Lingua Italiana

Valeria Della Valle

Valeria Della Valle, già professoressa associata di Linguistica italiana alla Sapienza Università di Roma, ha pubblicato saggi sugli antichi testi toscani, sulla storia della lessicografia, sulla terminologia dell’arte, sulla lingua della narrativa contemporanea, sui neologismi. Socia corrispondente dell'Accademia della Crusca e socia ordinaria dell’Accademia dell’Arcadia, è autrice, con Giuseppe Patota, di 14 libri sulla lingua italiana (ultimo della serie, "La nostra lingua italiana", 2019). Nel 2008 ha diretto "Il Vocabolario Treccani" (5 volumi) e, con Giovanni Adamo, "Neologismi. Parole nuove dai giornali", editi dall’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani. Nel 2014 ha scritto il soggetto di "Me ne frego! Il fascismo e la lingua italiana", prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà. Nel 2018 ha diretto con Giuseppe Patota "Il nuovo Treccani" e con Giovanni Adamo "Neologismi. Parole nuove dalla stampa (2008-2018)".

Pubblicazioni
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Storie di passaggi di proprietà

Per una parte consistente della sua storia ultramillenaria, l’italiano è stato proprietà pressoché esclusiva degli scrittori: prima degli scrittori che produssero e poi di quelli che si adeguarono al modello offerto dalla lingua letteraria di un luogo e di un tempo specifici, rappresentati dalla Firenze del Trecento.

Il relativo atto fu stilato e pubblicato nel 1525 da Pietro Bembo, inventore del Rinascimento italiano, col titolo di Prose della volgar lingua. Nel primo dei tre libri di cui si compone l’opera si leggono due affermazioni che potrebbero costituirne l’estratto.

 

La prima: «non si può dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore».

La seconda: «se io volessi dire che la fiorentina lingua piú regolata si vede essere, piú vaga, piú pura […], i miei due Toschi vi porrei dinanzi, il Boccaccio e il Petrarca senza più».

 

La lingua ha gli scrittori; specularmente, gli scrittori hanno la lingua. Chi intende scrivere in prosa, imiti il Decameron di Giovanni Boccaccio; chi vuole scrivere in versi, si adegui a quello offerto da  Francesco Petrarca col suo Canzoniere.  

 

Non solo scritte ma anche e soprattutto parlate

 

Per circa tre secoli i letterati italiani quasi non misero in discussione queste affermazioni di principio. Il primo a revocare agli scrittori in generale e ai due nominati in particolare la proprietà esclusiva della lingua fu Alessandro Manzoni. Persuaso che questa fosse un oggetto fatto di parole non solo scritte ma anche e soprattutto parlate, produsse l’edizione definitiva dei Promessi sposi (1840-’42) cercando di avvicinarsi non alla lingua scritta dei letterati, ma a quella parlata dalle persone colte della Firenze del suo tempo: una lingua viva e vera. Questo pur importante passaggio di proprietà non coinvolse tutti gli italiani, ma solo quelli che, per loro buona sorte, erano nati e vissuti in Toscana; inoltre, affidando la sua proposta di rinnovamento a un romanzo, Manzoni non metteva in discussione la funzione pedagogica degli scrittori nel suo progetto di educazione linguistica e civile. Fu la storia a cambiare le cose, in forza di un processo lungo e lento, iniziato con l’Unità d’Italia e concluso – forse – solo nell’ultimo quarto del secolo scorso.

 

«Ma ste fregnacce, tu, come le sai?»

 

Come autori di grammatiche scolastiche, di dizionari e di manuali divulgativi che cercano di spiegare in modo semplice e chiaro le regole della lingua, ci è capitato spesso di sentirci chiedere da dove ci venga l’autorità per stabilire modi e comportamenti linguistici; insomma di sentirci dire, dall’interlocutore di turno, qualcosa di simile a quel che disse un popolano al protagonista della Scoperta dell’America di Cesare Pascarella, efficacemente ricordato da Tullio De Mauro nell’introduzione al Grande Dizionario Italiano dell’Uso da lui diretto: «Ma ste fregnacce, tu, come le sai?».

 

Il profetico Quintino Sella

 

In casi del genere rispondiamo sempre, come è ovvio, che la lingua non è proprietà dei grammatici e dei linguisti, ma di tutti quelli che la adoperano. Del resto, ben più autorevolmente di noi, già nel 1869 Quintino Sella, nella famosa gita a Brusuglio evocata da Giovan Battista Giorgini nell’introduzione al Novo vocabolario della lingua italiana, durante una proverbiale lite linguistica con Manzoni sostenne che quella degli italiani sarebbe stata «una lingua nova, una lingua media»; una lingua che «sarà un po’ di tutto, e diventerà col tempo la lingua di tutti». La convinzione profetica del ministro delle Finanze del primo Parlamento italiano trova conferma nella realtà attuale: l’italiano è diventato la lingua di tutti gli italiani, vecchi e nuovi, che contribuiscono collettivamente a mantenerla in vita e a modificarla in base all’uso che ne fanno.

 

La norma cambia

 

Se la lingua è proprietà di tutti, più difficile è  stabilire se tutti la usino con proprietà. L’italiano è cambiato e continua a cambiare; parallelamente è cambiata, e continua a cambiare, la norma che lo descrive, definibile come la media degli usi statisticamente rilevanti della comunità di persone che parlano e scrivono in italiano.

 

Risposte tranquillizzanti

 

Quando, nei nostri manuali e nelle rubriche ospitate da periodici di larghissima diffusione, diamo indicazioni sui dubbi più comuni  relativi alla grafia (sognamo o sogniamo?), alla pronuncia   (àmaca o amàca?), alla morfologia nominale (archeologi o archeologhi?) e verbale (benedicevo o benedivo?) dell’italiano, constatiamo  di non essere sempre convincenti, in particolare quando diamo una risposta tranquillizzante, dicendo a chi ci legge che, tra due forme in concorrenza, può scegliere quella che preferisce: ampissimo e amplissimo, anzitempo e anzi tempo, appagarsi di e appagarsi con qualcosa, ha atterrato e è atterrato…

 

Un improbabile lassez-faire

 

Non siamo e non ci sentiamo, per questo, dei lassisti, sostenitori di un improbabile lassez-faire linguistico, anche perché sappiamo bene che l’errore di lingua genera una sanzione sociale tanto più forte quanto più ampio è il numero di persone che lo percepiscono: si pensi, in proposito, alle molte reazioni ironiche e divertite suscitate dal congiuntivo sbagliato del personaggio pubblico di turno; si pensi, ancora, alle polemiche poco pacate suscitate dall’uso (improprio!) di piuttosto che col significato di o.

 

Regole non negoziabili e scelte libere

 

Non siamo, si diceva, dei lassisti. È appena uscita l’edizione riveduta e aggiornata di un nostro libro programmaticamente intitolato Viva la grammatica!, in cui i suggerimenti non vincolanti convivono con le regole alle quali non si può e non si deve contravvenire. Perché, come ha perfettamente spiegato Michele Prandi, di questo è fatta la grammatica di una lingua: di regole non negoziabili, alle quali non si può contravvenire se non a scapito dell’efficacia nello scambio comunicativo, e di scelte liberamente applicabili. La proprietà dell’italiano, anzi: la proprietà nell’italiano consiste, a nostro avviso, nell’adeguarsi alle prime e nel muoversi con disinvoltura tra le seconde.

