Lingua Italiana

Trifone Gargano

Trifone Gargano, professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Didattica della lingua italiana» per l’Università di Foggia, e «Storia della lingua italiana» presso l’Università di Stettino (Polonia). Docente di liceo, è autore di numerose pubblicazioni. Con gli Editori Laterza, ha pubblicato “Virtute e c@noscenza. Antologia della Commedia di Dante” (2010). Con Progedit: “La letteratur@ al tempo di Facebook” (2016); “Dante. ‘La Commedia divina’” (2017); “Dante pop e rock” (2021); “La Divina Commedia”, edizione integrale, con parafrasi (2021). Con le Edizioni del Rosone: “La ‘Divina Commedia’ di Dante stickers” (2017); “Dante & Harry Potter” (2018). Con Cacucci, “Letteratura e Sport. Da Dante a Pasolini” (2021).

Pubblicazioni
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Leggermente, Calvino

 

Nell’anno delle celebrazioni per il centenario della nascita di Italo Calvino (1923-1985), mi piace iniziare questo intervento sulla natura (profondamente) pop della sua idea di letteratura, con una citazione dal testo della sua prima lezione americana, Leggerezza, nel tentativo di fornire una definizione compiuta del concetto di «pop»:

 

Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza [...].

Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio.

 

Ecco, non credo che ci sia, dal mio punto di vista di ricercatore, studioso e divulgatore della dimensione «pop» della nostra tradizione letteraria, classica e contemporanea, una definizione migliore, se non questa, appunto, sulla leggerezza: il pop come «sottrazione di peso», per dirla con le sue stesse parole, e non come banalizzazione, o semplificazione. Subito dopo, sempre in quella lezione, Calvino precisava pure che:

 

due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso [...]; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni.

 

Per ravvisare, nell’operazione linguistica (e stilistica) compiuta da Giacomo Leopardi, un autentico miracolo:

 

il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare.

 

La parodia Disney

Italo Calvino è il solo scrittore italiano contemporaneo che sia stato inserito nella collana dei «Classici della Letteratura» Disney, con la riduzione a fumetto de Il visconte dimezzato, che Calvino scrisse nel 1951 (ma pubblicò l’anno dopo, presso Einaudi), come prima parte, o prima tappa, di una trilogia che egli stesso chiamò «I nostri antenati» (Il barone rampante, del 1957, e Il cavaliere inesistente, del 1959). L’albo Walt Disney, con la sceneggiatura di Lello Arena e Francesco Artibani, e con i disegni di Silvia Ziche, fu pubblicato, per la prima volta, nel 1993 (sul n. 1966 di «Topolino»), e poi fu inserito nella collana dei «Classici della Letteratura» Disney nel 2006 (per essere, successivamente, ristampato e distribuito più volte). Fiaba contemporanea, scritta con la consueta cifra stilistica ironica di Italo Calvino, che denunciava la conseguenze nefaste della guerra, a volte mettendo in scena situazioni decisamente comiche, altre volte, tragiche. È stata detta anche fiaba filosofica, capace di mettere in scena il dramma dell’uomo contemporaneo, diviso a metà, tra il Bene e il Male. Il protagonista, infatti, il visconte Medardo di Terralba, partito in guerra (contro i turchi, e in difesa dell’armata cristiana), si ritrova, subito, già alla sua prima partecipazione attiva all’azione di guerra, spaccato a metà, dimezzato, in senso longitudinale, da una palla di cannone, che lo prende in pieno e lo divide esattamente a metà: da un lato, la parte destra, quella cattiva; dall’altra, la parte sinistra, quella buona. Grottesca metafora della scissione dell’uomo (e dell’intellettuale) nella nostra società. Altri personaggi della storia (sia nella versione di Calvino, che in quella fumettistica della Disney) sono, rispettivamente, il dottor Trelawney, nient’affatto interessato alla medicina, ma tutto assorbito da una esclusiva ricerca sui «fuochi fatui», cui si dedica con trasporto (trascinando con sé, nei suoi vagabondaggi cimiteriali, il nipote del visconte, il ragazzino senza nome, che è anche il narratore di tutta la storia), e l’ingegnoso carpentiere Pietrochiodo, incaricato, dalla parte cattiva del visconte, il «Gramo», di costruire marchingegni distruttivi, con i quali torturare gli abitanti di Terralba. Altro personaggio principale della storia è la contadinella Pamela, che, benché cresciuta come pastorella, in realtà, sa adattarsi e sa comportarsi in ogni situazione, e che, alla fine, sposerà, dapprima, Medardo il «Buono», e, subito dopo, il Medardo intero, dopo cioè che sia avvenuto il ricongiungimento con la parte cattiva, con il «Gramo», dando vita a un nuovo Medardo, tutto intero, uomo saggio e riflessivo. L’azione scenica si svolge, parte, in Boemia, e parte in Liguria, verso la metà del Settecento.

