Lingua Italiana

Graziano Gala

Graziano Gala nasce a Tricase nel 1990, si trasferisce in Lombardia per insegnare storia e italiano. Ha pubblicato racconti su minima&moralia, Risme, Narrandom, Crapula, Fillide, Argo, Settepagine, Verde e Neutopia. È redattore della rivista Risme, scrive di calcio per Quattrotretre. Nel 2021 ha pubblicato per minimum fax “Sangue di Giuda”.

Pubblicazioni
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La lingua che abito, contro-dizionario di un gruppo di studenti della provincia milanese

 

Diventa prescrittiva a volte la scuola, con l’imporre un lessico preciso, certificato, stratificato negli anni e rassicurante per chi si posiziona in prossimità della cattedra. Dove finiscono le parole degli altri? Dove si nasconde il vocabolo masticato nella metropolitana, in cucina o nella camera della propria abitazione? Ragazzi di differenti estrazioni sociali e provenienze, dopo laboratori utili alla riflessione sulla lingua, dopo incontri con traduttori, scrittori ed editor, sono chiamati alla creazione di un contro-dizionario. Si tratta di un gruppo di studio dell’Istituto Marisa Bellisario di Inzago (MI), composto da studenti dell’indirizzo commerciale e sociale. I ragazzi sono chiamati a proporre nuove parole, quelle impastate nella lingua d’origine e mescidate con quella dei posti che li hanno accolti e, in una prospettiva di mutuo scambio, plasmati. Una ricerca di definizioni nuove, per trovare il lemma scavato, esatto, che possa testimoniare ragioni del cuore o dello stomaco, motivi di lontananza o inadeguatezza. Ogni discente propone una sua parola, nella speranza che la scuola, intesa come struttura unitaria del nostro Paese, possa prender coscienza di un universo altro, faticoso e sofferto, e non per questo di dignità minore. Umili sognatori di provincia che provano a raccontare un microcosmo che racchiude i problemi, le speranze e le paure di una generazione.

Il progetto vuole essere una prima pietra di riflessione con i docenti di lettere della scuola pubblica: per gli studenti vestire una lingua in cui non ci si riconosce può risultare letale. L’esercizio di uno strumento non proprio, poco consono alle necessità dell’intimo, porta al silenzio, fino al ripudio del mezzo in questione. La lingua non può essere più verticale, immobile: partendo da questi presupposti e prendendo coscienza della nostra lontananza dal tanto sponsorizzato centro, abbiamo immaginato con i partecipanti una possibilità che non distrugga i capisaldi della parola né metta in discussione la loro architrave. È l’integrazione ad interessare, la possibilità dell’incrementare, dell’arricchire, del coinvolgere, del diventare tutti parte del tutto, senza margini e senza emarginati. Per questo, i protagonisti del contro-dizionario, dopo essersi confrontati con dei professionisti della parola hanno messo in campo quei termini che tanto vorrebbero usare nel quotidiano e di cui sentono la mancanza aprendo il vocabolario. Più nazioni, molte province, estrazioni diverse, con un unico pensiero: abitare una lingua, eludendo la prescrizione e abbracciando il sentimento. (G. G.)

 

Autentialità

Questa parola ha a che fare con il mantenimento di uno stretto contatto con i propri valori, con le proprie esperienze, con la propria storia personale e con i propri desideri pieni di purezza da avverare. È un atteggiamento di correttezza e rispetto della propria dignità. “Dolorosa ma dignitosa” – si suol dire. Una persona autentiale agisce con intelligenza ed esprime ciò che sente e che pensa, contrariamente a chi supera il limite, considerato spregiudicato e irresponsabile, privo di tatto.

È considerata una parola psicologica: essere autentiali con gli altri, dunque, è una questione non solo di parole, ma anche di atteggiamenti. Non vuol dire confessare tutti i nostri segreti a qualunque persona, bisogna essere in grado di capire chi abbiamo davanti. Riconoscerla è facile: tramite gli occhi, gli intrecci di parole in un discorso, la leggerezza quando si parla con l’altra persona. Tutto ciò è la dimostrazione dei veri sentimenti e non la tendenza a stare sulla difensiva. C’è un grande rischio: può diventare un abuso, non bisogna oltrepassare la misura. L’autentialità non è tanto diffusa nella nostra società, per via di persone che non riescono a concepire questo stato d’animo.

G. Finardi

 

Brevasa

Tensione emotiva comunemente chiamata farfalle nello stomaco. Formicolio e solletico allo stomaco. Provare, avvertire brevasa. In ambito amoroso, amicale, lavorativo, sportivo (per es.: ogni qualvolta ho un importante intervista lavorativa, sono pervaso/a da brevasa). Quando si prova una sensazione fisiologica (sistema nervoso enterico) incontrollabile, che si riflette nel corpo, rivelando una forte correlazione tra psiche e soma. Ansia a breve termine causata da eventi specifici che mette in allerta il corpo, alimentata da una proteina, l'NGF (Nerve Growth Factor, fattore di crescita nervoso scoperto da Rita Levi Montalcini); per es.: essere travolto/a da brevasa. Sintomo che spesso si avverte in momenti connotati da un forte stress.

Brevadere v. intr.: Rabbrividire, emozionarsi, coinvolgersi. Essere persuaso da una corrente emozionale (es. ‘brevado’ allorché ti vedo).

V. Guardo

 

Cafuné/Cafunette

Dal portoghese – Azione che consiste nel passare delicatamente le dita tra i capelli delle persone care. È un momento intimo di cui non tutti sono in grado di comprenderne l’importanza. Nell’universalità della condizione umana non tutti vincono la fortuna di poterlo provare: alcuni individui conservano l’impermeabilità che non per colpa loro si è costruita. È un cenno in cui la controparte è essenziale. Il principio innato è la reciprocità: le Cafunette sono la traduzione di un bisogno proprio di donare un affetto particolare ma allo stesso tempo una necessità intrinseca di un tenero piacere. Le Cafunette si possono intersecare con realtà emotive differenti: non può essere solo un comportamento materiale ma l’evoluzione di un nido che dona sicurezza affettiva. Queste forme di carezze sono in grado di dissimulare, fino a lasciar scorrere almeno per qualche istante, quelli che sono gli ossimori della vita.

D. A. Cerri

 

Convinsennato (composizione di convinzione e un derivato di senno)

Rappresenta la capacità di una persona di agire, capire, giudicare o esprimere pareri nella convinzione di farlo secondo il buon senso e secondo l’opinione della gente comune, la verità di cui ognuno è cosciente ma che nessuno ha il coraggio di esternare per paura di essere diversi o di essere emarginati dalla società. Ciò rappresentando palesemente una falsa convinzione di qualcosa che è sbagliato secondo il vero senso dell’essere, ma capace di portare alla convinzione, come ci spiega anche la retorica.

Per es.: convinsennato che la guerra sia giusta; convinsennato che la pedofilia rappresenti un accudimento volontario nei confronti di persone che rispetto a noi hanno un’età inferiore; convinsennato che le azioni fatte da Hitler nel passato siano corrette.

In conclusione, una persona convinsennata agisce inconsapevolmente in rappresentanza di se stessa.

S. Castelli

 

Empatarietà (composizione di empatia e solidarietà)

È un sentimento di fratellanza, la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di una persona per far sì di costruire un atteggiamento di benevolenza e comprensione, di sforzo attivo e gratuito per aiutare emotivamente il prossimo. Questa parola trasmette vicinanza, aiuto per le persone in uno stato di difficoltà e sostegno per affrontare varie problematiche insieme, intraprendere ciò di cui una persona ha bisogno, quindi entrare in contatto con essa e diffonderle del bene. Immedesimandosi in questa situazione si può fare riferimento a certe circostanze, come una donna che è ricoverata in un nosocomio e che ha bisogno di conforto e solidarietà da parte di una persona cara, oppure di un soggetto che ha subìto una delusione d’amore. L’empatarietà è importante, soprattutto nel mondo d’oggi, per non causare indifferenza, apatia, insensibilità e noncuranza. Tutti noi abbiamo bisogno di una figura vicina, anche quando non lo facciamo notare. Se il mondo fosse meno impassibile, la vita risulterebbe migliore.

J. Stefanini

 

Etniamgèsi (da onam, etnanfi e onges, rispettivamente anagrammi di mano, infante e segno, con aggiunta di vocali per favorire la musicalità)

Unione di segni gestuali come lingua fra tutte le etnie: sentirsi tristi in assenza dell’etniamgèsi in certi contesti è indescrivibile. Quando mamma mi ha insegnato l’etniamgèsi ero ancora infante (quando mamma mi ha insegnato la lingua dei segni ero ancora piccola). L’etniamgèsi si percepisce alla sola vista delle mani che, muovendosi, formano parole: questo, per chi non dispone di alcuni sensi, risulta fondamentale. Le persone dovrebbero imparare l’etniamgèsi per evitare la creazione di muri: apre le porte di chi voce non ne ha. L’etniamgesi dona un udito a coloro che i suoni non li sentono, permettendogli/le di sentirsi parte di quello che la vita gli/le ha tolto.