 

Riferimenti bibliografici

Pietro Bembo, Prose e rime, a cura di Carlo Dionisotti, Torino, UTET, 19662.

Tullio De Mauro, La Fabbrica delle Parole. Il lessico e problemi di lessicologia, Torino, UTET Libreria, 2005.

Giovan Battista Giorgini, Introduzione a G. B. G. e Emilio Broglio, Nòvo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, Firenze, Cellini, 1870-97.

Michele Prandi, Giuliana De Santis, Le regole e le scelte. Manuale di linguistica e grammatica italiana, Torino, UTET Università, 2011.

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Il femminile in grammatiche, dizionari, manuali (e giornali)

Sul problema del femminile e del maschile nella lingua italiana, accanto alle soluzioni indicate da Alma Sabatini a partire dal 1987 con le famose Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, c'è stata, in anni ormai lontani, anche una riflessione teorica: la relazione tra lingua e sesso fu analizzata, nel 1986, da Patrizia Violi nel saggio L'infinito singolare. Considerazioni sulla differenza sessuale nel linguaggio. E nel 1995, in un convegno a Sappada intitolato "Dialettologia al femminile" la questione fu affrontata dal punto di vista dei linguisti (e soprattutto delle linguiste e delle dialettologhe), dando come risultato il volume Donna e linguaggio, curato da Gianna Marcato (che aveva analizzato a fondo la questione nel 1988 in Lingua e sesso). Tra questi modi diversi di affrontare la questione, uno pragmaticamente orientato a rilevare i casi di disparità linguistica tra donna e uomo e a fornire soluzioni concrete, l'altro volto a indagare come dietro all'apparente neutralità del sistema linguistico si nascondano la differenza e la discriminazione sessuale, l'ultimo impegnato dal fronte scientifico ad analizzare i vari aspetti della variabile sesso nei processi di mutamento linguistico, il dibattito si è sviluppato con fasi alterne: ogni tanto la questione sembra assopirsi e «passare di moda», per poi risvegliarsi occasionalmente, su sollecitazione dei media, tutte le volte che un termine declinato al femminile comincia a diffondersi (basti pensare al clamore suscitato, nel corso degli anni, tutte le volte che una donna ha firmato come sindaca un atto ufficiale o alle resistenze nell’uso di forme grammaticalmente del tutto legittime come avvocata e ministra).
 
La flessione nominale androcentrica
 
La portata del problema, che indubbiamente sarebbe di respiro più vasto, e che negli Stati Uniti ha preso in considerazione l'intero rapporto donna-linguaggio, sembra dunque ridursi e restringersi, per quanto riguarda la lingua italiana, soprattutto al problema del nome delle professioni e delle cariche al femminile. Questo apparente immiserimento della questione può aiutare a liberarci con esempi pratici dal pregiudizio e dal luogo comune secondo i quali, imponendo un certo uso linguistico, si possano modificare anche l'atteggiamento, il costume, la mentalità a essi sottostanti. Per quanto riguarda la lingua italiana, la flessione nominale è indubbiamente androcentrica, nel senso che il maschile è usato per indicare il genere maschile vero e proprio (presidente, prete, bue), il semplice maschile grammaticale (lampo, dente, fiume), espressioni astratte sostantivate (il bello, il giusto, il vero), la specie (l'Uomo 'la razza umana'): quali sono le conseguenze di questa griglia linguistica impostata sui generi maschile/femminile (ma soprattutto, come abbiamo visto, sul maschile?).
 
He, she, it, anche l’inglese è sessuato
 
Chi parla lingue prive di genere (o meglio, di genere naturale o logico), come per esempio l'inglese, dovrebbe essere più libero dai condizionamenti linguistici, mentre chi parla una lingua in cui esistono i generi è obbligato a far rientrare le rappresentazioni simboliche nelle caselle grammaticali preesistenti. Ma le cose non stanno esattamente così: in inglese la distinzione tra maschile, femminile e neutro avviene solo con i pronomi di terza persona singolare: he/him "lui" (soggetto/oggetto), she/her "lei" (soggetto/oggetto), it "esso" (neutro); oppure, con i pronomi e gli aggettivi possessivi corrispondenti: his "suo-di lui", her "suo-di lei", its "suo-di quella cosa". Non esiste, come si vede, una forma di pronome personale di terza persona non marcato per sesso: sono stati proposti nuovi pronomi "non sessuati", ma si è trattato di tentativi isolati e velleitari. Questo per dire che non sarà l'eliminazione della distinzione tra i generi grammaticali, o l'imposizione di forme pronominali non marcate sessualmente a modificare le rappresentazioni simboliche interiorizzate, basate su una visione del mondo centrata sull'elemento maschile.
 
Cambiare la visione del mondo nelle grammatiche
 
I casi di azione linguistica pianificata di cui si è fatta esperienza nel passato (penso alla campagna del fascismo contro i forestierismi, o anche alla politica francese di opposizione alla diffusione dell'angloamericano) non hanno portato a risultati concreti, dimostrando, se ce ne fosse bisogno, che la lingua rispecchia e segue la realtà, e non sarà modificandola a tavolino che riusciremo a modificare e a migliorare la situazione. Questo non vuol dire, naturalmente, che non si debba fare niente, ma mi sembra che i campi d'intervento debbano essere, per quanto riguarda l'azione linguistica, altri. Mi riferisco, in particolare, agli strumenti attraverso i quali la lingua viene convenzionalmente rappresentata e descritta: le grammatiche, i dizionari, i manuali di divulgazione linguistica, i mezzi d’informazione. A proposito delle prime, credo che più che il problema dell'accordo di genere o del pronome al maschile, si debba considerare criticamente il contenuto dei manuali di grammatica, e fare attenzione alla visione del mondo riproposta attraverso gli esempi: per intenderci, chi per mestiere scrive grammatiche della lingua italiana, non dovrebbe mai ricorrere a esempi di fraseologia in cui siano riconoscibili modelli stereotipati di comportamenti sessisti, come avveniva, invece, nei sussidiari e nelle grammatiche fino alla prima metà del secolo scorso. Da tempo ogni grammatica dedica alla questione uno spazio particolare. In Lingua comune, per esempio, un riquadro intitolato “La ministra è stata ricevuta” spiega che le difficoltà nell’utilizzare i femminili dei nomi indicanti professioni e cariche sono culturali, più che linguistiche, e vengono date indicazioni pratiche sulle soluzioni esistenti.
 
