcolatori, ma anche della riflessione filosofica che dalla grammatica può trarre linfa e che porta linfa nuova alla descrizione grammaticale.

 

Particolarmente apprezzabile in questo senso l’aggiunta, rispetto all’edizione francese, dei due capitoli conclusivi (20 e 21) che compongono la VI Parte del volume, in cui Fasciolo fa un bilancio del contributo che la linguistica (intesa in un’accezione il più ampia possibile) ha dato e continua a dare all’informatica ma anche alla filosofia. L’incontro tra filosofia e linguistica, già realizzato da Prandi sul terreno della grammatica, si sposta qui sul terreno del lessico, con la proposta di una “lessicografia filosofica” e l’idea di un dizionario filosofico. Proposta particolarmente utile e stimolante in tempi in cui la descrizione del lessico diventa terreno di scontro ideologico, in nome di una correttezza politica che spesso dimentica o esclude di proposito i presupposti filosofici dei ragionamenti.

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In bella prosa o in versi diversi. La Commedia per i piccoli

 

Il brillante articolo di Giuseppe Antonelli apparso su “La lettura” del 3 gennaio 2021 ricostruisce lo sfondo sul quale si inseriscono le riscritture del capolavoro dantesco destinate ai più piccoli: “il riconosciuto valore didattico-pedagogico riconosciuto all’opera” all’interno della politica scolastica italiana post-unitaria. I primi esempi di titoli ottocenteschi si propongono di offrire il testo “all’intelligenza dei giovinetti”, con una particolare attenzione per quelli di estrazione popolare, arruolati nelle fila degli scolari dall’istituzione della pubblica istruzione. Risale invece al 1922 il primo libro che cerca di avvicinare i ragazzi alla comprensione di Dante presentandone la figura all’interno di una cornice narrativa: una conversazione pedagogica che mette in dialogo il poeta redivivo con i tre nipoti del professor Dino Provenzal (collaboratore della «Voce» di Prezzolini, per i cui tipi esce la prima edizione del Dante dei piccoli). Tra i tanti titoli che hanno presentato la figura di Dante come modello ai più piccoli, citiamo anche Il piccolo Dante di Luigi Ugolini (La Scuola, Brescia, 1929), citato da Giuseppe Pontiggia e da Antonio Faeti come lettura capace di colpire il loro immaginario di bambini. Dal volume di Myriam Costa, I grandi bambini (Il Messaggero di S. Antonio, Padova, 1951), è tratta l’illustrazione di G. Peloso qui riprodotta.

 

 

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Tullio De Mauro: Dieci tesi per una scuola democratica

 

AA. VV.

Tullio De Mauro: Dieci tesi per una scuola democratica

a cura di Silvana Loiero e Edoardo Lugarini

Firenze, Franco Cesati Editore (“Quaderni del GISCEL n. 1”), 2019

 

 

Il volume, che inaugura una nuova serie dei “Quaderni del GISCEL”, ripropone il testo delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica: il documento collettivo scritto da Tullio De Mauro e approvato nel 1975 dal Gruppo di Intervento e Studio per l’Educazione Linguistica Democratica.

 