I. Clusaz

 

Fastego/Fastegere (da fastidio –dal latino di fastus, ‘orgoglio’, e taedium, ‘noia’ – in unione al verbo leggere – dal latino legĕre, affine al gr. légō)

È una sensazione intrinseca che sentiamo affine nel momento in cui ci ritroviamo a leggere un testo e proviamo un senso di fastidio accompagnato al desiderio di voler modificare il contenuto ma ci ritroviamo impossibilitati di fronte ad esso. È complesso: siamo involontariamente proiettati in una direzione assai distante per cui si fatica a godere di libri affini alla nostra persona. Dovremmo fare della lettura il nostro posto sicuro, eppure, anche qui, capita di provare emozioni contrastanti che lentamente prendono possesso in noi creando un’aura algida. Il fastego innesca un meccanismo che respingiamo a stento: non bisognerebbe rinnegare questa sensazione, ci ritroveremmo ad ampliare la condizione e fare nostra quest’ultima. Sentiamoci liberi di poter sfogliare pagine che rallegrino l’anima o che struggano dentro di noi accartocciandosi e facendo fremere i nostri occhi che tanto sono affamati del dolce sapere. Doniamoci all’essenza della lettura.

M. Habbab

 

Infruscapìbile (da incapibile, legato al latino impotens, legato a frustrazione, dal latino frustratio)

A volte le persone non ci capiscono quando non riusciamo a fare qualcosa o non stiamo bene. Questa parola si usa per far capire il proprio stato d’animo in determinate situazioni con un solo termine.

Es. Tornando a casa da scuola mi sento infruscapìbile quando discuto con mia madre dei momenti che ho vissuto.

Questo sostantivo deriva da ncapibile, sensazione che avverto quando provo a spiegare il motivo dei voti scolastici o anche qualcosa in generale, e frustrazione, sentimento che percepisco quando qualcuno prova a contraddire quello che penso, ad esempio se dico che sono andato male in una interrogazione nonostante il mio impegno e vengo accusato del mio scarso studio.

Può essere usata in qualsiasi circostanza, non solo per la scuola o quando si discute, ma anche quando si parla normalmente con un’altra persona. Quando mi viene l'infruscapibilità, un modo per risolvere questo momento può essere cambiare discorso o ripartire da capo spiegando in un modo diverso quello che si voleva dire.

L. Postiglione

 

 

Ipoesist (da ipo, abbreviazione di ipotiroidismo, in composizione con esist, abbreviazione di esistenza)

Quando nasci, non sai mai delle disgrazie che, un domani, potrebbero capitarti. Vivi la vita giorno per giorno, esisti, tieniti in te, unisci sempre i pezzi perché fra menti e cuore è meglio non essere frammenti. Ritaglia i tuoi spazi ma non dimenticarti mai: illuditi, piangi, sgridati, ridi con te stesso/a, goditi. L’importante è che tu sia sempre consapevole che la vita è una sola, e anche se è fatta di scale in salita, troverai sempre quello spiraglio di luce che cambierà le cose, quella via d’uscita. Ipo ed esist sono due parole che fanno della tua vita quello può essere e che forse meriti tu. Non si deve mai aver paura della vita, anche se dei problemi ti affliggono e ti logorano dentro. La vita è come una rosa dove ogni petalo è un’illusione ed ogni spina una realtà.

L. Lonetti

 

LocusAmo (composizione della parola latina locus, ‘luogo’, e della parola latina amor, ‘amore’)

Sentimento che si propaga in una persona quando si affeziona fortemente ad un luogo. Capacità di creare una sinergia con la natura. Forte connessione con l’arte e con gli oggetti autentici. Sentirsi appartenenti a un’epoca o a un luogo che non ci rispecchia.

Per es.: Londra: quando ci andai per la prima volta mi sembrava di conoscere già tutte le vie, questa sensazione fu dettata dal mio locusamo.

La percezione di delicatezza e desiderio nello sfogliare un libro antico. L’eleganza degli abiti e dei gioielli rinascimentali. La leggerezza di assaporare un tramonto in un prato fiorito. Non c’è una spiegazione razionale al locusamo, è una spinta intrinseca, che non si può ignorare.

G. Cattaneo

 

Morfopapìle (composizione della parola latina metus, ‘paura’, di morfo, inteso come ‘cambiamento/metamorfosi’, e papilio, ‘farfalla’)

Si tratta di quella paura che nutriamo quando siamo in uno stato di permanente monotonia e sentiamo di aver bisogno di un cambiamento ed essere finalmente felici ma la paura di poter rovinare tutto o ritrovarci in una situazione peggiore ci sovrasta e ci blocca. Siamo delle farfalle che vivono poco e cercano la libertà, le stesse farfalle che ci ritroviamo nello stomaco e iniziano a svolazzare in cerca di questa sensazione che noi vietiamo. Ma noi la libertà la bramiamo da tanto tempo e siamo convinti che un cambiamento aiuterebbe eppure, perché non ci muoviamo e rimaniamo fermi sull’albero senza sbattere le ali?

M. Carino

 

Pavorgiva (composizione della parola latina pavor, ‘paura’, e giva, inteso come ‘vita che si muove’)

La Pavorgiva è una condizione che nessuno prova finché non viene a lui nota. È il connubio tra vita e paura, l’unione che creano insieme: la paura che dona la vita. Quando c’è paura c’è vita. È l’insegnamento di chi non ce la faceva più ma ci è riuscito. È ciò che la società impone di non conoscere ma che, vivendo una condizione di globalità con te stesso, impari ad affrontare. Pavorgiva è la mutazione della paura conseguita dall’adattamento di un corpo intimo. Può essere un atto di fiducia con cui ci si può opporre all’influenza dell’ignoto o altresì il nido creatosi dalle nostre risorse, l’addizione in cui se si varia l’ordine degli addendi, il risultato cambia. Il termine identifica inoltre l’insieme della costanza che edifica il sobbarcarsi dello sconosciuto. Dalla Pavorgiva si impara a crescere, tramandare e trasformare ciò che il negativo non riesce a perforare. È un diritto che tutti dovrebbero assumersi e trasformare in obbligo. Riuscire a farlo diventare il proprio dovere, la propria rivincita.

D. Bari

 

Realiàura

Paura di non realizzarsi. Tipo di sensazione che una persona prova quando non raggiunge un suo obiettivo soltanto a causa della paura, facendo sì che ciò impedisca l’azione di realizzare il sogno a cui aspiriamo. Noi esseri umani la maggior parte delle volte partiamo già sconfitti quando in realtà dovremmo tentare di arrivare al nostro traguardo. Quando sono presa dalla realiàura cerco l’incoraggiamento esterno ma a volte il sostegno altrui non mi aiuta, a volte ho bisogno di trovare la forza dentro di me per arrivare alla mia meta.

J. Bance

 

Serenfabilità

Deriva dall’unione di due termini: ineffabile, che non si può definire a parole, che non si riesce ad esprimere adeguatamente, indicibile, inesprimibile, indescrivibile; e serendipìa, circostanza di incontrare per caso qualcosa che non si cercava. Sono quelle emozioni che provi quando compi un qualcosa di nuovo, quando affronti l’inaspettato. Ѐ quel sentimento che si insinua nello stomaco quando ti sembra di brancolare nel buio e ti imbatti in un qualcosa che non sapevi di star cercando. Lo si sperimenta nel momento in cui viaggi e non sai in cosa ti andrai ad imbattere, è quel brivido che provi nelle conseguenze inaspettate della vita. È quella sensazione di cambiamento che senti nell’aria che ti sfiora fino a sentirne il bisogno continuo. La serenfabilità si può presentare a conseguenza di una paralisi involontaria che invoca la speranza di staccare dal contesto.

M. G. Robles Murillo

 

Strizzamurì

Deriva da amore, dal latino amor, che significa ‘desiderio, passione e attrazione’, unito a paura, che deriva dal latino pavor. Si tratta di uno stato emotivo di repulsione, di un pericolo. Amurì, come azione, è quel timore di dare se stessi, vuol dire morire, crollare, non credere più in niente. Bisogna lasciarsi andare, fare come il vento libero e fresco. Quando sento lo strizzamurì mi sento vuota e bloccata. È quella sensazione che provi nel momento in cui ti imbarchi in nuove emozioni e in nuove relazioni. Lo strizzamurì è anche l’insieme di un sentimento d’amore miscelato alla paura e tra due persone non è solo passione, ma depressione, tradimenti e paura. Abbiate prudenza nell’innamorarvi, le incomprensioni sono letali e pericolose.