No alla donna giudice
 
Per quanto riguarda i dizionari della lingua italiana, almeno fino agli anni Sessanta la dizionaristica, cioè la tecnica di compilazione dei dizionari, era in mano agli uomini, e dunque la visione del mondo registrata nei vocabolari non poteva che essere «al maschile». Da allora, però, le cose sono cambiate: le redazioni delle imprese lessicografiche promosse dall'editoria italiana sono composte, al contrario, soprattutto da donne (anche se i dizionari hanno continuato, almeno fino al 2008, a essere diretti solo da uomini), e questo cambiamento ha avuto come conseguenza, nel corso degli ultimi decenni, una progressiva e crescente attenzione alla registrazione di esempi e definizioni non basati su formule stereotipate e idee preconcette. Non mi soffermerò sulle scelte operate nella terza edizione del Vocabolario Treccani, già descritte in altra occasione, tutte coerenti e in linea con queste considerazioni, ma su quelle presenti nei manuali di divulgazione linguistica, concepiti per spiegare in modo semplice le regole e le consuetudini della lingua italiana, e destinati a essere letti da un gran numero di lettori. In queste guide si è posta particolare attenzione all’argomento. Per esempio, in quelle firmate con Giuseppe Patota, è stato sempre dedicato largo spazio al problema dei nomi di professione al femminile, dando concrete indicazioni sul loro uso. Oltre a ricordare che verso questi termini ci sono ostilità e preconcetti, abbiamo dato indicazioni concrete, riassumibili così: non lasciare nomi maschili riferiti a donne: la ministra Paola Severino, non il ministro Paola Severino; la magistrata Simonetta Matone, non il magistrato Simonetta Matone; evitare i nomi di professione che terminano in -essa (tranne quelli già affermati, come dottoressa, studentessa, ecc.), perché hanno una sfumatura ironica o peggiorativa: la giudice Francesca Vitale, non la giudichessa Francesca Vitale; la vigile Luisa Masi, non la vigilessa Luisa Masi; la presidente Anna Maria Tarantola, non la presidentessa Anna Maria Tarantola; evitare di aggiungere la parola donna al nome maschile che indica la professione o la carica (donna giudice, donna poliziotto, notaio donna, chirurgo donna, ecc.), perché questo tipo di accostamento, solo apparentemente neutro, sposta l’attenzione sul sesso della persona invece che sul ruolo professionale svolto. Si tratta di soluzioni che suscitano talvolta reazioni di rifiuto, in base a pregiudizi ideologici o estetici. In realtà sono parole come le altre, né belle né brutte: l’unica differenza sta nel fatto che non siamo abituati a usarle. Solo continuando a diffondere i nuovi termini, attraverso gli strumenti indicati e i mezzi di informazione, si potrà arrivare a un cambiamento nelle abitudini linguistiche realmente condiviso dai parlanti.
 
Bibliografia di riferimento
 
Sabatini, A. (1987), Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, in Il sessismo nella lingua italiana, Commissione Nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna Roma, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri.  
 
Violi, P. (1988), L’infinito singolare. Considerazioni sulla differenza sessuale nel linguaggio, Verona, essedue edizioni.
 
Marcato, G. (1988), Italienisch: Sprache und Geschlechter. Lingua e sesso. Lexicon der Romanistischen Linguistik,a cura diGünter Holtus, Michael Metzeltin, Christian Schmitt, Tübingen, Narr, pp. 273-46.
 
Marcato, G. a cura di (1995), Donna e linguaggio, Padova, CLEUP.
 
Robustelli, C., G. Kustatscher (2008), Buongiorno dottoressa! Vademecum per la sensibilizzazione all’uso di una lingua non sessista, Komitees für Chancengleichheit in den Sanitatsbetrieben, Bozen, Meran, Brixen, Bruneck.
 
Serianni, L., Della Valle, V., Patota G., Schiannini D., (2011), Lingua Comune. La grammatica e il testo, Milano, Bruno Mondadori.
 
Armeni, R., a cura di (2011), Parola di donna, Milano, Ponte alle Grazie.
 
Della Valle, V., Patota, G. (2011), Viva la grammatica!, Milano, Sperling & Kupfer.
 
Della Valle V., Patota G., (2012), Ciliegie o ciliegie? e altri 2406 dubbi della lingua italiana, Milano, Sperling & Kupfer.
 
 
 

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Perché le parole non siano più solo femmine, i fatti non più solo maschi

 

La  lettera firmata da cento donne  per chiedere  che   una voce della Treccani venga modificata merita tutto il   rispetto e un’attenta lettura.  Per evitare che la questione venga banalizzata e travisata, con prese di posizione appassionate e preconcette    da una parte e dall’altra,   dovrò chiarire preliminarmente alcuni punti che le lettrici e i lettori dei dizionari   in genere non conoscono.  Prima di tutto, si tendono a confondere tipi diversi di dizionari. In questo caso,  voglio ricordare   che un dizionario dei sinonimi è cosa molto diversa da un dizionario  dell’uso  della lingua italiana.  Nei dizionari  dell’uso  (o generali) della nostra lingua si danno   prima di tutte le altre informazioni,  le definizioni delle parole.   Avendo io  lavorato al Vocabolario della lingua italiana  Treccani in cinque volumi (1986-1994) fin dalla prima edizione, posso portare la testimonianza personale del cambiamento avvenuto proprio nella definizione della voce “donna”, nel passato sempre definita come “femmina dell’uomo” e in quell’edizione diventata finalmente, grazie al lavoro delle giovani  ma agguerrite redattrici dell’opera “Nella specie umana, individuo di sesso femminile, soprattutto dal momento in cui abbia raggiunto la maturità anatomica e quindi l’età adulta”.    Questo non vuol dire che nei dizionari della lingua italiana non  siano  ancora presenti  pregiudizi e   stereotipi. Il lavoro dei lessicografi e delle lessicografe consiste anche nel tentativo di liberare le pagine dei dizionari da tutto ciò che non corrisponde più, culturalmente e civilmente, all’epoca in cui l’opera viene pubblicata.  Ma anche in questo caso non voglio fare dichiarazioni teoriche,  bensì  portare esempi pratici. Negli anni ’70, quando come ho appena ricordato ero una giovane redattrice del Vocabolario Treccani, oltre a impegnarmi nelle nuove definizioni di voci come “donna” e “femminismo”, per citare solo le due che mi stanno più a cuore, eliminai con grande soddisfazione l’espressione “angelo del focolare”. Me ne sono pentita, e ho fatto in modo che la locuzione, anni dopo, tornasse al suo posto. Eliminandola, avevo commesso un  grave errore, perché quell’espressione,  presente   nell’uso parlato,   in romanzi e articoli giornalistici, e  oggi usata ormai  solo scherzosamente e ironicamente, non deve essere cancellata, ma spiegata,  premettendo che  si tratta di un uso figurato, oggi solo ironico,  tanto più se si   va progressivamente perdendo la memoria del suo significato di “donna  di casa che si dedica esclusivamente  alla famiglia e alle faccende domestiche”. 

Ma veniamo ai  dizionari dei sinonimi, che  non si basano sulle definizioni delle parole,    perché destinati ad altro  tipo di ricerca e di consultazione. I dizionari dei sinonimi servono a suggerire parole ed espressioni che hanno approssimativamente lo stesso significato, dato che la sinonimia assoluta è inesistente o rarissima. In questi dizionari è possibile trovare (come  in quelli analogici), più che i sinonimi, le parole legate da un rapporto lessicale o semantico con la voce principale, in modo da  individuare  velocemente tutto il possibile bagaglio di  corrispondenze, frasi, modi di dire che possono essere utili  soprattutto a chi scrive o a chi cerca la locuzione che non ricorda. Anche espressioni  ingiuriose, volgari, spregiative.   