Nella parodia Disney, il visconte Medardo di Terralba è interpretato da Pippo; lo scudiero Curzio da Topolino, e Pamela da Clarabella. Sostanzialmente, non ci sono grandi differenze, nella trama, tra romanzo e parodia, se si eccettua il dettaglio che il dimezzamento del visconte, nel fumetto Disney, destinato cioè a lettori giovanissimi, non avviene con il taglio in due parti della persona di Medardo, bensì, con una sua vistosa riduzione (a metà) in altezza. Quello che i sudditi vedono, infatti, è un nano, anzi, ne vedono due, una volta che a Terralba abbia fatto ritorno la parte buona del visconte. Anche nel fumetto, dunque, chiusa la guerra con un accordo che accontenta entrambe le parti belligeranti, torna a casa la metà cattiva di Medardo, che verrà detto il «Gramo», e che compirà atti di crudeltà nei confronti dei sudditi, dando ordine di ridurre tutto a metà, di portare tutto alla sua “altezza” (o, meglio, alla sua “bassezza”), a cominciare dalle dimensioni delle case, riducendole in altezza, facendo tagliare a metà perfino la frutta. Medardo il «Gramo», una volta innamoratosi di Clarabella-Pamela, le farà regali rigorosamente tagliati a metà, e farà realizzare dal carpentiere Pietrochiodo una macchina dimezzatrice, con la quale si divertirà un mondo, a spaccare tutto a metà, minacciando e ricattando i suoi sudditi. Come nel romanzo, anche nel fumetto, Pamela-Clarabella fugge dal visconte cattivo, dal «Gramo», per rifugiarsi nel bosco:

 

Pamela corse via, prese con sé la capra e l’anatra preferite, e andò a vivere nel bosco

 

Il visconte buono, una volta giunto nella contea, disorienterà gli abitanti, perché si comporterà in modo strano; egli, infatti, aiuterà la gente, elargirà regali, salverà i bambini smarriti, aiuterà le contadine nei lavori pesanti. Tutti, infatti, restano sconcertati da questi gesti, perché nessuno sa dell’esistenza di un secondo Medardo, buono. La stessa Pamela-Clarabella, inizialmente, non lo riconosce, restando stupita dal suo modo di fare. Infine, il dottor Trelawney, nel fumetto, dopo aver capito e spiegato come mai il visconte si sia sdoppiato (rispettivamente, nel «Gramo», e nel «Buono»), a causa del colpo di cannone, alla fine della vicenda, in modo rocambolesco, riuscirà a rimettere assieme le due parti dimezzate di Medardo, ricostituendone l’unità, grazie all’utilizzo di una macchina riunificatrice, costruita dall’ingegnoso Pietrochiodo, dietro precise indicazioni del medico stesso.

 

Le pur lievi, ma presenti, differenze tra romanzo e parodia, nel caso del Visconte dimezzato, che si registrano, sono state determinate, evidentemente, dal lavoro di ri-scrittura e di adattamento, compiuto dagli autori della sceneggiatura Disney, nel rispetto scrupoloso di un vero e proprio canone della comunicazione Disney, dal momento che questi fumetti sono, sì, universali, ma si rivolgono in modo privilegiato (ancorché non esclusivo) a lettori giovanissimi. I «canoni di liceità» della Disney sono: «Amore e Sesso», «Finale», «Linguaggio», «Vizi» e «Violenza e Morte». Nella realizzazione della parodia de Il visconte dimezzato, come si può facilmente verificare, questi canoni di liceità Disney sono stati tutti rispettati. L’amore tra Pamela-Clarabella e Medardo-Pippo non trascende mai i limiti della decenza, delle effusioni sentimentali intime, mai un bacetto, tanto per intenderci, anzi, Pamela-Clarabella rifiuta, sempre, le profferte d’amore del visconte. Alla fine della storia, viene annunciato (ma non celebrato) il matrimonio tra i due. Nell’universo disneyano, infatti, si resta sempre eterni fidanzati; non si diventa mai coppia effettiva, perché se ciò avvenisse, occorrerebbe presupporre (e disegnare) rapporti sessuali, tra marito e moglie. A Paperopoli non ci sono genitori, ma soli zii (Paperino e Paperon dei Paperoni, infatti, sono zii, non genitori).