G. Arcagni

 

Toschiatezza

È la sensazione che emerge nella persona nel momento in cui l’accaduto comporta una condizione di impotenza e incompetenza nel raggiungere o gestire un desiderio. La toschiatezza è uno stato personale a cui tutti siamo destinati, in un tempo indefinito: chi adesso, chi domani, chi fra qualche anno. La toschiatezza è la multa che universalmente siamo destinati a pagare. Tale condizione gioca a nascondino in alcuni individui. Tante persone sono brave a celarla, per l’esperienza che conservano dalla loro vita. Altri soggetti invece devono imparare a gestirla. È la paura dell’imprevisto. Le persone colpite dalla toschiatezza sono facilmente riconoscibili per colpa dei loro atteggiamenti agitati e allo stesso tempo incompleti. È per questo motivo che molti individui non riescono a sentirsi realizzati nel corso della loro vita, poiché non sono in grado di soddisfare i propri obbiettivi e sogni.

J.T. Formenti

 

Turnicare

Questo termine andrebbe utilizzato spesso perché potrebbe essere un modo alternativo per usare la solita parola ‘girare’. È un modo un più originale per dire ad esempio: tùrnicati dall’altra parte (girati dall’altra parte). È una parola che mi è venuta spontaneamente un po’ di tempo fa ed è nata per scherzare. Da tempo è entrata nell’idioletto della mia famiglia e viene utilizzata frequentemente da tutti i componenti. La sento un po’ mia. Sono convinto che se la usassi con i miei amici o miei compagni in classe, la prima volta mi prenderebbero per matto, però sono quasi sicuro che potrebbero incominciare ad utilizzarla anche loro.

A. Albani

 

Vacant (abbreviazione del termine italiano vacante o dell’omologo latino vacans, -antis)

Senso di vuoto, povertà d’animo e scarsità. Passare le giornate con la consapevolezza di non avere nulla, con la delusione di tornare a casa e rendersi conto di trovare la stanza vuota e sporca. Termine pascoliano quando si prova solitudine e tristezza.

Per es.: quando c’era la guerra, il tavolo era vacant – dice mia nonna quando ricorda quel periodo; ho la testa vacant: diceva mio nonno nelle sue notti insonni.

Sofferenza e degenza massacrante. È anche simbolo di lotta e scoperta, una resistenza interiore e personale. Percorso suddiviso in più parti: rassegnazione, consapevolezza, combattività e pace. Ci si può trovare a un bivio, pervasi da una confusione esistenziale: raggiungere la serenità o stazionarsi in quella condizione. Non ci si sente deboli, non ci si sente sconfitti: ci si sente vacant.

S. Torricelli

 

Immagine: Inzago, via Cavour

 

Crediti immagine: Davide Barzaghi, Public domain, attraverso Wikimedia Commons

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Il mostro

 

Alessandro Ceccherini

Il mostro

Milano, nottetempo, 2022

 

A me del Gesualdo verghiano è sempre piaciuto il tempo: rotto, frantumato, incapace di tenere regolarmente la lancetta nel descrivere la corruzione di un uomo e il suo asservirsi ad una religiosità amorfa portatrice di sventure e ripercussioni sulla stirpe. Ho sempre custodito in segreto questa mia fascinazione, sono stato costretto a rispolverarla a causa di un’altra opera certamente lontana per tempi e per fatti, eppure parente per studio dell’umano e concezione del male: ne Il mostro (nottetempo, maggio 2022) Ceccherini ripropone un perimetro del cadere ad ampio spettro, consapevole che la ferinità, la violenza e il morbo da questa propagato non possa essere inquadrato nello spazio di pochi centimetri.

 

È la lingua, come sempre, a solcare il tracciato, e chi scrive vuole immediatamente chiare un concetto: non sarà qui la questione giudiziaria del Pacciani ad essere oggetto di trattazione e neppure quell’Italia scivolosa e nevrotica (di quelle agitazioni causate dal tutto che può accadere o ci si illude che possa) che ha segnato in pieno gli anni Settanta. Del dolore, qui, si vuole parlare, e di ciò che lo scatena e lo motiva: in fin dei conti stiamo leggendo un romanzo e non un’inchiesta da tribunale o da saggio storico.

La pericolosità oscena del male è che si attacca alla gola e deforma il parlato sin dalla tenera età, annichilendo la parola e cercandone un aborto: colpisce Ceccherini nelle prime pagine con una frase che mi ha indisposto (e quando si ha un libro tra le mani è sempre un bene, è dalle camomille impaginate che ci si deve salvare) e costretto a rimettermi in equilibrio sulla sedia: un Pacciani bambino manda a dire a un altro che gli vòle insegnare ‘i silenzio. Eccola la tenaglia, ecco il rischio dello squarcio: raccontare una storia del genere è pericoloso, perché cercherà in tutti i modi di non farsi dire, perché non è possibile descrivere manzonianamente dall’alto bravacci e comparse sperando che il fruitore comprenda. Se ne si vuole scrivere bisogna affondare le caviglie nel fango, percorrersi i boschi teatro di tanto scempio e mettersi al livello di chi le mani le ha zuppe di sporco – i contadinacci gnoranti – suggerisce l’autore, ma anche gli incamiciati, gli incravattati e gli insospettabili che si muovono sui margini di questo romanzo tracciando linee pericolose e tutte tendenti ad una delle espressioni che più compare nell’opera: una cosa di sangue.

 

Non uno quindi, ma tanti mostri, nella loro etimologia deforme e prodigiosa, nella loro complessa indagabilità, raggiungibile solo per aneddoti e racconti, per voci e silenzi. La vita – nella provincia contenitore delle storie, lontana dalla legge di dio e impermeabile a quella degli uomini – ΄un è allegra, e alla morte ΄un ci si abitua. In questo limbo, in questa terra di mezzo che del purgatorio neppure ha l’ingresso, si rischia sempre e solo di cadere e sempre dalla parte sbagliata: più volte i personaggi mostrano i denti, come a voler restare in una logica ferina precedente a qualsiasi vincolo sociale. In tante occasioni sembrano ammalati di una violenza irrisolvibile che nel compiere il male non trova sfogo ma sembra quasi rinnovarsi: una sera Angiolina, la moglie del Pietro, lo vede tornare a casa con tre leprotti – ad un occhio disattento e non corrotto dai fatti potrebbe sembrare il preludio di una sorpresa alle figliolette, di un piccolo idillio bucolico-familiare. Le teste fracassate degli animali, le urla alla donna e le bambine stralunate in cieca fuga per la casa possono solo rompere la scena, costringere il lettore a chiudere le pagine per cercare il respiro perduto e prendere coscienza che, in questo mondo alla rovescia che di mondo ha pure poco, gli omini son tutti cattivi e alla componente femminile e bambina tocca il rifugio e l’attesa nella preghiera che nulla accada e che il morbo, la malattia che sembra propagarsi e riempire le vene, non scelga loro come vittime successive da sacrificare ad una cieca e ingiustificabile follia.

 

Come porre argini a questa piena? Viene in mente, tristemente, una poesia di Caproni, là / il buio è così buio / che non c’è oscurità, nel raccontare che Ceccherini, con sapienza, riavvolge i gomitoli in cerca del nodo, senza risolvere ciò che, per sua natura e contesto storico, non può essere sbrogliato senza alterare i fatti: da qui un riconoscimento – doveroso – all’azione dell’autore toscano, capace di non edulcorare ciò che è amaro e irrisolvibile, costringendo il lettore a bere ciò che si deve, a guardare ciò che accade, a sentire quel dolore e quella partecipazione che porta sì, questa volta probamente, ad un rispettoso silenzio davanti alla sciagura: ci si intrappola – e non può essere altrimenti – negli occhi di quel ragazzino che, vedendo ciò che mai avrebbe dovuto e meritato di vedere, è costretto a tornare nel lettone coi suoi genitori cercando di convincersi che quello che è capitato sia stato solo un sogno.

È questo nel descrivere il male, nell’indagarlo, che deve fare un libro.

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Titanio

 

Stefano Bonazzi

Titanio

Napoli, Alessandro Polidoro editore, 2022

 

Le stanze cambiano quando le porte sono chiuse a chiave.

(S. Bonazzi, Titanio, Polidoro editore)

 

Verrebbe voglia, talvolta, di indagare quelle famiglie infelici ciascuna a modo suo che Tolstoj principia in Anna Karenina: di indagarle davvero, però, approfonditamente, con il morbo antropologico dello studio e l’umana voglia dell’ausilio nel raccontare la mirabolante inquietudine di un benessere che, parafrasando Verga, non solo non arriva ma, in fede, neppure è mai atteso. Bisognerebbe forse allora riparare su un dio, di qualsiasi colore e fede, nella speranza che ciò che non ha potuto l’uomo arrivi miracolisticamente da luoghi altri. Nessun dio, però, e neppure uomini nel Titanio di Bonazzi (Polidoro editore): l’autore ferrarese, nelle strade sgangherate e storte del suo testo, ci vuole parlare di mostri. Mostri quotidiani, sia chiaro, afferrati nella loro accezione etimologica di prodigi incomprensibili, di fenomeni ingiustificabili costretti a conseguenze. Nel dire di questo romanzo, nell’entrarvi con il rispetto – e la sincera ammirazione di chi scrive – si vuole partire, lo si conceda, da un approccio geografico, giacché i mostri raramente nascono sui terrazzi vista mare, nelle camere d’albergo o tra i tavoli ben pieni: è storia di cantine questa, di mansarde e prima ancora di distretti. Uno, distorto, dal nome che si sgonfia, è un’Itaca che sorge su un avanzo di dolore: la Ciambella, il nome; la discarica attigua il forno e le sue mura. Luogo tremendo, rocca di morte, rifugio di caduti e peccatori: costrizione clandestina, per chi ci mette piede, con tessere e documenti che diventano miraggio. Scatola vuota, eppure ben piena: nessun servizio essenziale, ma la carcassa di una nave da pirati, il rumore di un mare visibile alle orecchie e al corpo difficilmente praticabile.