Pur apprezzando le ragioni di principio che hanno spinto cento donne a firmare la lettera, vorrei  condividere una riflessione con loro. Siamo sicure che eliminando “puttana”, “cagna”, “zoccola” e “bagascia” dal vocabolario dei sinonimi contribuiremmo a migliorare  l’immagine della donna? Al contempo, allora, sempre   nel   “Dizionario dei sinonimi”,  in una visione bipartisan dovremmo fare piazza pulita, alla voce “uomo”, di “uomo delle caverne”,   che  in senso figurato, scherzoso o spregiativo   può indicare  chi è   (cito) barbaro, cafone, incivile, maleducato, primitivo, screanzato, selvaggio, tanghero, troglodita, zotico. Su una cosa siamo d’accordo: c’è una sproporzione tra gli epiteti offensivi presenti accanto a “donna” e quelli che possono essere riferiti a un uomo. I primi hanno a che fare soprattutto con offese scagliate contro la donna  riferite  alla sua  vita sessuale, di   donna che vende il proprio corpo dietro pagamento.    Ma è la nostra storia, non solo quella italiana, a mancare di parole a proposito dell’uomo,  corrispondenti  a quelle usate per   indicare un costume al quale è stata obbligata per secoli solo la donna.  Anche per l’uomo abbiamo insulti  che alludono alle sue abitudini sessuali, e  certamente in misura non paragonabile, ma qui entriamo in questioni che non  hanno a che fare con la   rappresentazione linguistica, bensì con la copertura eufemistica di tabù millenari.  E allora?  Nel 1980 una studiosa francese, Marina Yaguello, intitolò un capitolo  di un suo  libro “Bisogna bruciare i dizionari?”, per segnalare i fenomeni di stereotipia sulle donne perpetuati dalla tradizione lessicografica.  Sono convinta che non sarà invocando un falò (non solo simbolico) per bruciare le parole che ci offendono che riusciremo a difendere  la nostra immagine e il nostro ruolo. Anzi, vorrei che le espressioni più detestabili e superate continuassero ad avere spazio nei dizionari, naturalmente precedute dal doveroso avvertimento  che segnala al lettore quando le espressioni o le frasi proverbiali citate corrispondono a un pregiudizio o a un luogo comune tramandato dal passato ma non più condivisibile.  Secondo qualcuno i dizionari sono “cimiteri di parole”: lo sarebbero se si limitassero a registrare una lingua plastificata, politicamente corretta, che rappresenti una realtà come la vorremmo. Credo, al contrario, che il nostro sforzo comune debba essere quello di fare in modo che la lingua del disprezzo esaurisca il suo corso, rimanendo però come testimonianza sociale, storica, letteraria, del passato. Con la speranza, questo è il mio augurio non solo da lessicografa, che la realtà (e poi la lingua) cambi, perché le parole non siano più solo femmine, i fatti non più solo maschi. 

                                                          

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Ridestare la bellezza delle parole nascoste

Nel 2011 Sabrina D’Alessandro ha pubblicato un libro dal titolo suggestivo, Il libro delle parole altrimenti smarrite, illustrato con collage – buglioni (link) della stessa autrice; un anno dopo è apparso il catalogo che illustra l’Ufficio Resurrezione (link) da lei creato con le immagini delle parole trasformate in quadri, oggetti, composizioni, assemblaggi. D’Alessandro non è una linguista, ma la storia c’insegna che a volte uno sguardo esterno, non accademico, può essere particolarmente acuto e penetrante. Basti pensare a Alfredo Panzini, professore di liceo, romanziere di grande successo (ora del tutto dimenticato), che con le otto edizioni del suo Dizionario moderno (l’ultima pubblicata postuma) ci ha lasciato la documentazione più ricca e completa delle nuove parole apparse nella lingua italiana tra il 1905 e il 1942. L’operazione compiuta da D’Alessandro è, in un certo senso, opposta a quella benemerita di Panzini. Panzini raccoglieva le parole nuove e nuovissime. D’Alessandro, come spiega nell’introduzione della raccolta, ha creato nel 2009 l’URPS, cioè l’Ufficio Resurrezione Parole Smarrite, che si occupa di «restituire alla memoria parole notevoli che altrimenti rimarrebbero dimenticate […] resuscitate in forma di disegni, installazioni, video, pubblicazioni».

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Lingua di regime

Il mio intervento** si limiterà a ricordare, nel giorno della memoria, un aspetto apparentemente secondario della dittatura. Mi riferisco alla politica linguistica del Fascismo. Questo aspetto rischia di essere dimenticato, e lo dico sulla base dell’esperienza personale. Ho insegnato Linguistica italiana alla Sapienza fino al 2014: ogni volta che durante le lezioni toccavo questo argomento, mi accorgevo che gli studenti reagivano come se stessi raccontando cose mai sentite prima, né in famiglia né a scuola. I libri, i saggi, gli articoli sull’argomento erano e sono noti a una élite di colleghi e di studiosi, ma le nuove generazioni hanno bisogno anche di immagini per entrare in contatto col passato: da questa consapevolezza nacque il documentario Me ne frego! Il Fascismo e la lingua italiana, che verrà proiettato oggi per ricordare una pagina della nostra storia, a chiusura della tavola rotonda La lingua del nazifascismo: parole e discorsi di odio.

 

I tre cazzotti del Duce

 

Certo, mi rendo conto che rispetto alle leggi razziali la politica linguistica del fascismo è questione molto meno drammatica, e ne ricorderò tra poco solo i punti essenziali, ma vorrei partire da una constatazione: nel discorso del 25 ottobre 1938, al palazzo del Littorio (cioè palazzo Vidoni Caffarelli in corso Vittorio Emanuele II a Roma), Mussolini pronunciò queste parole:

 

«Vediamo un po' cosa è successo nel sedicesimo anno del regime. È successo un fatto di grandissima importanza. Abbiamo dato dei poderosi cazzotti nello stomaco a questa borghesia italiana. L'abbiamo irritata, l'abbiamo scoperta, l'abbiamo identificata.

1) Il primo cazzotto è stato il passo romano di parata. Il popolo adesso lo adora […]

2) Altro piccolo cazzotto: l'abolizione del “lei”. È incredibile che da tre secoli tutti gli italiani, nessuno escluso, non abbiano protestato contro questa forma servile, che ci è venuta dalla Spagna del tempo. Fino al Cinquecento gli italiani non hanno conosciuto che il “tu” e il “voi”. Poi solo il “tu “, ignorando il “lei”. […]

3) Altro cazzotto nello stomaco è stata la questione razziale. Io ho parlato di razza ariana nel 1921, e poi sempre di razza […] Il problema razziale è per me una conquista importantissima, ed è importantissimo l'averlo introdotto nella storia d'Italia. […]»

 

In quel discorso si accostavano, tra i cosiddetti “cazzotti”, tre questioni non paragonabili: il passo romano di parata, l’uso del voi al posto del lei e “il problema razziale”. Ma proprio l’aver messo sullo stesso piano questioni così diverse e così lontane tra loro riporta il discorso alla questione in parte dimenticata della politica linguistica del Fascismo.