Tutte le storie Disney devono, necessariamente, chiudersi con la vittoria del Bene sul Male, con la sconfitta dei personaggi cattivi. Così accade anche in questa parodia. Alla fine della vicenda, il «Gramo», il cattivo perde e scompare. Il linguaggio delle storie Disney è sempre un linguaggio pulito, controllato, mai volgare, o, peggio, scurrile. Nella sezione italiana della Disney, sul versante linguistico, spesso gli sceneggiatori ricorrono a parole o a espressioni arcaiche, rare, non di uso quotidiano, al fine di conferire maggiore patina di letterarietà alle parodie. I personaggi Disney, inoltre, non devono manifestare di avere vizi pericolosi per la salute: i paperi, infatti, in questo universo fantastico, non fumano, non bevono alcolici, non assumono droga, o altre sostanze simili. Solo qualche personaggio negativo, come, per esempio, Pietro Gambadilegno, in passato, veniva ritratto con il sigaro in bocca, nell’atto di fumare (ma in tempi più recenti, nelle ultime sue raffigurazioni, anche Gambadilegno non fuma più). Infine, il canone di liceità riguardante la violenza, che, nel caso del romanzo di Calvino, è presente sia come guerra, alla quale partecipa Medardo, sia come malvagità del visconte, negli atti malvagi della metà negativa di Medardo. Ebbene, anche la violenza e la morte, in questo universo disneyano, devono apparire soltanto in forma comica, mai tragica, e, come dire, in modo sfumato. Le scene violente, infatti, gli scontri, le zuffe, sono sempre avvolte da un polverone, che avvolge tutto, e che non lascia intravedere dettagli macabri, o colpi veri. Le scene violente, compresa la morte, sono sempre accompagnate da numerose e fragorose (quindi, comiche) onomatopee linguistiche, autentiche invenzioni linguistiche che sostituiscono il gesto violento in sé, lo alludono, senza mostrarlo. Nei fumetti non deve mai comparire il sangue, né dev’essere mai disegnata una mutilazione permanente. Ecco perché il Medardo di Calvino, nella versione Disney, viene dimezzato in altezza, ridotto alle fattezze di un nano simpaticone, ancorché malvagio e cattivo, almeno fino all’arrivo dell’altra sua metà, quella buona, con la quale, alla fine, la parte cattiva si ricongiungerà festosamente. Per questa ragione, per esempio, già dal 1941, Pietro Gambadilegno, il cattivo, non è più rappresentato con una gamba di legno, come avveniva prima, ma con una protesi. La morte è totalmente bandita da questo universo. Anche i malvagi, infatti, vengono sconfitti, perdono sempre, ma non muoiono mai, non devono morire. Del resto, buoni o cattivi che siano, i personaggi Disney nemmeno invecchiano, vivono in un eterno presente. Paperino, zio Paperone, Qui, Quo, Qua, e tutti gli altri personaggi Disney (Archimede Pitagorico, Clarabella, Gastone, ...), sono sempre uguali a sé stessi.