 

A una prima lettura Bonazzi sembra disegnare un mondo alla rovescia – che nella testa di chi scrive ricorda con affetto le Metamorfosi di Carrieri. È all’avanzare delle pagine che scatta la tenaglia: nessuna distopia, ma un umano troppo umano, con i scarti della società che stanno in mezzo agli scartati, con le case che diventano involucro e cuore pulsante – questa volta però senza il lussuoso condominio ballardiano a trattenere, ma con avanzi di cantine e porte chiuse a chiave. Bestie si diventa, e tocca diventarlo, perché se tua madre ti guarda con quegli occhi e tuo padre si avvicina con quelle mani a restare lucidi si rischia di saltare: ci sono le piantine, in un angolo di casa – corredo di famiglia inquadrata matta e storta. È l’allucinazione, dunque, la misura del dolore: parrucche colorate, calcate sulla testa, un arto che non torna per mancanze ospedaliere, le orecchie di un educatore, Dante nell’inferno, chiamato allo scandaglio di quanto mai voluto. Bonazzi, in questa cronaca sincera dei difettati e degli infetti, mai tira dietro la penna e fa ciò che uno scrittore dovrebbe fare: ci mostra, ci dice e ci racconta, portando in campo quell’inquietudine che Cioran riteneva sacrosanta linea di demarcazione. Da qui un giovane uomo, orfano d’appoggi, e un altro uncinato in una stanza che non tiene: una trappola e due corpi, il rischio del collasso. Ancora da qui, inevitabilmente, una religione del patire, fatta di continue e quotidiane esposizioni a dosi di tormento che non sono anticorpi alla ginnastica del male, ma semi dell’angoscia da portarsi nelle tasche. Ci si abitua a tutto – è la preghiera di chi incassa – neppure una menzogna, ma una constatazione immersi in un pericolo che arriva alle ginocchia: è gioco di conigli o di camaleonti, restare nella gabbia e non essere cacciati.

 

Il pericolo, in queste narrazioni, non è la storia, ma la plastica e la carta: le parole necessitano lo scavo necessario, e la penna, a perforare, a volte si addolora. L’autore di Titanio non sembra temere il costo dell’azione, delineando una lingua autentica e sincera, frutto di quanto subito e attraversato, priva di una qualsiasi gratuita tendenza al pianto, cosciente che la menomazione quando non fisica è dell’animo – tutti siamo senza qualcosa. Non c’è, dentro a così tanta sincera realtà, il bisogno di un appiglio, di una speranza che consoli, giacché, nell’amarezza, più consolatorio della verità poco si può trovare: il male è una cosa semplice, quasi banale, e a compierlo – e a subirlo – ci si può trovare a cuocere in un forno, col nome che non viene, la carcassa di una barca, il resto a naufragare.

 

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Vicolo dell’acciaio

 

Cosimo Argentina

Vicolo dell’acciaio

Matelica (MC), Hacca edizioni, 2022

 

Cosimo Argentina è anzitutto una questione geografica, con una città Taranto, così sgradita da doverla amare, che saccheggia a piene mani le parole bodiniane e le fa sue divenendo contenitore privilegiato ed equivoco di rimorsi e potenzialità mancate. Non ci si ferma però all’involucro e non si resta nella cerchia delle sue mura: in Vicolo dell’acciaio (Hacca, 2022), come in altre opere dell’autore, si pensi almeno a Taranto Mon Amour e alla sua dichiarazione di intenti nei confronti della città natale – «Se sarò stato troppo morbido e struggente, lo avrò fatto per amore e se sarò stato troppo velenoso e iconoclasta ciò sarà accaduto comunque per troppo amore che a volte genera odio e sarcasmo e fobia» (Effigie Edizioni, 2006) – l’esplorazione continua indomita e irrefrenabile nelle strade del luogo d’ispezione, diverse e diversamente qualificanti: essere un via Calabria implica un destino, appartenere ad un’altra via e ad un altro quartiere una sorte probabilmente opposta. La città, il quartiere, perfino la casa: alzi la mano chi trova un determinismo verghiano di luogo e di tempo, gli altri vadano dietro la lavagna. Ogni porzione di terra è oggetto del testo, perché in Vicolo parli come la strada ti fa parlare e vivi come ti predica di vivere il paese natìo, albergo e prigione al tempo stesso, laboratorio di libertà e occupazione di un abusivo entrato nei tuoi luoghi con regolare contratto firmato di tuo pugno: c’è una trinità industriale a riempire il cielo tarantino e le «formazioni tumorali primarie e secondarie, i cristi e le madonne» sembrano esserne l’inevitabile conseguenza.

 

È questo il contesto della narrazione, un gioco viziato che plasma uomini e destini e che ammazza, quando non fisicamente nell’animo, ferendo a morte e compromettendo coscienze annebbiate dal dolore: nel leggere Argentina non si può non correre col pensiero a quella catena di montaggio che Céline scopriva mortifera e utile all’annullamento delle facoltà mentali dell’uomo, alla manomissione della sua parte cardiaca e sentimentale. Come sorprendersi dunque di ciò che trova in casa, nella via e per il paese il protagonista? Mino Palata, in età di belle speranze e fallimenti in agguato, con il diritto da sapere per gli esami (e non saputo), con l’esercito di compari compagni di sventura e con Isa, salvezza e nemesi, presenza vicina e ombra distante, è pianta con problemi alla radice, perché è nel padre e nella madre che Argentina trova l’altro suo polo di riferimento – la culla e la stanza – e nel malfunzionamento di un gioco, quello familiare, improvvisato, difficile e fonte di dolore. Il Generale, così viene soprannominato il capofamiglia, figura biblica e oracolare, dio d’antico testamento e oggetto di fiduciosi (e traditi) affetti, dalla fabbrica è stato corrotto e plagiato, nell’incapacità ormai intima di spogliarsi di una tuta divenuta divisa e gallone militare per portare le insegne di riferimento e marito, in una ginnastica maledetta per la quale il nutrimento viene dalle stesse mani che ti ammazzano: «Jè matematiche! Se ci sono dieci soldi e siamo in tre e uno dei tre tiene nove soldi, gli altr’e due la pigghian’ ‘ngule» – eccola la logica, eccolo il veleno, eccolo il patire condensato e allenato dagli anni di fatica. Opportuno allora, necessario per chi scrive, interrogarsi sulle altre figure chiamate a comporre questa natività sbilenca, giacché se questo è Giuseppe per Maria e per gli altri non possiamo non provare un sincero trasporto: eccola la madre, maestra d’incasso e di silenzi, figura chiamata al raccattare i cocci di una casa che crepa a tal punto da meritarsi un nome adeguato e diametralmente opposto all’ottica militare di chi vessa: «la povera donna, la santa Rita di nosotros, sta cercando di tirar fuori dalle paludi il Generale». Non meglio il circondario, ma antropologicamente così interessante da rendere Argentina maestro di caratteri umani e di loro esplorazione profonda: basta scendere per strada per trovare gli uomini da muro, plotone d’esecuzione alla rovescia, in attesa non del fuoco addosso ma delle calamità che la vita e il posto scelto sembrano pronti a recapitare sulla pelle, con la conta quotidiana dei dispersi e una catena leopardiana fatta da disgrazie e claudicanze – non eroi questi, ma ammalata resistenza – che si sfilaccia nelle maglie, giacché si sa che in questo microcosmo argentiniano il tempo è solo d’attesa del fatto – «il lavoro e le morti degli amici lo stanno minando poco alla volta e prima o poi salta in aria» – e mai di rivoluzione. È in questa roulette dunque, in questo tiro al massacro lento e consensuale che si entra in una dimensione parallela, in un esperimento sociale alternativo fatto di sessualità a distruggere, di defunti a perdere (si invita il lettore a fruizione attenta del caso familiare di Derviscio Dòminik) e di quotidianità da esorcizzarsi, si teme, con la fuga dalla scatola, per provare a vivere dimensioni altre e meno affoganti. Ai fottuti, scrive in epigrafe l’autore tarantino, e mai dedica potrà rivelarsi più giusta, perché mettersi al livello di chi si racconta (non abbassarsi, vi prego, ma pareggiare) è ciò che dovrebbe fare chi si siede al tavolo. In conclusione si consenta, con la dovuta amarezza e il dovuto riguardo, una riflessione: Argentina, per carriera, meriti e militanza non può non essere riconosciuto come il padre di letto di buona parte della generazione novanta della letteratura italiana: il problema dei padri di letto è che ci mettono tutto o quasi, tranne il cognome. Opportuno sarebbe almeno il ricordo. Doveroso il rispetto.

