Lingua Italiana

Federico Faloppa

Federico Faloppa è Programme Director di Italian Studies nel Dipartimento di Lingue e Culture dell’Università di Reading, dove insegna Storia della lingua, Linguistica generale, Sociolinguistica e Discourse analysis. È inoltre consulente di Amnesty International su hate speech e contrasto al linguaggio d’odio, e collabora con la Fondazione “Alexander Langer” di Bolzano, l’Associazione “Carta di Roma”, COSPE Onlus. È visiting professor all’Università di Torino, e si occupa prevalentemente di rappresentazione della diversità nel linguaggio e nei media, di linguaggio e discriminazioni, e di politiche linguistiche e migrazioni. Tra le sue pubblicazioni: “Parole contro” (Garzanti, 2004); “Le calunnie etniche nella lingua italiana” (UTET, 2009); “Razzisti a parole (per tacer dei fatti)” (Laterza, 2011); “Non per il potere” (Chiarelettere, 2012), “Sbiancare un etiope” (Aracne, 2013), “Contro il razzismo” (con Marco Aime, Guido Barbujani e Clelia Bartoli; Einaudi 2016), “Brevi lezioni sul linguaggio” (Bollati Boringhieri, 2019) e “Beyond the border. Segni di passaggi attraverso i confini d’Europa” (con Luca Prestia; Fondazione Nuto Revelli, 2019). Foto di Luca Prestia

Pubblicazioni
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L’hate speech, questo sconosciuto

 

Di «linguaggi», «discorsi», «parole d’odio» – o, per usare l’originaria locuzione inglese, di «hate speech» – sentiamo parlare ormai quasi tutti i giorni. Purtroppo.

Ne sentiamo parlare in relazione alle tante, troppe notizie di cronaca che riportano aggressioni – verbali e fisiche, ai danni di individui o gruppi di persone – causate da razzismo, omo-lesbo-transfobia, misoginia, antisemitismo, islamofobia. O da una serie di altri motivi come la diversa nazionalità, la disabilità, l’età, ecc. Motivi che, agli occhi degli aggressori, possono giustificare umiliazioni, violenze, discriminazioni.

Ne sentiamo parlare ancor più spesso quando insulti, offese, minacce vengono arrecati – e ricevuti – a mezzo social. Non di rado, in quantità e qualità tale da produrre vere e proprie «tempeste» d’odio: rende bene l’idea se le chiamiamo shitstorm.

Sentiamo così frequentemente parlare di linguaggi, discorsi, parole d’odio, hate speech da pensare (anzi, temere) che si tratti ormai di un fenomeno connaturato, complementare alla comunicazione quotidiana. A vari livelli: dalla comunicazione privata a quella pubblica, dalla comunicazione «mediatizzata» a quella istituzionale. E non è che ne sentiamo soltanto parlare, come se la cosa non ci riguardasse. Possiamo esserne noi (casualmente) le vittime, quando non (deliberatamente) gli artefici.1   

Tuttavia, se dovessimo dire esattamente che cosa intendiamo con linguaggio, discorsi, parole d’odio o hate speech, probabilmente dovremmo rifletterci un po’. Non per mancanza di esempi. Ma perché – è il paradosso notato da Andrew Sellars, ricercatore dell’università di Harvard – la gamma di sentimenti, stati d’animo e reazioni che queste locuzioni e le forme con cui si articolano suscitano in ognuna o ognuno di noi è così ampia e diversificata da sfuggire a una definizione sola, capace di accontentare tutte e tutti.

Non che le definizioni manchino. Se ne trovano anzi molte, diverse. Ma nessuna sembra apparire esaustiva, completa, rigorosa. «Tutti deplorano le condotte espressive [di hate speech] – è la provocazione del filosofo del diritto Gianmarco Gometz ricordata da Raffaella Petrilli nel suo contributo a questo speciale – ma nessuno sa esattamente quali siano, dato l’inusitato grado di genericità e vaghezza che contraddistingue ciascuna delle sue varie definizioni».

«Basta osservare le definizioni di hate speech in circolazione – rimarca Petrilli nel suo articolo – per constatare che soffrono dei due limiti della circolarità e dell’empiricità. La prima consiste nell’errore di definire qualcosa... usando come definizione... quello stesso qualcosa. L’empiricità entra in gioco invece quando la definizione si riduce a un elenco di casi concreti, si tratti poi di elenchi dei contenuti d’odio già registrati dalla cronaca o dalla storia; dei mezzi di comunicazione usati per la diffusione; o delle forme linguistiche ritenute incitamento all’odio».

E in effetti è difficile sfuggire a questa sensazione. Prendiamo la definizione di hate speech del dizionario online Treccani, ad esempio: «Nell’àmbito dei nuovi media e di Internet, espressione di odio e incitamento all’odio di tipo razzista, tramite discorsi, slogan e insulti violenti, rivolti contro individui, specialmente se noti o famosi, o intere fasce di popolazione (stranieri e immigrati, donne, persone di colore, omosessuali, credenti di altre religioni, disabili, ecc.)».

Si tratta di una definizione chiara, concisa, foriera di domande in attesa di risposta. Fino a che punto è un fenomeno, quello dell’hate speech, che si può restringere ai nuovi media e a Internet? Che cosa si intende esattamente per «espressioni», o «discorsi»? Quali sono le loro forme linguistiche? Ancora: qual è – o dovrebbe essere – la differenza tra «espressioni d’odio» e «incitamento all’odio»? E quali sono le dinamiche della loro produzione e diffusione? Quali i diversi effetti, da parte di chi li riceve?

Certo, la definizione è presa da un dizionario della lingua redatto per un pubblico eterogeneo, non da un trattato. Le cose non cambiano di molto se prendiamo definizioni più specifiche – o almeno con l’ambizione di esserlo – tratte da documenti dedicati espressamente al tema, come la Raccomandazione sull’hate speech del Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa n. 20 del 1997: «il termine “discorso d’odio (hate speech)” deve essere inteso come l’insieme di tutte le forme di espressione che si diffondono, incitano, sviluppano o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo ed altre forme di odio basate sull’intolleranza e che comprendono l’intolleranza espressa attraverso un aggressivo nazionalismo ed etnocentrismo, la discriminazione l’ostilità contro le minoranze, i migranti ed i popoli che traggono origine dai flussi migratori». O come la Raccomandazione di politica generale n. 15 della Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa (ECRI), del 21 marzo 2016, che definisce l’hate speech come «l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo, e comprende la giustificazione di queste varie forme di espressione, fondata su una serie di motivi, quali la “razza”, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale».

L’ampliarsi delle definizioni non equivale necessariamente a chiarezza o esaustività. E infatti, i punti interrogativi non mancano. Solo per fare qualche esempio: quali «forme d’espressione» devono rientrare nella definizione? Quelle che vi rientrano – insulti, stereotipi, minacce, ecc. – sono formalmente e pragmaticamente comparabili? La «serie di motivi» è una serie chiusa o aperta? Devono trovare spazio indicazioni legate al mezzo di diffusione e alle sue caratteristiche? O relative all’impatto che l’hate speech – a seconda della tipologia e della frequenza delle sue espressioni – può avere su chi lo subisce? Come far rientrare i diversi gradi di responsabilità di chi produce hate speech o lo diffonde?2

E ancora: a chi deve essere utile una definizione di hate speech? Ai parlanti in genere? Settorialmente, alla giurisprudenza, che deve tentare di tradurla in norme – civili o penali – che stabiliscano fattispecie di reato e condanne precise? Alle ‘vittime’, sul piano delle tutele e dei diritti? A soggetti collettivi, per una maggiore consapevolezza e comprensione del fenomeno? Ai governi, per l’attuazione di misure di prevenzione e contrasto? A vecchi e nuovi media, che devono – dovrebbero – dotarsi di codici di condotta e policy specifiche?

Detta altrimenti: quante variabili dovrebbero essere prese in considerazione relativamente alle forme, ai motivi, ai canali di produzione e diffusione, allo spazio (pubblico o privato), agli attori coinvolti, alle responsabilità, al danno arrecato, alle misure?

Per riferirci infine al solo piano del linguaggio: è possibile riconoscere l’hate speech dalla sua forma linguistica?

 

Una strategia discorsiva?

 

Proprio per tentare di rispondere ad alcune di queste domande è nato questo «Speciale» per la pagina di «Lingua italiana» del portale Treccani. E proprio dall’ultima domanda prende spunto l’articolo La strategia pubblica dell’odio di Raffaella Petrilli. Sulle forme linguistiche dell’hate speech, tanto quelle esplicite, quanto quelle più implicite – nella loro monografia Caterina Ferrini e Orlando Paris parlano a ragione di «odio velato»3 – si è molto indagato in anni recenti, non solo in Italia (per una visione d’insieme, rimando al mio #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole, UTET, 2020, pp. 145-190), scoprendo che gli appellattivi ingiuriosi (le cosiddette hate words o «parole per ferire», per citare un noto articolo di Tullio De Mauro) non sono che la punta dell’iceberg. Ad essi infatti si aggiungono – solo per fare alcuni esempi – crittografie, slogan, metafore deumanizzanti, implicature e presupposizioni, argomentazioni fallaci. Un materiale eterogeneo capace di aggirare le censure, di sfuggire alle maglie sempre più strette degli algoritmi, di camuffare il discorso d’odio rendendolo meno esplicito. Ma anche di difficile sistematizzazione. A meno che non lo si osservi all’interno di una struttura ricorrente: se non sul piano testuale almeno su quello pragmatico.

L’intuizione di fondo – scrive Petrilli – è che l’hate speech «costituisca una ben precisa strategia discorsiva in azione nello spazio pubblico democratico, le cui caratteristiche linguistiche sono di natura pragmatica, ovvero riguardino il modo in cui il parlante hater assegna un ruolo discorsivo all’ “odiato”... sottraendogli il ruolo di interlocutore (tu) per confinarlo nel ruolo di “persona al di fuori della relazione di interlocuzione” (lei, lui)». In sostanza, incitando alla “rottura” del normale rapporto dialogico con l’altro, «respingendolo nella posizione del “muto”».

L’obiettivo è quello di evidenziare strutture linguistiche soggiacenti alle loro diverse possibili realizzazioni: strutture pragmatiche di incitamento all’odio, le cui componenti concorrono «a realizzare la contrapposizione tra un parlante, valorizzato in positivo, e una ‘terza persona’ la cui connotazione negativa fonda la richiesta di espungerlo dal piano della discussione pubblica». Che è poi uno degli obiettivi perseguiti dalle persone hater: ridurre l’altro al silenzio, negandogli visibilità, agentività, e in ultima analisi diritti.  

Se questa analisi sembra efficace in relazione allo spazio pubblico, resta ancora in gran parte da studiare, tuttavia, l’impatto cognitivo che il discorso d’odio ha sulle sue ‘vittime’, sia dirette – i target primari di hate speech – sia indirette – i gruppi cui le ‘vittime’ appartengono.4 Quali danni produce alla ‘vittima’ e alle ‘vittime’ l’hate speech nel breve, medio, lungo periodo non solo circa la (osteggiata) partecipazione al dibattito pubblico, ma anche sul piano psicologico, individuale e collettivo? Fino a che punto possono servire gli studi sull’insulto di Timothy Jay – laddove sostiene che la carica offensiva di un termine dipende dai fattori contestuali dello status del parlante, del luogo di produzione, e del potere detenuto dal parlante in quel luogo – o quelli di Steven Pinker sulle imprecazioni, governate «da quelle stesse aree del cervello che gestiscono fenomeni di basso livello come le emozioni o le funzioni corporee»?5

Ancora: esiste una gradualità del danno a seconda dell’espressione linguistica, del contesto, della frequenza con cui si viene aggrediti? Un’ingiuria ferisce più di una minaccia? Una calunnia rivolta a un gruppo («gli X sono tutti ladri!») quali conseguenze ha – sul piano cognitivo – sui singoli individui di quel gruppo? E di contro, la violenza su un individuo quali limitazioni (di movimento, di espressione, di pensiero, ecc.) pone alla comunità o il gruppo di cui quell’individuo fa parte?

La ricerca dimostra che se anche non lasciano lividi o fratture, i discorsi d’odio possono lasciare ferite profonde: dalla perdita di autostima, allo stress post-traumatico, da un senso di frustrazione a forme depressive.6 Chi dice che «si tratta solo di parole», evidentemente, non ha mai provato davvero l’hate speech sulla propria pelle. Anzi, sulla propria psiche.

 

Tra diritto e semantica: effetti dell’intreccio di ingiurie

 

La materia è complessa. E molti nodi, anche concettuali, restano ancora da sciogliere. Come il nodo sull’hate speech «intersezionale», su cui si interroga Barbara Giovanna Bello nel suo contributo. L’odio – spiega Bello – non viene espresso «a compartimenti stagni», ma spesso incrocia, colpendole, diverse categorie e motivazioni (nazionalità, colore della pelle, religione, etnia. Non è un caso che «l’immagine che ha ispirato questo neologismo [intersezionalità] è l’incrocio stradale... Se pensiamo a una persona situata al centro di un incrocio e ipotizziamo che il veicolo proveniente da ogni strada che vi converge sia una categoria dell’identità, allora si può desumere che gli incidenti (discriminazioni, oppressioni, discorsi d’odio) causati simultaneamente da più vetture al centro dell’incrocio siano qualitativamente diversi da quelli prodotti da un veicolo alla volta».

«Ti odio perché sei donna, perché sei nera, o perché sei una donna nera?» – si chiede provocatoriamente Bello, riprendendo gli studi pioneristici di Kimberlé Crenshaw. E quindi, sul piano delle tutele, «ti difendo perché sei donna, perché sei nera, o perché sei una donna nera?». L’intersezionalità, scrive Bello, va affrontata prima di tutto sul terreno legislativo: «se l’odio non si manifesta sempre a compartimenti stagni, allora anche il diritto dovrebbe equipaggiarsi di strumenti adeguati a prevenire e contrastare le espressioni specifiche lesive delle persone offese dal reato, senza costringerle a strapparsi pezzi di identità nello scegliere sulla base di quale categoria sporgere denuncia». Ma andrebbe approfondita anche sul piano linguistico-semantico. Perché – per citare ancora i lavori di Kimberlé Crenshal7 – la discriminazione causata da più caratteristiche simultaneamente è qualitativamente diversa da quella causata da una caratteristica alla volta. E l’impressione è che in un epiteto come «viziata comunista tedesca», che nel luglio 2019 Matteo Salvini era solito rivolgere a Carola Rackete8, l’efficacia dell’ingiuria sia data dalla somma dei tre elementi, le cui connotazioni negative si potenziano proprio in ragione della loro co-collocazione, stabilendo un legame tra le tre caratteristiche richiamate (la classe sociale, l’appartenenza politica, la nazionalità) che agli occhi del lettore – e delle migliaia di commentatori al post – rendono il bersaglio ancora più odioso.

 

Controparola, contronarrazione e aikido

 

Sulla necessità di indagare in profondità gli atti linguistici e i loro effetti anche per poter valutare l’adeguatezza degli strumenti giuridici e delle risposte sociali si sofferma anche Corrado Fumagalli nel suo articolo. «Il discorso d’odio, perché abbia gli effetti sperati – spiega Fumagalli – deve poggiare su un terreno comune intollerante composto di presupposizioni implicite ed esplicite. Se però l’hate speech è ben piantato in questo terreno, le sanzioni, adatte a colpire solo il parlante, si rivelano quasi innocue». Lo stato tuttavia – prosegue l’autore – non è solo sanzionatorio. Dispone di mezzi necessari per attivare programmi di educazione civica e celebrare gli eroi della tolleranza. Può assistere le vittime dell’hate speech. Può soprattutto fornire dei modelli, incidere sulla consapevolezza dei cittadini, lavorare per attenuare diseguaglianze profonde sul piano materiale e dei diritti umani. Ma questo richiede tempo, risorse, e una visione di largo respiro.

«Gli effetti nocivi del discorso di incitamento all’odio sulla sfera pubblica non si possono cancellare con una bella passata di bianco». Né – prosegue Fumagalli – sono sufficienti tentativi di blocking: quando aspre disuguaglianze condizionano l’accesso al sapere, esporre fatti e vizi di ragionamento difficilmente attenua gli effetti dell’hate speech. Questo perché ci sono parole o modi di dire ripetuti quasi meccanicamente che condizionano scambi e interazioni a tutti i livelli fino a comporre un vero e proprio «rumore di fondo», pervasivo e difficilmente ignorabile.

Quanto efficaci possono essere allora, in questo contesto, le azioni di «controparola»?

Quanto serve, ad esempio, una contronarrazione che partendo da un titolo di giornale come «C’è poco da stare allegri. Calano fatturato e PIL ma aumentano i gay» («Libero», 23 gennaio 2019) produca – col rischio di rilanciare il testo di partenza, senza peraltro arrivare ai suoi lettori – un messaggio come «C’è poco da stare allegri. Calano fatturato e PIL ma aumenta l’omofobia», come si fece – e fui coinvolto anch’io, in quel tentativo – per far emergere tutta la portata omofobica della titolazione del quotidiano?

La contronarrazione – lo suggerisce efficacemente Gianrico Carofiglio nel suo ultimo libro Della gentilezza e del coraggio – è un po’ come l’aikido: permette di combattere l’avversario (in questo caso chiunque produca discorso d’odio) con le sue stesse mosse, le sue stesse parole. Insegna la resilienza: la capacità di adattarsi alle situazioni volgendole in proprio favore. Ma anche nell’aikido, come in tutte le discipline, per vincere bisogna conoscere la tecnica giusta. Fuor di metafora, la resilienza è tanto più efficace quanto più si è consapevoli dei propri mezzi, e dei limiti dell’avversario.

Ma se a mancare è proprio questa consapevolezza?

Se la consapevolezza dei propri diritti, dei propri mezzi linguistici ed espressivi, degli strumenti digitali che si stanno utilizzando non fosse ancora patrimonio di tuttƏ?

Racconta Flavio Alivernini ne La grande nemica (People, 2019), a proposito delle denunce di Laura Boldrini a carico dei suoi hater, che molte delle persone che avevano oltraggiato l’ex presidente della Camera sui social media, denunciate pubblicamente e messe di fronte alla gravità dei fatti, si mostravano fragili, incredule, sostenendo che mai avrebbero pensato di causare tanto danno, e che avevano scritto quei messaggi come sfogo personale, accessibile solo da pochi amici, ignare della portata delle loro azioni. Emergeva chiaramente la loro scarsa consapevolezza dei mezzi: linguistici, certo, ma anche tecnologici.

Proprio alla necessità di educare ed educarsi all’uso dei media richiama Alessandra Vitullo nel suo articolo.

La media education – e in particolare la corretta fruizione e produzione di contenuti online, soprattutto tra i più giovani – è al centro delle politiche della Unione Europea dal 2017, dalla pubblicazione del DigComp 2.1: The Digital Competence Framework for Citizens: un documento che ha l’obiettivo di standardizzare le competenze digitali e di uniformare gli strumenti per acquisirle. Ma nessuna proposta, per quanto buona, funziona se non viene adeguatamente sostenuta. 

«Una società digitale realmente inclusiva per tutte e tutti – scrive a ragione Vitullo – deve tener conto anche di un’alfabetizzazione digitale che passi attraverso incentivi per la qualità dell’istruzione e della formazione in generale, policy di supporto alle famiglie che risultano maggiormente in affanno nel seguire la piena crescita e lo sviluppo armonioso del nucleo familiare, e tutti quei provvedimenti necessari per consentire anche a chi risulta più in difficoltà di apprendere e utilizzare tutte le risorse delle TIC. Servono quindi politiche parallele a quelle indirizzate alla mera erogazione di tecnologie, che vadano a colmare le lacune riguardo l’uso responsabile e critico di queste ultime da parte di studenti e familiari. La scuola è sicuramente uno di quei luoghi in cui questo spazio può essere ricavato, e la recente introduzione dell’educazione civica, che presenta anche una parte specifica sull’educazione civica digitale, è sicuramente un’importante opportunità in questo senso».

Educazione linguistica, educazione civica, educazione digitale, educazione alla cittadinanza inclusiva: un progetto articolato, a partire dalla scuola, per contrastare l’hate speech sul terreno della consapevolezza e della conoscenza, prima ancora che su quello giuridico. Serve tempo, però, e servono scelte chiare da parte di tutti gli attori coinvolti: lo stato, studenti e insegnanti, le famiglie. Senza dimenticare – tra gli altri – chi lavora nell’informazione, e le forze politiche, che devono essere in grado di generare modelli virtuosi e non, invece, fare da cassa di risonanza a quel meccanico, pervasivo rumore di fondo. Ed è centrale il ruolo delle piattaforme, dei social media provider.9 Senza un loro intervento deciso, e una ferma condivisione di responsabilità nel prevenire la diffusione di hate speech online rimuovendone i contenuti chiaramente illegali, o nell’assistere gli utenti rendendo tracciabili le loro segnalazioni, o nell’adeguare i loro codici di condotta per il pieno rispetto non soltanto degli standard aziendali ma anche dei diritti umani, molti sforzi lasceranno il tempo che trovano.