 

Calvino autore di canzoni pop (e folk)

Nei primissimi anni del secondo dopoguerra, in quell’Italia “bambina”, che provava a ripartire dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, con vistose cicatrici nel Paese, e con fortissime differenze sociali, economiche e culturali tra il Nord (industrializzato) e il Sud (rurale e contadino), Calvino scrisse testi per canzoni apparentemente leggere, ma con contenuti sociali e politici di forte impatto. Con altri autori, sotto la comune etichetta di «cantacronache», negli anni fervidi tra il 1958 e il 1962, in compagnia di intellettuali come Gianni Rodari e lo stesso Umberto Eco, Calvino scrisse testi con i quali metteva, per parte sua, le basi di quel fenomeno musicale e culturale che gli storici della canzone italiana, nei decenni successivi, avrebbero chiamato «cantautorato», con una specificità musicale e canora (e letteraria) tutta italiana. Franco Amodei e Michele Straniero, oltre a Sergio Liberovici, che musicò proprio i testi di Calvino, sono soltanto alcuni dei nomi di quegli artisti e di quei musicisti che diedero vita al gruppo dei «cantacronache» (i così detti «giullari dell’era industriale»). Tra le canzoni scritte in quegli anni da Italo Calvino, va ricordata, almeno, Oltre il ponte, che è del 1959, con le musiche di Sergio Liberovici, cantata, in anni successivi, dal gruppo musicale folk rock «Modena City Ramblers». Ecco un passaggio del testo (con ambientazione partigiana):

 

Avevamo vent'anni e oltre il ponte
oltre il ponte ch'è in mano nemica
vedevam l'altra riva, la vita
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore
a vent'anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l'amore.

 

Per chi volesse ascoltare l’intera canzone, basta inquadrare il QR Code seguente, e fare click:

 

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Leopardi, dopo la siepe, verso l’infinito e oltre

 

Un Giacomo Leopardi (1798-1837) incredibilmente Classico pop, presente e attivo nelle ri-scritture multi-codali contemporanee, dal fumetto, alle canzoni, ai romanzi, al cinema, al teatro. Leopardi, al pari di Dante Alighieri, è entrato nell’immaginario collettivo popolare, e lo dimostra il fatto che, come per la Divina Commedia, anche molti suoi versi sono stati trasformarti in proverbi, in modi di dire (e di pensare):

 

- studio matto e disperatissimo … (espressione presente nella Lettera a Pietro Giordani, del 2 marzo 1818; ma anche in una pagina dello Zibaldone)

- passata è la tempesta … (ne La quiete dopo la tempesta, 1829)

- che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai … (nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, 1829-1930)

- natio borgo selvaggio … (ne Le ricordanze, 1829)

- la donzelletta vien dalla campagna … (ne Il sabato del villaggio, 1829)

- godi, fanciullo mio; stato soave … (ne Il sabato del villaggio, 1829)

- ... e naufragar m'è dolce in questo mare (nell’idillio L'infinito, 1819)

- Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo (nei Pensieri, LXXVIII)

 

Dunque, Leopardi Classico pop, presente nelle opere di molti artisti contemporanei, attraverso il ri-uso di espressioni, lessico, situazioni, versi, personaggi, tematiche, riflessioni, pensieri.

 

SELFIE

 

«Fu di statura mediocre, chinato ed esile, di colore bianco che volgeva al pallido, di testa grossa, di fronte quadra e larga, d’occhi cilestri e languidi, di naso proffilato, di lineamenti delicatissimi, di pronunziazione modesta e alquanto fioca, e d’un sorriso ineffabile e quasi celeste».

 

A questa descrizione, di pugno dell’amico (e sodale) Antonio Ranieri, si sovrappone, quasi con gli stessi vocaboli, una auto-descrizione, contenuta in una lettera dell’agosto del 1819, scritta per l’ottenimento di un passaporto (nello sfortunato tentativo di fuga da Recanati). Quasi un selfie, nel quale Giacomo elenca i suoi connotati fisici (pur con qualche auto-censura, in stile social e pop, del tipo: mi descrivo, sì, ma con qualche ritocchino):

 

«statura piccola, capelli neri, sopracciglia nere, occhi cerulei, naso ordinario, bocca regolare, carnagione pallida, nessun segno apparente»

 

In questo caso, l’auto-descrizione (il selfie) è volutamente neutrale, senza alcun riferimento ai segni particolari che il suo corpo già porta in modo evidente. In una lettera all’amico Pietro Giordani, invece, del 2 marzo 1818, Leopardi si auto-descrive con ben altra sincerità (e dolente oggettività):

 

«[...] in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i più [...]»