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Il capro

 

Silvia Cassioli

Il capro

Milano, Il Saggiatore, 2022

 

Sembrerebbe di stare al principio del romanzo manzoniano, degli sposi all’inizio solo promessi, nel leggere l’incipit de Il capro di Silvia Cassioli (Il Saggiatore, 2022): poca presenza divina però qui, e latitante la visio Dei che proponeva Eco nella fruizione dei primi righi dell’opera – umana e troppo umana, la questione trattata: meglio che Dio, se esiste, si chiuda gli occhi. Nessun lago dunque, ma rami molti, nel bosco della Tassinaia, con le sue voci, i suoi rimbombi e la sua fauna umana e animale che vive, convive, si danneggia e ogni tanto sembra accorgersi di un qualcuno che si è perso: un cenciaiolo, mica un pollicino qualsiasi, che perso mica si è tanto, e che ritrovato viene quando non respira più – qualcuno l’ha ammazzato, uno col quale poco c’era da scherzare, un giovanotto che è partito di molto male. Omicidio passionale, gelosia alla base: il Vampa, Pacciani, lo conosciamo così, bravaccio col coltello in una storia senza santi – sono questioni da umani, queste qui, forse da bestie, a dirla tutta.

 

Inizia nel pieno dell’atto il testo di Cassioli, e con una lingua che impregna la bocca e i vestiti – magistrale il cambiamento di voci dell’autrice nel passare da un giocatore all’altro di questo massacro a orologeria – nel far sentire gli odori, gli smarrimenti e i passi nudi sul terreno di chi si perde, giacché il male, lo si sa, ha un lessico tutto suo, che confonde e che annacqua, intacca e consuma (il morto non c’era, come averlo sognato) in una società post conflitto che tutto il dolore ha ingoiato e che adesso sembra dover restituire una tragedia che diventa educazione al colpire e al belligerare col prossimo. Neanche a difendersi, serve il lessico, neanche a esprimere il buio o a tirarsi fuori dai guai: ci prova, il Mele, ma è sardo di Barbagia – serve l’interprete – e allora meglio adattarsi, annuire e dire a chi deve ascoltare icché volevan loro. Le parole sono misura del perdersi, la leggenda subentra alla ragione, col paese che si ingolfa, con i tutti e i nessuno da mala ora a interrogarsi, ché se il terrore non si può esprimere allora la logica finisce a nascondino: muoiono i giovani, le coppiette appartate dentro le macchine, e a scaricarci contro colpi di pistola sembra mica un essere umano, ché per gli esseri umani così è troppo di certo – sarà un superomo, un mostro o due – insomma, tanti mostri e dappertutto. I corpi diventano pezzi, e manco al cadavere si presta l’opportuno rispetto: lo sgarbo è doppio, uccidere prima e deturpare poi – non me l’hanno solo ammazzata, me l’hanno rovinata – dice un padre nel raccattare il dolore che gli resta.

 

Non una cronaca cimiteriale però il testo, ma una conta dei sommersi – proposti senza pietismi da quattro lire, inquadrati nel momento del concludere in una maniera che costringe necessariamente il lettore ad empatizzare (le rompono il cuore e lì per lei finisce. Ciao Stefania.) – e dei salvati, ammesso che da una tempesta del genere salvare ci si possa: è la storia di Natalino, a colpire chi legge, dei suoi passi veloci e poco creduti, del dover ancora una volta piegare la lingua come richiesto al punto di scordarsi di sé e degli altri (Il mi’ babbo? Io miha l’ho conosciuto) per dire e ripetere ogni cosa anche quando si è altro da ciò che si era stati in una prigionia del ricordo e del trauma che intrappola l’offeso nella speranza di prendere il reo. A parlare di chi va e di chi resta, a cercar di risarcire del bene che mi tolsero (citando un altro testo di Cassioli, Unghie, plantari, gambe di legno e altri ex-voto fantastici) ci vogliono le mani ed il cuore adatti, a ripescare una storia così dolorosa e così ancóra di pericolo ci vuole la forza e la devozione di chi, alle storie, dedica la vita. Spero che Cassioli, e tutti gli altri e le altre Cassioli, questo tributo, questa riconoscenza della comunità, possano riceverlo e copiosamente, altrimenti a far così fatica a scavare si rischia solo di rovinarsi stomaco e mani. Ci piace concludere questo pezzo con una preghiera, profana o sacra poco importa, sempre di preghiera si tratta, che l’autrice, forse senza saperlo, nella sua raccolta poetica passata esprimeva e che adesso, nel Capro, realizza: dare luce alle ombre, serbare quella memoria foscoliana che serve a tenere ancora un poco acceso il ricordo.

 

Donami pace madre e stillami dolcezza

dov’era il cuore e la mia gioventù

ora che ho perduto questo e quella

e indietro non posso averli più.

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Aprire il fuoco

 

Luciano Bianciardi

Aprire il fuoco

Introduzione di Oreste Del Buono. Postfazione di Michele Cecchini

Roma, minimum fax, 2022

 

Vorremo cominciare con delle scuse, e sacrosante. Trattare di Bianciardi (e degli altri Bianciardi che ad esso si affiancano, campionatura vera di ciò che vuol significare far parte della azione operaia e tremenda dello scrivere) può significare soltanto cercare – impunemente e indebitamente – di portare un contributo minimo alla memoria, alla conservazione di quello che sarebbe delittuoso dimenticare: non stiamo pertanto in questo testo analizzando e spiegando (cosa poi, e a chi?), ma cercando di tenere una candela vicina alle altre che sperano di fare luce su ciò che va necessariamente illuminato e tenuto a fuoco. Una fiammella, la nostra, un’impressione minima da lettori: insieme ad altri contributi si spera di fornire un passo, uno solo, piccolo, a questa processione di santi patroni.

 

Il fuoco, dicevamo, da alimentare o scaricare addosso al nemico, ma pure quello che ti consuma da dentro e ti avvampa pareti ed organi. È un sentimento particolare quello che mina le giornate del protagonista del romanzo (Luciano Bianciardi, Aprire il fuoco, 1969, ripubblicato da minimum fax nel 2022), una cognizione del dolore che pare mancare di parole deputate a descriverla. Non basta la caeca rabies, quella furia nera che tutto travolge e porta con sé: non slavine qui, piuttosto maremoti. Viene voglia di scomodare un concetto vecchio e amato, intraducibile se non al prezzo di molte parole: la ménis achilleica, quel misto di violenza desiderata, frustrazione e amarezza che fa sanguinare pensieri e vestiti. Il protagonista bianciardiano non è semplicemente arrabbiato: quello potremmo esserlo tutti. Egli soffre, è attonito, ammalato di Sehnsucht – desiderio irriducibile e destinato a incastrarsi nel gorgo della irrealizzabilità. “Arrabbiati per cosa? – dice Del Buono al principio del testo riproposto dalla casa editrice romana – Via, non siamo ingenui, non c’è che l’imbarazzo della scelta”. Proveremo qui di seguito a esplorare le ragioni, le nostre, sia chiaro, nel prendere la strada insieme a quest’uomo che nel testo si trova contagiato dalla disillusione – quindi perfettamente sano – e, per così dire, figlio a nisciuno. Viene in mente, per negativo, il Drogo buzzatiano delle attese, con la fortezza Bastiani incastrata intorno e con una differenza pure: la prigionia qui è dell’anima, la coscienza netta e immediata, la lingua – leopardianamente – franca e sincera. Nessun rinsavire: il crollo è consapevole e non sedato.

 

È anzitutto colpa della storia se le carte si sono mal infilate tra le mani (senza far crollare, accidenti, le torri): la Milano descritta dal toscano finisce in un tempo montaliano che non tiene, con vecchio e nuovo mescolati dall’interno, con l’occupazione nemica viva e in ritardo di un secolo e la penisola ancora da farsi: un cappio austriacante in attesa dei mille. Gli ultimi, come sempre – da protocollo di scrittura – vivi nel ricordo, come indicato per esteso a regola di memoria: giuro su Dio che se un giorno la causa dei giusti prevarrà, io farò il possibile perché di tutto egli venga risarcito, e che gli diano un posto adeguato ai suoi meriti, Perché se lo merita. Eccolo allora il Mora, condannato follemente a morte crudelissima e accuse da untore; eccola, la nazione, grande vittima dei disegni degli altri, che ciascuno voleva a modo suo; ecco gli ultimi, da sempre indagati e difesi per questioni dolorose e indimenticabili (e militanti, perdio, parola ormai così dimenticata da alcuni) che il lettore avrà già compreso. Il tutto in un contenitore anch’esso malato – la geografia si accosta necessariamente alla storia, si ricordi almeno l’operare in occasioni altre del Dionisotti – invaso dalla nebbia che è più scarto e vergogna che prodotto nostrano (È semmai una fumigazione rabbiosa, (…) un fiato di denti guasti, da La vita agra) di una realtà che al solito crede di poter essere centro e girotondo, principio tolemaico con gride manzoniane e piè dell’oppressore: ci fugge, il Bianciardi o chi per lui, giacché troppo somiglia chi scrive a colui che si racconta, e ci torna sotto mentite spoglie, moderno Tramaglino, con la cravatta da annodarsi prima del confine e il travestimento da vestire per non dare nel sospetto, tra delatori e bargelli in fermento di cattura.