L’hate speech – non solo online – è tema complesso, che richiede monitoraggi e analisi costanti per consentire una visione complessiva delle forme linguistiche in cui si articola, della percezione delle persone che ne vengono colpite, del quadro giuridico in cui deve essere collocato – in delicato equilibrio tra norme che tutelino la libertà di espressione e norme che contrastino la discriminazione e l’esclusione – dei processi cognitivi che attiva e condiziona, degli attori che coinvolge, delle misure di breve, medio e lungo periodo che richiede. Molto, per fortuna, sappiamo già, stiamo già facendo (come dimostra anche la creazione di una Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, di cui fanno parte alcune delle persone che hanno contribuito a questo «Speciale»). Ma molto ancora resta da scoprire, da approfondire: a partire dal linguaggio, come si è cercato di dimostrare anche qui.

Tra tante domande, affiora però la certezza che il lavoro da fare non sia soltanto ingente, ma anche piuttosto urgente, se è vero che la proliferazione del discorso d’odio sta condizionando, in maniera crescente, parte del dibattito pubblico e politico, riducendo gli spazi e le occasioni di dialogo e confronto civile, generando diffusi fenomeni di esclusione, discriminazione, violenza (non solo verbale). Già condividere questa urgenza sarebbe, credo, un ottimo punto di partenza.

 

Note

1 Cfr. Vera Gheno, Se gli hater siamo (anche) noi: gli errori comuni su social e giornali, «Agenda digitale», 16 luglio 2020.

 

2 Cfr. Federico Faloppa, #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole, UTET, 2020, pp. 23-33.

 

3 Caterina Ferrini e Orlando Paris, I discorsi dell’odio. Razzismo e retoriche xenofobe sui social, Carocci, 2019.

 

4 Sul concetto e sulle tipologie di ‘vittima’, in relazione all’hate speech, rimando ancora a Faloppa, #Odio, cit., pp. 219 sgg.

 

5 Cfr. Filippo Domeneschi, Insultare gli altri, Einaudi, 2020, pp. 64; 67.

 

6 Cfr. Faloppa, #Odio, cit., pp. 23-33.

 

7 A cominciare dal fondamentale Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, «The University of Chicago Legal Forum», Vol. 1989, Issue 1, pp. 139-67.

 

8 Cfr. ad esempio: «La nuova eroina della sinistra è stata interrogata per quattro ore...Ci sarà un giudice che almeno stavolta farà rispettare le leggi, la sicurezza e la dignità del nostro Paese? Io non vedo l’ora di espellere questa viziata comunista tedesca e rimandarla a casa sua» (Matteo Salvini, post su Facebook, 19 luglio 2019).

 

9 Cfr. l’eccellente punto di partenza, sull’argomento, fornito da Article 19, Self-regulation and ‘hate speech’ of social media platform, 2018.

 

 

Immagine: Screenshot dal film d’animazione Robin Hood (1973)

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Lessici del possibile

 

Ancora sul «virus dell’odio»

 

«Non c’è mai fine al peggio», recita il proverbio. E i proverbi, si sa, spesso ci azzeccano. Ma non è detto che sia un bene. Specialmente in questo caso. Nel mio articolo di due settimane fa, Virus dell’odio: metafora o realtà?, cercavo di capire se e come nei mesi scorsi i discorsi sulla malattia e i discorsi d’odio (hate speech) si fossero in qualche modo intrecciati. A prima vista, la (grande) quantità di hate speech che aveva circolato nel web (ma non solo) prima della diffusione della Covid-19 sembrava essersi ridotta. Ma era davvero così, o era soltanto perché se ne parlava meno, perché erano cambiati i target e le dinamiche, perché ancora molti dati – sulla relazione tra fake news, creazione della paura, ricerca del capro espiatorio, per esempio – restavano da raccogliere e analizzare? Le prime abbozzate risposte a questa domanda non lasciavano ben sperare. E in questi giorni ne abbiamo avuto la conferma: la quantità e la violenza dei discorsi d’odio visti e letti a partire da domenica scorsa è arrivata come uno schiaffo a svegliarci dal torpore. Ciò a cui si abbiamo assistito – e che Silvia Aisha Romano e la sua famiglia ha dovuto subire – è forse una delle pagine più vergognose di questo sciagurato 2020. Un punto a favore, se così si può dire, di sessisti e odiatori da tastiera, che si sono scatenati come non mai trovando sponde inattese (in quelli che, pur non utilizzando linguaggi offensivi e senza arrivare a insulti e minacce, adottavano uno sguardo coloniale e islamofobico per giudicare gli abiti e la conversione di Romano); un punto a sfavore di chi ha dato in pasto informazioni che avrebbero dovuto rimanere riservate – secondo prassi giuridica e buon senso terapeutico, in caso di rapimenti – a una stampa sempre più famelica, aggressiva, sensazionalistica (e non intendo solo i ‘soliti sospetti’ «Libero» e il «Giornale»...). Donna, giovane, cooperante, musulmana. Agli occhi di hater e moralisti le aveva tutte, Silvia Aisha Romano, per essere dileggiata, per mezzo di una micidiale intersezione tra sessismo, razzismo e paternalismo che ha esposto la donna a un attacco incrociato e su più fronti, basato «su più fattori che interagiscono tra loro in modo da non poter più essere distinti e separati» (Barbara Giovanna Bello). Un’intersezione che ha fatto sì che anche chi, da sinistra, esprimeva il proprio disappunto sulle scelte religiose di Romano – con quale diritto, non è dato sapere – facesse rimbalzare in qualche modo anche gli altri elementi interconnessi al fattore religioso: il genere, l’età, la presunta inesperienza, ecc. «Vengo da una comunità scozzese asiatica. Sono musulmana. E sono una donna – raccontava la parlamentare conservatrice Tasmina Ahmed-Sheikh agli intervistatori del progetto di Amnesty International Toxic Twitter – E quindi c’è tutto. [E questo insieme] ha un effetto esponenziale, perché le persone potranno offendermi contemporaneamente per una serie di ragioni diverse. Alcuni lo faranno perché sono tutte quelle cose insieme, altri perché sono una, o due di quelle cose, il che mi renderà molto più difficile capire come rispondere. Sarò costretta a chiedermi: da dove comincio?». Si chiama «discriminazione intersezionale», e in Italia una massa di torquemada da tastiera l’ha efficacemente messa in atto pochi giorni fa, coi risultati che abbiamo visto.

No, tutto questo non lascia ben sperare...

 

Alla ricerca di parole altre

 

Eppure... Se il linguaggio dell’odio è vivo e vegeto, e lotta... contro Silvia Aisha Romano e contro tutti noi che ne siamo sbigottiti testimoni; se il linguaggio dei media è, salvo poche eccezioni, quello che è; se ci siamo assuefatti a tal punto ai gerghi tecnico-scientifici legati alla Covid-19 da lasciarceli ormai scivolare addosso; se il linguaggio istituzionale – come ha magistralmente spiegato Michele Cortelazzo su questo sito – ha ritrovato tutta la sua patina di anti-lingua, non è detto che – altrove – non si possa cercare un barlume di novità, non solo linguistica. Prendiamo per esempio i lessici e gli «alfabeti» non ufficiali: quelli scritti in forma di diario delle scorse lunghissime settimane. Quelli soggettivi, impressionistici, ‘dal basso’. Molti e molte fra noi si sono costruiti – anche solo mentalmente – un lemmario, una particolare raccolta di parole ed espressioni a cui le fasi più acute della pandemia sono e saranno per sempre legate. Non solo parole, in realtà: ma anche immagini, meme, suoni, segni iconici conservati apparentemente in ordine sparso, ma con una loro logica di tavola mnemonica. Una sorta di Bilderatlas dove condensare l’impressione degli eventi: che permetta – proprio come l’antesignano dei Bilderatlas, il sorprendente, incompiuto, enciclopedico Mnemosyne di Abi Warburg – di riattivare e scaricare la memoria non solo personale ma anche sociale e culturale del periodo che abbiamo vissuto.

Ognuno di noi sa che la Covid-19 ha arricchito, o perlomeno cambiato, il nostro vocabolario: introdotto neologismi, imposto slogan, modificato di segno molto dei termini che eravamo soliti usare. Forzato collocazioni. Come ha scritto Karen Russell sul «New Yorker» del 6 aprile scorso (How the Coronavirus Has Infected Our Vocabulary), «we are witnessing the shotgun weddings of words into some strange unions, neologisms sped into existence by this virus… epidemiological vocabulary hitched together by Twitter hashtags». Parole che non avevamo mai visto collocate insieme sono diventati sintagmi frequenti. Non necessariamente come stilemi fissi, però, con significati stabili. «Se penso a Community spread – ironizza Russell – immagino (e qui traduco) «una compagnia locale di teatro con un terribile accento inglese starnutire sull’audience, nudisti che si rotolano come foche su tovaglie da picnic a scacchi». Molte parole ed espressioni sono entrate nella nostra vita: sono lì, ben acclimatate ormai, ma non è affatto detto che a tutti e tutte evochino le stesse immagini. E non è detto – soprattutto – che queste immagini si connettano per ognuno di noi nella stessa maniera. Che questi Bilderatlas pandemici funzionino allo stesso modo.

 

Istantanee dall’isolamento

 

Alcuni Bilderatlas sono costruiti come una raccolta di istantanee. Una raccolta di istantanee della ‘fase 1’ dell’epidemia è – fin dal titolo – Parole contro la paura. Istantanee dall’isolamento, di Vera Gheno: un instant book in forma di alfabeto dove ogni voce è una pagina di diario ricco di spunti lessicologici e sociolinguistici, ma anche il filo di una tela dove tutto si intreccia, si tiene, e se sollecitato sembra vibrare all’unisono.

«Protagonisti della storia di una lingua, di ogni lingua – premette Gheno a inizio libro – sono i suoi parlanti. Non la “narrazione ufficiale”, quella dei mezzi di comunicazione di massa o dei linguisti, ma quella ingenua, fallata, a tratti zoppicante ma multicolore e imprevedibile della comunità di chi quella lingua la usa davvero per le faccende quotidiane. E che cosa pensano, cosa provano, come si raccontano e come raccontano l’emergenza le persone oggi, intrappolate in questa situazione che molti non esitano a definire distopica?». L’autrice ha creato così un album di «polaroid di parole» a partire dai termini segnalati dai frequentatori del suo profilo Facebook pensando al momento che stavano vivendo. Ne è venuta fuori una raccolta di stati d’animo, sensazioni, sentimenti ma anche cose concrete, materiali, pratiche, a testimoniare «le piccole e grandi preoccupazioni delle persone immerse, anzi, quasi affogate nel loro quotidiano». Da questa raccolta sono state estratte le voci più ricorrenti, messe in fila «dalla A di attesa alla Z di zombie» (passando per bambini, casa, distanza, emergenza, famiglia, guanti... solo per citare le prime), accompagnate da termini collaterali, scelti dall’autrice e tratti dal racconto mediatico della pandemia (asintomatico, bollettino, comorbosità, droplet, epidemia, febbre, gregge), e da termini che «sono emersi, o tornati in auge, di questi tempi» e che in qualche modo del periodo contribuiscono a delineare lo spirito, il suo Zeitgeist. Ne sono esempi antifragilità, benaltrismo, corona, draconiano, e-, flashmob, guerra, ecc. È un Bilderatlas ordinato, strutturato, ma allo stesso tempo aperto e labirintico, quello di Gheno. Una mappa con coordinate precise, ma capace di indicare direzioni diverse.

Altro è il tentativo, e lo scopo, delle 100 parole della pandemia, il riuscito esperimento didattico che l’italianista Sergio Lubello ha costruito con i suoi studenti, individuando una serie di parole frequenti e rappresentative del periodo, e creando «una sorta di nuovo lessico famigliare» delle parole «che raccontano come è cambiato il mondo». Si tratta di una selezione che include registri e ambiti diversi, spiega Lubello nel post pubblicato nella sua pagina Facebook il 12 maggio per presentare l’iniziativa: «sono [parole] di nota tradizione letteraria (untore), altre dell’uso comune e riadattate o specializzate o risemantizzate (da guanto a mascherina a ventilatore), altre ancora in forma straniera nuove e meno nuove, talvolta inutili anglicismi (eurobond, lockdown, smart working)». Ci sono poi i tecnicismi medici, il gergo delle istituzioni e della politica (a partire dal famigerato congiunto), le sigle e gli acronimi (COVID, OMS, MES). E ancora: parole comuni capaci di costruire interi immaginari (balcone), termini storpiati (assemblamento), «slittamenti pandemici» (positivo), metafore belligeranti (il nemico) e animalesche (il gregge per immunità di gregge), quelle alienanti della controversa formazione a distanza (dad, fad, call, webinar, teams, zoom), quelle dell’isolamento e della speranza (ripartenza, riapertura, calo della curva), quelle della morte (urna, decesso). Infine, ci sono le parole degli idioletti come smutare (da mutare nel senso di ‘silenziare’, ingl. to mute, ovvero spegnere il microfono) o isolitudine, «che rievoca l’immagine solitaria dell’isola e il confine netto tracciato dal mare, e che pure richiama, in absentia, lembi deserti di spiagge da cui l’unica morte osservabile è per fortuna quella del sole al tramonto dietro la linea lontana dell’orizzonte». Un concetto, quest’ultimo, caro a molti scrittori isolani, da Sciascia a Bufalino a Tomasi di Lampedusa, ma qui declinato senza l’enfasi e la pesantezza che gli danno i confini, anzi con delicata condivisibile simpatia, nel senso etimologico del patire, sentire insieme.

Più istintuale, abbozzato, ma non per questo meno ricco di stimoli il Bilderatlas che mi hanno consegnato gli studenti di prima media dell’Istituto Comprensivo «Rita Levi-Montalcini» di Noceto in vista del nostro dialogo Il linguaggio ai tempi del Coronavirus, organizzato dalla onlus bolognese Amici dei popoli e dall’Assemblea Regionale dell’Emilia Romagna. Volendo partire da loro, dalle loro impressioni, ho chiesto agli studenti di inviarmi le parole per loro più significative di questo periodo. Come risposta, ho avuto una corposa lista accompagnata da una serie di riflessioni personali, non necessariamente articolate come definizioni dei lemmi. Nel riflettere intorno a pandemia, per esempio, Sara parla di ricordi, scuola, distaccamento, amici, paura. E di «attesa del rivedersi» che, dice «ci ha resi pazienti e ci ha preparato a quando magari, a un certo punto della nostra vita, ci separeremo. In qualche modo senza vederci siamo diventati più forti e uniti». A voler cercare i lemmi più ricorrenti, all’interno della lista, spiccano per frequenza famiglia e amici ma anche paura, isolamento, tristezza, noia, solitudine, perdere: parole che individuano pieni e vuoti quotidiani, e che scalfiscono non tanto la retorica dell’«andrà tutto bene» o sulla resilienza dei più giovani, quanto una irreale omogeneità di racconto, e introducono invece una pluralità di percezioni, fragilità, dubbi. Più che un atlante di immagini, una serie di punti sparsi su una mappa, in cerca di linea che li unisca.

 

Alfabeti pandemici

 

Un Bilderatlas composito, aperto, in continua espansione è invece l’Alfabeto pandemico. Nasce come espressione dello Stato dei Luoghi, una rete nazionale di «attivatori di luoghi e spazi rigenerati a base culturale», con l’obiettivo di «innovare le pratiche culturali, artistiche, educative e di welfare» e «contrastare le disuguaglianze e favorire l’inclusione sociale». Ma è diventato già molto altro. Non potendo in questo periodo lavorare in spazi fisici, la rete ha si è dotata di uno spazio virtuale. «Con le cinquanta realtà territoriali che compongono la rete ci saremmo dovuti trovare a Milano il 29 febbraio – mi racconta Emmanuele Curti, che con Ilda Curti (omonimi ma non parenti, ci tengono a precisare) è tra gli ideatori dello Stato dei Luoghi – ma vista la situazione siamo dovuti migrare sul web, come tutti». «Avevamo già iniziato a riflettere sul fatto che la malattia stesse accelerando dei processi, già in atto, di disgregazione e aggregazione, di welfare culturale e territoriale, rimodellando non solo i sistemi di produzione ma anche gli spazi culturali – aggiunge Ilda Curti – così a marzo ci siamo detti: perché non registrare questo cambiamento attraverso le parole?»

Parte così il progetto dell’Alfabeto, scaturito inizialmente da alcune domande («Come sta cambiando la percezione dello spazio comune dallo stato di sospensione domestica in cui ci troviamo? E cosa diventano gli spazi del comune quando il contatto dei corpi non è possibile? Quali parole abbiamo per costruire nuovi immaginari?») e diventato in breve tempo un contenitore di voci, esperienze, linguaggi.  

Per dare il là, a marzo è stato chiesto a una cinquantina di persone provenienti da ambiti diversi (nomi noti come Igiaba Scego, Annamaria Testa, Marino Sinibaldi, ma anche professionisti meno noti, attivisti, membri della rete) di proporre e discutere una parola significativa del periodo pandemico. «Credevamo nella necessità di questo progetto, ma non ne immaginavamo il successo - continua Emmanuele - inondati, come siamo stati, di parole, con le loro belle variegate definizioni. Evidentemente c’era un grande bisogno di esprimersi, di partecipare, di discutere anche in questa forma, e noi abbiamo contribuito a colmarlo».

Da fine marzo – quando la prima versione dell’Alfabeto è andata online – a fine aprile sono state raccolte circa ottocento parole: ottocento definizioni elaborate non con gli strumenti del lessicografo, o scritte da un punto di vista oggettivo, ma legate soprattutto a storie individuali di dolore, di perdita, di isolamento, di speranza. Come se di fronte al lessico ufficiale ci fosse l’esigenza di rimodellare un altro lessico, spesso articolato intorno agli stessi termini, per farlo aderire meglio al proprio vissuto. Così, anche se i lemmi sembrano in alcuni casi già visti, le loro definizioni non lo sono affatto. «Prendi la parola mamma, scritta da una persona che ci ha contattato solo recentemente: ti aspetteresti qualcosa di abbastanza prevedibile, e invece ti ritrovi con quanto più lontano ci possa essere dai cliché», racconta Emmanuele, «non ci credi? Eccola»

«Mamma. Maria Elena. Da adolescente lo avevo sentito per la prima volta, nome di una bambina dolcissima, e lo avevo trovato adorabile. Maria Elena. Quasi venti anni dopo il mio fidanzato mi presenta la sua mamma e quel nome sembra destino. E fu naturale iniziare a sognare Maria Elena, la mia, quella che avrebbe reso felicissimo mio marito. Ma tardava ad arrivare e iniziai ad avere paura anche dei miei sogni. Dei sogni che ti insegnano la pazienza, la stessa pazienza che insinua che non c’è molto tempo. E fa male quel corpo che si ribella ai tuoi sogni e alle tue speranze. E preghi ma chiedi alla scienza. E inizi il viaggio. E ti fermi. E ricominci. E sei costretta a fermarti ancora. E speri. E hai paura. Ma vuoi ripartire e non sai quando potrai. Perché tra te, i tuoi sogni e la scienza ci si è messa anche la pandemia che ha chiuso scuole, teatri, fermato aerei e treni, allontanato regioni e rese inaccessibili ospedali, laboratori e cliniche. E il tempo corre mentre scorre. E di nuovo fa male quel corpo che si ribella al tuo cuore. Un cuore dove già culli Maria Elena. Ma sei sospesa. E la M di mamma non può essere ancora la tua lettera».

Voci altre, inattese, frammenti di storie tutte diverse fra loro. Inserite all’interno di un singolo contenitore grazie a una costante operazione di montaggio. Che però si rivela molto di più di una sommatoria, di un collage di pezzi da presentare ai lettori. «L’alfabeto non è fine a se stesso. È uno strumento – mi spiega Emmanuele – per fare comunità. Dopo aver ricevuto una parola ricontattiamo sempre il suo autore o la sua autrice per curare la relazione, per far sentire quella persona parte di un gruppo. E di quanto ha scritto non tocchiamo niente: nessun editing normalizzante, nessun inutile estetismo». Per questo gli stili sono così eterogenei: si va da un «ingessato linguaggio politico anni Settanta» – ironizza Emmanuele – a flussi di coscienza più vicini ai ritmi della poesia che alle strutture della prosa. «L’ambizione era quella di facilitare un pensiero collettivo – aggiunge Ilda – che metta al centro nuove parole, nuove sensibilità, nuove chiavi di lettura. E secondo me ci stiamo riuscendo». Un dizionario dal respiro collettivo. Con un linguaggio nuovo, diverso, ‘dal basso’. Suona bene, ma è più facile a dirsi che a realizzarsi. E comunque, che prove ci sono, che stia andando veramente così?

 

Il lessico del noi

 

Ci sono strumenti che i linguisti computazionali conoscono bene, sia perché li costruiscono, sia perché li applicano a grandi quantità di dati. Sono i concordancer, o i software per lo studio di corpora testuali. All’inizio erano programmi per iniziati, con interfacce poco amichevoli. Oggi – sapendo che cosa cercare – intimoriscono (un po’) meno. Sono (un po’) più accessibili. È il caso di Sketchengine. Ed è proprio con Sketchengine che ho provato a processare il corpus formato da tutti i testi delle definizioni dell’Alfabeto. Per limiti di tempo (di chi legge) e di spazio (in questa rubrica) non potrò offrire un’analisi né ampia né particolarmente approfondita. Ma qualche verifica si può tentare, si può suggerire.