 

Tornerà su questa sua condizione miserrima nel 1830, in uno scritto pubblico, indirizzato ai suoi Amici di Toscana, in occasione della pubblicazione fiorentina dei Canti (1831), per dichiarare, con dolente tono di sfogo:

 

«Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza di morte, quel mio solo bene [allude agli studi] mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potuto leggere, e per emendarle m’è convenuto servirmi degli occhi e della mano d’altri. [...] Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena».

 

FUMETTO E GRAPHIC NOVEL

 

Topolino e la chiave dell’Infinito (2017) Walt Disney

Storia inserita nell’albo n. 3214, del 28 giugno 2017, della testata Disney «Topolino», a firma della sceneggiatrice Silvia Martinoli, che ha dichiarato di aver scritto una storia su Leopardi per «Topolino» con l’intento di voler accostare, grazie al codice espressivo del fumetto, i giovanissimi lettori Disney ai principali capolavori dell’opera di Leopardi. Inoltre, ha precisato che è stato facile sceneggiare questa storia perché la scrittura di Leopardi, in molti testi, è già fortemente cinematografica, adducendo, come esempio, proprio i quadretti (o le scene) che compongono il canto A Silvia. Per una buffa circostanza, Topolino e il suo fido Pippo vengono catapultati indietro nel tempo e nello spazio, per finire proprio a Recanati, nell’anno 1829, in casa Leopardi, per fare, l’uno (Topolino), da precettore di Giacomo; l’altro (Pippo), da bibliotecario di Monaldo. Il fumetto rievoca alcuni momenti salienti della vita del poeta (i giochi spensierati della prima infanzia, con i fratelli Carlo e Paolina), e le principali poesie del poeta recanatese, sia pure con una certa libertà, in quanto a date di composizione dei singoli Canti (Ultimo canto di Saffo, Il sabato del villaggio, A Silvia, Le ricordanze, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia, e L’infinito). Inoltre, nella storia si fa pure riferimento allo Zibaldone, con la finzione del manoscritto rinvenuto casualmente.

 

Leopardi & Ranieri: veri detective (2016)

Davide La Rosa, fumettista italiano di genio, capace, cioè, di dar vita a un fumetto che, senza tanta cura estetica, strizzi l’occhio ai più blasonati albi noir. La Rosa mette in pagina, con ironia e bravura fuori dal comune, un giovanissimo Giacomo Leopardi, e il suo amico Antonio Ranieri, nelle vesti, rispettivamente, di detective e di aiutante detective, che riescono a districarsi in una ridda di assassini (quasi tutti scrittori), e di complotti. La copertina dell’albo è firmata anche da Giuseppe Camuncoli, tutto il fumetto, invece, è stato realizzato da Davide La Rosa, con disegni volutamente e vistosamente infantili.

 

Parole rubate (2017)

Storia e sceneggiatura di Pietro Favorito, con disegni di Beniamino Delvecchio (che ha potuto utilizzare alcuni volti noti del cinema italiano, per interpretare tre rispettivi protagonisti della storia: Alessio Boni, Maria Grazia Cucinotta e Claudio Bisio). Questo fumetto imbastisce una spy story intorno a una presunta fonte sconosciuta seicentesca (pugliese) del pessimismo leopardiano (individuando in Scherzi d’ingegno, opera del poeta e medico pugliese Francesco Antonio de Virgiliis, pubblicato nel 1677, la fonte del pessimismo leopardiano). Non esistono, allo stato attuale, prove che possano far ritenere che Leopardi possedesse questo libro, o che l’avesse letto, o consultato, né a Recanati, né altrove. Si tratta, in ogni caso, di una trama appassionante e intrigante, sospesa tra realtà e finzione, tra presente e passato. Storia ricca di colpi di scena, e a confine tra avventura, horror, fantascienza, giallo, narrazione storica. Graphic novel montato con i tempi, e con i colpi di scena, di un thriller.