A ciascuna delle tesi (con l’eccezione delle tesi V, VI, VII, che sono raggruppate) è affiancato il commento di un membro del GISCEL o della SLI (la Società di Linguistica Italiana di cui il GISCEL rappresenta una costola fin dall’anno della sua fondazione (il 1973): Cristina Lavinio, Nicola Grandi, Miriam Voghera, Valter Deon, Alberto A. Sobrero, Rosa Calò con Annarosa Guerriero e Maria Antonietta Marchese, Silvana Ferreri, Silvana Loiero. Ad aprire il volume è un saggio di Emanuele Banfi che ricostruisce la nascita delle Dieci tesi “a partire dal 1963, un anno speciale”: sia perché usciva per Laterza la Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro, sia perché prendeva avvio l’esperienza della scuola media unificata, che avrebbe portato allo scoperto la dinamica di inclusione/esclusione di una scuola “di classe”. Per capire chi fossero i bambini e i ragazzi che le Tesi non volevano lasciare fuori e indietro, possiamo senz’altro pensare a Gianni, approdato a Barbiana dopo essere uscito “analfabeta e con l’odio per i libri” dalla scuola della “professoressa” cui è indirizzata la famosa Lettera (1967). Possiamo pensare anche ai ragazzi “cancelati dalla dotrina” che frequentavano la classe di Laura Migliorini nella borgata romana di Montecucco (le borgate intorno a Roma erano in quegli stessi anni oggetto delle indagini pasoliniane): nella prefazione alla raccolta dei compiti della scolaresca (uscita per Bompiani lo stesso anno in cui vedevano la luce le Dieci tesi, nel 1975), De Mauro invitava a non lasciare nel silenzio i figli di lavoratori e immigrati, perlopiù analfabeti, che iniziavano ad affollare i banchi di scuola. Possiamo pensare, infine, ai “piccoli vagabondi” di cui Gianni Rodari raccontava le avventure sulle pagine del “Pioniere” nei primi anni Cinquanta (poi raccolte in volume nel 1981 per Editori Riuniti): tre ragazzi che vagano dal Sud al Nord per sfuggire alla miseria e allo sfruttamento minorile del secondo dopoguerra. Quando la mamma li “affitta” a un sedicente zio, Francesco e Domenico hanno 14 e 11 anni, ma sono ancora completamente analfabeti: impareranno faticosamente a leggere e ad acquistare consapevolezza della propria condizione di “subalterni” mendicando in giro per un’Italia scossa da catastrofi naturali (l’alluvione del Polesine) e primi fermenti sociali (le lotte contadine, l’emigrazione).

 

Il riferimento a Rodari (provinciale povero, maestro, partigiano, giornalista prima ancora che celebrato scrittore per l’infanzia) non è casuale: De Mauro ha sempre riconosciuto il proprio debito nei suoi confronti – il motto “tutti gli usi della lingua a tutti” viene proprio dalla penna del “favoloso Gianni”, lo “scardinatore della lingua” che aveva saputo riconoscere la “indispensabilità individuale e sociale del linguaggio” e l’importanza del suo radicamento attraverso le attività concrete, la creatività verbale e il felice plurilinguismo della sua “scuola di fantasia” e di libertà.

 

Rodari, del resto, era perfettamente inserito in quel programma di rifondazione di una società democratica – che facesse leva sul coinvolgimento, l’emancipazione e l’assunzione di responsabilità dei più giovani – voluto dal Partito Comunista Italiano come alternativa all’educazione fascista: ne fu anzi protagonista indiscusso insieme a Carlo Pagliarini, animatore dell’Associazione Pionieri d’Italia. Non a caso Maria Antonietta Marchese, nel suo saggio introduttivo, rilegge il paragrafo La scuola democratica del programma del PCI del 1972 e il paragrafo Formazione scolastica del Rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971-1975 per trovarvi conferme della necessità – avvertita dai politici e dagli intellettuali del tempo – di una “necessaria riforma di tutti i livelli di scolarità” (p. 25) finalizzata a estendere il diritto allo studio e a innalzare il tasso di alfabetizzazione.

 