 

1923: una campagna di purismo xenofobo

 

Dal 1922 al 1943 fu praticata, per la prima volta in Italia, una vera e propria politica linguistica. I momenti più significativi possono essere rievocati seguendo i vari momenti attraverso i quali quella politica fu attuata. L’aspetto più noto riguarda la lotta contro le parole straniere. Con la legge dell’11 febbraio 1923 il purismo di matrice nazionalista e irredentista subì un’ulteriore impennata, imponendo una tassa sulle parole non italiane. Ebbe inizio così una nuova campagna di purismo xenofobo che riempì le pagine dei quotidiani e delle riviste. Negli anni Trenta, in una situazione linguisticamente sempre più autarchica, nacquero diverse iniziative giornalistiche contro le parole straniere: ricordo almeno Una parola al giorno, pubblicata nella “Gazzetta del Popolo” di Torino per «ripulire la nostra lingua dalla gramigna delle parole straniere che hanno invaso e guastato ogni campo», in cui Paolo Monelli, giornalista allora già molto noto e scrittore di grande successo, proponeva ai lettori le sostituzioni delle parole non italiane. La rubrica costituì il punto di partenza per il libro intitolato, significativamente, Barbaro dominio. Cinquecento esotismi esaminati, combattuti e banditi dalla lingua con antichi e nuovi argomenti storia ed etimologia delle parole e aneddoti per svagare il lettore pubblicato a Milano da Hoepli nel 1933, e poi ristampato anche nel dopoguerra.

 

Dal divieto di parole straniere all’antidialettalismo

 

L’ostilità verso tutto ciò che era straniero si intensificò nel 1936, poi nel 1938 si arrivò al decreto-legge del 5 dicembre, n. 2172 sulle «denominazioni del pubblico spettacolo». Da quel momento in poi anche i nomi e i cognomi furono italianizzati. Nel 1939 fu condotta sul “Popolo d’Italia” una campagna contro le insegne in lingua straniera, con particolare accanimento nei confronti delle insegne che comparivano nei negozi di cittadini ebrei.

Nel 1940 (l’Italia era già entrata in guerra) si arrivò al divieto assoluto di parole straniere nell’intestazione delle ditte e della pubblicità, sotto pena di sanzioni che potevano arrivare, almeno in teoria, alla detenzione. Contemporaneamente, la Reale Accademia d’Italia, che aveva tra i suoi compiti la difesa dell’italianità, fu incaricata dal governo di sostituire le parole straniere con parole italiane. L’Accademia fu incaricata di tradurre, sostituire o italianizzare non solo le parole straniere, ma anche la toponomastica, e di stendere gli elenchi ufficiali delle sostituzioni delle parole straniere.

La scuola fu uno degli strumenti della propaganda e della politica linguistica del regime. Dall’anno scolastico 1930-31 il libro di testo unico edito dalla Libreria dello Stato fu introdotto nelle prime due classi delle scuole elementari, contribuendo al processo di fascistizzazione degli italiani fin dalla prima infanzia. Il libro unico comprendeva la storia della rivoluzione fascista e dei suoi protagonisti, primo fra tutti il Duce. Nella politica scolastica ebbe un ruolo importante la campagna contro i dialetti. In una prima fase, si erano applicate le idee del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice (1879-1938), che aveva introdotto il metodo «dal dialetto alla lingua» nei programmi scolastici della riforma Gentile del 1923. Ma in seguito, col consolidarsi del regime e il timore di spinte localistiche e autonomistiche, l’ostilità e l’ostracismo contro i dialetti, visti come ostacoli all’ideologia nazionale, si intensificarono, trasformandosi all’inizio degli anni Trenta in una vera e propria politica antidialettale.

 

La lotta contro le minoranze linguistiche

 

Non mi soffermerò sulla campagna contro il “lei”, pronome allocutivo contro il quale Mussolini scagliò uno dei “cazzotti” che citavo all’inizio, conseguenza di una singolare campagna promossa nel 1938 dal gerarca Achille Starace: il lei, che doveva essere sostituito dal tu o dal voi, a seconda del grado di confidenza con l’interlocutore, era bandito perché considerato «femmineo» e «straniero» (in realtà la forma era italianissima, in uso fin dal Cinquecento, e derivava dall’abitudine di rivolgersi a una persona di riguardo, indicata con l’espressione «Vostra Signoria», con la forma lei, regolarmente concordata al femminile con «Signoria»).

L’aspetto più odioso della politica linguistica del Fascismo fu, infine, la lotta contro le minoranze linguistiche, che si manifestò con varie iniziative: l’imposizione dell’italiano in Valle d’Aosta, la politica etnica ai danni della minoranza di lingua tedesca in Alto Adige e tedesca e slovena nella Venezia Giulia, l’italianizzazione forzata della toponomastica, l’obbligo di italianizzazione dei cognomi slavi o tedeschi.

 

Il "me ne frego": oggi come ieri?

 

Quando nel 2014 decidemmo il titolo per il documentario dedicato alla politica linguistica del Fascismo, lo scegliemmo proprio perché retaggio di un passato che ci illudevamo fosse chiuso per sempre. Ebbene, l’espressione «me ne frego!» tanto screditata da non poterne immaginare un riuso, continua a essere pronunciata, e non con intento ironico. Basta fare una ricerca in Google e negli archivi dei quotidiani per trovare le citazioni, tratte da dichiarazioni pubbliche e interviste di uomini politici con importanti incarichi istituzionali. Le parole dell’odio, del disprezzo, dell’arroganza, vengono ora esibite e urlate senza vergogna, come se non fossero il portato di un passato da condannare. Nel giorno della memoria bisogna ricordarne l’origine e la storia, perché l’odio passa anche attraverso il linguaggio, nel quale deposita tutta la violenza e la ferocia dell’ideologia.

 

**Il testo è la trascrizione dell’intervento tenuto dall’autrice nel corso tavola rotonda sul tema La lingua del nazifascismo: parole e discorsi di odio, tenutasi il 28 gennaio 2019, in occasione del Giorno della memoria, presso l’Università per stranieri di Siena.

 

Bibliografia essenziale

F. Foresti, La lingua italiana e il fascismo, Consorzio provinciale di pubblica lettura, Bologna, 1977 (ora in Id, Credere, obbedire, combattere. Il regime linguistico del Ventennio, Pendragon, Bologna, 2003).

C. Galeotti, Achille Starace e il vademecum dello stile fascista, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000.

E. Golino, Parola di Duce. Il linguaggio totalitario del Fascismo, Rizzoli, Milano, 1994.

G. Klein, La politica linguistica del fascismo, il Mulino, Bologna, 1986.

E. Leso, M. Cortelazzo, I. Paccagnella, F. Foresti (a cura di), La lingua italiana e il fascismo, Consorzio provinciale pubblica lettura, Bologna, 1977.

S. Raffaelli, Le parole proibite. Purismo di Stato e regolamentazione della pubblicità in Italia (1812-1945), il Mulino, Bologna, 1983.

S. Raffaelli, Un «lei» politico: cronaca del bando fascista (gennaio-aprile 1938), in Omaggio a Gianfranco Folena, III, Editoriale Programma, Padova, 1993, pp. 2061-2063.