Ho così cominciato col creare le liste delle parole più frequenti, divise per categorie grammaticali. Ecco i primi quindici sostantivi del corpus dell’Alfabeto, in ordine decrescente di frequenza: tempo, parola, mondo, spazio, casa, luogo, vita, giorno, cosa, persona, distanza, senso, momento, volta, silenzio. E questi sono invece i quindici sostantivi più frequenti in un corpus di riferimento come l’Italian Web 2016, che coi suoi 5 miliardi di tokens, ovvero di simboli indicizzati, viene considerato abbastanza rappresentativo da fornire una fotografia attendibile della lingua italiana del web: anno, parte, tempo, giorno, lavoro, volta, modo, caso, vita, persona, numero, servizio, mondo, punto, Italia.

Che parola risultasse percentualmente più frequente nell’Alfabeto, rispetto al corpus generale della lingua non dovrebbe stupire più di tanto. Trattandosi di una sorta di dizionario, c’era da attendersi che nei testi vi fosse un alto livello di speculazione metalinguistica, di riferimenti alla parola. Meno attesa, invece, era l’alta frequenza relativa di mondo – e al contempo la bassa frequenza relativa di Italia, solo al 114° posto nell’Alfabeto – oggetto di verbi come guardare, ridisegnare, salvare, cambiare, abitare, immaginare, dipingere, ridiventare (non presenti, rispetto al corpus di riferimento, sono invece verbi come girare, scoprire, globalizzare, esplorare, ma anche dominare e conquistare). L’ottimismo della volontà – forse – si esprime anche così. Come forse si evidenzia così un tentativo immaginifico, creativo, di ripensare, attraverso il testo, al contesto. Anzi, oltre il testo.  

A proposito di contesti: la presenza di una parola come cura, non fra le prime quindici ma ancora relativamente frequente nell’Alfabeto, non dice molto se ci si ferma al dato numerico. Ma se si vanno a guardare i contesti, ci si accorge invece di quanta originalità ci sia, nell’uso del termine, all’interno di una polirematica semanticamente significativa come «prendersi cura»: «uno stormo di uccelli migratori che si prende cura delle sue parti più deboli» (dove lo stormo ecc. indica per similitudine gli uomini), «ospitare: prendersi cura in uno spazio condiviso», «prendano cura delle forme di giustizia spaziale e sociale», «e se iniziassimo a prenderci cura dell'aria?», «il patto è lo spazio simbolico degli attraversamenti, che nelle azioni concrete di cura condivisa e di rigenerazione si rendono percorribili, reali», «noi siamo ciò di cui ci prendiamo cura, noi siamo i guaritori feriti, noi oggi possiamo essere una comunità che cura. Noi psicoterapeuti, curiamo con le parole», «una comunità che si prende cura di sé ha bisogno di persone contagiate e contagiose, che si infettino di bisogni e di idee». Si trovano accostamenti spiazzanti, slanci visionari, rovesciamenti di senso, che avvengono anche per ossimoro («guaritori feriti», prendersi cura per mezzo di persone contagiate e contagiose). Una spinta creativa condivisa, multivocale. E il fatto che sia casuale la rende ancora più interessante.

Spunti interessanti – per quanto solo abbozzati – li offre anche il confronto tra aggettivi: nuovo, stesso, sociale, primo, grande, umano, comune i primi sette per frequenza relativa nell’italiano dell’Alfabeto, mentre sono primo, grande, nuovo, stesso, diverso, ultimo quelli più frequenti nell’italiano del corpus generale di riferimento. Spicca nuovo, non solo per la frequenza, ma anche – se lo si osserva nei contesti – come modificatore, associato a sostantivi come forma («una nuova forma»), mondo («nuovo mondo»), significato («un nuovo significato»), modo («un nuovo modo di»), modalità («nuove modalità di»), dimensione («una nuova dimensione»), spazio («un nuovo spazio»), desiderio («nuovi desideri»), punto («nuovi punti di vista»), tempo («tempo nuovo», in cui la posizione postposta al sostantivo evidenzia l’assoluta novità), approccio («nuovi approcci») e, last but not least, socialità («nuova socialità»). Qui il senso del cambiamento si fa costante, profondo, rumore di fondo, e riguarda l’agire – i suoi tempi, i suoi modi, il suo spazio – e i suoi orizzonti.

È un cambiamento che lungo tutto l’Alfabeto coinvolge – anzi, richiede – il noi. Noi è in cima alla lista dei pronomi più frequentemente usati nell’Alfabeto (noi, quello, ciò, tutti, altri, tutto, altro, questo, me, qualcosa, e solo all’undicesimo posto, io; mentre nel corpus di riferimento l’ordine decrescente per frequenza è quello, questo, io, tutto, noi, uno, quella, tutti, altro, me), ha spesso un valore deittico, ed è un indizio non solo della ricerca di una voce collettiva (in quanto autori delle voci, comunità di fruitori dell’opera) ma anche di uno sguardo che tenta di andare oltre la preminenza dell’io, e delle forme di narcisismo digitale che sarebbero così caratteristiche del Web 2.0. «Questo legame plurale ai luoghi del welfare, dell’agire, del pensare, del dialogare, è ciò che ci fa più sperare – si augurano congedandosi Emmanuele e Ilda – anche perché apre davvero una fase 2, dell’uscita dall’isolamento, della composizione di nuove forme di comunità non solo digitale. Non è un caso che all’esperimento dell’Alfabeto guardino con interesse anche in altri paesi, in Olanda, in Germania, in Messico. Ci pensi? Questo progetto potrebbe diventare transnazionale, un laboratorio permanente per trovare nuovi linguaggi e progettare nuove forme di convivenza, collaborazione, condivisione. Non sarebbe un bel modo per uscire da questa pandemia, per ricostruire?».

 

La cura delle parole, di Federico Faloppa

1. A proposito del gregge

2. Sul «nemico invisibile» e altre metafore di guerra

3. Tradurre per la vita

4. Lo spazio (linguistico) della cura

5. Un mondo di slogan

6. Virus dell’odio: metafora o realtà?

 

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Virus dell’odio: metafora o realtà?

 

«Datevi una regolata o farete una brutta fine»

 

«Attenzione, manutengoli ingordi, a non tirare troppo la corda poiché correte il pericolo di rompere il giochino che fino ad ora vi ha consentito di ciucciare tanti quattrini dalle nostre tasche di instancabili lavoratori. Noi senza di voi campiamo alla grande, voi senza di noi andate a ramengo. Datevi una regolata o farete una brutta fine, per altro» (Recessione, la previsione di Vittorio Feltri: senza fretta ma prima o poi il Nord lascerà l'Italia, «Libero», 19 aprile 2020).

Pensavamo di aver letto tutto (o quasi) in queste settimane, su Covid e dintorni. E di aver visto tutto (o quasi) in termini di stili, registri, metafore, di caccia all’iperbole capace di confondere, all’esperto capace di smentire l’esperto del giorno prima. Di novità e giravolte di senso del linguaggio di queste ultime settimane si è scritto molto, anche qui sul portale Treccani. Ma l’intimidazione a mezzo stampa no, non l’avevamo ancora vista: una (brutta) novità senza alcuna ragione se non quella di alzare a tutti i costi i toni, in un contesto come quello dell’informazione quotidiana in Italia, in costante crisi di lettori, introiti, credibilità.

Lo so, non bisognerebbe rilanciarli, i rancorosi editoriali di Vittorio Feltri (in questo caso contro la «dittatura romanofoggiana» e più in generale contro il sud pronto a «correre in strada a suonare il mandolino»), né bisognerebbe dare visibilità al suo giornale, che ha fatto della provocazione aggressiva e gratuita il suo tono costante.

Ma l’articolo pubblicato il 19 aprile scorso, oltre a un prevedibile stile bilioso ha (ri)messo in circolo qualcosa che era – apparentemente – rimasto in ombra, rispetto agli appelli all’unità nazionale e alla responsabilità. Rispetto a una generale voglia di «ripartenza», da un lato, e un richiamo alla prudenza dall’altro: un razzismo antimeridionale senza troppi giri di parole. Ribadito tra l’altro, sempre in modo esplicito, dallo stesso Feltri che, intervistato da Mario Giordano durante la trasmissione «Fuori dal coro» su Rete 4 il 21 aprile, è riuscito ad affermare «io non credo ai complessi di inferiorità, io credo che i meridionali in molti casi siano inferiori». Cosa che ha fatto intervenire l’Agcom, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, in base alla sua Delibera 157 del 15 maggio 2019: in base al suo Regolamento recante disposizioni in materia di rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto allo hate speech.

Solo un episodio, si dirà: per lo più ad opera dei soliti sospetti. Meglio sarebbe non parlarne neppure, altrimenti si fa il gioco di Feltri, che conta proprio sull’indignazione pubblica per mettere sé e il suo giornale al centro della scena. Ma è un episodio che – proprio in questo periodo – ha toccato un nervo scoperto: la persistenza, a fianco del Sars-Cov-2, di un altro virus: quello dell’odio.

 

Il virus dell’odio

 

«C'è purtroppo in Italia – ha scritto in una nota ufficiale il Presidente del Consiglio regionale della Calabria Domenico Tallini in risposta alle affermazioni di Feltri – un virus letale almeno quanto il Covid ed è il virus dell'odio che taluni spargono a piene mani anche in questi tempi così drammatici e difficili che imporrebbero responsabilità e impegno... Ci troviamo di fronte a qualcosa di ben più grave, ad affermazioni pericolose che incitano ad una specie di guerra civile tra un nord laborioso e un sud fatto di accattoni». Per questo – «le dichiarazioni di Feltri – continua Tallini – non possono passare inosservate, non si possono liquidare come una provocazione innocente». Un parere, quello di Tallini, condiviso anche dall’Agcom, che – come si è detto – le ha rubricate sotto la voce hate speech. Su che cosa si debba intendere con hate speech, o discorsi d’odio, si potrebbe discutere a lungo. Una definizione univoca (e universalmente accettata) dell’espressione non esiste, come tra gli altri ha spiegato Alexander Brown nel suo articolo What is hate speech? Part 1: the myth of hate, «Law and Philosophy», vol. 36, issue 4, pp. 419–468, 2017). Né è semplice, talvolta, stabilire dove e quando finisca la libertà d’espressione e cominci l’offesa: cosa che rende non semplice l’intervento normativo. Tuttavia, prendendo a riferimento la definizione inserita nel proprio regolamento1, valido quindi – o almeno così dovrebbe essere – per tutti gli organi di informazione e per i loro ordini professionali, l’Autorità per le comunicazioni ha ritenuto opportuno aprire un procedimento disciplinare nei confronti di Feltri e Giordano per i tanti «giudizi sommari e ingiustificati volti a riproporre stereotipi relativi alla provenienza territoriale dei cittadini italiani... anche in ragione della circostanza che gli episodi di ripetuta discriminazione e valutazione stereotipata... sono avvenuti nell’ambito di un dialogo tra due giornalisti tenuti... al rispetto delle norme e attribuzioni dell’Ordine [dei giornalisti]». Carta canta, in questo caso.

Meno facile è capire se, come ha scritto Tallini, questo episodio sia la prova  dell’esistenza un vero e proprio «virus dell’odio». Che per essere tale dovrebbe sarebbe causato, evidentemente, anche da altri episodi, da un insieme di altri casi. Bene ha fatto Claudio Marazzini, Presidente dell’Accademia della Crusca, a farci notare nel suo corsivo del 9 marzo In margine a un’epidemia: risvolti linguistici di un virus, che se da un lato il termine virus ha visto via via specializzarsi il proprio significato con l’aumento delle conoscenze scientifiche e lo sviluppo della virologia, dall’altra è assurto sempre più a metafora, secondo un uso già registrato «dai dizionari dell’Ottocento... come forza nociva e malefica di qualunque tipo». E altrettanto bene ha fatto a ricordarci che l’espressione «virus dell’odio» si trova già in Benedetto Croce, per la precisione nella sua Storia dell’Europa nel secolo decimonono (1932): «Questi che avevano spiriti rivoluzionari, in Francia e altrove, guardavano... agli operai, ai proletari, alla forza che era in loro, e che, rischiarata e indirizzata, avrebbe con violenza gettato in aria tutti gli ordinamenti esistenti, distrutto il capitalismo, stabilito la società dei lavoratori partecipanti in misura eguale al lavoro e alla retribuzione. A uso di cotesta particolare propaganda, che aveva bisogno del virus dell'odio, non bastando il vago concetto di oppressione e sfruttamento, si venne preparando... una dottrina sull'origine del profitto dedotta dal lavoro non pagato all'operaio».

«Virus dell’odio» non nasce oggi, quindi: è una metafora di lungo corso. Ma l’impressione è che si sia rivelata particolarmente produttiva soprattutto in tempi recenti, proprio grazie a una maggiore presa di coscienza dei discorsi e fenomeni d’odio, come segnalano per esempio il titolo della puntata del 21 gennaio 2019 del programma «Otto e mezzo», «L’Italia e il virus dell’odio», e le tante ricorrenze lette ed ascoltate nell’autunno dello scorso anno, quando molto si scrisse e si parlò di «virus dell’odio» a proposito degli attacchi antisemiti e razzisti alla Senatrice Liliana Segre. Non a caso sul «virus dell’odio» si è espresso chiaramente anche il Presidente della Repubblica Mattarella in occasione della «Giornata della memoria» il 27 gennaio 2020 («Per fare davvero i conti con la Shoah non dobbiamo rivolgere lo sguardo soltanto al passato. Perché il virus della discriminazione, dell'odio, della sopraffazione, del razzismo non è confinato in una isolata dimensione storica, ma attiene strettamente ai comportamenti dell'uomo. E debellarlo riguarda il destino stesso del genere umano­»), riprendendo un concetto simile poche settimane dopo, nel settantunesimo anniversario della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, evocando il virus con il bisogno di «produrre anticorpi» («Il tempo può attenuare il dolore, può allontanare lo strazio dei dolori più indicibili, ma non possiamo consentire che le coscienze si addormentino e che le intelligenze smettano di produrre anticorpi contro la violenza e l'odio»).

 

Fuor di metafora

 

Siamo a fine febbraio. E il riferimento di Mattarella è particolarmente rilevante. Perché gli eventi in corso – la diffusione del Sars-Cov-2 e le sue conseguenze – danno un nuovo significato all’espressione, e un nuovo impulso alla sua... diffusione. Perché nel frattempo il «virus», da metaforico, è diventato reale. E proprio la comparsa del virus reale, e la sua pericolosità, producono discorsi d’odio nei confronti di chi lo avrebbe causato, messo in circolazione: i «cinesi». «Sin dai primi giorni di diffusione del virus – scrive con cognizione di causa @arjyanna del Liceo Simone Morea di Bari su «Repubblica – Scuola­» – si è iniziato a guardare il diverso, soprattutto il cinese, con uno sguardo infido, cercando di non avvicinarsi a lui e di evitare ogni tipo di contatto. E nelle ultime settimane, da quando il virus ha raggiunto anche l’Italia in modo più grave rispetto a prima (quando i casi erano solo tre), questo atteggiamento ha certamente acquisito maggiore popolarità. Inutile dire che i ristoranti asiatici sono vuoti, così come i loro negozi e i loro quartieri, che prima vantavano un enorme afflusso di gente, attratta dalla loro cultura».

In realtà, come ha fatto giustamente notare il 2 marzo Vera Gheno nel suo articolo Coronavirus, una parola infetta, abbiamo assistito alla stigmatizzazione dei «cinesi» ben prima della diffusione del Sars-Cov-2 in Italia: «all’incirca alla fine di gennaio 2020... allo scoppio dell’epidemia in Cina, a Wuhan... i media “nostrani” hanno... imbastito una comunicazione a tinte forti, complice il fatto che si trattava comunque di un avvenimento remoto... [e] di pari passo non sono stati pochi i casi di razzismo contro i “cinesi” (tra virgolette perché ne hanno fatto le spese, quasi indistintamente, tutti coloro con fattezze orientali: il razzismo non va mai troppo per il sottile), individuati come veri e propri untori del contagio. Poco è importato a una bella fetta dell’opinione pubblica che in Italia esistano comunità estese di “cinesi” di seconda e terza generazione, nati e cresciuti in Italia, che... “hanno visto la Cina solo su Google Maps”».

Per alcune settimane, tra gennaio e febbraio – ricordate? – si moltiplicarono (non solo in Italia) le aggressioni contro i «cinesi», complici titoli a stampa come «Coronavirus, psicosi nelle scuole. “Metteteli in quarantena”» («Il Resto del Carlino, 31 gennaio, dove associata all’articolo era la foto di un bambino “cinese” con la mascherina, per rendere ancora più esplicito il messaggio discriminante, da cui la segnalazione dell’associazione ferrarese «Occhio ai media») o «Il virus giallo ci manda al verde» («Il tempo», 11 febbraio), per non parlare dei tanti titoli che facevano «sbarcare» in Italia o in Europa in «virus cinese», rendedolo ancora più... antropomorfo, attraverso una metafora – quella dello sbarco – cui anni di pessima informazione su migranti e migrazioni avevano reso ancora più fuorviante.

 

Forse che sì, forse che no

 

La feci presente io stesso la pericolosità di questo frame narrativo, durante la trasmissione «Linea notte» del 21 febbraio. Ero stato invitato per parlare del mio libro Brevi lezioni sul linguaggio, ma ovviamente la notizia della prima vittima di Covid in Italia cambiò completamente la scaletta della puntata. Che infatti fu tutta all’insegna del racconto di quell’evento, di quella drammatica svolta. Faceva effetto viverlo in diretta, quel clima da contagio: un primo assaggio dell’infodemia che ci avrebbe poi accompagnato per settimane. Era tutto un po’ surreale: fuori da quello studio di Saxa Rubra il Covid-19 ancora non era entrato nelle nostre vite, dentro sembrava di essere sul set di un film catastrofico.

In quel contesto, nei pochi secondi che ebbi a disposizione per fare un commento sui fatti del giorno, mi permisi di dire che i media e i giornali in particolare, a proposito del linguaggio usato per parlare dell’epidemia non stavano dando una grande prova di sé, tra un «pericolo giallo», un’ennesima personificazione del virus («la Repubblica»: «Inseguiti dal virus!»), e la spasmodica ricerca dello scoop. E dissi polemicamente – oggi so che fu un’affermazione iperbolica e scorretta, ma allora non potevo saperlo – che un altro virus in quei giorni di fine febbraio aveva fatto dei morti: il «virus dell’odio», che il 19 febbraio nella cittadina tedesca di Hanau aveva ucciso per mano di un estremista di destra undici persone. Mal me ne incolse, perché al termine della trasmissione, sul mio profilo Twitter fui ricoperto di insulti per essermi permesso di parlare di razzismo in quel contesto, e fui successivamente apostrofato su «Il Giornale» come il solito inutile buonista (e altri insulti seguirono a commento di quell’articolo). Col senno di poi penso che fu sbagliato paragonare due eventi così diversi. Ma su una cosa avevo ragione, e gli insulti a me rivolti lo confermarono: il «virus dell’odio» non era certo una mia fantasia.

 

Un’epidemia (di odio) planetaria

 

Racconto questo aneddoto sia perché in quell’occasione fui vittima di discorsi d’odio solo per aver espresso un’opinione critica rispetto al lavoro svolto fin lì dalla generalità dei media, sia perché di «virus dell’odio» si stava parlando e si sarebbe ancora parlato a lungo, nelle settimane a seguire. Non solo in Italia.

Di un «virus dell’odio» alimentato dai mezzi di informazione si è scritto in molti paesi, seppur con accenti diversi. Negli Stati Uniti, per esempio, dove il popolare sito di controinformazione www.counterpunch.org l’11 febbraio pubblicò un articolo al vetriolo – contro i media mainstream e il «New York Times­­» in particolare, rei secondo l’autore di demonizzare la Cina – dal titolo inequivoco How to Yellow-Cake a Tragedy: the NY Times Spreads the Virus of Hatred, Again: «Instead of voicing support or encouraging solidarity – “We are Wuhan” – western corporate media have chosen to go all out to criticize and demonize China, sparing no effort to recycle and rekindle ugly, racist, orientalist, and dehumanizing tropes, using any perceived misstep, pretext, and shortcoming to tar China and the Chinese». O in Francia, dove il periodico dei protestanti francesi «La reforme» il 13 febbraio titolava Coronavirus: l’effrayant virus de la haine un commento al clima da caccia all’untore che si era scatenato nel paese: «Depuis un mois maintenant, les médias nous alertent sur le coronavirus. C’est bien leur rôle de nous informer, de nous prévenir pour nous prémunir face à une épidémie partie de Chine, et dont des cas avérés existent désormais dans plusieurs pays du monde, notamment le nôtre… Je suis néanmoins gênée par tout ce battage médiatique: pas un jour, voire pas une heure, où il n’est question du coronavirus. Il y a un risque, mais est-ce bien nécessaire de créer les conditions d’un tel climat anxiogène? … Mais ce qui m’inquiète le plus, ce n’est pas tant le coronavirus que le virus de la haine et du racisme qui se répand à vitesse grand V. Ici, un enfant dont les camarades de classe ne veulent plus s’asseoir à côté de lui. Là, une dame à qui on refuse de rentrer dans le bus. Là, un vieil homme faisant son marché et qui se fait chasser par un marchand de fruits et légumes pour avoir touché ses produits. Là encore, des personnes qui se font insulter, voire cracher dessus, sans raison. Et je pourrais continuer la liste. Leur “problème”? Ils sont d’origine chinoise».