 

CINEMA, TEATRO (E TV)

 

Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere (1954)

Ermanno Olmi (1931-2018), tra i registi, gli sceneggiatori e gli scrittori più originali e creativi del cinema, della televisione e del panorama culturale italiano contemporaneo, dedicò, giovanissimo, a questa Operetta morale di Leopardi un cortometraggio, in forma di documentario (forma espressiva della quale Olmi si sarebbe rivelato, ben presto, un autentico maestro). Ermanno Olmi, poco più che ventenne, mette in scena, per le strade di una caotica città italiana degli anni Cinquanta, non meglio precisata, un ricco benestante che dialoga con un venditore ambulante di almanacchi.

Chi volesse vedere questo cortometraggio di Olmi, potrebbe fare click sul QR Code seguente:

 

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Ariosto, lo sconfinato

 

È nella seconda cornice purgatoriale, quella dell’invidia, canto XIV, che si legge, in un gioco di specchi rovesciato, la fonte letteraria del celeberrimo incipit dell’Orlando furioso:

 

le donne e ' cavalier, li affanni e li agi 109

che ne 'nvogliava amore e cortesia

là dove i cuor son fatti sì malvagi.

 

[le donne, i cavalieri, le pene della guerra (li affanni), e i piaceri della corte (agi),

a cui ci spronavano amore e cortesia,

in quei luoghi in cui [in Romagna] i cuori sono diventati tanto malvagi]

 

Come non ritrovare, infatti, in questi versi danteschi, la eco di quelli ariosteschi, della prima ottava del Furioso? Esempio di ri-uso pop a rovescio:

 

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, 1

le cortesie, l’audaci imprese io canto,

 

Con la ripresa citazionistica (almeno) dei vocaboli «donne – cavalier – amore - cortesia» (e aggiungerei, a questi, anche i vocaboli affanni, nella forma di audaci imprese, e il dantesco malvagi, che in Ariosto, al successivo v. 5 dell’ottava, diventa ire e furori).

 

Per una rassegna della ricezione, tanto colta quanto pop, del poema ariostesco, nel corso del Novecento, con aperture che giungono fin dentro questi due primi decenni di terzo Millennio, età per la quale citerei, subito, il recentissimo romanzo Furioso. L’ultimo canto, del collettivo Buoncostume (composto da Carlo Bassetti, Simone Laudiero, Fabrizio Luisi e Pier Mauro Tamburini), Edizioni Mondadori (2022), come esempio di singolarissima ri-scrittura in forma di sequel del poema di Ludovico Ariosto, mi rendo conto che correrò il rischio di omettere qualcosa, tanta è, ed è stata, nei secoli, la fortuna multi-codale del Furioso, con sconfinamenti in tutte le arti (pittura, cinematografia, teatro, fumetto, graphic novel, narrazioni di pupi e marionette, fantasy, ecc.), compresa l’odierna dimensione digitale e social (games virtuali, videogiochi, tweet, siti e risorse web dedicate al mondo dell’epica e del Furioso in particolare, giochi di ruolo, tag-cloud, avatar e meta-verso, e tanto altro ancora).

 

Il sentiero che porta a Italo Calvino

Tracce ariostesche sono disseminate in (quasi) tutta la produzione narrativa di Italo Calvino, specie nei primi romanzi, come testimonia già il Sentiero dei nidi di ragno, che è del 1947; ma anche l’onomastica del romanzo (fatto di racconti) Marcovaldo ovvero le stagioni in città, che è del 1963, tanto per citare un’altra sua opera (con i nomi di alcuni protagonisti delle storie che sembrano giunti dal Medioevo: Amadigi, Marcovaldo stesso, e così via). Se si passasse a esaminare, sotto questo profilo di lettura della fortuna e del ri-uso contemporaneo del poema ariostesco, la così detta trilogia degli antenati (Il visconte dimezzato, del 1951; Il barone rampante, del 1957; Il cavaliere inesistente, del 1959), gli esempi sarebbero innumerevoli. Temi e topoi delle Chansons, e dell’Orlando furioso, infatti, vengono ripresi e rivitalizzati da Calvino, in questa sua trilogia, con leggerezza, eleganza e ironia. Agilulfo, il protagonista del breve romanzo Il cavaliere inesistente, s’impone subito all’attenzione (e alla simpatia) del lettore, sin dalla scena iniziale, quella della rassegna delle truppe, che compie meticolosamente, l’imperatore Carlo magno, per la sua, come dire, assenza. Agilulfo è, infatti, armatura vuota, che si tiene in piedi (in vita) grazie a una ferrea volontà, e a una grande fede (in Dio, nella patria, e nell’imperatore). Come testimonianza della lunga fedeltà, nei confronti di Ludovico Ariosto, cito, pure, L’Orlando furioso raccontato da Calvino, che è un’operazione editoriale (e didattica) del 1970, esplicitamente pensato e realizzato per la scuola, per stimolare, cioè, nei ragazzi il piacere per la lettura di un Classico.