Negli stessi anni, del resto, prendevano corpo tante iniziative editoriali fortemente impegnate in questa direzione: oltre a Einaudi, editore di Rodari, troviamo l’altra casa editrice vicina al PCI, Editori Riuniti, per cui De Mauro disegna la collana dei “libri di base” (tra i primi titoli, la sua Guida all’uso delle parole, 1980, recentemente riproposto da Laterza insieme con il Nuovo vocabolario di base) e pubblica con Mario Lodi nel 1979 il volume Lingua e dialetti. Per Bompiani, oltre al citato Cancelati dalla dotrina (1975), era uscita la parodia di Umberto Eco (alias Dedalus) dei libri di testo per la scuola primaria (Ammazza l’uccellino, 1973), che seguiva a I pampini bugiardi, una “indagine sui libri al di sopra di ogni sospetto” uscita nel 1972 presso l’editore Guaraldi (che nel 1978 avrebbe pubblicato il volumetto di De Mauro e altri, Linguaggio, scuola, società), condotta da Marisa Bonazzi e introdotta da Eco (con il quale Tullio De Mauro aveva firmato come autore un programma a puntate per la RAI andato in onda nel 1974, intitolato “Parlare, leggere, scrivere”). Sono alcuni esempi del multiforme impegno, sovversivo e creativo insieme, per una nuova scuola, razionale e democratica (vale la pena anche ricordare, con Deon, che a partire dal 1976, anno di pubblicazione del Libro di italiano di Raffaele Simone, prende avvio un filone di nuove proposte per la didattica dell’italiano nell’ambito dell’editoria scolastica).

 

Sappiamo che la formula “educazione linguistica” era già stata usata da Francesco D’Ovidio nei decenni successivi all’Unità d’Italia e poi ripresa da pedagogisti come Giuseppe Lombardo Radice (Lezioni di didattica, 1913) e Maria Teresa Gentile (Educazione linguistica e crisi di libertà, 1966). Quello che di nuovo le Dieci tesi aggiungono è l’aggettivo democratico, che ha un preciso valore politico e non a caso diede e dà ancora fastidio: lo ricordava De Mauro in un’intervista del 1995 (ora in T. De Mauro, L’educazione linguistica democratica, a c. di S, Loiero e M.A. Marchese, Laterza, Roma-Bari, 2018, p. 23), sottolineando come “una buona educazione linguistica non possa non mirare alla promozione delle capacità linguistiche di tutti, non possa non essere democratica, profondamente conforme all’art. 3, comma secondo della Costituzione della Repubblica italiana” – che ci ricorda il dovere di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscano una piena partecipazione alla vita sociale e politica.

 

Già John Dewey aveva insistito sull’importanza dell’educazione come condizione fondamentale per la realizzazione di una società democratica (Democrazia e educazione è un titolo uscito in traduzione nel 1961 per La Nuova Italia, la casa editrice che pubblicherà la prima serie dei quaderni del GISCEL). L’impegno a “promuovere una istruzione che rialzi in tutta la società i livelli di cultura” per “realizzare una compiuta democrazia che dia a tutte e tutti una effettiva pari dignità” era inoltre presente nella riflessione di Pietro Calamandrei, uno dei padri della Costituzione (le citazioni sono tratte dall’introduzione di De Mauro al volumetto Per la scuola, Sellerio, 2008). L’attenzione al dettato costituzionale, infine, era stata al centro delle rivendicazioni di don Milani: “voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione” reclamavano i ragazzi di Barbiana rivolti alla professoressa.

 

Anche le Dieci tesi chiamano in causa la “parzialità”, la “inutilità” e addirittura la “nocività” dell’insegnamento grammaticale tradizionale: non per sminuire il valore della riflessione sulle strutture della lingua, ma per promuoverne una versione più mobile e più nobile insieme, basata sull’osservazione intelligente e graduata dei fatti di lingua, possibile solo all’interno di “un curriculum grammaticale alleggerito rispetto a ciò che la consuetudine chiedeva nelle scuole elementari, appesantito o, anzi, creato ex novo nella scuola media superiore” (De Mauro 1995/2018, p. 28). Come giustamente sottolinea Voghera nel volume, l’obiettivo è “la costruzione di una grammatica attiva, che non sia cioè imparata una volta per tutte, ma che sia modellata sui bisogni comunicativi reali, e quindi in continua crescita” (p. 79).