In Spagna, ad esprimere preoccupazione sul «virus dell’odio» sono state a fine marzo alcune associazioni che, con un esplicito appello (Está en tu mano frenar el coronavirus y acabar con «el virus del odio») si sono organizzate per «mettere un freno» alla diffusione di messaggi d’odio rivolti più o meno a tutti, anche alla classe politica: «En estos momentos tenemos que hacer frente al Covid-19, sin embargo, no es el único virus que nos complica la vida. Hay otro que igualmente afecta a toda la población y se transmite igual de rápido pero, por suerte, está en nuestra mano poder pararlo. Hablamos del virus del odio. Los mensajes de odio y los bulos en internet se propagan a la velocidad de la luz, y el blanco de estos mensajes, afecta especialmente a los más débiles».

Lo hanno fatto individuando nelle fake news la ragione di tanta recrudescenza dei discorsi d’odio, citando studi – come il Primero estudio sobre el impacto de las 'fake news' en España – che rivela che otto spagnoli su dieci non saprebbero distinguere una notizia falsa da una vera, e sarebbero quindi esposti alle tante falsità su Covid-19 che girano in rete, per esempio quelle sulle ricette miracolose per guarire dal virus, quelle cospirative, quelle sulla classe politica, custode di segreti e colpevole delle peggiori nefandezze.

 

L’effetto fake news

 

A proposito di fake news e «virus dell’odio», un altro spunto arriva dall’India. Dove, dopo che il 16 aprile un gruppo di vigilanti – avendo appreso da WhatsApp la falsa notizia che alcuni ladri stavano approfittando del lockdown per agire indisturbati nel distretto di Palghar – ha linciato due sadhu indù e il loro autista nel villaggio di Gadchinchale, la presidente ad interim del Congresso indiano, Sonia Gandhi, ha accusato il partito del premier Narendra Modi, il Bharatiya Janata Party (BJP, «Partito del Popolo») di diffondere il «virus dell’odio» quando «the need is to unitedly fight the Coronavirus pandemic»: «When we should be tackling the Coronavirus unitedly, the BJP continues to spread the virus of communal prejudice and hatred. Grave damage is being done to our social harmony. Our party will have to work hard to repair the damage».

Accuse simili sono giunte a Modi anche dal più importante quotidiano di lingua inglese del Pakistan, il «Pakistan Observer», che ritiene il Primo ministro indiano responsabile dell’aumento del «virus of hatred» nei confronti dei musulmani accusati – tramite una campagna costruita con fake news – di aver diffuso il contagio alla maggioranza indù.

«Quello della relazione tra fake news e discorsi d’odio è un vero problema in questo periodo – mi racconta Silvia Brena, co-fondatrice dell’associazione «Vox diritti» di Milano e attenta osservatrice di discorsi e fenomeni d’odio -  E il punto non è tanto sapere, per esempio, se in queste settimane l’hate speech online sia aumentato o diminuito. Importante sarebbe invece osservarne le forme, le nuove dinamiche. Perché l’impressione è che qualcosa sia cambiato: che il discorso sia meno diretto ma più subdolo e per questo più pervasivo. E che in questo modo riesca perfettamente a fare ciò che deve fare: diffondere la paura. Come lo fa? – prosegue Brena – con le fake news, facilmente virali e capaci di agire sull’ansia collettiva attraverso l’autostrada rappresentata dai canali di comunicazione che oggi costituiscono il tessuto connettivo sociale privilegiato: le chat tra amici, famigliari e colleghi. Si diffondono infatti soprattutto tramite WhatsApp, perché arrivano più direttamente rispetto ai social più tradizionali, come Facebook e Twitter. E poiché rimbalzano da una chat all’altra, sembrano più credibili: se mentre verso l’autore di un post su Facebook o Twitter possiamo esercitare il dubbio, nei confronti di un messaggio che ci arriva dalla chat di un amico siamo più indifesi. Questo discorso è più subdolo di quello d’odio fatto di insulti e minacce: perché diffonde paura e diffidenza attraverso falsità. E dopo aver disseminato il panico attraverso WhatsApp, rimbalza in forma più diretta sui social tradizionali».

 

L’importanza del monitoraggio

 

Servirebbero dati, per suffragare ipotesi, impressioni, intuizioni. Come quelli su cui sta lavorando la Fondazione Bruno Kessler con il CoMuNe Lab research unit, attraverso l’analisi di milioni di scambi su Twitter, in tutto il mondo: scoprendo così che in Italia, Francia e Stati Uniti la diffusione del contagio è stata preceduta da un improvviso e «atipico» aumento dell’attività dei cosiddetto social bots, controllati da soggetti umani o artificiali con lo scopo di mettere in circolazione una grande mole di informazioni non verificate. O come quelli raccolti da L1ght, un’azienda israeliana specializzata in «preventing toxicity» online, che a marzo ha stilato un report sulla correlazione tra l’esplosione dell’epidemia negli Stati Uniti e l’aumento del 900% su Twitter dei casi di «hate, abuse, toxicity and bullying», anche grazie a diffusissimi hashtag come #Kungflu, #chinesevirus, #communistvirus, nei confronti dei cinesi o di persone di origine cinese: ben prima quindi che Donald Trump ci mettesse lo zampino chiamando il Sars-Cov-2 «virus cinese» o che alcuni stati – come il Michigan – intentassero una causa legale contro la Cina per aver minimizzato la gravità della situazione permettendo così alla malattia di diffondersi.

«Non c’è dubbio – mi dice Vera Gheno, tra gli studiosi più attenti alla comunicazione digitale – che impennate come questa siano dovute non solo al fatto che tutti stiamo trascorrendo molto più tempo sui social media, ma anche alla migrazione in rete di persone comunicativamente “impreparate”, da un giorno all’altro – per evitare di rimanere completamente isolate – si sono ritrovate a interagire con modalità che non sapevano gestire, senza rendersi conto della nudità, fraintendibilità, incontrollabilità e immortalità della parola in rete. È l’estremizzazione dell'“effetto tinello­». Senza contare i meccanismi di polarizzazione su tutto ciò che riguarda la pandemia – continua Gheno – che ha favorito l’irrigidirsi di un noi contro voi, e la ricerca di bersagli. L'odio, la xenofobia sembravano sopiti, fenomeni in flessione. In realtà questa situazione li ha perfino acuiti, perché li ha concentrati nello spazio virtuale, facendo scartare tra l’altro molti argomenti che prima si dibattevano e adesso paiono secondari, "perché in questo momento i problemi sono ben altri". E, come sappiamo, il benaltrismo è sempre una foglia di fico».

 

Verso la Fase Due

 

Impressioni, dicevamo. Ma impressioni che devono essere fondate, se a fine marzo Fernand de Varennes, lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulle minoranze, ha suonato un campanello d’allarme dichiando che «COVID-19 non è solo un questione di salute ma un virus capace di esacerbare la xenofobia, l’odio, l’esclusione». Non stupisce quindi – ha continuato – che politici e gruppi stiano sfruttando la paura intorno alla malattia per trovare capri espiatori nelle loro comunità, facendo volutamente crescere un’ondata di sdegno e violenza nei loro confronti. «Il fatto è – mi fa notare Eva Garau, docente di Storia all’Università di Cagliari e studiosa del rapporto tra immigrazione e identità nazionale – che la ricerca del capro espiatorio avviene a tanti livelli, anche a quelli locali, con politici e amministratori che useranno la pandemia come cavallo di Troia per far passare discorsi d’odio altrimenti stigmatizzabili. Un’assessora del Comune di Cagliari pochi giorni fa ha pubblicato un post sulla sua pagina Facebook prendendosela contro i parcheggiatori abusivi del mercato di San Benedetto secondo lei «immuni alle regole» (cosa che ben evoca, secondo note fake news, la loro presunta immunità genetica al virus), «sprezzanti di ogni senso civico e di rispetto per gli altri e verso loro stessi», potenziali untori, chiedendo quindi contro «questi soggetti» il pugno duro dell’ammistrazione comunale e concludendo il suo post col classico «basta». Dopo cinesi, anziani, bambini, runner – continua Garau – ecco riemergere gli stranieri come pericolo pubblico, da additare allo sdegno e possibilmente alla collera dell’opinione pubblica. Tutto nel nome di una “comprensibile preoccupazione” (a proposito di linguaggio!) che è diventata una specie di formula magica per giustificare, di nuovo, misure di ordine pubblico sul territorio. A danno, ovviamente, dei soggetti più deboli. Anche in questo senso è già cominciata la Fase Due. E non fa ben sperare».

1. «[Hate speech] espressioni... utilizzate per diffondere, propagandare o fomentare l’odio, e la discriminazione e istigare alla violenza nei confronti di un determinato insieme di persone ‘target’, attraverso stereotipi relativi a caratteristiche di gruppo, etniche, di provenienza territoriale, di credo religioso, d’identità di genere, di orientamento sessuale, di disabilità, di condizioni personali e sociali, attraverso la diffusione e la distribuzione di scritti, immagini o altro materiale, anche mediante la rete internet, i social network o altre piattaforme telematiche».

 

La cura delle parole, di Federico Faloppa

1. A proposito del gregge

2. Sul «nemico invisibile» e altre metafore di guerra

3. Tradurre per la vita

4. Lo spazio (linguistico) della cura

5. Un mondo di slogan

 

Immagine: Screenshot tratto da https://www.youtube.com/watch?v=wx1J9OqZGu8

/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/cura_parole_5.html

Un mondo di slogan

 

All’indomani della conferenza stampa di Giuseppe Conte del 10 aprile, quella della proroga del lockdown al 3 maggio, della squadra di esperti per la ripartenza, della stoccata in diretta (Facebook) a Giorgia Meloni e Matteo Salvini, come tanti mi sono azzardato a commentare che l’efficacia comunicativa del messaggio del Presidente del Consiglio era data più dal pathos che dai contenuti, spesso solo abbozzati, lasciati nel vago, sostenuti da formule più che da ragionamenti. Formule come «dobbiamo compiere questo ulteriore sforzo. Dobbiamo continuare a rispettare le regole anche in questi giorni di festa. Dobbiamo continuare a mantenere le distanze sociali» o come quel «dovremo essere pronti» («C'è il rischio dei contagi di ritorno, immaginate cosa vuol dire riattivare il turismo con persone che arrivano dall'estero. Dovremo essere pronti»), tanto più funzionale quanto più riducibile a slogan: uno slogan che anticipi e introduca la tanto agognata «fase due».

 

Molti dettagli non servono: prendere o lasciare. Potenza della formula: potenza dello slogan, appunto. Fin dall’inizio della diffusione del virus, gli slogan hanno assunto un ruolo evidente e preminente nella comunicazione, non solo politica, non solo istituzionale. Penso ancora a frasi ad effetto, non nate come slogan ma destinati ad esserlo («Quando tutto sarà finito ci sarà una nuova primavera, presto raccoglieremo i frutti di questi sacrifici»), ma penso soprattutto ai tanti slogan creati invece per comunicare un concetto in modo chiaro e sintetico. Si pensi a quello «stiamo a casa» (o alle sue tante varianti: «noi stiamo a casa», «state in casa», «io sto in casa», ecc.) o a quell’«andrà tutto bene» splendidamente analizzati da Daniela Pietrini nella sua rubrica settimanale su questo portale. O ai tanti altri esempi – non solo in italiano – che ci possono venire in mente. Siamo (stati) inondati da slogan. E non è un caso che col passare delle settimane insieme agli slogan sia aumentata anche una certa insofferenza nei loro confronti, chiaramente espressa – in maniera retoricamente molto funzionale – per criticare non tanto gli slogan stessi quanto, metadiscorsivamente, le strategie o le posizioni politiche ad essi sottese. Basta fare una rapida ricerca su Google per trovare espressioni e schemi ricorrenti («Basta slogan», «basta slogan e annunci», «basta slogan e approssimazione», «basta slogan e apparizioni da talk show», «basta slogan, si passi ai fatti»; «niente slogan ma interventi concreti», «niente slogan, propaganda o polemiche sterili»; «no slogan e bandiere per il consenso»; «fatti, non slogan»; «più test meno slogan», secondo il pattern «più X meno slogan» o «meno slogan più X»).

 

Mi sono occupato della storia della parola slogan nella puntata dell’11 agosto scorso del programma radiofonico Parole parole, che nel 2019 ho scritto e condotto con Daniel Bilenko per la prima rete della Radio della Svizzera Italiana (RSI). Derivato dallo scozzese (slogorne o sloghorne), voce a sua volta derivata dal gaelico sluaghghairm «grido di guerra», composto di sluagh «esercito» e gairm «grido», il termine è entrato in italiano – attraverso l’inglese – solo all’inizio del ventesimo secolo. Prima, come ricorda l’autore della voce Slogan nell’Enciclopedia dell’Italiano Treccani Andrea Viviani, in italiano si usavano sentenza e motto per esprimere lo stesso concetto, ovvero «formula sintetica, espressiva e facile da ricordarsi, usata a fini pubblicitari o di propaganda». A differenza di sentenze e motti tuttavia – puntualizza Viviani – lo slogan «non basa la propria efficacia sulla ricercatezza lessicale o sul tono perentorio e lapidario della sintesi», come le sentenze: il suo «essere formula» fa perno soprattutto su processi di eufonia e la sua efficacia su «espedienti presi in prestito dalla poesia» – come allitterazione e ritmo – che ne faciliterebbero la pronta memorizzazione e il riuso. Non a caso, conclude Viviani, gli slogan più riusciti sono quelli che presentano «strutture ritmico-musicali tanto orecchiabili da offrirsi al reimpiego, come calchi ritmici riproducibili all’infinito, in più contesti e a più scopi». In estrema sintesi: data una traccia (melodicamente) accattivante, di struttura semplice, su motivi popolari, con parole comprensibili, si possono creare slogan di rara efficacia retorica (o di rara «aberrante» bruttezza, per citare dal celebre articolo Il folle slogan dei jeans Jesus che Pasolini scrisse nel 1973), dai contenuti modificabili, dagli schemi facilmente adattabili perché quasi privi di restrizioni (come il classico «chi non salta X è», dove l’unica condizione posta a X è quella di essere un quadrisillabo).

 

La forza dello slogan sta anche nella sua accessibilità e visibilità, nella sua esemplarità di «pratica semio-linguistica» sui muri delle nostre città (Il segno in scena. Scritte murali e graffiti come pratiche semio-linguistiche, a cura di Paola Desideri, 1998) e oggi sui wall dei social media, spesso nella forma ancora più sintetica dell’hashtag, per mezzo della quale possono essere rilanciati ad libitum e diventare in brevissimo tempo dei trending topic. Lo slogan, inoltre, è «irruento» (cosa che lo contraddistinguerebbe dal carattere «più bonario e rassegnato» del proverbio, come argomenta Paolo Rondinelli), si compone di frasi secche, citazioni lineari, e ricorre quasi sempre a parole di alta frequenza. È rapido, immediato, e in questo si oppone ai tempi necessariamente più lunghi del ragionamento, dell’argomentazione. La sua formula è «amabilmente magica» (ancora Rondinelli, che cita le Einfache formen, le «forme semplici» di André Jolles), pensata con intenti persuasivi e seduttivi. È sferzante, e mira a colpire hic et nunc la mente del fruitore, senza dargli la possibilità di farsi troppe domande: senza fargli intendere – e in questo lo slogan pubblicitario e quello politico sono dei campioni, come ci ha splendidamente insegnato Edoardo Lombardi Vallauri col suo importante, e giustamente fortunato, La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione, 2019) – di essere imbrigliato in uno schema, acriticamente guidato. È adattabile (camaleontico), reiterabile, icastico e non informa: prescrive e «liberamente impone» un comportamento (prima ancora che un prodotto), che agisce da modello esterno sul target di riferimento. A meno che non sia (involontariamente) parodico e ironico, con risultati opposti a quelli sperati, come faceva notare già Tullio De Mauro nel suo incisivo Decadenza dello slogan (in Id., Le parole e i fatti. Cronache linguistiche degli anni Settanta, 1977, pp. 151-156).

 

La Grande muraglia del banner

 

Modello o parodia? In molti ce lo siamo chiesti, tra gennaio e febbraio, imbattendoci, in Internet, in alcuni slogan provenienti dalla Cina:

 

带病回乡不孝儿郎 dài bìng huí xiāng bú xiào ér láng

«Tornare a casa con la tua malattia non farà piacere ai tuoi genitori»

 

老实在家防感染 lǎo shí zài jiā fáng gǎn rǎn

丈人来了也得撵 zhàng rén lái le yě dé niǎn

«Stai a casa per prevenire l’infezione, caccia i tuoi suoceri se vengono a trovarti»

 

省小钱不戴口罩 shěng xiǎo qián bú dài kǒu zhào

花大钱卧床治病 huā dà qián wò chuáng zhì bìng

«Risparmia qualche spicciolo per non indossare una maschera, spendi una fortuna per ricevere cure nel tuo letto»

 

今年过年不串门,jīn nián guò nián bú chuàn mén

来串门的是敌人,lái chuàn mén de shì dí rén

敌人来了不开门 dí rén lái le bú kāi mén

«Nessuna visita per il Capodanno cinese quest’anno

Quelli che vengono a trovarti sono tuoi nemici.

Non aprire la porta ai tuoi nemici»

 

养老金能拿多久,yǎng lǎo jīn néng ná duō jiǔ

取决于你最近出门的次数 qǔ jué yú nǐ zuì jìn chū mén de cì shù

«Evita di andare in luoghi affollati quanto più possibile,

Quanta pensione percepirai al momento della pensione dipende da quanto esci adesso»

 

今天沾一口野味,jīn tiān zhān yī kǒu yě wèi

明天地府相会 míng tiān dì fǔ xiàng huì

«Un morso di un animale selvatico oggi, ci vediamo all’inferno domani»

 

神仙也要戴口罩,shén xiān yě yào dài kǒu zhào

疫情不是开玩笑 yì qíng bú shì kāi wán xiào

«Anche gli dei cinesi devono indossare maschere, l’epidemia non è uno scherzo»

 

今天到处乱跑,jīn tiān dào chù luàn pǎo

明年坟上长草 míng nián fén shàng zhǎng cǎo

«Se esci in pubblico oggi, l’erba crescerà sulla tua tomba l’anno prossimo»

 

出门打断腿,chū mén dǎ duàn tuǐ

还嘴打掉牙 huán zuǐ dǎ diào yá

«Ti romperò le gambe se insisti per uscire,

Ti distruggerò i denti se mi sfidi»

 

野生动物不要碰,yě shēng dòng wù bú yào pèng

病毒随时往你身上蹦 bìng dú suí shí wǎng nǐ shēn shàng bèng

«Non toccare animali selvatici, i virus possono saltarti addosso in ogni momento»

 

Li abbiamo visti, questi e altri slogan, in Internet, rilanciati da siti di vario genere e grazie a social media come Weibo. Ma in Cina si potevano leggere anche (e soprattutto) scritti in giallo o in bianco su grandi banner rossi appesi ai muri delle case e delle scuole, sugli alberi, tra semafori. E non è un dettaglio da poco. Gli slogan su banner – anche di grandi dimensioni – fanno non solo parte della storia moderna della Cina, ma ne costituiscono uno dei cardini – spiega Liu Yuntong, direttore dell’Istituto di Ricerca di linguistica applicata all’Unversità Tongji di Shanghai – perché il loro costante uso «represents an interesting intersection of Chinese language, Chinese culture and the Chinese political system». Risalente alla Dinastia Shang (1600-1046 a.C.), quando l’imperatore Zhou coniò il motto «Quando il sole morirà, morirò con lui», lo slogan politico (su bandiera o striscione) assunse un’importanza crescente verso la metà del diciannovesimo secolo, da quando cioè movimenti politici e sociali cominciarono ad usarlo come mezzo per far conoscere le proprie idee. Divenne poi, a partire dal 1949, uno degli strumenti di propaganda più importanti per il Partito Comunista Cinese dopo il 1949, particolarmente adatto a mobilitare la popolazione nelle aree rurali, che non poteva essere facilmente raggiunta da altri mezzi di comunicazione, e che doveva guidata con formule dirette, immediate, prescrittive.

Ancora oggi slogan su banner (biāoyǔ 标语) sono popolarissimi in Cina, per le occasioni – ufficiali, familiari, sociali – più disparate, al punto da essere un elemento costante del paesaggio. Non stupisce quindi che – soprattutto nelle aree rurali – i funzionari locali abbiano deciso di usarli massicciamente durante l’esplosione dell’epidemia, impiegando lo stesso stile diretto, violento e minaccioso dei loro predecessori per tentare di comunicare quanto più rapidamente possibile misure e restrizioni.

 

Proprio questa crudezza ce li ha fatti apparire – questi slogan, qui in occidente – come parodie, esagerazioni. Ma il significato di quei banner non potrebbe essere compreso fino in fondo «senza tener conto sia del contesto – spiega ancora Liu – sia delle caratteristiche del mandarino». Il mandarino è una lingua tonale, la sua scrittura è basata su caratteri sillabici, «e la relazione tra significato, pronuncia e rappresentazione scritta appare meno naturale che nelle lingue dotate di alfabeto». Un carattere è sempre una sillaba (o una parola monosillabica), e il numero delle sillabe è limitato a 410, in confronto alle migliaia di sillabe che si possono avere in inglese, ad esempio. Ciò significa che, scritte, parole con significato diverso sembrino simili: e questo genera doppi sensi, spesso disambiguabili solo dalla tonalità. Senza contare che in traduzione – aggiunge Song Lijue, professore alla International School della East China University – l’effetto spiritoso, ambiguo, e per questo memorabile è ancora meno presente.