 

 

 

 

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Le donne, gli uomini e il verbo violentare

 
Riceviamo da un'attenta lettrice una domanda e una riflessione sulla definizione del verbo violentare data nel Vocabolario Treccani. Visto il merito e l'interesse dell'argomento, la risposta è affidata a Valeria Della Valle, coordinatrice scientifica del Vocabolario Treccani (2008). Riportiamo, per esteso, il testo inviatoci dalla lettrice, Lea Vittoria Uva, seguito dall'intervento di Valeria Della Valle.
 
Per caso ieri stavo leggendo la definizione che l'Enciclopedia Treccani offre del termine "violentare". Mentre all'inizio della definizione parla di "una persona", mi ha colpito in particolare come nell'ultima frase specifichi che il termine può implicare il significato di violenza "sessuale", che è assolutamente corretto ovviamente, ma lo fa specificando "v. una donna, un minore, una minorenne".
 
Mi chiedo se non sia possibile rivedere il modo in cui la spiegazione di "violenza sessuale" è stata formulata. Al momento, illustra come questo termine abbia questo significato semplicemente associando la parola "violentare" a delle vittime. Allo stesso tempo, in questo modo, esclude e discrimina le vittime di sesso maschile, e in modo più subliminale, forse, anche le persone anziane. Come se "v. un uomo" non potesse avere il significato di violenza sessuale.
 
A livello sociale, c'è un grande stigma associato alla violenza sessuale verso uomini e verso persone anziane. Questo porta nella maggior parte dei casi a vergognarsi, a non denunciare, a non ricevere le cure e il supporto adeguato. Anche se sicuramente questa non era la Vostra intenzione, escludere (anche involontariamente) queste categorie dalla definizione di "violenza sessuale" non può fare altro che rinforzare gli stereotipi e lo stigma.
 
Se, come spero, siamo d'accordo che la violenza sessuale non è un problema che riguarda solo donne e minori nella qualità di vittime, mi chiedo se non sia possibile riformulare quell'ultima frase, semplicemente spiegando che "violentare" può anche (e al giorno d'oggi più spesso, credo) avere un significato sessuale, ma senza partire dalle vittime, o per lo meno senza escluderne alcune.
 
Lea Vittoria Uva
 
*    *    *
 
Lea Vittoria Uva pone un quesito delicato e interessante a proposito del trattamento lessicografico del verbo violentare. Vediamo come stanno le cose. Nel Vocabolario Treccani il verbo è definito in questo modo:
«Sottoporre a violenza, indurre una persona, con una coercizione di natura fisica o morale, o con la suggestione, ad atti e comportamenti contrari o comunque non consoni alla sua volontà, alle sue convinzioni».
 
La definizione è seguita da esempi di fraseologia, cioè di frasi e locuzioni che documentano l’uso del verbo:
 
«voglio agire come mi detta la mia coscienza, non voglio essere violentato. In partic., v. una donna, un minore, una minorenne».
 
Da un punto di vista lessicografico, il trattamento del verbo rappresenta un notevole passo avanti rispetto alle definizioni vaghe e reticenti presenti in molti vocabolari del passato, che si limitavano a spiegare il verbo in modo elusivo con un generico «costringere uno con la violenza».
 
Nel Vocabolario Treccani, invece, si fa riferimento a una «coercizione di natura fisica o morale» nei confronti di «una persona». In questo modo si allude senza mezzi termini a una violenza esercitata contro individui di qualsiasi sesso. Il termine “persona” ha rappresentato, nelle definizioni dei vocabolari, una scelta innovativa e coraggiosa, che ha svincolato le definizioni e le esemplificazioni dal peso del conformismo linguistico che riferiva solo alla donna, in un’ottica maschile, tutto ciò che la vedeva soggetto passivo di usi e tradizioni ormai superate (del resto, proprio la voce donna è stata definita a lungo come «la femmina dell’uomo»).
Ma Lea Vittoria Uva osserva che anche questo tipo di fraseologia è discriminante. Perché alludere a una donna e non a un uomo, come possibile oggetto di violenza, e perché non citare, tra gli esempi di persone sottoposte a violenza, le persone anziane?
Di fronte a problemi di questo genere, i lessicografi cercano di mantenere un giusto equilibrio tra la necessità di documentare gli usi linguistici e le sollecitazioni che vengono dalla cronaca, anche le più negative. I casi di violenza sessuale riguardano, con maggiore frequenza, le donne, ma colpiscono anche gli uomini, le persone anziane, malate, emarginate, imprigionate, psichicamente instabili, indipendentemente dal genere di appartenenza. Se accettassimo la proposta di Lea Vittoria Uva, estenderemmo il significato del verbo a nuovi soggetti, ma continueremmo a escludere categorie di persone virtualmente sottoposte a violenza, ogni giorno, nelle varie parti del mondo. Chi scrive le voci dei dizionari cerca di documentare gli usi linguistici in base alla frequenza delle attestazioni (nella stampa, nei siti, nel web), e ne registra le espressioni e le locuzioni più comuni. Può essere utile, a riprova, consultare, sempre nel Vocabolario Treccani, la voce stupro:
 
«Atto di congiungimento carnale imposto con la violenza (corrisponde al termine giur. violenza carnale): commettere uno s.; essere accusato di s.; denunciare il colpevole dello s.; essere vittima di uno s.; processo per s.»
 
Anche in questo caso il lessicografo (o la lessicografa) ha registrato il significato del termine senza mai alludere a un tipo di violenza esercitata solo su donna, come del resto aveva fatto quando, esemplificando gli usi del verbo violentare, aveva citato anche «un minorenne».
 
Mi sembra che le due voci, violentare e stupro, rappresentino lo sforzo fatto dai redattori di un vocabolario contemporaneo per conciliare la rappresentazione della lingua d’uso con il rispetto delle minoranze e delle categorie svantaggiate. Ma sono anche convinta che non sarà l’eliminazione dei generi grammaticali, o l’imposizione di forme pronominali non marcate sessualmente, o l’aggiunta del riferimento a nuove categorie di vittime, a modificare le rappresentazioni simboliche interiorizzate e i comportamenti sociali.

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Confessioni di una lessicografa: se ci sono stereotipi, scaricali dal dizionario

 

Alla fine del 2007, nel tracciare un bilancio della lessicografia degli ultimi decenni, mi dichiaravo convinta che si potesse finalmente constatare, e non più solo ipotizzare, che la recente produzione lessicografica italiana, superata definitivamente la lunga crisi, di nuovo alla pari con quella relativa alle altre grandi lingue di cultura, fosse capace di descrivere non solo la nostra lingua nei suoi molteplici aspetti, ma anche la società che attraverso quella lingua vive e si esprime (Della Valle 2007: 28-29).
Non immaginavo, mentre scrivevo quell’articolo, che di lì a poco avrei dovuto mettere in pratica e dimostrare che quell’aspirazione e quelle affermazioni non erano solo teoriche. Giuseppe Patota ha chiuso le sue confessioni ricordando che gli esami non finiscono mai.
 