 

Interessante la nota di Deon sulla struttura e l’organizzazione del testo delle Dieci tesi, che “sale a spirale, nel quale vengono progressivamente annunciate le idee-forza che vengono tematizzate e sviluppate in singole tesi dedicate” (p. 92). Un movimento che simula quello del pensiero, in cui le idee nascono e crescono e lasciano aperture, spazi di ampliamento successivo. In questi spazi si colloca il libro, che cerca di calare ciascuna delle tesi nella realtà attuale, anche sotto forma di gioco a punti – come fa Sobrero nel suo intervento sui contenuti, risultati e limiti dell’educazione linguistica nella scuola italiana. Come giustamente sottolinea Marchese (p. 112), le tesi sono oggi al centro di un paradosso: da un lato risultano tuttora poco conosciute e poco praticate dagli insegnanti (benché ampiamente recepite dai documenti ministeriali, a partire dai Programmi del 1979 fino alle recenti Indicazioni nazionali del 2012: cfr. Lavinio, p. 54), dall’altro i principi dell’educazione linguistica democratica sono così diffusi da essere additati da alcuni come responsabili di quell’abbassamento dell’assicella che sarebbe all’origine del presunto “declino” della scuola italiana. Oltre a smontare intelligentemente questi argomenti – ancora così pervasivi nel discorso pubblico – il libro ha il merito di ricordarci quanto resta ancora da fare: ad esempio per la trasversalità linguistica (tutti gli insegnanti devono preoccuparsi dell’italiano), o per un pluringuismo capace di accogliere tanto Pierino del dottore e Gianni, quanto l’immigrato Alì: “hanno tutti parimenti bisogno di quelle che […] abbiamo chiamato le quattro abilità, cioè hanno bisogno di educarsi a leggere e ascoltare, hanno bisogno di imparare a capire, leggendo e ascoltando; e per fare questo hanno bisogno di scrivere secondo le diverse modalità necessarie e di parlare secondo le diverse modalità necessarie” (De Mauro, 2018, p. 25). Su questa dimensione multimodale dell’insegnamento insiste giustamente Voghera, che riconosce a De Mauro il merito di aver messo a fuoco l’importanza delle abilità ricettive (ascolto e comprensione), fino a quel momento considerate passive e sussidiarie rispetto alla produzione linguistica, che era – e in larga parte rimane – scrittocentrica: “Nella maggior parte dei casi, infatti, si assume lo scritto come punto di partenza e di arrivo di una buona competenza linguistica”, e sullo scritto si modella di fatto la norma linguistica.

 

“De Mauro ha individuato nel nodo delle competenze di lettura e comprensione una centralità storica e sociale, oltre che pedagogica, sottolineando, ad esempio, i dati preoccupanti di analfabetismo funzionale in larghe fasce di adulti”, anticipando e accompagnando con i suoi commenti puntuali la diffusione delle indagini sulla literacy – come ci ricorda Anna Rosa Guerriero (p. 134).

 

Mi piace ricordare che De Mauro ha ridato dignità alla lingua dell’uso (Grande dizionario italiano dell’uso si intitola la sua opera lessicografica maggiore) e alle diverse “lingue di casa”: a tutti quegli usi linguistici – per citare ancora una volta Rodari (Il cane di Magonza, prefazione di T. De Mauro, Editori Riuniti, 1982, p. 190) – in grado di farci sentire “tutti interi in ogni angolo della nostra mente e in ognuna delle nostre parole”. Solo partendo da usi linguistici autentici (e non da un astratto verbalismo), messi in relazione in una dimensione corale e sociale dell’apprendimento, possiamo emanciparci, accedere ad altri usi, sentirci liberi di partecipare al dibattito democratico e alla vita intellettuale di un Paese.

 

“Possiamo dire una cosa… in siciliano, in viterbese, in romanesco… e in italiano ; possiamo dirla con una sintassi semplice… o con una sintassi contorta… con parole antiche o nuove, nobili o plebee, usate o specialistiche; possiamo dirla come uno scienziato o un poliziotto, un comiziante o un cronista… possiamo gridarla, scriverla a caratteri cubitali o in appunti frettolosi, possiamo dirla tacendo, purché abbiamo veramente voglia di dirla e purché ce la lascino dire” (De Mauro, Scuola e linguaggio, Editori Riuniti,1977, cit. a p. 177 del volume).

 

Di questo, tra l’altro, dobbiamo essergli grati.