«Ciò che a voi occidentali sembra strano, o relitto del passato, qui è molto popolare, soprattutto nelle aree rurali – spiega Nora Chileva-Xiao, studiosa di letteratura cinese antica all’Università di lingua e cultura di Beijing (BLCU) –. Se infatti a Beijing o Shanghai funzionano meglio brevi slogan prescrittivi come “Stai a casa, indossa una maschera, lavati le mani”, in altre aree servono slogan più drammatici, creativi, polisemici». Agli occhi degli intellettuali urbani molti degli slogan che appaiono sui banner suonano probabilmente volgari, grezzi, aggressivi, ma sono certamente efficaci e perfettamente idonei nei contesti sociolinguistici per cui sono stati creati.

 

«Go Koruna go». La formula apotropaica di Athavale

 

Paese che vai, contesto che trovi. Dalle aree rurali cinesi ci spostiamo a Mumbai, nel subcontinente indiano. Dove il 20 febbraio, presso la celebre «Porta dell’India», il ministro indiano per la giustizia sociale – nonché presidente del Republican Party of India – Ramdas Athawale coniò quello che sarebbe diventato uno degli slogan più celebri nel suo paese: quel «Karuna go, go Karuna» (poi divenuto virale come «Go Corona go», secondo lo schema della formula di incoraggiamento «go X go», dove X può essere un qualsiasi nome proprio o comune) recitato come una formula rituale dallo stesso Athawale – insieme al console generale cinese Tang Guocai e una piccola folla di sostenitori – come testimonia questo video che, in pochi giorni, ha contato oltre due milioni di visualizzazioni accrescendo, nel bene e nel male, la già consistente egomane popolarità di Athawale. Uno slogan-orazione, quindi, perfettamente funzionale alla messa in scena di uno rito apotropaico per scacciare la malattia abilmente spettacolarizzato dai media (e dal suo artefice).

 

Perché no, d’altronde? Formule apotropaiche si trovano a tutte le latitudini, in tante epoche storiche diverse. Nella cultura greca, l’epodé era la formula magica che incanta e guarisce. Secondo Giamblico di Calcide (Vita di Pitagora 114, 164), i pitagorici impiegavano l’epodé per la cura di alcune patologie; nell’Encomio di Elena Gorgia da Lentini fa riferimento alla capacità degli incantesimi dià lógon di recare piacere e di allontanare il dolore; la forza dell’incantesimo – per effetto della parola – è trattata anche da Platone, che dell’epodé sottolinea a più riprese la combinazione tra forza della musica e forza della parola.

Durante la «Peste nera», formule apotropaiche erano recitate in Francia per scacciare l’epidemia. Nella medicina tradizionale cinese, le prescrizioni farmaceutiche contenevano spesso formule da ripetersi per trattare morsi di animali, malaria, rischio di soffocamento. In India espressioni con funzione apotropaica risalirebbero invece alla cultura medica vedica (1200-800 a.C.), dove la cura era propiziata da riti magici durante i quali i sacerdoti esorcizzavano il demonio con incantesimi, amuleti, e formule (Lawrence Conrad, Dominik Wujastyk, Contagion. Perspectives from Pre-Modern Societies, 2017, p. 80). Questo perché le malattie erano considerate il risultato di influssi demoniaci. Mandare via il male con un esorcismo, scacciarlo distante, ricacciarlo da dove era venuto era – soprattutto – questione di parole. «Koruna go, go Koruna», appunto: con un ministro nel ruolo del moderno sacerdote e un console in quello di transfert con il luogo origine della pandemia.

 

Potrebbe sembrare una boutade estemporanea (per quanto culturalmente contestualizzabile), quella di Ramdas Athawale, senonché alla formula – ormai diventata un mantra popolare – ha fatto implicitamente riferimento anche il Primo ministro indiano Nerendra Modi quando in diretta televisiva ha chiesto a un miliardo di suoi concittadini di accendere – alle 21 di domenica 5 aprile – una luce per «sconfiggere le tenebre della disperazione e accendere le nostre vite con la speranza». In centinaia di milioni hanno risposto al suo appello, recitando in strada o dalle finestre delle loro case «Go Koruna go». E offuscando così il vero slogan ufficiale scelto dal governo presieduto da Modi, il più asciutto «Prepare, but don’t panic»: slogan dalla struttura consolidata secondo lo schema «do X, do not do Y» («Stay calm, don’t panic», «Be aware, don’t panic», ecc.) ma certamente meno efficace sul piano del pathos, del rito collettivo.

 

«Catch it, bin it, kill it». Una storia britannica

 

In genere però gli schemi funzionano, e molto bene, per creare e diffondere slogan. Anzi, si è detto, sono l’essenza degli slogan stessi. Penso, spostandomi verso latitudini che mi sono più familiari, allo schema ternario «do X, do Y, do Z», scelto dal governo britannico, il paese in cui vivo, per il suo slogan ufficiale «Stay at home, protect the NHS and save lives». È uno slogan molto diretto, come l’italiano «Stai/state a casa», rispetto al quale però presenta una efficace espansione che pone i tre membri dello schema in relazione di causa-effetto fra loro. Ternaria è anche la struttura di un altro slogan visto in Gran Bretagna a inizio epidemia: «Catch It, Bin It, Kill it», secondo lo schema «X it, Y it, Z it» (dove l’elemento variabile è il solo predicato), già visto in «See it, say, it, sign it», «See it, say it, do it», e ripreso – eufonicamente e sillabicamente, ma non sintatticamente – anche nel celeberrimo slogan antiterrorismo «See it, say it, sorted», che prima della pandemia si poteva leggere e sentire ovunque sui mezzi pubblici e nelle stazioni di Londra. Storia interessante, quella di «Catch it, bin it, kill it». Coniato nel 2007, quando alcuni studi dimostrarono che una buona igiene personale, il soffiarsi il naso con fazzoletti usa e getta, e il lavarsi le mani, poteva ridurre sensibilmente la diffusione dell’influenza, lo slogan cominciò ad apparire nelle campagne del National Health System, e nella cartellonistica su autobus, treni, nei centri commerciali e nelle stazioni di polizia. Fu poi riutilizzato in occasione della pandemia causata dall’influenza suina nel 2009, anno in cui fu anche studiato il suo impatto sull’opinione pubblica («Until a vaccine is ready – disse uno dei ricercatori coinvolti – the main tool we have to combat pandemic flu is people's behaviour. For example, good respiratory and hand hygiene, as summed up in the NHS's 'Catch It, Bin It, Kill It' campaign, can slow the spread of the pandemic»). Grazie alla sua documentata efficacia, «Catch it, bin it, kill it» è stato riproposto anche nella prima fase della campagna nazionale contro il Covid-19, tanto da essere incluso nell’Action Plan governativo del 3 marzo, che dello slogan esaltava, non a caso, la funzione pedagogica («Many of the actions that people can take themselves – especially washing hands more; and the catch it, bin it, kill it strategy for those with coughs and sneezes – also help in delaying the peak of the infection»).

 

Ma si era agli inizi, a Londra si pensava ancora all’immunità di gregge come possibile risposta alla pandemia, e c’era qualcuno che con ostentato understatement riusciva anche a riciclare per l’ennesima volta quel «Keep calm and carry on» che ha accompagnato la storia del Regno Unito dalla prima guerra mondiale in poi (sull’argomento, si veda il recente libro di Mark Honigsbaum The Pandemic Century: One Hundred Years of Panic, Hysteria, and Hubris). I giorni, e l’aggravarsi della situazione, avrebbero dimostrato anche ai più scettici che tuttavia non era quella del «business as usual» la chiave di lettura giusta, che non erano quelli i messaggi che avrebbero potuto istruire e rassicurare l’opinione pubblica. Meglio, decisamente, lo schematico pragmatismo di «Stay at home, protect the NHS and save lives», la solidale unità comunicata da hashtag come «BetterTogether» (spesso twittato in coppia con #COVIDKindness), diventato popolarissimo all’indomani del lockdown.    

 

Parole di solidarietà

 

La scriveremo, prima o poi, la storia degli slogan coniati e diffusi per contrastare il Covid-19. Sarà un pezzo, importante, di storia non solo linguistica ma anche e soprattutto sociale. Una storia in cui ogni slogan racconterà anche una diversa enfasi, un diverso approccio culturale: dal rigoroso «Es ist ernst. Nehmen Sie es auch ernst» pronunciato da Angela Merkel per sottolineare la serietà del momento e per richiamare alla responsabilità, all’idea di protezione collettiva – e federata, federalista – veicolata dello svizzero «So schützen wir uns», dall’«Este virus lo paramos unidos» scelto dal Ministero della salute e dal governo spagnoli per rafforzare il senso di unità nazionale, al simile ma più retoricamente elaborato «Al virus lo frenamos entre todos. Viralicemos la responsabilidad» condiviso da tutti i quotidiani argentini ("Clarín", "La Nación", "Página/12", "Crónica", "Popular" y el deportivo "Olé) in una straordinaria azione congiunta, imitata in seguito anche dalla stampa di altri paesi sudamericani. Difficilmente dimenticheremo, poi, quel «Nessuno si salva da solo» pronunciato da Papa Francesco nella cornice di piazza San Pietro la sera del 27 marzo. Lo ricorderemo certo per l’unicità della scenografia e della struggente mise en scène, e per la solennità dell’uomo e dei suoi gesti, ma anche per suo intrinseco profondo messaggio di solidarietà, che ha segnato il papato di Francesco fin dagli inizi. A qualcuno, ascoltandolo, venne in mente il titolo dell’omonimo libro del 2011 di Margareth Mazzantini, poi titolo del film ad esso ispirato diretto nel 2015 da Sergio Castellitto. Ad altri l’Enrico Berlinguer del «ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non solo uno per uno». In realtà il Papa citava se stesso, e quella sua prima esortazione apostolica, l’Evangelii Gaudium, pronunciata il 24 novembre del 2013, che a sua volta citava un celebre passo della patristica.

 

A me l’invito di Francesco, oggi, fa pensare ad altri slogan, recenti, che per me resteranno memorabili. Come quelli, ad esempio, di alcune organizzazioni non governative: nuovi, diversi, e necessari sul piano del contenuto, proprio per l’accento posto sulla solidarietà, l’inclusione, la necessità di un agire comune. E allo stesso tempo efficaci sul piano della forma. Penso innanzitutto a «La salute è un diritto di tutti. #Nessunoescluso» di Amnesty International Italia, dove slogan tradizionale e hashtag nel messaggio diventano complementari, in linea con le efficaci modalità ibride di comunicazione dell’organizzazione. E dove soprattutto – mi racconta al telefono Riccardo Noury, portavoce nazionale di Amnesty International Italia – il focus scelto è quello sui diritti, «perché la vera sfida è quella di non lasciare nessuno indietro», di lanciare messaggi inclusivi che rovescino la logica prescrittiva e punitiva tutta indirizzata all’individuo, e «rimettano al centro la società, i diritti, la tutela degli ultimi».

Penso, ancora, a «Prendersi cura è la prima cura», dell’Associazione di volontariato di Milano NAGA: uno slogan dalla struttura e dal linguaggio tanto più efficaci quanto più ragionati. «In passato abbiamo cercato, e usato, slogan aggressivi, quasi irriverenti, che giocassero sulla provocazione – mi racconta Luca Cusani, volontario NAGA e tra gli ideatori dello slogan – La nostra campagna di Natale, per esempio, aveva come motto «Basta immigrati* *Noi incontriamo accogliamo e curiamo persone», proprio per rovesciare la semantica negativamente connotata di immigrato, per denunciare l’abuso della parola, e per dire che si tratta di persone, non di etichette. Una sorta di contro-narrativa, insomma: che riprendeva, per rovesciarlo, uno stereotipo. Questa volta però – continua Luca – abbiamo preferito fare qualcosa di diverso, vista la delicatezza e la drammaticità del momento. Non uno slogan aggressivo, quindi, che non avrebbe avuto senso, ma uno messaggio che da un lato facesse sentire noi di NAGA al passo con i tempi, mettendo al centro la nostra missione – siamo nati alla fine degli anni ottanta come ambulatorio di medicina di base – e dall’altro, proprio grazie al linguaggio e alle scelte lessicali, andasse oltre una visione medicalizzata della società, ampliando il concetto stesso di cura: anche grazie a quel riflessivo, prendersi cura, che rende esplicita la complementarità della cura di sé e della cura dell’altro. Naga d’altronde oggi cura in molti modi: non solo con i suoi ambulatori di base gestiti da quaranta medici volontari, ma anche – solo per fare un paio di esempi – comunicando con i detenuti delle carceri per non farli sentire soli, assistendo le persone negli accampamenti informali, supportando gli insegnanti e gli studenti di lingua nei corsi di italiano per richiedenti asilo. Ecco, cercavamo uno slogan che riassumesse bene tutto questo: che riassumesse ciò che NAGA è stato ed è, quasi a volerne sintetizzare la storia, i percorsi, le sfide. Senza contare che abbiamo coniato questo slogan proprio a Milano e in Lombardia, dove i medici di base sono stato stati abbandonati a loro stessi: dove nessuno all’inizio si è preso cura di chi curava».

Prendersi cura è la prima cura. Anche col linguaggio, anche del linguaggio, mi verrebbe da aggiungere. Sperando che non sembri, solo, l’ennesimo slogan.

 

 

La cura delle parole, di Federico Faloppa

1. A proposito del gregge

2. Sul «nemico invisibile» e altre metafore di guerra

3. Tradurre per la vita

4. Lo spazio (linguistico) della cura

 

Immagine: Bandiera italiana appesa da una finestra con scritto "Andrà tutto bene" a Bologna durante la pandemia di Covid-19 nel marzo 2020

 

Crediti immagine: Pietro Luca Cassarino / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)

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Lo spazio (linguistico) della cura

 

Ancora sul tradurre

 

A volte serve. A volte serve, intendo, lanciare un sasso nello stagno. Le acque, prima ferme, si muovono, i cerchi concentrici si allargano, il movimento genera altro movimento. Un piccolo sasso nello stagno è stato il testo della scorsa settimana, Tradurre per la vita: le sue domande sul senso e sul bisogno di tradurre informazioni vitali sul Covid-19 per le persone non italofone. Anche grazie a quel testo, infatti, qualche informazione è circolata: qualche iniziativa si è fatta conoscere, anche al di fuori del suo territorio. Ad esempio, l’iniziativa di «Vite in Movimento», una «campagna social multilingue rivolta a tutti i migranti in cerca di risposte e che devono affrontare piccoli e grandi problemi a Palermo nei giorni dell’emergenza [...]: aiuto alimentare, dove dormire, numeri utili, diritti e doveri». Realizzata dai giovani migranti del laboratorio di Comunicazione del Progetto Fondo Asilo Migrazione e Integrazione (FAMI) – di cui la Scuola di Italiano per Stranieri (ItaStra) di Palermo è capofila – «ViM» ha prodotto in pochi giorni molti video e materiali, registrati e redatti dagli stessi migranti nelle loro lingue materne, non solo per rendere accessibili le comunicazioni ufficiali sulla malattia o per spiegare in arabo, francese, mandinka, cinese ecc. il perché e il percome dei moduli di autocertificazione, ma anche – ed è questo forse l’aspetto più innovativo – per contrastare le troppe fake news o i tanti falsi miti che girano in rete (come quello sui «neri» che non si ammalano di Covid-19: ne ha scritto in maniera efficace Oiza Q. Obasuyi su «The Vision»), nonché per raccogliere «dal basso», e quindi diffondere, informazioni utili (e molto pratiche) sui servizi disponibili, su dove recarsi in caso di bisogno, su dove poter mangiare, su quali associazioni poter contare, ecc. Un punto di raccordo tra bisogni, competenze, esperienze, quello di «ViM». E uno spazio – non solo linguistico – da costruire e condividere, per produrre informazione, tradurla, farla circolare.

 

Spazi linguistici

 

A proposito di spazi linguistici. Molti stanno già riflettendo, e molto ci sarà da riflettere, su come il Covid-19 ha modificato il paesaggio sociolinguistico che quotidianamente scorgiamo (penso alle «scritture esposte» in contesti urbani, che percepiamo decisamente meno: ma il tema è complesso, come spiega sinteticamente Jan Blommaert in Ethnography, Superdiversity and Linguistic Landscapes, 2013), gli spazi comunicativi in cui viviamo, le modalità di interazione – ora soprattutto mediate – che esperiamo. Non solo, quindi, il nostro «lessico familiare», cui Paolo di Paolo ha dedicato un intenso delicato articolo (Coronavirus: il lessico familiare della quarantena, «La Repubblica», 6 aprile 2020), ma anche il modo in cui produciamo e consumiamo i segni linguistici nello spazio e sul territorio, le nostre abitudini a livello pragmatico, i limiti e le potenzialità dei codici verbali di cui disponiamo. Penso ai «luoghi» dell’insegnamento e dell’apprendimento. A quelli della partecipazione pubblica e politica. Ai «luoghi» di lavoro in genere. E penso – ovviamente – ad ospedali e strutture sanitarie: uno degli spazi linguistici più determinanti, e allo stesso tempo più complessi, di questo nostro tempo. Dopo aver letto il dirompente articolo di Annalisa Camilli Il dolore invisibile dei medici in corsia contro il coronavirus («Internazionale», 1 aprile 2020), come tanti mi sono chiesto quali problemi, e quali variabili linguistiche presentasse lo spazio della struttura sanitaria, dell’ospedale, in questo periodo.  

 

Lingua e medicina

 

Da utente – prima ancora che da linguista – intuisco come tutti che i problemi linguistici (e in generale di comunicazione) nelle strutture sanitarie non sono affatto secondari. Non lo sono in situazioni «normali»: figurarsi in circostanze eccezionali come quelle che stiamo vivendo.

Da linguista cerco di suffragare questa intuizione grazie ai sempre più robusti studi di «linguistica medica», dei quali in Italia è stata pioniera Raffaella Scarpa, Presidente del Gruppo di Ricerca «Remedia – lingua medicina malattia» e docente di linguistica nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino, dove tra le altre cose coordina il Corso magistrale di Linguistica medica e clinica.

Di che cosa si occupa la linguistica medica? Innanzitutto di storia della lingua della medicina: di come è cambiato il linguaggio medico-specialistico nel tempo, dai secenteschi Consulti medici di Francesco Redi alla microchirurgia degli ultimi decenni, per fare due esempi (e si veda Capitoli di storia linguistica della medicina, a cura di Rosa Piro e Raffaella Scarpa, 2019). Si occupa inoltre dell’analisi e della classificazione dei disturbi del linguaggio (come le afasie). Ma si occupa soprattutto di analizzare – con un focus sulla lingua parlata – modi e forme della comunicazione tra operatore/operatrice sanitario/a e paziente (e, più in generale, tra istituzioni, associazioni di malati, media, ecc.), tentando di sistematizzare alcuni aspetti relativi al «parlar chiaro» (Franca Orletti e Rossella Iovino, Il parlar chiaro nella comunicazione medica. Tra etica e linguistica, 2019) e alla «comunicazione medico-paziente», la quale raccoglie complessi sistemi di interazione e casistiche estremamente eterogenee.

 

La comunicazione medico-paziente

 

Come spiega Scarpa, la relazione clinica tra medico e paziente è fondata sul linguaggio sin dai tempi di Ippocrate, e dell’invezione dell’anàmnesi (dal gr. ἀνάμνησις, der. di ἀναμιμνήσκω «ricordare»). Sul linguaggio si basa, a partire dal XVII secolo, la medicina d’osservazione e l’anatomia patologica, secondo cui il corpo del malato deve essere considerato come un oggetto che può essere curato a patto che lo si osservi e lo si descriva analiticamente. Col linguaggio la medicina moderna cerca di attenuare proprio questa spersonalizzazione, per ristabilire un rapporto umano tra curante e paziente basato sulla fiducia.

Ancora: nel linguaggio, attraverso una «metodologia di studio dialogico delle forme narrative, dei racconti prodotti dai sofferenti», si può – per la «Scuola di Harvard» (fondata da Arthur Kleinman negli anni Settanta), e per l’antropologia medica in generale (si sfogli di Giovanni Pizza il ricchissimo Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, 201915) – ricucire lo strappo tra analisi oggettiva della malattia (disease) ed esperienza soggettiva (illness). Il linguaggio è lo strumento primario con cui realizzare un processo di «umanizzazione della cura»: non soltanto attraverso le parole (lessico, espressioni formulari fisse, astratte o astrattizzanti, morfologia, sintassi, testualità), ma anche attraverso elementi paralinguistici (timbro, ritmo, intonazione) e non verbali (gesti, sguardi).