Gli anni di Duro al lavoro
 
Io da quella stessa citazione eduardiana devo invece partire. Per farlo, devo almeno accennare a un dato biografico. Appena laureata entrai a far parte della redazione del Vocabolario della lingua italiana dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani. Il vocabolario era diretto da Aldo Duro, lessicografo rigoroso e di grande esperienza, alla cui scuola e pratica lessicografica fui addestrata nel corso di ventidue anni di lavoro redazionale. In quegli anni le voci dei vocabolari venivano ancora compilate in modo non molto diverso da come erano state preparate, a metà dell’Ottocento, quelle del Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini: scritte a mano perché fossero riviste, corrette, perfezionate (o censurate) da Aldo Duro, poi copiate definitivamente «in bella copia», con la macchina da scrivere. Partendo dal materiale del celebre Dizionario enciclopedico italiano pubblicato tra il 1955 e il 1961 dallo stesso Istituto dell’Enciclopedia Italiana, e raccogliendone la grande tradizione lessicografica, fu realizzata in questo modo artigianale, da una piccola redazione di giovani, la prima grande impresa della dizionaristica italiana del dopoguerra: 125.000 lemmi (160.000 considerando i sottolemmi), compresi in cinque volumi, in una riuscita fusione tra vocabolario e enciclopedia. Un innesto unico e originale, nel quadro della lessicografia italiana, per l’ampiezza delle informazioni, l’esaustività delle definizioni, l’accoglimento della terminologia dei linguaggi tecnico-scientifici e settoriali, l’attenzione alla norma, ma anche alla crescente influenza del parlato e dei nuovi mezzi di informazione. Basti ricordare che uno storico della lingua come Arrigo Castellani, che «non accordava a tutti i vocabolari la stessa autorevolezza normativa […] riconosceva il primato, tra i moderni, proprio a quello di Duro» (Marazzini, 2009: 401); che Pier Vincenzo Mengaldo lo ha definito «un’impresa decisiva» e «l’opera di consultazione essenziale per la lingua d’uso» (Mengaldo 1994: 29), che Luca Serianni ne ha parlato come di «una pietra di paragone dell’italiano moderno» (Serianni, 1994: 42), e che Claudio Marazzini lo ha considerato «l’ultimo risultato di una grande tradizione fiorentina, legata al magistero di Migliorini e all’enciclopedismo di Gentile» (Marazzini 2009: 401).
Ho ricordato il punto d’arrivo raggiunto da Aldo Duro con la prima (1986-1994) e la seconda edizione dell’opera (1997), perché a quelle edizioni se ne è affiancata una terza, che è stata pubblicata, questa volta con il mio coordinamento scientifico, alla fine del 2008, con il titolo Il Vocabolario Treccani.
 
Selettività e inerzia
 
L’allestimento di una nuova edizione di un dizionario comporta scelte difficili e delicate, tanto più quando ci si debba confrontare con un precedente così autorevole. Da una parte si vorrebbero rispettare fino in fondo le caratteristiche e l’impostazione dell’opera, dall’altra la consapevolezza del modificarsi e rinnovarsi della lingua costringe, col passare degli anni, a revisioni e aggiornamenti. Tanto più necessari se si tiene conto delle osservazioni fatte, in proposito, da Giovanni Nencioni, che già nel 1985, individuando nella selettività e nell’inerzia i difetti essenziali della lessicografia ottocentesca, e constatando il mutamento avvenuto nel rapporto tra il dizionario e il suo lettore, aveva scritto: «non è più il dizionario che, pedagogicamente, prefigura lo scolaro o lo scrittore da educare e guidare, ma è il consultatore che cerca uno strumento lessicografico capace di rispondere a domande che investono la lingua in sé stessa e nei suoi rapporti con la cultura, con la realtà, con la prassi sociale» (Nencioni 1985: 10).
 
Par condicio fra tradizione e rinnovamento
 
Nella preparazione della nuova edizione del vocabolario ho scelto di procedere con la dovuta cautela, un po’ come fa il restauratore alle prese con un dipinto di valore: in alcuni casi eliminando la patina del tempo, in altri mantenendo ancora, come segno distintivo e riconoscibile della prima edizione, qualche tratto legato alla tradizione artigianale dell’opera. La squadra redazionale che ho guidato si è arrampicata sull’impalcatura del restauro con vari compiti: arricchire il lemmario con le accezioni e le novità lessicali stabilmente penetrate nella lingua italiana nel corso dei vent’anni ormai trascorsi dall’inizio della pubblicazione della prima edizione (da mobbizzare a par condicio a quote rosa), aumentare l’esemplificazione fraseologica tratta dall’uso (per fare un solo esempio, l’uso figurato del verbo spalmare nel senso di ‘distribuire qualcosa, più o meno uniformemente, nel tempo o nello spazio, spec. nel linguaggio della pubblica amministrazione o della politica: spalmare i debiti, rateizzarli; spalmare gli aumenti delle tasse su tutti i contribuenti), integrare con nuove entrate o nuovi significati il lessico d’àmbito tecnico-scientifico (da bioarchitettura a domotica a OGM), assistere il lettore in tutti i casi nei quali cerca una risposta a dubbi linguistici, fornendo spiegazioni non solo rispetto alla corretta pronuncia e grafia delle parole italiane e straniere, alla grammatica del nome o del verbo, alla sintassi, ma anche rispetto ai cambiamenti, alle novità e alle “parole di plastica” dell’italiano contemporaneo (si veda, s. v. piuttosto, l’avvertimento che segnala come improprio l’uso di piuttosto seguito da che con il sign. di «o», «oppure» per indicare un’alternativa).
 
Non archivio, ma specchio
 
Ben consapevole che i dizionari dell’uso non sono solo «repositories of words» (Jackson 2002: 1), né archivi di parole immobili nel tempo, e che, al contrario, sono lo specchio della cultura e delle idee del momento storico in cui sono prodotti, ho sottoposto a controllo e revisione, in particolare, le voci più legate al modificarsi dei costumi: voci talvolta venate, nelle definizioni, da pregiudizi, stereotipia o anche solo perbenismo e conformismo (Giacomo Devoto, in una recensione al Vocabolario dell’Accademia d’Italia, lo definì «suono ottuso impersonale piccolo borghese» (Devoto 1941: 132).
Ricordo che nel 1979 Marina Yaguello pubblicò un libro rimasto unico nel genere, Le mots et le femmes, poi tradotto in italiano nel 1980. In quel libro un capitolo era intitolato “La lingua del disprezzo”, e un altro, provocatoriamente, “Bisogna bruciare i dizionari?”. In essi l’autrice esaminava il fenomeno della dissimmetria, della stereotipia, dei luoghi comuni che continuano a essere perpetuati dalla nostra tradizione lessicografica nei confronti delle donne. Da allora molte cose sono cambiate: le redazioni dei dizionari, composte fino agli anni Settanta del secolo scorso soprattutto da uomini, sono ora composte in gran parte, e talvolta anche guidate, da donne. Redattrici e redattori, attenti a mantenere un giusto equilibrio tra la necessità di documentare usi linguistici non condivisibili ma documentati e ancora in uso, e la volontà di stigmatizzare abitudini ed espressioni deprecabili, ricorrono a indicazioni e prese di distanze da tali usi (per esempio, i proverbi nei quali è presente la parola donna, come «chi disse donna disse danno», «donne e buoi dei paesi tuoi», «chi vuol vivere e star sano, dalle donne stia lontano», «le donne ne sanno una più del diavolo», ecc., sono segnalati come “tradizionali, ma ormai di poca attualità”). 
 