 

Viene da chiedersi a questo punto che lingua ci si porti, nel parlare del dolore, e al motivo cronotopico deve subentrarne necessariamente un altro, altrove già citato. Storia e geografia traducono soltanto la presenza di qualcuno che, come nei racconti di Cortázar, ci occupa silente l’aria ed il terreno. È nella parola però che si denuncia l’assenza della libertà sì cara: la lingua pertanto è dell’assedio, strumento primo di lotta e derisione del padrone, al rischio della vita e tanto cosa importa. Bianciardi – e lo leggano i ventenni e i trentenni, lo facciano immediatamente, per scappare da quel lisciume piatto che puzza di cantina e rassicurazioni – gemina e contorce, insubordina ed innesca, giacché se il vocabolo resta, barbianamente, l’utile del più forte – quando l’uomo slatina, la disgrazia si avvicina – allora la risposta deve essere granata, con la volgata che si slarga e umilia l’occupante, dato che sono tutti doktori, nel Lombardo-Veneto, (…) dokitores omnes, castighi di Dio, per conto dell’imperatore viennese. Si consideri almeno la parodia onomastica del Duca Delatopa prima, Delasorca poi e dopo ancora chissà cosa in un clima di fuga e di soppiatto che è sopravvivenza – pochi, maledetti e subito – e pure tentativo dignitoso di campare a schiena dritta – Pensa, quattromila lire ce le siamo già guadagnate. (…) Due vanno a Mara, una al padrone di casa, la quarta paga la luce, il telefono, il gas, il latte e il pane. (La vita agra). Sembra finito il tempo delle rivoluzioni, o meglio conclusa quell’esperienza romantica che uno si porta nel farle: tutti malati di correre, verrebbe da dire, parafrasando le parole di uno che a Bianciardi per qualche motivo deve essere compagno di strada, Giovanni Arpino: si considerino le riflessioni amare sui passanti impegnati a passare ne La vita agra, si noterà come paia essere l’intero progresso (sempre eterodiretto dai padroni del fuoco) la fiumana che tutto ingoia e tutto involve, e che la ribellione contro codesti o questi altri poco innesco potrà portare. È la società, tra le righe del toscano, a ritrovarsi in disarmo, e niente ci vuole a rendersene conto: non ci riferiamo ai cenni nel buio, ai fischi e alla tosse (non solo a quelli), ma a quell’inceppo sessuale che pure nella denuncia dell’esule di Aprire il fuoco diventa bandiera prima di una prigionia intima dell’individuo: già lo sento, io quel che diranno i sociologi (…) fra una cinquantina d’anni. Diranno che il sesso è un bene, di cui la fruizione dovrebbe essere garantita a tutti. Finito il gioco è finita la possibilità di giocarci: datemi il tempo, datemi i mezzi, si implorava altrove confidando nella bontà del proprio tentativo, senza sapere che gli strumenti sono diventati pura posa in appalto (cerco, mentre scrivo, di togliermi dalla mente Le cose di Perec ma, confesso, non ci riesco) e i tempi sono subiugati e poco democratici: a chi predicava, a chi cercava di evidenziare non resta che la fuga (dagli altri e da se stesso). Bianciardi è evidente profeta, se riletto cinquant’anni dopo con la coscienza a ciò che accade e che è accaduto, ma il destino del profeta, Ulisse sperduto per i mari, è quello di tornare nessuno e finire solo e dimenticato: chi esce dalla caverna può pure rivelare, ma il prezzo del racconto è alla fine l’annullarsi. E così siamo diventati soli. Il tempo va. E conosciamo più nessuno. Le parole per chiudere le ho prese in prestito da Arpino, a me mancava il cuore. Una preghiera soltanto, l’ultima: per Bianciardi ci vuole la devozione del santo – nominiamolo spesso, non invano e con rispetto: imponiamone il recupero.

 

Questioni del genere non sono dimenticabili: per noi e per quelli che saranno a venire.

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Un inverno freddissimo

 

Fausta Cialente

Un inverno freddissimo

Milano, Nottetempo, 2022

 

Ci sono delle storie piccole, infime pure, che si sviluppano nei gangli del meccanismo ufficiale, quello che sui libri recita di gesta militari e morti ammazzati annotati come numeri a margine: noi, a queste storie piccole ci affezioniamo tantissimo, ché l’ultima – e l’unica – traccia di umanità che resta in mezzo a tante pagine è da cercare proprio qui, in questi fatti che di eroico hanno ben poco e che quindi così bene ci rappresentano e accompagnano. Fausta Cialente, ripescata con merito da Nottetempo, in Un inverno freddissimo ne propone una impareggiabile per contesti, strumenti e personaggi posti sullo sfondo, ché il palcoscenico principale nella Milano del secondo periodo postbellico non può essere certamente cosa di disgraziati: quelli, storicamente, subiscono, incassano e al massimo riemergono (se riescono) nella tempesta che li travolge.

 

Ecco il colpo, la decisione perfetta di chi questi fatti li ha – in qualche misura che pensiamo copiosa – esperiti addosso: non si può nel contesto citato semplicemente raccontare la storia di una famiglia allargata scampata alle bombe – si peccherebbe di tracotanza commettendo una sorta di falso in romanzo. Bisogna capire il come e il dove, bisogna comprendere il perché: ecco allora che l’autrice meravigliosamente ci espone al luogo, poi ai suoi comandamenti, infine alla ventura di chi, in quel vivere, per scelta o vocazione, ha deciso di prender posto.

Milano anzitutto, inospitale come al solito, ma questa volta ferita e abbruttita dalla guerra, città avvolta e sfregiata, di nebbia filacciosa, coi tetti corrosi come stimmate dell’accaduto. Non può, una scatola del genere, essere contenitore di lieto fine: le occhiaie vuote delle finestre, i tristi colori degli incendi spenti sono lì a testimoniare silenziosamente che più di qualche guaio è capitato, e che rimettere tutto al proprio posto costerà tempo e vite. Ad aggravare i fatti, a renderli apparentemente irrecuperabili questo inverno freddissimo che avvolge e stritola, morde feroce, a rammentare quasi a chi vuole sopravvivere e ricominciare che c’è ancora una prova da superare, ancora un dovere di resistenza fisica e morale, come se la violenza fosse cosa che ti tempra e che ti lascia troppo tardi.

 

Cattivi luoghi, tempi peggiori. In tutto questo una speranza che ha il nome di una guerriera virgiliana: Camilla, madre di resistenza (le madri devono sopportare, peggio per loro se hanno messo figli al mondo, dovevano pensarci prima), faro e spago di una famiglia storta come solo quelle postbelliche possono essere, di superstiti e allargati, di rifugiati e disertori. Donna matura e giovane insieme, come mirabilmente suggerisce Carbé nell’introduzione al testo, in una soffitta che assomiglia ad un barattolo col tappo che non tiene – troppi ospiti e troppi guai, ci si ammala di scontentezza – con un nido troppo ampio per un posto che trabocca: eccesso di respiri, pericolo di crollo. Ed è nel dramma tuttavia, nel copione perfetto per scivolare e piangere, che Cialente e i suoi personaggi riemergono di cuore, scompigliando le aspettative e restituendo al lettore quella semplicità umana più sincera di qualsiasi lacrima: ci sono vittorie quotidiane, piccole speranze anche per chi dispera: c’è una gioia minuta ed esile che pure disegna sorrisi sul volto, portando alla memoria di chi scrive immagini di luoghi e tempi altri come quelle proposte da Valentina Tamborra tra le discariche del Kenya. Ecco allora, in un tempo d’assenza di uomini istituzionali – i soliti codardi, si conceda a chi scrive – nel quale i mariti svaniscono come fantasmi e neppure danno una benedetta lapide che metta fine alle cose spuntare gli sconosciuti, gli individui della provvidenza, compagni di strada però, e mai protettori: ma lei è proprio sola? […] Ma no, come? Non ha capito che ho intorno un sacco di gente?