Ma è anche, il linguaggio, luogo di scissione per il medico, che deve muoversi tra nomenclature e registri specialistici e settoriali e la necessità di costruire una comunicazione personale col paziente. È terreno di asimmetrie e dislivelli tra l’esperto e il non esperto (con conseguente senso di alterità e/o subalternità del secondo), origine di discrasie prodotte dall’incontro necessario tra due soggettività non necessariamente compatibili, mancanza di tempo e difficoltà di ascolto. È, il linguaggio, spia di menzogna, attenuazione, disorientamento (da parte del paziente), o di verità, presunta oggettività, imposizione del controllo (da parte del medico). È principio dialettico tra la distanza fra parole e cose (tra la descrizione di una malattia e i suoi reali effetti, ad esempio) e il bisogno di avvicinamento tra le parti, di un modo efficace ed empatico di comunicare.

 

Variabili e imprevisti

 

Ma che cosa succede se questa dialettica va in crisi, per di più in modo rapido e imprevisto? Che cosa succede se entrano in gioco variabili inattese? Se non si sa – ad esempio – come verbalizzare la descrizione della patologia, la spiegazione della cura (perché la cura ancora non c’è, e si va per tentativi)? Se, banalmente, si attribuiscono significati anche molto diversi a parole come influenza, o si incappa nella falsa sinonimia tra malattia (Covid-19) e virus (Sars-CoV-2) come fatto notare anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità? O se di fronte al pericolo invisibile di un virus di cui poco ancora si conosce prevalgono incertezza o – dalla parte del paziente – emotività e panico, come rilevato già all’inizio di marzo dalla giornalista scientifica Silvia Bencivelli? Che cosa succede se saltano prassi – anche comunicative – assodate, confortanti?

«Le difficoltà iniziano col ricovero – mi racconta Francesca Vignani, medica in servizio all’Ospedale Mauriziano di Torino – spesso i malati, in insufficienza respiratoria, arrivano con l’ambulanza e senza essere accompagnati da qualcuno. Quando entrano in ospedale, i parenti ne hanno già perso le tracce. E per molte ore possono non saperne più nulla. È un tempo – questo di attesa «al buio» – che mai ho conosciuto in questo modo prima di questa epidemia: prima del Covid-19 nessun familiare, almeno da noi, ha mai avuto serie difficoltà ad avere informazioni sul decorso clinico di un paziente. Prima di questa malattia i familiari, ad esempio, aspettavano in sala d'attesa finché il medico non trovava il tempo di andarci a parlare. Oggi invece nessuno può sostare in sala d'attesa, il tempo il medico non riesce a trovarlo, e la comunicazione con i familiari è spesso molto limitata, quando non inesistente». «Il Covid-19 – continua Vignani – porta alla luce, tra le altre cose, anche il dramma della non comunicazione, dell'assenza di parole, della distanza e dell’isolamento. Un dramma che è vissuto tanto dagli operatori quanto dai pazienti e dalle loro famiglie»

 

Gli occhi, lo sguardo

 

«Mi chiedi dei problemi di comunicazione e del lavoro sul linguaggio – mi scrive Edoardo Altomare, medico dirigente dell’ASL 1 di Bari, impegnato da sempre nella formazione interdisciplinare per operatori sanitari della sua Azienda proprio in tema di comunicazione, strumenti interculturali, «storie che curano» – posso solo immaginare la drammatica riduzione del volume di scambi comunicativi tra un operatore sanitario, stremato dalla fatica, dall'impossibilità di bere, mangiare e andare in bagno, ed impaurito dal rischio di contagiarsi, ed un paziente comprensibilmente spaventato perché non riesce a respirare». A volte si può solo comunicare con alcune occhiate: è tutto ciò che la situazione concede. Sono «sguardi di infinita dolcezza – dice Enrico Bellotti, dottore nel reparto di Anestesia e rianimazione dell’Ospedale Maggiore di Novara – sguardi ad esempio di pazienti anziani che rassegnati, con gli occhi, ti dicono: ho capito». Sono «sguardi difficili da sostenere: come quelli che un paziente può fare attraverso un casco respiratorio per chiedere: e adesso? – racconta Lilian Pizzi, psicoterapeuta che lavora a Roma, a lungo impegnata per conto di varie ONG nella cura delle persone vittime di tortura e dei sopravvissuti ai naufragi nel Mediterraneo centrale, e oggi attiva nel progetto nazionale Psicologi contro la paura. Ma vi sono anche gli sguardi che sorridono, toni di voce che rassicurano, «anche perché lo sguardo e la voce – più delle parole – diventano il canale privilegiato di comunicazione tra operatori sanitari e paziente, entrambi alle prese con dispositivi di protezione – come le mascherine – che riducono di molto le possibilità espressive delle emozioni in circolo».

Già, le mascherine. Ammesso che siano disponibili, sono una necessità – scrive John Patkin della Education University di Hong Kong – ma possono essere anche un ostacolo nel comunicare, ad esempio quando medico e paziente non parlano la stessa lingua, o quando il paziente è sordo o ipoudente, e vorrebbe aiutarsi con la lettura del labiale per cercare di comprendere ciò che gli viene detto (da qui la semplice quanto geniale idea di una studentessa del Kentucky, Ashley Lawrence: «reusable masks for the deaf and hard of hearing» con una parte in plastica trasparente in corrispondenza della bocca)1. Senza contare che codificare le espressioni facciali di una persona che indossa una mascherina non è per nulla facile: il messaggio può essere frainteso, o non capito. Si aspettano segnali che non arrivano. Può dover essere ripetuto, o – nella sua essenzialità – può scoraggiare ulteriori comunicazioni. Può, soprattutto, ostacolare l’empatia che proprio ora, al tempo del Covid-19, è più utile che mai. Bisognerebbe chiedere a tutti – chiosa Patkin – di essere maggiormente consapevoli delle proprie competenze, e delle possibilità, comunicative non verbali, come quelle offerte dall’eye-contact. Sarebbe già qualcosa...».

 

Parola mediata

 

Il punto è che la parola, anche se c’è, spesso è mediata. «Penso alla medicina territoriale – riflette Edoardo Altomare – dove i medici di base, per evitare rischi, devono limitare gli scambi a comunicazioni telefoniche, o mediate dal computer. E penso che tra gli effetti del Covid-19 ci sia anche una certa disgregazione della relazione medico-paziente, sia perché il medico spesso non dispone di un bagaglio di conoscenze specifiche sul virus, sia perché – se può – il medico tende a tenere a distanza il malato difficile, le diagnosi controverse. E in questo la mediazione di un computer e di uno schermo, o di un telefono, gli sono d’aiuto». In realtà negli ospedali la mediazione del telefono è l’unica possibile, e quindi ben venga – sostiene Francesca Vignani – «pazienti in isolamento ma non gravi possono chiamare o videochiamare i parenti a casa, che altrimenti non potrebbero sentire o vedere, visto che le visite non sono consentite». Per questo molte ASL in Italia – da quella di Grosseto a quella di Cuneo – hanno acquistato tablet ad uso dei pazienti: aiutarli a comunicare con i propri familiari distanti è utile, oltre che possibile.

 

Il rumore del silenzio

 

«Il vero dramma comunicativo – prosegue Vignani – è però tra i familiari e i pazienti che sono tenuti in isolamento: è un dramma di assenza di parole e, nei casi di morte, di assenza di commiato. I malati in terapia intensiva sono intubati e sedati, nessuno veglia su di loro, se ne vanno da soli senza aver potuto abbracciare e salutare le persone importanti della loro vita. In questo dramma c’è anche il dramma degli operatori che soffrono nell'assistere impotenti a queste morti, che si fanno carico di queste solitudini: quelle dei malati, delle famiglie, e la loro, di spettatori impotenti». In molti fra gli operatori sanitari e le operatrici sanitarie hanno cercato di raccontare questa impotenza, spesso unita alla frustrazione di dover lavorare senza protocolli o equipaggiamenti adeguati: su Facebook e Twitter rimbalzano i post scritti – non solo in Italia – da infermieri, o i video postati da medici, nel tentativo di verbalizzare pubblicamente ansia, vigore, resilienza, o rabbia. Ma in genere, in certi momenti (come è comprensibile) «prevale il silenzio – mi spiega Lilian Pizzi – sia perché si vuole proteggere l’esperienza dallo sguardo estraneo, sia perché spesso non si trovano le parole per dirlo. Servirà del tempo per trovare le parole giuste: servirà la presenza di un altro, di altri in ascolto, di uno spazio di risonanza».

 

Noi, loro

 

«Tornando al personale sanitario – prosegue Pizzi – assistiamo a un carico individuale del timore della morte, e poi della morte, dei pazienti. Carico che non si può con-dividere neanche con i loro familiari. E invece si dovrebbe evitare che sul piano discorsivo e simbolico, ma più ancora su quello psicologico, si produca una spaccatura tra l’“io” dell’operatore – o il “noi” di chi svolge la sua professione, quel “noi” che ha vissuto, affrontato, subito, e si è confrontato con la malattia e con la morte – e un “tu”, un “voi che non potete capire, che non c’eravate, che ne avete solo sentito parlare”». Molti operatori umanitari, me inclusa – aggiunge Pizzi, che ha lavorato a lungo con i sopravvissuti ai naufragi nel Mediterraneo – occupandosi degli effetti di lungo termine su pazienti che erano stati testimoni della scomparsa di persone morte lontane dai loro cari, o del dolore di chi ha perso parenti e amici senza potere dare loro una sepoltura, si sono accorti che quel dolore stava diventando anche il loro». «Ecco, quando parlo con operatori sanitari impegnati contro questa epidemia riconosco nelle loro parole, e soprattutto nei loro silenzi, quello stesso senso di solitudine, quello stesso straniamento, quella stessa difficoltà a trovare le parole di fronte a sequenze di morte anomale, che sembravano riguardare solo chi, come noi, se ne occupava direttamente, lasciando sullo sfondo – nel caso delle morti nel Mediterraneo – un disinteresse collettivo e crescente. Quello stesso timore, infine, di non sapere tradurre in un discorso sensato quello che hanno visto e provato».

 

Il peso del racconto

 

Si avverte un conflitto tra la contabilità della tragedia (i nudi numeri, le fredde statistiche) e tutte quelle vite, tutti quei corpi che si è cercato di curare: ognuno diverso, con la sua storia, il suo nome e cognome. Si fa strada anche un senso di inadeguatezza: in quanto testimoni gli operatori sanitari si sentono in dovere di comprendere, e rendere comprensibile agli altri, ciò che sta succedendo. Ma intanto non sanno come fare. Ci penseranno dopo, dicono. Ma quando inizia il dopo? «Il rischio – chiarisce Lilian – è quello di rimanere intrappolati in memorie difficili da dipanare, di farsi carico di un dramma che non è solo né può essere solo il loro, individuale, ma che è o dovrebbe essere collettivo. Ma proprio per questo sarà importante – da subito – poter disporre di spazi di ascolto ed elaborazione di questa esperienza: l’elaborazione del lutto non può essere lasciata solo sulle spalle o dei familiari, o dei sanitari. Sarà importante fare pensiero, su queste morti, collettivamente: affinché non restino solo addosso, come un macigno, a tutti i sanitari che hanno cercato di impedirle». «L’elaborazione del lutto, della perdita – ricorda Pizzi – avviene attraverso rituali di condivisione che per chi muore di Covid-19 non sono previsti. Il rito è un tassello fondamentale per prendere coscienza e toccare con mano la morte di una persona. Senza il rito, si rimane in una zona grigia, sospesa, dove la vita e la morte sembrano confondersi. E questa sospensione può condurre nel tempo a forme di sofferenza profonda. Chi vive una perdita ha spesso timore di rovesciare sugli altri con il proprio dolore. Al contrario con-dividere il dolore significa spesso ridurne un po’ la portata. Ecco, questa epidemia sta mettendo in luce i tutti i rischi di una... privatizzazione del lutto che invece, date le circostanze, dovrebbe essere collettivizzato dall’intera comunità».

 

Non chiamateli eroi

 

Il bisogno di elaborare un racconto, di un discorso condiviso affiora anche dalla critica delle metafore che vengono usate per descrivere i medici e chiunque lavori negli ospedali e nelle strutture sanitarie. «Ci chiamano eroi, guerrieri, parlano di fronte e prima linea – mi dice, con voce esausta dopo un turno infinito di lavoro, Enrico Bellotti – ma a noi questo non serve, non aiuta. Anzi: vorremmo tanto non doverla combattere, questa guerra. Vorremmo tanto non dover contare le vittime, non dover rischiare noi stessi di diventare dei martiri». «Qualcuno già comincia a dire – prosegue Bellotti – che negli ospedali avremmo potuto fare di più. Si sente di qualche famiglia che comincia a interpellare avvocati, a pensare di far causa ai medici, a non voler capire che non siamo sbrigativi o negligenti oggi come non eravamo infallibili ieri. Da “angeli in camice bianco” qualcuno vorrebbe già trasformarci in capri espiatori. Non a caso è stato proposto uno «scudo» anche per i dirigenti e i direttori sanitari: se ci saranno dei colpevoli saremo noi, medici e infermieri. Anche perché – e qui ritorna il discorso sul linguaggio e sulla comunicazione – quando affrontiamo gli effetti del virus lo facciamo di fatto a porte chiuse. E ciò che non si vede alimenta i dubbi, le paranoie. Ma il punto vero è che non sappiamo più accettare l’idea di morte e incertezza: dobbiamo sempre cercare dei nessi tra causa ed effetto: se fai questo lo salvi, se non lo fai la condanni, ecc. Questo virus però non funziona così: non lo possiamo ancora controllare, ha in sé ancora un elemento casuale, imprevedibile. Bisogna purtroppo accettarlo».

 

Ricominciare dal linguaggio

 

«Ascoltando le persone – aggiunge Pizzi – ho l’impressione che in alcuni casi abbia prevalso la retorica del “siamo eroi, è nostro dovere sacrificarci”. In altri casi invece gli operatori si sono sentiti “mandati al macello” soprattutto a causa dell’assenza di protezioni adeguate. Ma non sempre avevano il coraggio di dirlo, specialmente nella prima fase della pandemia, come se l’eroismo e l’attitudine sacrificale dovessero definire per forza il loro lavoro. Penso a un’infermiera che, di fronte all’assenza di dispositivi di protezione, aveva espresso il timore di contagiarsi e qualche collega, probabilmente estenuato da lunghi turni di lavoro e impaurito anch’egli, le aveva risposto “se hai paura questo, non è il posto per te”. Forse avrebbe potuto semplicemente dirle, e dirsi, “è normale avere paura”. Ecco, forse dovremmo semplicemente provare a dircele tutti, certe parole. Forse dovremmo proprio ricominciare da qui».

 

1 Devo questa informazione a Vera Gheno, che ringrazio.

 

La cura delle parole, di Federico Faloppa

1. A proposito del gregge

2. Sul «nemico invisibile» e altre metafore di guerra

3. Tradurre per la vita

 

Immagine: Il dottore

 

Crediti immagine: Luke Fildes / Public domain

 

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Tradurre per la vita

 

Spoiler. Questo non è un post acchiappalike. O almeno, non è stato scritto con questo scopo. L’attuale situazione ha prodotto una superfetazione di commenti – più o meno approfonditi, più o meno fortunati – su COVID-19 e linguaggio: su quali termini usare, su quali espressioni evitare, su quali manipolazioni interrogarsi. Ed è normale e giusto che sia così, perché c’è un gran bisogno di una informazione corretta, di una comunicazione efficace, di una generale presa di coscienza su quanto le parole siano importanti, su quanto sia utile rifletterci. Questa settimana però mi occupo di qualcosa che, ai più, potrà sembrare marginale: perché non di lessico si tratta, né strettamente di lingua italiana. E che tuttavia marginale non è: perché mi occupo di scelte linguistiche che possono salvare vite umane. Letteralmente salvarle, intendo.

 

Prima immagine. Il muro del quartiere

 

Comincio da tre immagini.

La prima è del 26 febbraio. Ed è di un muro del quartiere milanese di San Siro. Una ragazza vi sta affiggendo due manifesti: uno in cinese e uno in arabo. Fa parte, la ragazza, del Comitato «Abitanti di San Siro», che ha deciso di tradurre in sette lingue (albanese, arabo, cinese, francese, inglese, românesc, somali, spagnolo) i consigli diffusi due giorni prima dal Ministero della Salute su come affrontare il Coronavirus, che in Lombardia sta già dilagando. Tradurre perché, per chi? Nel solo Comune di Milano gli stranieri residenti sono duecentosettantamila (dati ISTAT 2019), molti dei quali abitano proprio a San Siro. Ed è a loro che pensano quelli del Comitato: a come dar accesso alle informazioni di base a quante più persone possibili. E così, insieme a «Naga» Onlus – un’associazione di quattrocento persone che dagli anni Ottanta fornisce assistenza sanitaria, sociale e legale ai cittadini rom e agli stranieri – gli «Abitanti di San Siro» stampano le traduzioni e le affiggono a tappeto sui muri del quartiere, negli androni dei palazzi.

A quelle prime sette lingue si aggiungono di giorno in giorno l’aramaico, il cingalese, il bengali, il portogherse, il punjabi, il rumeno, il russo, il serbo, il tigrino e l’urdu. E a questa iniziativa se ne aggiungono altre, in altri quartieri di Milano. «Occupati del tuo quartiere, diffondi cura e solidarietà» e «Non facciamo cose speciali, guardiamo le cose in modo diverso» sono gli slogan del Comitato «Amici di San Siro» e del «Naga»: potrebbero funzionare benissimo entrambi come didascalia di questa prima immagine.

 

Seconda immagine. Videoselfie in varie lingue

 

Seconda immagine: inizio di marzo, o giù di lì. Un’operatrice di una struttura di accoglienza, nel Bolognese, cerca di spiegare a un richiedente asilo che cosa sta succedendo, e che cosa bisognerebbe fare. In quale lingua glielo spiego?, pensa l’operatrice: meglio in italiano, in inglese, o in pidgin nigeriano (che però mastico soltanto)? Già, come fare per aiutare le tante persone che vivono nei centri d’accoglienza, o quelle – ancora più numerose – che nei centri non ci sono più, non ci possono andare?

Proprio per tentare di rispondere a domande come queste, e per rispondere alla confusione e alla disinformazione di cui sono vittime, per primi, gli ‘stranieri’ o i cittadini non italofoni, una rete di associazioni lancia le campagne #nonseisolo e #stopcovid19, con l’obiettivo di realizzare progetti multimediali per spiegare il virus e le misure da adottare per contrastarne la diffusione e gli effetti: dal rispetto delle norme igieniche alle limitazioni sugli spostamenti allo stress da isolamento. Tra le realtà promotrici, la cooperativa sociale Arca di Noè di Bologna, che chiede ai propri mediatori linguistici e culturali di produrre – per richiedenti asilo e rifugiati – videoselfie in varie lingue, dal bengali al bambarà, dal somalo al curdo; l’associazione Il Grande Colibrì - che a Bologna, Lecco, Piacenza e Torino si occupa dei diritti delle persone LGBTI+ e delle minoranze ‘etniche’ e religiose – che realizza video in trentaquattro lingue, dall’italiano semplificato all’albanese, dall’arabo all’urdu, dal pidgin nigeriano al wolof; l’associazione Cambalache di Alessandria, che ha attivato un numero WhatsApp per offrire informazioni in lingue diverse; l’associazione Camera a Sud di Lecce, che ha realizzato pillole multilingui sulle raccomandazioni del Ministero della Salute, e aperto un servizio telefonico insieme alle Asl di Taranto, Brindisi e Lecce. In un mese la rete ha prodotto settantadue video e centoquattro guide in quarantesei lingue diverse. E se la mia immagine era solo verosimile, questi numeri sono reali, e parlano da soli.

 

Terza immagine. Una rete di recinzione

 

Tutt’altra la rete che si vede nella terza immagine, per come la si vede sui social media. Perché qui la rete è una rete di recinzione: la recinzione del campo ‘profughi’ di Moria, sull’isola greca di Lesbo. Alcune persone vi stanno attaccando dei cartelli. Siamo intorno al 25 marzo. A Moria manca quasi tutto: un campo progettato per accogliere tremila persone oggi ne accoglie, si fa per dire, circa ventimila: tra i rifiuti, senza servizi igienici o acqua o assistenza sanitaria. «È una corsa contro il tempo – scrivono sulla loro pagina Facebook i volontari dell’associazione «Stand by Me Lesvos» – se il virus si diffondesse nel campo sarebbe una strage». E quindi? E quindi si usano tutti i mezzi possibili, per evitare che ciò avvenga: «sull’isola ci sono solo sei posti letto in terapia intensiva, destinati ai greci – raccontano – la prevenzione è fondamentale». Ma la prevenzione ha bisogno di comunicazione: multilingue, perché nel campo pochissimi masticano il greco. E così in una manciata di ore, la settimana scorsa, «siamo riusciti a scrivere e stampare cartelli in quattro lingue: farsi, arabo, inglese e francese, e a diffondere un po’ di informazioni con un megafono.

Tradurre ovvero «portare oltre»: oltre quella rete di recizione, oltre l’abbandono e l’indifferenza di chi avrebbe dovuto garantire sicurezza e assistenza. Mai etimologia fu più trasparente.