La coppia, di fatto
 
A proposito della stereotipia e del conformismo che, a volte per inerzia, rischiano di perpetuarsi attraverso il tempo anche attraverso le pagine dei dizionari, mi limiterò a fare pochi esempi che testimoniano la volontà di rinnovamento, mettendo a confronto definizioni o parti di definizioni di voci della prima e della terza edizione. Per il lemma coppia nella prima edizione si spiegava: “in partic., di fidanzati o di sposi: essere, formare una bella coppia (e con riferimento antonomastico alla coppia di sposi e alla vita matrimoniale, ma anche, in genere, alla coppia uomo-donna conviventi in unione libera: i problemi della coppia; la crisi della coppia nella società moderna). Nella terza si è passati a: «In partic., due persone legate da un rapporto amoroso o dal vincolo coniugale: essere, formare una bella coppia; i problemi della coppia; la crisi della coppia nella società moderna; coppia di fatto, due persone conviventi legate da un rapporto amoroso stabile (è detta anche unione di fatto); coppia aperta, con riferimento a due persone che, pur legate da una relazione amorosa stabile, accettano che il partner abbia rapporti sessuali e sentimentali con altri». Allo stesso modo le locuzioni dichiarazione d’amore, fare una dichiarazione ecc. erano seguite dalla spiegazione «manifestare a una donna il proprio amore», diventato nella terza «manifestare il proprio amore alla persona amata». Ancora: la voce omosessualità, definita nella prima edizione: «Tendenza a rivolgere l’interesse libidico verso persone del proprio sesso, che può essere presente in forme e gradi diversi, ora latente e inconsapevole, ora manifesta e più o meno inibita o realizzata come pratica erotica» si è trasformata, nella terza edizione, in «Attrazione sessuale verso persone del proprio sesso (in contrapposizione a eterosessualità): omosessualità maschile; omosessualità femminile»; infine, a testimoniare la presenza di voci superate e inattuali talvolta rimaste immutate, come residui d’altri tempi, nella prima edizione, ecco la voce caterinetta, che era così definita: «Nome con cui si designano in Piemonte (da s. Caterina d’Alessandria loro patrona) le sartine o le modiste, spec. quelle che s’avviano a rimanere zitelle», passata nella terza a: «Nome con cui si designavano nel passato, in Piemonte, (da s. Caterina d’Alessandria loro patrona) le sartine o le modiste, spec. quelle che s’avviavano a rimanere nubili».
 
Neologismi ma con giudizio
 
Una cautela particolare è stata riservata all’accoglimento dei neologismi. Memore dell’insegnamento di Bruno Migliorini e dei suoi consigli sul criterio dell’“uso incipiente”, si sono accolte soprattutto le neoformazioni per le quali l’attecchimento nell’uso era non solo prevedibile, ma già ampiamente documentato (da graffitaro a messaggino a stragismo), destinando ad altro tipo di repertorio la registrazione delle numerosissime neoformazioni che hanno testimoniato la capacità di innovazione e la produttività lessicale della lingua italiana nell’ultimo decennio (per le quali rinvio a Giovanni Adamo, che racconterà la sua esperienza di neologista).  
 
Da Arbasino alla Parrella
 
Maggiore spazio è stato dato, invece, alla lingua degli autori. Consapevole che non sono più gli scrittori a rappresentare un modello di imitazione per la lingua scritta (Coletti 1989: 11), ho scelto di accostare ai nomi ormai consacrati dalla storia della letteratura anche poeti e prosatori importanti per la storia della lingua italiana, ma non presenti nelle due edizioni precedenti: Alberto Arbasino, Umberto Eco, Raffaele La Capria, Claudio Magris, Alda Merini, Ermanno Rea, Francesca Sanvitale, Clara Sereni, Antonio Tabucchi e moltissimi altri, fino a comprendere autori più giovani, di fama e diffusione più recente, proprio per testimoniare e documentare, attraverso citazioni tratte dalle loro opere, l’uso di una lingua più vicina ai modi e alle strutture del parlato. Per fare solo qualche nome, Eraldo Affinati, Niccolò Ammaniti, Silvia Ballestra, Alessandro Baricco, Giuseppe Culicchia, Andrea De Carlo, Marcello Fois, Carlo Lucarelli, Marco Lodoli, Melania Mazzucco, Michele Mari, Antonio Pascale, Valeria Parrella, Francesco Piccolo, Lidia Ravera, Roberto Saviano, Domenico Starnone, Sandro Veronesi, e molti altri.
 
Il “restauro conservativo”
 
In questo modo, attraverso la scelta del “restauro conservativo” l’opera è stata arricchita di nuove tonalità e nuove sfumature, nel tentativo di offrire ai lettori uno strumento capace di rappresentare la lingua italiana in tutti i suoi aspetti: dalla grande tradizione letteraria alla terminologia tecnico scientifica, dagli usi scritti a quelli del parlato informale.
Il compito del lessicografo è un compito ingrato e faticoso: Bruno Migliorini, in un suo famoso volumetto (Migliorini 1961: 77), ricordava le parole di A. Ewald, autore di un vocabolario bilingue ottocentesco: «Tutti gli altri autori possono aspirare alla lode; i lessicografi non possono aspirare che a fuggire ai rimproveri». Pur condividendo in parte quell’affermazione e quel destino, preferisco concludere queste riflessioni citando le parole tratte da un libro di Gesualdo Bufalino (Bufalino 1984: 78): «Se finissi in un’isola […] non vorrei altro libro che un dizionario. Tante sono le grida e le musiche ch’è possibile udire nelle sue viscere vertiginose».
 
Bibliografia di riferimento
 
Bufalino, G. (1984), Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, Palermo, Sellerio.
Coletti, V. (1989), Italiano d’autore. Saggi di lingua e letteratura del Novecento, Genova, Marietti.
Costa, C. (1985), Rassegna bibliografica della lessicografia italiana recente, in «Bollettino di Italianistica», III, fasc. 1/2, pp. 1-13.
Della Valle, V. (2007). La lessicografia italiana, oggi, in «Bollettino di italianistica»IV (2), pp. 20-29.
Della Valle, V. (2005), Dizionari italiani: storia, tipi, struttura, Roma, Carocci.
Jackson H. (2002), Lexicography. An introduction, London and New York, Routledge.
Marazzini, C. (2009), L’ordine delle parole. Storia di vocabolari italiani, Bologna, il Mulino.
Mengaldo P.V. (1994), Storia della lingua italiana. Il Novecento, Bologna, il Mulino.
Migliorini, B. (1961), Che cos’è un vocabolario?, Firenze, Le Monnier.
Nencioni, G. (1985), Verso una nuova lesssicografia, in «Studi di lessicografia italiana», VII, 1985, pp. 5-19.
Serianni, L. (1994), Panorama della lessicografia italiana contemporanea, in Atti del Seminario Internazionale di Studi sul Lessico, a cura di H. Pessina Longo, Bologna, CLUEB, pp. 29-43.
Yaguello M. (1980), Le parole e le donne, Cosenza, Lerici.