 

È questa, all’interno di momenti storici (maiuscoli e minuscoli) pericolosi e smottanti, nei quali qualsiasi azione è più che mai definitiva e foriera di conseguenze – si pensi a Regina, novella Nedda verghiana, che non si era accorta subito di quel che le succedeva, con la gravidanza portata addosso a Nicola bell’e sepolto come momento di rischio e caduta sociale – la parola che porta Cialente, che accompagna una serie di personaggi a maturazione fisica e mentale, che scorta i suoi all’incontro con la realtà senza proteggere, stringendo la mano con quel rispetto che solo i bravi narratori e le brave narratrici sanno tenere. Camilla stessa – una donna sola, ecco quel che sono – diviene simbolo di una resistenza altra, paziente e resiliente (ci scusi il lettore, per questa parolaccia), in grado di prender coscienza di sé e di trasportare (sé e gli altri aggrappati a sé) nelle strade di posti che cadono e rischiano di franarti addosso.

In chiusura, mi si permetta una tantum di essere poco istituzionale: Cialente non c’è più, la si riscopra punto per punto. E si vadano a cercare gli altri e le altre Cialente prima che sia troppo tardi e che troppo tardi si debba mettere riparo.

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Atlante della fine del mondo

 

Davide Morganti

Atlante della fine del mondo

Napoli, Marotta&Cafiero, 2022

cofanetto in cinque volumi: Africa, Asia, Oceania, America, Europa

 

Exegi monumentum aere perennius: vogliamo – dobbiamo – scomodare un verso oraziano per descrivere quella che è stata l’azione di Davide Morganti nell’ Atlante della fine del mondo (Marotta&Cafiero, 2022), una raccolta di cinque volumi che documenta un viaggio esperienziale tra continenti affrontanti un libro alla volta e intercettati nell’atto di svanire con la volontà umana di serbarne il ricordo, di tenere in vita ciò che, sulla cartina, rischia di perdere meridiani e paralleli. Casimiro Boboski lo strumento, l’espediente e pure il viaggiatore: un incrocio mezzano tra un Dante pavido, un Ulisse costretto al testimoniare e allontanato dalla casa sperata e una perfetta vittima delle novelle che Boccaccio designava nella sesta giornata del Decameron. Un uomo d’ufficio, quasi un amico del Belluca pirandelliano, intento a passare le otto ore lavorative a elaborare progetti puntualmente rifiutati dal Poggiali, suo compagno di scuola ai tempi che furono e suo persecutore in quelli che sono, ufficialmente suo superiore, letteralmente suo inferno in vita con scherzi e lazzi che il povero subisce senza protesta alcuna. È uno che non sapeva dire di no a nessuno, il nostro: figurarsi quando gli si chiede di partire in giro per il mondo a mo’ di Geppetto stassiano, col poco e col niente che si trova, prima che questo finisca disegnando linee che si perdono e raccogliendo storie di uomini che rischiano di cadere dimenticate: è uno da sacrifici, il Boboski, uno che Cristo dalla croce lo avrebbe tirato giù per sostituirvisi senza batter ciglio. In partenza dunque, senza cappello, col freddo addosso e la scriminatura di capelli a dividere la testa a metà mentre la bocca balla e la parola non tiene: pure balbuziente, doveva essere il disgraziato, come non bastasse il padre mancate, la madre partente e morta l’unica donna che avesse provato a rivolgergli un minimo d’attenzione.

 

L’Africa, per cominciare, in questo viaggio sgangherato che si percorre un continente alla volta, non prima di incappare, come si diceva, in un Cristo fuori stagione – le storie come ombre si addensano sulla bocca di Casimiro, ed ogni passo diventa un racconto nelle tasche: è la volta del maresciallo De Sarlo, in apertura di danze, col viso alla Gino Paoli e una fede incrollabile, che in una Basilicata ben lontana dall’attuale si trova per errore a fare i conti con domeneddio per scoprirlo poi posticcio, non veritiero e pasoliniano: è un set, ciò che coglie, una recita e non certo il ritorno del Salvatore intento a condonare un’altra volta i peccata mundi. È così quello che sembrava inizialmente uno spaventapasseri tra le pietre (ventenni, leggete Morganti, imparate a scrivere così, leggendo i padri fondatori) diventa un momento di disillusione profonda: nessuna nuova redenzione, una salvezza che non arriva e anzi un regista così odiato dal militare, quel Pasolini che faceva credere al mondo che l’Italia fosse solo un paese di pervertiti, visionari e di puttane a sconsacrare e distruggere il sogno di essere nuovo re magio. Per un esodo mal interpretato fuori Eboli e una tappa momentanea in Lucania a trattare di quella tematica cristologica che tanto ha albergato in cuore all’autore nel suo percorso (si pensi almeno a Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato, Wojtek edizioni, e al dolore che si accompagna ad una fede sentita, problematica e più sincera di tante altre che appaiono pubblicitarie) ecco che arriva il Marocco con una storia piccola che si insinua nel cuore, quella di Zahra, il cui padre quando piove non può lavorare con annessa tempesta di rabbia scatenata sulle figlie (Quando c’è la pioggia, maestra, io muoio – chi resta intatto a questo titolo dismetta i panni di lettore e di essere umano). In Europa infine, di strascico e ritorno, a cominciare dall’alto, non prima di aver trovato un continente in stato di decomposizione che si frantuma a guscio d’uovo tra i resti della malattia capitalista: dal Nord, dicevamo, amore vero dell’autore (avrebbe meritato di nascerci, forse, di essere parte di quelle cose) che attesta un lamento cimiteriale di morti che non si vogliono decomporre nel ricordo, che vogliono foscolianamente restare in qualche modo agganciati a qualcosa che li tenga (altro tema forte, quello della memoria, in questi racconti) per arrivare a un babbo natale così diverso e così più umano rispetto a quelli sponsorizzati e rivisitati da aziende di bevande molto note, con una slitta incastrata su un tetto che rischia di mandare a monte le celebrazioni di festa e un male che incombe tremendo alle spalle (A Stort Mørke è un periodo di massima cattiveria). La Georgia nel mezzo, cerniera di congiunzione eurasiatica, con un’invettiva meravigliosa sin dal titolo che rovescia il gioco di insubordinazione classica – Le responsabilità sono tue, Dio – per mettere in discussione l’indiscutibile: il tempo di Giona è passato e anche l’Altissimo, se vuole restare in sintonia con la creazione, deve trovare modi di scavalcare il grande abisso del silenzio, giacché prima ci sono le bollette, il crollo del gioco inventato duemila anni or sono e la casa da governare: nessun profeta dunque, né per vocazione né per chiamata, ma la richiesta al supremo, almeno per una volta, di prendersi personalmente la sua quota di colpe.

 

Vorremo continuare per ore, a cronacare, magari pensandoci intorno a un fuoco a raccontarci queste storie, includendo gli altri continenti (America e Oceania) lasciati fuori per meri motivi di spazio: è roba boccacciana questa, da resistenza alla catastrofe, dell’inventare storie che poi sono così maledettamente vere e così tremendamente agganciate ai loro luoghi di provenienza facendo tornare alla fine di questa enciclopedia dell’umano un Casimiro così uguale e così dissimile da sé, ma vogliamo più di ogni altra cosa, in chiusura, urlare (con la giustificata furia che il contenuto permette): gentili signori compilatori delle cose della letteratura italiana, Morganti, quello dei Disertori di Einaudi, quello che ha pubblicato per Neri Pozza e che ha fatto altre e tante cose ancora, ha scritto in cinque libri il suo testamento letterario (non casuale la dedica in epigrafe: A Simone, mio figlio, finalmente): vogliamo accorgercene tardi e acclamare il genio quando questo autore avrà le due date di biografia o per una volta, per una delle poche (che pure esistono), vogliamo rendere giustizia fino a quando siamo in tempo?

È una preghiera la mia, una preghiera da conchiglia. Non lasciatela, vi imploro, in fondo al mare.

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Nanga Parbat. L’ossessione e la montagna nuda

 

Orso Tosco

Nanga Parbat. L’ossessione e la montagna nuda

Roma, 66thand2nd, 2023

 

I libri che amo di più sono quelli che partono da un pretesto, lo centrano e ne fanno campo perfetto per indagare l’individuo nella sua più intima essenza: le storture, i sogni alti e tanto umani – quelli veri e bambini, per intenderci, che col tremendo e illusorio capitalismo quotidiano poco hanno a che spartire – sono lì, incontaminati e pronti a farci ragionare senza alterazioni sulle radici prime del gioco della vita. Orso Tosco, nella scrittura di Nanga Parbat (66thand2nd), si rende protagonista di questa azione meritoria e noi siamo qui per darne testimonianza. Stiamo dicendo che la montagna nuda, capace di ammaliare e lasciar precipitare l’individuo dopo averlo sedotto, sia solo una scusa d’azione? Non una scusa, ma la scusa perfetta, l’opportunità di trattare due questioni mai risolte che cercheremo progressivamente di sviluppare: l’uomo come animale del desiderio e l’ambiente nel quale questo desiderio si affoga o concretizza. L’autore ligure è magistrale nel restituire immediatamente l’azione della scalata alla sua componente istintuale e cardiaca privandola di tutti quelli eroismi che rendono difficile e insostenibile la ricezione del racconto di un’ascensione fatta di piedi: Nietzsche diceva di amare gli uomini che cadono, giacché se non altro sono quelli che attraversano. Tosco ne vuole fare la cronaca con nella tasca il sempre benedetto intento foscoliano della memoria e con quella voglia di poter capire a fondo ragioni meno comprensibili e più immediate che hanno a che fare con la libertà (e che abbiamo già trovato con gioia, in qualche modo, in Aspettando i naufraghi dello stesso autore). È dalla prima frase che si rompe il vetro e si toglie la patina del superomismo: è gioco di sirene in fondo al mare questo, mortale e attraente, umano e fragile – la sfida, dice Tosco, è soltanto per gli altri, quelli che vengono consumati dall’attesa tarlante, costretti a misurare tempi e pazienze, a cercare di capire dove sia finito e come proceda chi, nel frattempo, insegue l’altrove, l’emancipazione verticale rispetto alla sua condizione piana e terrestre – la razza di chi rimane a terra, avrebbe detto magistralmente Montale.