 

Barriere fisiche e barriere linguistiche, dal Sud al Nordamerica

 

Barriere fisiche e barriere linguistiche: una combinazine letale, non solo a Moria. Coronavirus and Language Barriers: How to React in a Health Crisis è il titolo di un post pubblicato sul blog dell’agenzia di traduzioni Transpanish già il 27 febbraio, prima che il virus deflagrasse nell’emisfero occidentale. Un post che mette già in guardia traduttori e interpreti sulla necessità di avere uno sguardo lungo, rispetto all’epidemia e alla sua prevenzione, anche in termini linguistici:

 

The global village in which we live has innumerable benefits, making the world smaller and more connected than ever. However, periods of crisis like the recent coronavirus outbreak highlight our vulnerabilities in this system and draw attention to linguistic misunderstandings that can lead to devastating results… For example, it’s all well and good to issue an official warning and advice in a country in its principal language, but if not everyone understands the language, it exposes everyone to possible dangers due to lack of information, lack of awareness or pure misinformation through social media.

 

D’altronde già sappiamo – continua l’autore del post – che quanto più varia è la composizione linguistica di una popolazione, o le differenze tra chi ha accesso ai media e chi no, chi può leggere e chi no, chi semplicemente è maggioranza, anche sul piano dei diritti, e chi no, tanto più dovremo affrontare dei gravi squilibri anche sul piano linguistico. Come già succede in molti paesi dell’America del Sud, dove scarse sono le risorse per efficaci servizi di traduzione dallo spagnolo alle lingue amerindie. O come succede negli Stati Uniti, dove le comunità non anglofone sanno che le informazioni sanitarie a loro disposizione di solito sono molto ridotte, quando non molto imprecise.

E infatti negli Stati Uniti un allarme viene suonato il 22 marzo, dalle colonne del quotidiano «The Hill», da venticinque anni molto letto – e molto influente – nelle stanze dei bottoni. «Language barriers hamper coronavirus response», titola non a caso il giornale di Washington D.C., spiegando che il Center for Disease Control and Prevention (CDC) «has Spanish and Simplified Chinese translations for its main COVID-19 website, but without all the resources that are available on the English-language site­», e che «public service announcements produced by the federal government that come out in English sometimes aren’t followed by a Spanish translation until the following day». Una inspiegabile leggerezza da parte del governo federale, quella di far tardare le traduzioni in spagnolo. E si tratta appunto dello spagnolo, la seconda lingua più parlata del Paese. Che dire poi dei milioni di statunitensi con una limitata conoscienza dell’inglese, inclusi sei milioni di Asian-Americans che parlano mandarino, coreano, vietnamita, tagalog, ecc. o i centomila nativi delle isole del pacifico, o le decine di migliaia di persone di madre lingua creolo-haitiano: una lingua comunemente usata per le insegne dei negozi in Florida ma totalmente ignorata nella comunicazione sul COVID-19? In mancanza di un deciso intervento federale – chiosa l’articolo – ogni stato ha fatto ciò che poteva: la California, ad esempio, sul suo sito ufficiale ha inserito un’opzione per la traduzione automatica dall’inglese allo spagnolo (peccato però che si tratti della traduzione fornita da Google Translate, sulla cui accuratezza ci sarebbe molto da dire...), mentre lo Stato di New York – uno dei focolai del virus negli Stati Uniti – ha tardivamente deciso di destinare risorse adeguate per produrre materiali informativi in 23 lingue. In questo caso meglio tardi che mai, certo. Ma vista la rapidità con cui si è espanso il contagio – e lo si sapeva – vale come consolazione?

 

In Inghilterra e in Germania

 

L’America, si dirà: con le sue ineguaglianze e le sue differenze (anche tra uno stato e l’altro, in termini di policy linguistiche). Eppure la preoccupazione di non poter raggiungere molta parte della popolazione per aver trascurato un aspetto così fondamentale come quello dell’accesso a una informazione multilingue viene espresso anche da David Jamieson, capo della polizia delle West Midlands, in Gran Bretagna. Lo riferisce Nazia Parveen, cronista del «Guardian», sull’edizione online del 30 marzo:

 

Some people in the UK are still not getting the message about the severity of the coronavirus pandemic and the government needs to be more inventive with its information campaign, a police chief has said. David Jamieson, the police and crime commissioner for the West Midlands, said certain demographics in the country were struggling to access important information due to language barriers.

 

Risultato? Ci sono molte famiglie in cui l’inglese non è parlato che faticano a ricevere informazioni adeguate, anche perché non leggono i quotidiani nazionali e la stampa locale è spesso imprecisa. «Il governo dovrebbe decisamente fare di più», conclude Jamieson «e rivolgersi a tutte le fasce della popolazione. Ora, prima che sia troppo tardi».

Di governo inandempiente si parla anche in Germania, dove pure l’epidemia sembra essere sotto controllo, almeno più che in altri paesi. Nel suo video Coronavirus: Risiken Durch, Ignoranz in Punkto, Aufklärung in Gebärdensprake, l’attivista Lena Finkbeiner non le manda a dire: sul fronte della lingua dei segni tedesca il governo federale si è mosso sempre poco, pochissimo. E anche ora – di fronte a un’emergenza di tale portata – non sembra non voler far molto di più. «Ernshaft Deutschland?!» («Davvero, Germania?!»), si chiede in lingua dei segni Finkbeiner, sorpresa del fatto che così poca attenzione sia stata riservata agli ottantatremila membri della  Deutsche Gehörlosen-Bund (letteralmente «Associazione tedesca dei sordi»).

Non è la sola a indignarsi. «Che deve fare un audioleso? Morire di Coronavirus come risultato della negligenza del governo federale?», si chiede infatti Corinna Brenner, interprete della lingua dei segni. E perché – si domandano in molti – le conferenze stampa dei primi ministri italiano e finlandese, perfino di Donald Trump, sono tradotte in lingua dei segni, mentre qui non succede? Dove sono gli interpreti promessi nelle strutture sanitarie? Perché – ha chiesto il 12 marzo durante il question time parlamentare la deputata dei Grüner Corinna Rüffer – le persone con disabilità sono sempre le ultime a sapere, le prime a pagare le conseguenze?

Già, perché?

 

«Translators without borders» e l’infodemia

 

Il discorso non è solo squisitamente traduttivo, mi avverte Stella Paris, Head of Language Services di «Translators without borders». Premessa. Sono venuto a conoscenza di «Translators without borders» circa tre anni fa: quando l’ONG partecipò a un progetto di ricerca condotto dalla mia università, l’Università di Reading, intitolato ProLanguage – The protective role of languages in global migration and mobility. Cercavamo di capire, allora, se e come avremmo potuto costruire una rete di operatori e insegnanti di lingue nei «campi profughi» e nei centri di prima accoglienza in Grecia, Libano e Italia. Tra le altre cose, personalmente imparai – grazie ad Aimee Ansari, Executive Director di «Translators without borders» – che senza un lavoro accurato e professionale di traduzione gran parte della comunicazione in contesti così complessi può essere inefficace, se non controproducente. «Per poter curare una malattia – continua Stella, che ho intervistato per email – ci sono diversi step da compiere: osservare i sintomi, confermare la diagnosi, individuarne le cause, scegliere e adottare il trattamento giusto. E ogni passaggio richiede un adeguato lavoro di informazione. Il punto è che – come ha sostenuto già a metà febbraio il Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus «We’re not just fighting an epidemic: we’re fighting an infodemic». Nel caso del Coronavirus, infatti, la prima epidemia da combattere è proprio sul piano dell’informazione: è l’infodemia («la diffusione di una quantità di informazioni enorme, provenienti da fonti diverse e dal fondamento spesso non verificabile» secondo la chiara definizione fornita da Nicola Grandi e Alex Piovan nel loro approfondito studio) che si è generata settimana dopo settimana: figlia della paura e dell’ignoranza, quando non del dolo, capace di riprodursi e diffondersi per contatto tra corpi predisposti a riceverla – proprio come un virus – perché avidi di informazione, e causa di disinformazione e quindi di comportamenti che non fanno che peggiorare le cose. «Ecco sì, la prima sfida per noi di «Translators Without Borders» è proprio quella di produrre informazione il più possibile accurata e basata sui fatti. Come facciamo? Prima dobbiamo distinguere le buone dalle cattive informazioni (nel caso di emergenze sanitarie, ad esempio, misure preventive farlocche o cure non testate e basate su dicerie, come quella alla clorochina che tanti danni ha fatto in Nigeria), scartando le seconde e – in collaborazione con le grandi agenzie come OMS, la Croce Rossa Internazionale, la BBC Media Action – concentrandoci sulle prime. Poi possiamo passare alla traduzione. Ma per far questo ci servono mappe linguistiche aggiornate, su quali sono le lingue parlate, e dove, e allo stesso tempo un monitoraggio costante dei social media, non tanto in inglese quanto in tutte le lingue su cui vogliamo operare: perché solo così ci possiamo rendere conto di ciò che già c’è, e di ciò che manca. Nel caso del COVID-19 la difficoltà sta nel fatto che di solito ci occupiamo di un’area o di una popolazione specifica (fu così ad esempio per l’ebola), scegliendo quindi prioritariamente alcune lingue rispetto ad altre. Ma qui siamo in presenza di una pandemia, e l’intervento deve essere globale. Possiamo contare però su una comunità di trentamila traduttori e linguisti sparsi per il mondo, e possiamo tradurre rapidamente messaggi e avvisi in moltissime lingue, oltre che aggiornare un dizionario medico-epidemiologico open source a disposizione degli operatori sanitari».

 

Per chi si traduce e in quali contesti

 

Sembra semplice, ma non lo è affatto. Perché non basta tradurre. Bisogna prima capire per chi si traduce, in quali contesti. «Vuoi un esempio di una sottovalutazione – mi chiede Stella – un esempio di come la disinformazione unita a una conoscenza linguistica e culturale incompleta possa generare un clima di paura, e quindi rendere un intervento sanitario inefficace?». Mi racconta così di una ricerca del 2019 svolta nei campi profughi rohingya della città di Cox’s Bazar, in Bangladesh. I rohingya parlano una lingua molto simile al locale idioma della regione di Chittagong. Ma, per ragioni storiche, mentre l’idioma locale si serve di termini medici precisi presi a prestito dal bengali e dall’inglese, la popolazione rohingya si serve di eufemismi per le parti del corpo e le funzioni corporali. E questo ha generato non pochi fraintendimenti tra gli gli operatori sanitari del campo e i rohingya. Ciò che infatti questi ultimi – ad esempio – descrivevano con «gaa lamani», che nell’idioma locale potrebbe essere tradotto come «il corpo cade giù», significava invece per i rohingya «diarrea»: un disturbo che nei campi profughi può essere letale, se non trattato in tempo. Proprio per incomprensioni di questo tipo, culturali prima ancora che linguistiche, secondo la ricerca, il 29% dei rifugiati rohingya pensava di non essere compreso quando si rivolgeva agli operatori sanitari, e questo generava un aveva generato sfiducia, mancanza di collaborazione, e quindi reso la vita di tutti più complicata. E non importa se c’era del personale che tentava di fare da intermediario: se non adeguatamente formato su problematiche interculturali, e su buone pratiche di interpretariato, poteva fare ben poco (un punto, questo, ben dimostrato tra gli altri anche dall’eccellente progetto The Listening Zones of NGOs: Languages and cultural knowledge in development programmes condotto a Reading da Hilary Footitt e Wine Tesseur).

 

Lavorare sulle lingue delle popolazioni migranti

 

«Capisci perché anche in Europa – aggiunge Stella – occorrerebbe lavorare non solo sulle lingue ufficiali, ma anche su quelle delle popolazioni migranti», che già sono anche le più vulnerabili sul piano materiale e dei diritti: non parliamo sul piano dell’informazione. Molto si sta facendo, certo, e per fortuna: in Italia e in Francia, ad esempio, dove centinaia di volontari hanno costruito reti per tradurre informazioni di base per i migranti. Ma occorrono anche competenze mediche specifiche, occorre un sistema di vaglia e valutazione dell’informazione, per verificare che le traduzioni siano accurate. Noi «Translators Without Borders» ci proviamo, a fare la nostra parte: abbiamo un meccanismo di doppia validazione dei testi che produciamo. Ma dove non arriviamo noi, che succede?»

 

Già, che succede? C’interessa chiedercelo, prima ancora che saperlo?

 

 

La cura delle parole di Federico Faloppa

1. A proposito del gregge

2. Sul «nemico invisibile» e altre metafore di guerra

 

Immagine: Controlli presso un aeroporto al fine di prevenire la diffusione dell'epidemia

 

Crediti immagine: Ptrump16

 

 

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Sul «nemico invisibile» e altre metafore di guerra

 

Malattia come metafora

 

«Da giorni - ha scritto Daniele Cassandro su «Internazionale» di domenica 22 marzo – basta aprire un giornale, scorrere le notizie sul telefono, guardare un notiziario in tv per sentirci dire che siamo in guerra. L’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra». Nel suo articolo Siamo in guerra! Il Coronavirus e le sue metafore, Cassandro ha efficacemente dato forma a pensieri e sensazioni che in tanti abbiamo avuto, nei giorni scorsi: su cui in tanti ci siamo interrogati. Citando Malattia come metafora (1978) e L’aids e le sue metafore (1989), di Susan Sontag, ci ha inoltre ricordato quanto sia facile cadere nel tranello di presentare e rappresentare un’emergenza sanitaria come una guerra «anziché come un complesso problema sociale, culturale o di emarginazione di determinate categorie di persone». Trattare una malattia come una guerra – continua Cassandro sempre citando Sontag - «ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. I malati diventano le inevitabili perdite civili di un conflitto e vengono disumanizzate appena... perdono il loro diritto di cittadinanza da sani per prendere il loro oneroso passaporto da malati”. I malati così, oltre che essere vittime della malattia, sono anche vittime delle metafore della malattia: «ammalarsi vuol dire essere invasi dal nemico e morire è una sconfitta». Né sono migliori le metafore della lotta, della resistenza: la metafora del «guerriero che sconfigge il male» non solo falsa il peso (anche psicologico) della malattia, caricando il malato di responsabilità, aspettative, sensi di colpa individuali, ma anche il rapporto tra individuo e società. Come infatti hanno fatto notare «Amazzoni Furiose» sul loro blog il 13 agosto 2019, all’indomani della scomparsa di Nadia Toffa, «la rappresentazione del cancro e, più in generale, della malattia come battaglia personale domina... offrendo la possibilità di oscurare il fatto che la nostra salute e il diritto a preservarla ben oltre i quarant’anni anni - l'età che aveva Nadia Toffa - siano questioni collettive». E parlare di cancro così, concludevano le «Amazzoni Furiose» chiedendo non semplificazioni del racconto ma un dibattito serio sui fattori socio-economici e ambientali legati alla salute «non è solo inutile. È dannoso».

 

À la guerre comme à la guerre

 

Torniamo al COVID-19. Non sono mancate nei giorni scorsi riflessioni articolate (e per forza di cose parziali, vista la novità della situazione) sulle cause della pandemia, sugli effetti su individui e società, sulle similitudini e e differenze (comportamentali, culturali, sociali, economiche) fra i paesi e fra le persone toccate dal virus. Tuttavia, la sensazione è che certe metafore concettuali – che attivano i frame, o «cornici mentali», le quali «determinano la nostra visione del mondo» (George Lakoff, Non pensare all’elefante. Come riprendersi il discorso politico, Milano: Chiarelettere, 2019, p. 6) – siano più frequenti di altre, non solo in Italia. Tra queste, la metafora della guerra è dominante: come lo è stata spesso in situazioni emergenziali, di crisi, di problematica gestione del consenso (sulla «guerra al terrore», ad esempio, si vedano l’ottimo lavoro di Vladimiro Giacché, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, Milano: DeriveApprodi, 2008, e Richard Jackson, Writing the war on terrorism. Language, policy and counter-terrorism, Manchester: Manchester University Press, 2005). Può valere la pena, allora, osservarla più in filigrana questa metafora: considerandone anche il campo semantico.

La guerra innanzitutto si «dichiara» («La Toscana dichiara guerra totale al nuovo coronavirus e si muove in tutte le direzioni: cura e prevenzione», www.lanazione.it, 18 marzo), si «combatte» («Il governo lancia un appello al mondo dell'industria e della ricerca per moltiplicare le armi per combattere contro il Coronavirus», www.ansa.it, 20 marzo), si cercano e si usano «armi» efficaci («Restare a casa è l’unica arma per combattere il Coronavirus: lo dimostra la ‘pericolosità’ degli asintomatici», www.leccenews24.it, 15 marzo) da affidare a soldati o «guerrieri» («Chiamata alle armi per i guerrieri: il vaccino siamo noi. Dieci mosse per combattere... Scendono sul campo di battaglia anche i guerrieri contro il Coronavirus. I cittadini. Perché il vaccino siamo noi. Lo ricorda un suggestivo spot realizzato dalla Regione Marche... Lo fa investendo tutti i marchigiani, e non solo, della responsabilità di combattere. "L'unica strategia per vincere... è attuare tutti insieme le mosse del guerriero. Se siamo bravi guerrieri... combattiamo tutti insieme perché il vaccino siamo noi”», «Corriere dell’Umbria», 21 marzo), i quali hanno la «responsabilità» di combattere, appunto.

I soldati hanno dietro di sé tutto un paese, un sistema economico, un’«economia di guerra» («Serve un’ “economia di guerra” per far fronte all'emergenza coronavirus», così il commissario Domenico Arcuri su www.rainews.it del 18 marzo, a cui fa eco Carlo Bonomi, Presidente dell’Assolombarda: «Quando usciremo da questo incubo ci troveremo in una situazione da economia di guerra», «La Repubblica», 21 marzo): una metafora iperbolica (secondo il Dizionario di economia e finanza di Vera Zamagni, l’economia di guerra è «l’adeguamento del sistema economico alle necessità della guerra», ovvero «[il] rendere disponibili risorse per gli armamenti, il mantenimento e la mobilitazione degli eserciti e, dall’altro, organizzare la produzione a sostegno della guerra») ma certamente funzionale a una certa circolarità del ragionamento, per cui se c’è un’economia di guerra, allora ci sono anche eserciti, armi, e la guerra stessa.

La battaglia tuttavia si svolge soprattutto al «fronte», termine molto produttivo in fatto di locuzioni e polirematiche: «sul fronte del Coronavirus» («Maggior incremento di morti dall'inizio dell'emergenza sul fronte del coronavirus», www.ansa.it, 20 marzo 2020; «L'Italia si risveglia in coda dopo il giorno dei record negativi sul fronte del coronavirus», www.repubblica.it, 21 marzo 2020; «Anche la giornata di sabato è stata davvero pesante sul fronte del coronavirus in Toscana», www.lanazione.it, 22 marzo 2020), e poi «andare al fronte» («É un atto di amore e orgoglio. Siamo stati travolti. C'è gente che viene da tutta Italia e di tutte le età, che hanno deciso di andare al fronte...», così il Ministro per gli affari regionali Alfredo Boccia, a proposito dei medici, www.repubblica.it, 21 marzo 2020), «linea del fronte» («Emergenza coronavirus, il reparto di medicina di Verbania prima linea del fronte: “Qui sembra di essere in guerra”», «La Stampa», 18 marzo 2020), «al fronte di» («Coronavirus, al fronte di Rogoredo: diario di un medico di base che visita dietro un vetro», «L’Espresso», 20 marzo 2020), «far fronte», «fronteggiare», «fronte sanitario» («è il fronte sanitario quello più esposto al virus», «Il messaggero», 20 marzo 2020), e «nuovo fronte» («Coronavirus, il nuovo fronte è il Centro-Sud», www.ilmessaggero.it, 14 marzo 2020).

Al fronte, inoltre, si sta «in trincea» («Lo specializzando. "In trincea contro il virus per aiutare la mia città"», www.repubblica.it, 23 marzo; «Enrico Mentana in trincea contro il coronavirus», www.liberoquotidiano.it, 22 marzo; «Cesena, giovani medici in trincea: “Non abbiamo paura”», www.ilrestodelcarlino.it, 23 marzo; «Coronavirus, Zaia: "Sembra guerra mondiale, aprile in trincea"», www.adnkronos.com, 22 marzo). Una trincea dove si affrontano quotidiane «battaglie» («Coronavirus, la quotidiana battaglia da trincea dei medici», www.ilmessaggero.it, 23 marzo). Una trincea grande come una città («Coronavirus, la città in trincea», www.romagnanoi.it, 22 marzo), come un intero paese («Coronavirus, Maurizio Molinari: "Italia trincea più drammatica», www.la7.it, 23 marzo). Una trincea dove si è schierati contro un «nemico». Un nemico che però non si riesce a vedere: un nemico che è soprattutto «invisibile» («Coronavirus, la dottoressa in lacrime a fine turno: "In trincea contro un nemico invisibile"», titola il 21 marzo «Il mattino di Padova»).