 

Il campo da gioco è il meno indicato, quello inospitale per antonomasia: un monte inafferrabile, capace di attrarre e inglobare, di diventare prigione nella sua inestinguibile promessa di libertà assoluta: irrazionale il procedere, verrebbe da dire, ma è l’autore a istruirci subito, e mirabilmente, giacché l’ossessione, in casi del genere, è la forma di amore più pura. Per cosa poi, per cosa? Ciò che si solca e domina non diventa di pertinenza ma resta per sua stessa definizione esclusivo legando anzi in modo definitivo la propria, di storia, alla tua – conquistatori dell’inutile, disse Terray – piuttosto del sé, sembra suggerire lo scrittore, in una realtà che ci vede sempre più sprovvisti e sempre meno capaci di essere veri legislatori almeno della proprio condotta d’azione. Ecco dunque il mestiere che Tosco decide di fare, completando e rivivendo – con rispetto e senza enfasi in una sincerità linguistica davvero apprezzabile – storie divenute leggende e simili a stagioni pronte a riproporsi ciclicamente con la voglia di riempire quel silenzio mostruoso che c’era lassù e quei momenti – definitivi o di progressione verso l’impresa – che solo i pochi eletti presenti possono conoscere realmente: da qui le storie di Mummery e del Nanga che diviene suo miraggio e ragnatela, l’idea dei nazisti convinti di essere padroni simbolici di una vetta che poteva soltanto umiliarli e dar loro lezioni di democrazia e realtà e la voglia di riscatto di quell’Hermann Buhl che trasforma la mancanza in determinazione e la voglia in cieca fede – è questione religiosa l’incamminarsi, è un credere omerico in un qualcosa che si possa verificare. Ci dà il conforto Tosco, e ci insegna qualcosa, giacché questioni così alte e invalicabili si possono affrontare solo portandosi in tasca quello che è il gran libro della letteratura, medicina all’occorrenza che nulla aggiusta e tutto rende sopportabile: da qui l’ausilio di Kafka sulle leggende che tentano di spiegare l’inspiegabile, l’uomo di Vallejo interpretato meravigliosamente come oscuro mammifero che si pettina, le parole di Sereni sui peccati contro l’amore. Questa montagna che nella narrazione diviene metafora e innesco sembra diventare col passare delle pagine un giudice draconiano: sa lei chi far passare ed avanzare, sai lei a chi dare ricompensa conoscendo intime ragioni che sfuggono all’occhio miope degli uomini. Chi scrive questo libro non dà giudizi, ma prova a fare ciò che lo scrittore dovrebbe: facilitare il ragionamento, suscitare delle riflessioni. Viene, in chiusura, voglia di citare un altro uomo delle lettere, questa volta antiche: quel Petrarca che, qui ripulito delle venature strettamente cristiane, nell’attraversare quel monte che rispetto al nostro parrebbe una collinetta si concentra sui motivi intimi e sulle ragioni del sé. Eccolo, il pretesto del quale parlavamo e che ci fa ringraziare Orso Tosco: il suo è, in condizioni altre, alte e proibitive, un tentativo di indagine su uno dei meccanismi più difficili da maneggiare a portare a compimento, quello dell’essere umano.

 

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Defrost

 

Diletta D’Angelo

Defrost

Note al testo di Alberto Bertoni e Carmen Gallo

Latiano (BR), Interno Poesia Editore, 2022

 

Ci vogliono tempo, pazienza e vari strati di corpo da oltrepassare per arrivare al gheriglio delle questioni, quelle che tendenzialmente sono ben nascoste e ben tutelate per venire a trovarci poi nei sogni della notte. Ci vuole la preparazione, la buona dose di coraggio per entrare quasi scientificamente – o in modo parareligioso, ce lo si permetta, per immiarsi, avrebbe detto qualcuno che chiamiamo padre da secoli – in sé e tornarne fuori con un referto, con una dichiarazione precisa del cosa che non tiene, del punto di rottura causato dagli incidenti. Diletta D’Angelo in Defrost (Interno Poesia, 2022) compie uno scavo e un’immersione: chiediamo quasi scusa al lettore nel citare lo scafandro ben conosciuto e abusato nel mondo poetico, ma la verità è che, a restare in superficie, il massimo che si possa raccogliere è la polvere appoggiata sulla propria giacca. Un evento dunque, e per conto terzi – l’incidente leggendario che oltrepassò Phineas Cage, operaio ferroviario attraversato – come innesco per parlare di una violenza che genera faglie insanabili: eccolo, il movimento tellurico, scoperto e individuato, da portare in superficie adesso, vincendo quel congelamento che tante volte pare funzionale al piede appoggiato al mattino fuori dal letto, all’assunzione di quella condotta necessaria allo stare pacificamente nella società degli uomini senza essere additato di.

 

Siamo dentro ormai però: sprofondiamo – farlo vale il prezzo del biglietto – nel cercare quali siano le cose rotte dentro, quelle che hanno creato i malfunzionamenti e i rischi di collasso: una colonia da formiche, eppure tanto umana, che muta, si evolve e rimpiazza chi per caso voglia scappare dal centro, quei poveri cristi chiusi in una gabbia ben arredata e costruita. Tonino poi, difficile non restarne agganciati, uomo che alle domande ha trovato in risposta caproniane sassate e che entra nel guscio di sé stesso per uscirne di tanto in tanto nei modi ritenuti consoni (viene da pensare all’Adelmo morandiniano di Neve, cane, piede nel leggere meravigliosamente che se sorride, non lo sanno gli occhi). Ci vuole freddezza dicevamo, congelamenti e capacità di portare in temperatura: D’Angelo ne ha, ma non, come qualche disgraziato potrebbe dire in questi casi, da vendere naturalmente, esaltando mitologie paradannunziane di crismi insiti e oracolari dei poeti (che dio estingua queste visioni del miracolo: masticare costa sputi e amaro, accidenti) – quello di D’Angelo, al contrario e meritoriamente, è un lavoro frutto di coraggio: la madre incorniciata orizzontale tra nuvole di fumo, l’educazione alla paura e l’anatomia della violenza non vengono casualmente, ma nascono da mano ferma e cuore saldo (mi inchino, perdio: così difficile coordinare entrambe le cose e così bene ci riesce l’autrice). I titoli stessi, a conforto, ci parlano di un’operazione effettuata per accordo tra le parti: anamnesi, auscultazioni, incisioni e anatomie non sarebbero possibili se qualcuna delle azioni cercasse di ammutinare. I giochi di ruggine, la loro difficile pratica, vengono portati in campo con respiro fermo: D’Angelo, al contrario del suo Tiresia che viene a incontrarla tra i versi, risolve la cecità in una lucida visione che acceca ben di più costringendo a guardare ciò che di solito si intercetta solo con la coda dell’occhio: il ciclo di farfalle utili alla conservazione del più grande e la loro ostinata consegna alla morte, l’igiene del dolore e la sabbia nella testa, le ossa che cedono eppure resistono, in omaggio al travasato operaio citato nell’ingresso, con il verso che deve talvolta sconfinare nella prosa per dire bene e tutto, per spiegare col metro e col vetro che serve mentre cammini per la strada a piedi scalzi e ti accorgi che nei vecchi del paese, nelle pratiche di nascondimento e nelle parole innocenti del quotidiano cercavi di inventare un rumore che coprisse il ronzio delle cose che sono dentro. In chiusura, se consentito, un momento umano: dell’evento nessune immediate conseguenze, dice la poetessa in un verso con quell’aggettivo a riconfigurare tutto e a confessare qualcosa a chi legge – smottare, smuovere e precipitare, cercare in sé l’anello che non tiene costerà poi qualcosa nella quotidianità di ogni giorno, giacché non è vero che ai mostri piaccia essere risolti (crescere e annidarsi, semmai, fino a rompere da dentro): chi scrive questo libro sa a quale pericolo di frana dell’animo va incontro, eppure scrive lo stesso, anzi scrive anche meglio. Ecco cosa dovrebbe essere la scrittura: volontà di registrare le scosse al rischio di restarci travolti.

Io Diletta D’Angelo vorrei abbracciarla, io a Diletta D’Angelo vorrei dire grazie.