 

Il nemico invisibile

 

«Nemico invisibile» è espressione diffusa nel linguaggio dell’informazione e della politica: non solo in Italia, non solo in italiano. L’ha usata in un tweet Giuseppe Conte, il 17 marzo, in occasione del 159° anniversario dell’Unità d’Italia, evocando unità («Mai come adesso l'Italia ha bisogno di essere unita. Sventoliamo orgogliosi il nostro Tricolore. Intoniamo fieri il nostro Inno nazionale. Uniti, responsabili, coraggiosi. Tutti insieme per sconfiggere il nemico invisibile»). L’ha usata il settimanale tedesco «Bild» nel numero di sabato 21 marzo («Coronavirus: So hart trifft der unsichtbare Feind die Bundespolizei», ovvero «Il nemico invisibile colpisce così duramente la polizia federale»). All’«enemigo invisible», per fare un altro esempio, è dedicato un editoriale di Ferran Garrido sul quotidiano spagnolo «ABC», sempre del 21 marzo («Coronavirus: el enemigo invisible»). Un editoriale in cui la metafora della guerra si dispiega in tutto la sua efficacia:

No es la primera vez que el mundo está en guerra. La palabra es fuerte, pero vamos a afrontar la situación a palo seco, sin dramas, pero con la necesaria seriedad que requieren los tiempos excepcionales... No es la primera vez que España vive un estado de conflicto, pero esta vez es diferente, nada de unos contra otros, todos contra un enemigo invisible. No es la primera vez que vivo en una situación bélica, pero ahora siento una diferencia... No paro de pensar que en esta guerra que vivimos ya muy de cerca, las víctimas tienen nombre y apellidos. Todos empezamos a conocer a personas infectadas, que luchan por restablecerse y recuperar su salud... Por eso, por su memoria, me he decidido a ponerme a escribir esta semana mi artículo... en su nombre, en esta batalla que hemos de librar y que vamos a ganar, si luchamos juntos y unidos... Ahora es el tiempo del combate común frente al enemigo invisible. Ya llegará la hora de pedir explicaciones.

 

Non è rara né nuova l’espressione «nemico invisibile» per parlare di un virus, di una epidemia. Non stupisce quindi imbattersi in essa. Andando a ritroso, «nemico invisibile» si intitolava un libro fortunato, The Invisible Enemy: A Natural History of Viruses (2002), che la docente di Microbiologia dell’Università di Edimburgo Dorothy Crawford dedicò alla storia dei virus nelle culture occidentali. O un saggio dello storico Carlo M. Cipolla (Contro un nemico invisibile: epidemie e strutture sanitarie, 1986). O ancora prima – per cambiar genere – un ciclo della celebre serie britannica Doctor Who, andato in onda nell’ottobre del 1977 in quattro puntate: protagonista un virus intelligente che cerca di diffondersi nell’universo per conquistarlo. In italiano, occorrenze dell’espressione – in riferimento a virus e malattie – risalgono almeno alla seconda metà dell’Ottocento (di «avamposti contro un nemico invisibile» si legge in un numero de «L'Illustrazione italiana» - vol. 10, parte 2 - del 1883; e «resistenza del virus morvoso all'azione distruttiva degli agenti atmosferici e del calore» si trova in un numero del giornale «Riforma medica» del 1886). Si tratta perciò di una metafora ben acclimatata, non solo nel linguaggio medico, in italiano come – probabilmente – in altre lingue.

Ma nel suo articolo Silence, Death and the Invisible Enemy: AIDS Activism and Social Movement 'Newness'” (1988), il sociologo statunitense Josh Gamson ci fa intuire quanto si tratti, anche, di una metafora molto duttile, e molto insidiosa. Intrecciando il discorso medico con quello delle scienze sociali e delle contro-narrative prodotte dagli attivisti di ACT UP – AIDS Coalition to Unleash Power, impegnati negli anni Ottanta e Novanta a fianco dei malati di AIDS-HIV, Gameson infatti si chiede se questo «invisible enemy» non possa essere un’espressione polisemica a seconda di chi la utilizzi, e di come la si utilizzi:

Who is the enemy? Asking this question of ACT UP, one often finds that the enemies against which their anger and action are directed are clear, familiar, and visible: the state and corporations. At other times, though, the enemy is invisible, abstract, disembodied, ubiquitous: it is the very process of normalization through labelling in which everyone except one’s own community of the de-normalised (and its supporters) is involved. At still other times, other enemies appear the visible institutors of the less visible process: the media and medical science.

 

Chi è il nemico, quando gli elementi ideologici del discorso sono sottesi, ambigui, non chiaramente espressi? Quando anzi si è in presenza di discorsi diversi, anche divergenti? Soltanto il virus? O non è forse, questo «nemico invisibile», una utile espressione per occultare l’oggetto della propria «guerra», delle proprie strategie? Perfino un’opportunità retorica, come ha suggerito Francisco Oliveira sul quotidiano argentino «La Nación» il 21 marzo?

El virus al que definió como "enemigo invisible" le ha devuelto al menos a Alberto Fernández [presidente artentino dal dicembre 2019] algunas oportunidades políticas en medio del drama sanitario. Entre ellas, la de concretar aquello que prometió la noche en que se impuso en las primarias y que en sus primeros meses de gobierno ya se insinuaba incumplible: el fin de la fractura entre los argentinos.

 

Il nemico invisibile («the invisible enemy») non è forse quello che permette a Donald Trump – autoproclamatosi non a caso «war-time president» – di invocare, come ha fatto nei giorni scorsi, leggi straordinarie per combattere nemici ben visibili (i migranti al confine col Messico), e per assumere poteri speciali grazie al «Defense Production Act», un provvediento di emergenza che risale alla guerra di Corea degli anni Cinquanta e che garantirebbe al presidente ampia autorità «[to] expedite and expand the supply of resources from the U.S. industrial base to support military, energy, space, and homeland security programs»?

 

Qual è il (vero) nemico?

 

O non è, questo nemico invisibile, quello intorno al quale – secondo il quotidiano «Le Monde» - il presidente francese Emmanuel Macron sta riarticolando la sua retorica politica per recuperare il terreno perso con i passi falsi dei mesi scorsi? «Siamo in guerra», ha detto senza mezzi termini Macron il 16 marzo – contro un nemico invisibile («un ennemi invisible»). E il senso del suo proclama prova a spiegarlo il giornale parigino, calcando sulla metafora: «Du côté des troupes, le moral n’est pas très bon», si legge sul quotidiano, i francesi hanno paura. «Du côté du général en chef, le bulletin est un peu meilleur»: poco amato in tempo di pace, Emmanuel Macron ha recuperato una sufficiente credibilità (aura) per essere ascoltato e ha assunto «l’abito del presidente protettore». Certo, gli altri attori esistono sempre: il primo ministro, il parlamento, i partiti, i giudici, «indéfectibles garants d’un ordre démocratique largement perturbé par l’état d’urgence sanitaire». Ma è la parola presidenziale quella che conta. Perché, come disse il generale de Gaulle il 6 gennaio 1961 annunciando il referendum per l’autodeterminazione dell’Algeria, «L’affaire est entre chacune de vous, chacun de vous, et moi-même». Inoltre, prosegue «Le Monde­», per indossare l’abito del «presidente protettore», dopo mesi di tensioni sociali causate dalla riforma delle pensioni, Macron deve aggirare tre ostacoli: lo screditamento della «parola politica», basandosi sull’esperienza dei medici e degli scienziati; gli attacchi degli avversari politici, che lo descrivono come «un libéral minoritaire aux pulsions autoritaires», e la bassa popolarità popolare. E «la guerre, dans ces conditions, est encore loin d’être gagnée».

Chi è il «nemico», allora?

Il virus, certo. Ma la retorica costruita attorno ad esso, proprio perché «invisibile», fluido, intangibile, astratto, lascia spazio alla formulazione di altri nemici, impliciti, evocati, variabili: addirittura le istituzioni repubblicane, come si evince dal pericolosamente ambiguo post che il Comandante Alfa ha postato sulla sua pagina il 21 marzo. «Caccia al nemico», d’altronde, è altra espressione che non di rado abbiamo letto o sentito nei giorni scorsi (a questo proposito, si legga il bell’articolo di Giuseppe Lavenia Coronavirus, torniamo a essere umani e a parlare con i nostri figli, ne «La Repubblica» del 2 marzo: «La caccia al nemico. I supermercati presi d’assalto. Sguardo circospetto rivolto a un passante che accenna un colpo di tosse, perché potrebbe essere un potenziale untore. Insulti volati nell’aria, con parole feroci, d’odio, più insidiose di qualunque virus, perché qualcuno ha osato avvicinarsi troppo a qualcun altro... Cinesi picchiati, l’ultimo in un bar del Veneto, perché “infetti”. Fake news sul coronavirus buttate nel web... a bizzeffe, parole uscite dalla bocca e dai tasti anche di chi di virus, di medicina e di scienza non ne sa un emerito nulla»), e i «nemici» a cui fare la guerra, allora, si sono moltiplicati: i «cinesi», gli untori di vario tipo e ultimi, in ordine di tempo, i «runner» («Coronavirus: le regioni dichiarano guerra ai runner, in Veneto già volano i droni», www.primalecco.it, 20 marzo; «In pratica, guerra ai runner», www.lastampa.it,19 marzo; «Coronavirus, il governo dichiara guerra ai furbetti del running», www.isnews.it, 20 marzo), definiti da qualcuno, non a torto, «il nemico sbagliato» («Mentre facciamo la guerra ai runner, intanto, decine di migliaia di italiani vanno tutti i giorni al lavoro, prendono i mezzi pubblici e operano in zone ad altissimo rischio. Ecco, sarebbe il caso di smetterla con le scemenze», www.fanpage.it, 20 marzo).

Forse il problema – come ha scritto ai suoi studenti in una accorata lettera aperta Domenico Squillace, preside del liceo Volta di Milano – è che «quando ci si sente minacciati da un nemico invisibile è quello di vederlo ovunque, il pericolo è quello di guardare ad ogni nostro simile come ad una minaccia, come ad un potenziale aggressore».

Ma era fine febbraio, un secolo fa. E la retorica guerresca non aveva ancora invaso – mi si perdoni la metafora – il nostro linguaggio...

 

La cura delle parole

1. A proposito del gregge

Immagine: L'uomo senza ombra (2000), regia di P. Verhoeven

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A proposito del gregge

Confesso di non averla mai sentita prima, l'espressione immunità di gregge (o immunità del gregge, o immunizzazione del gregge). O meglio so - per sentito dire - che ricorre nelle discussioni tra no-vax e pro-vax, ma non ricordo di averla mai personalmente incontrata né tantomeno usata. Eppure leggo i giornali regolarmente, cerco di tenermi aggiornato, sfoglio libri di medicina e di scienze perché da linguista mi interesso anche agli aspetti biologici del linguaggio, al corpo umano, e alle metafore che lo riguardano.

Così, quando alcuni giorni fa l’ho trovata (l’abbiamo trovata) in tutti o quasi i giornali e notiziari, mi sono chiesto (ci siamo chiesti) che cosa diavolo fosse. Scoprendo che si tratta di un calco semantico dell’inglese herd immunity, e che a scatenare l’infodemia – la diffusione virale di notizie vere, parziali, o non verificate – su questa espressione è stato il Primo Ministro del paese in cui lavoro e vivo, Boris Johnson.

Ad essere precisi, non è stato proprio Jonhson a diffondere l’espressione, ma il suo consulente scientifico Sir Patrick Vallance, dal marzo 2018 consigliere scientifico capo del governo britannico. Nella ormai nota conferenza stampa di venerdì 13 marzo, durante la quale tanto il Primo Ministro quanto i suoi consiglieri hanno spiegato che cosa (non) avrebbero fatto per rispondere all’emergenza causata dalla diffusione del Coronavirus, Vallance ha infatti previsto che circa quaranta milioni di inglesi avrebbero contratto l’infezione, e quindi sviluppato una «herd immunity» (una immunità di gregge, appunto), utile a prevenire nuove infezioni nel futuro.

 

Quaranta milioni di persone

 

Difendendo la decisione di Johnson di non seguire l’esempio di altri paesi europei chiudendo scuole o ricorrendo a un più drastico lockdown («isolamento», altra parola entrata prepotentemente in circolo, anche in italiano come prestito non adattato: «Il monitoraggio del lockdown», «La Repubblica», 15 marzo 2020), Vallance ha anche sostenuto che l’obiettivo del governo sarebbe stato quello di «ridurre il picco dell’epidemia, abbassarlo e allargarlo» («reduce the peak of the epidemic, pull it down and broaden it») e allo stesso tempo di proteggere i più anziani e le persone più vulnerabili. Aggiungendo però in seguito – ai microfoni di Sky News – che per far questo, per arrivare all’immunità di gregge, circa il 60% della popolazione britannica (ovvero circa quaranta milioni di persone) avrebbe dovuto contrarre il virus («About 60 per cent is the sort of figure you need to get herd immunity»).

A distanza di poche ore da queste dichiarazioni non c’è stata testata giornalistica, in Italia, che non abbia rilanciato l’espressione, facendola diventare immediatamente una sorta di cliché linguistico. Riferendola puntualmente al contesto britannico, e alle strategie del governo guidato da Johnson, ma spesso, poco puntualmente, senza fornirne una definizione chiara, né una spiegazione che potesse aiutare a comprenderne meglio il significato e l’origine. Al punto che un quotidiano di approfondimento come «Il Post», già sabato 14 – il giorno dopo le dichiarazioni di Vallance – ha ritenuto utile pubblicare un articolo sul «Perché discutiamo dell’immunità di gregge». Anche per invitare a riflettere sul come ne discutiamo.

 

Topi e uomini

 

Come raccontano Paul Fine, Ken Eames e David L. Heymann («Herd Immunity»: A Rough Guide, «Clinical Infectious Diseases», Volume 52, Issue 7, 1 April 2011, Pages 911–916), l’inglese herd immunity fu usato per la prima volta negli anni Venti del Novecento, nelle ricerche sulla mortalità di popolazioni di topi interessate diversi livelli di immunizzazione, e venne riconosciuta come un fenomeno naturale negli anni Trenta, quando Arthur W. Hedrich, immunologo della Johns Hopkins University, scoprì che avendo il 55% della popolazione di Baltimora contratto il morbillo (e risultandone in seguito immune), il resto della popolazione della città, o «gregge», aveva più probabilità di non esserne contagiato: al crescere degli immunizzati, infatti, le nuove infezioni diminuivano drasticamente. Sulla scia di queste scoperte, l’espressione cominciò a circolare negli ambienti medici e immunologici, che proprio negli anni Trenta ebbero grande impulso grazie agli studi sui gruppi sanguigni del Premio Nobel Karl Landsteiner, e arrivò anche in Italia, dove venne utilizzata negli studi sulla malaria (alcune occorrenze si trovano infatti nella «Rivista di malariologia» tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta).

 

La herd community negli anni Sessanta

 

Fu tuttavia solo negli anni Sessanta che si capì meglio se e come l’immunità di gregge avrebbe potuto essere efficace, ovvero solo contestualmente a una massiccia campagna di vaccinazione (J.L. Black, Measles endemicity in insular populations: critical community size and its implications, «Journal of Theoretical Biology, vol. 11, 1966, pp. 207-11). E fu solo grazie ai cosiddetti teoremi di Smith e Dietz (illustrati rispettivamente nei loro articoli Prospects of the control of disease, del 1970, e Transmission and control of arbovirus diseases, del 1975) che si riuscì a calcolare le soglie di vaccinazioni sopra le quali la curva di crescita del virus avrebbe potuto essere invertita. Vennero così sperimentate nuove tecniche di herd immunity, da quella della somministrazione «random» (a un numero casuale di persone che altrettanto casualmente si sarebbero mescolate con altre persone) a quella della «ring vaccination» («vaccinazioni ad anello»), secondo la quale invece doveva essere immunizzata ogni singola persona entro una determinata circonferenza di cui l’individuo infettato era il centro.

Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta herd community conobbe così nuovo lustro, e ri-entrò in italiano – tradotta come «immunità di gregge» o «immunità di branco» - prima nel linguaggio veterinario, poi a proposito di malattie infettive come la rosolia e il morbillo, che proprio in quegli anni si stavano manifestando massicciamente lungo la Penisola. Dagli anni Settanta in poi, nel linguaggio medico anche italiano, l’espressione si acclimatò. Ma questo non impedì agli epidemiologi di confrontarsi, anche aspramente, sulle definizioni e sui concetti che ne erano sottesi. Per non parlare dell’efficacia dei metodi che ne portavano il nome.

 

Trasmissibilità

 

Oggi, tra le definizioni, la più accreditata resta quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (o OMS, un acronimo anch’esso diventato improvvisamente familiare, corrispondente all’inglese WHO), secondo cui «l'immunità di gregge descrive l'immunità che si ottiene quando la vaccinazione di una porzione della popolazione (il «branco») offre una protezione agli individui non protetti. La teoria dell'immunità di gregge propone che nelle malattie trasmissibili da un individuo ad un altro è difficile mantenere una catena di infezione quando un gran numero della popolazione è immune. Quindi, maggiore è la percentuale di individui immuni in una popolazione, più si riduce la probabilità che una persona suscettibile entrerà in contatto con un agente infettivo». Sia nella teoria che nella pratica – prosegue la definizione – la malattia scompare di solito già prima del raggiungimento di una copertura vaccinale del 100%, Ma la «soglia dell’immunità di gregge» – la percentuale di individui immuni in una popolazione sopra la quale una malattia non può più diffondersi – varia «con la virulenza e la trasmissibilità di un determinato agento infettivo, l'efficacia e la copertura complessiva del vaccino, la copertura vaccinale della popolazione a rischio e il parametro di contatto nella popolazione» (WHO, Global manual on surveillance of adverse events following immunization).

E quindi? E quindi – per quanto ci è dato sapere – gli studi sull’immunità di gregge non mancano, come neppure i dati a loro sostegno. Soltanto – e le discussioni tra gli scienziati britannici di questi ultimi giorni ne sono una prova – non è possibile prevedere l’efficacia del metodo in mancanza di calcoli affidabili sulla trasmissibilità di un virus, e dell’impiego contestuale di un vaccino. Se infatti sappiamo che la soglia di immunità è del 50% per un vaccino a bassa trasmissibilità come l’ebola (ovvero, per fermare la diffusione del virus dovrebbe essere vaccinato più del 50% della popolazione) e del 95% per un virus come il morbillo – virus invece ad alta trasmissibilità poiché ogni malato può generare da 12 a 18 nuovi casi, se introdotto in una comunità con zero immuni – poco sappiamo, ancora, sul COVID-19. Né, soprattutto, possiamo azzardare calcoli in assenza di un vaccino.

 

Attenzione a parlare di eugenetica

 

Ecco, forse qualche spiegazione in più – pur semplificata - non avrebbe guastato. Avremmo avuto da subito, forse, una reazione più razionale a questa inconsueta (ma di colpo pervasiva) locuzione, immunità di gregge. E avremmo capito comunque che si riferiva a una strategia discutibile, senza bisogno di vederla accostata – frettolosamente – ad espressioni come eugenetica di stato o darwinismo sociale («sorta di eugenetica liberale, di darwinismo programmato che fa il paio con il darwinismo sociale proprio del turbocapitalismo, in cui gli animal spirits non trovano argine alcuno nel potere pubblico»: così il senatore Gianni Pittella sull’«Huffington Post» del 16 marzo). Perché qui il discorso si fa non solo scivoloso (e ansiogeno, almeno per quelli come me che vivono in Gran Bretagna, a cui l’idea di uno sterminio programmato di massa mette addosso qualche brivido...), ma anche impreciso sul piano dell’informazione. E della conoscenza, non solo delle vicende attuali, ma anche storica e medica. Intendiamoci: nessuna personale simpatia per Boris Jonhson. Anzi. Johnson è un politico conservatore estremamente avverso allo stato sociale, e ai diritti dei lavoratori: che grazie a Brexit ridisegnerà, in peggio, la fisionomia del Regno Unito e della sua democrazia. Una democrazia già provata da decenni di tagli ai servizi essenziali e fortissime ineguaglianze, di concentrazioni di poteri (anche nel settore dei media), di mantra come il thatcheriano «there is not such thing as society». Ma da qui a evocare un nuovo nazismo – a cui stereotipicamente, istintivamente associamo l’eugenetica di stato – ce ne passa.

Anche perché a voler discorrere seriamente di eugenetica occorrerebbe saperne un po’ di più di storia della scienza, e dei processi e delle costruzioni discorsive che hanno portato alla «genealogia immaginaria» tra Darwin e Hitler, a un «ricorso ossessivo all’analogia nazificante», e a una (fuorviante, ma comoda) definizione di eugenetica come «pseudoscienza reazionaria, sessista, razzista e antisemita», come spiega lo storico Francesco Cassata nel suo prezioso pamphlet Eugenetica senza tabù. Usi e abusi di un concetto (Einaudi, 2015). Perché se è vero, come sostiene Cassata, che «nel dibattito pubblico italiano, tutto l’apparato simbolico del discorso ostile alla biomedicina e alla genetica contemporanee scaturisce dall’impiego polemico e strumentale di accezioni fortemente negative della parola eugenetica», è altrettanto vero che a discettare (approssimativamente) di eugenetica oggi, e a farci prendere la mano da roboanti quanto facili accostamenti, non rendiamo un buon servizio né alla storiografia, né alla scienza medica – a cui chiediamo il miracolo – che deve proprio alle terapie geniche, tanto per fare un esempio di eugenetica oggi utilmente praticata, alcune delle più importanti conquiste degli ultimi decenni. Per non parlare del dibattito politico, che di tutto fuorché di cliché (neo-nazisti vs virtuosi) ha bisogno, e del linguaggio dell’informazione, che più che di frasi di sicuro effetto necessita – forse – di uno sforzo supplementare di precisione e accuratezza. Ne necessita oggi più che mai, intendo: per offrirci quell’appiglio – solido, razionale, linguistico – di cui, in questi giorni di spiazzante incertezza, abbiamo un disperato bisogno.

 

Immagine: Gregge al pascolo

 

Crediti immagine: Gio la Gamb / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)