 

Il pupo di Bufalino

In questa mia mini-rassegna, aggiungerei di Gesualdo Bufalino il Guerrin Meschino, che è del 1991 (ma che fu pubblicato nel 1993), strutturato in cartelli, così come veniva scandita la narrazione, divisa in scene o quadri narrativi, nell’opera dei pupi. Il materiale della tradizione orale e popolare dell’opera dei pupi, che rinvia non solo a Ludovico Ariosto, ma all’intera galassia delle narrazioni epico-cavalleresche, nelle mani di Bufalino diventava metafora di un sentimento, di una percezione che fu tipica dell’intera produzione di questo scrittore siciliano, sulla dissoluzione progressiva di dominare (e di governare) il destino individuale (e collettivo), con il pupo (narratore) che, via via, rivelava la sua natura, appunto, meschina.

In questa direzione, di ri-uso dell’immenso patrimonio ariostesco e, più in generale, delle narrazioni epico-cavalleresche, citerei anche i seguenti romanzi novecenteschi:

Giuseppe Pederiali, La compagnia della selva bella (1983);

Laura Mancinelli, I dodici abati di Challant, del 1981; Gli occhi dell’imperatore, del 1993; I tre cavalieri del Graal, del 1996; Il principe scalzo, del 1999.

 

Il salto degli Orlandi

Un posto a sé merita Il salto degli Orlandi, del compianto Marco Santagata, che fu pubblicato, per i tipi Sellerio, nel 2007, in forma di autentico (e riuscito) divertimento letterario, da parte di uno tra i maggiori interpreti dei nostri Classici (Petrarca, Dante, Ariosto, e tanti altri), oltre che raffinato narratore in proprio. Questo lungo racconto (o piccolo romanzo) di Santagata agiva efficacemente sul duplice versante, da un lato, del piacere disinteressato per la lettura, e, dall’altro, dell’esercitazione didattica, finalizzata a incuriosire lo studente, attraverso il gioco dello scambio tra un Orlando (quello innamorato), e l’altro (quello furioso), specie se proposto, come lettura, nel secondo anno di un percorso di studi di liceo, al passaggio, cioè, dal biennio iniziale, antologico-grammaticale, al triennio storico-letterario. Santagata, infatti, immaginava, nell’opera, piuttosto banalmente, ma efficacemente, che il protagonista dell’Orlando innamorato, di Matteo Maria Boiardo, saltasse nelle pagine (nel mondo) dell’Orlando furioso, e viceversa, con tutto ciò che un simile duplice salto comportasse, in termini di gioco, di trama, di intreccio, di vicende narrative, di stupore, di spiazzamento, e così via. Da un punto di vista didattico, come strategia di educazione alla lettura, un divertissement simile funziona (e ha funzionato), per dirla in termini spicci, ma efficaci. L’alunno, infatti, con simili operazioni di ri-scrittura inventiva, viene incuriosito e catturato, dalle tante situazioni buffe nelle quali, a specchio, i due Orlandi, nel caso del Salto di Marco Santagata, vengono, rispettivamente, a trovarsi.

Sul versante dei libri per ragazzi, cito, almeno, di Ermanno Detti, la ri-scrittura Segreti di Stato, inserita nel libro Tre casi per il detective Nick Pugnoduro (edito da Manni, nel 2004), che re-inventa l’episodio ariostesco di Astolfo sulla luna, ambientandolo nell’oggi.

 

Ronconi e i fili della narrazione

Anche per la produzione cinematografica, d’impianto epico-cavalleresco, esplicitamente legata al Furioso di Ariosto, o no, che genericamente rinvii al modo epico-cavalleresco, gli esempi potrebbero essere tantissimi. Pertanto, per evitare (imperdonabili) esclusioni, mi limito a citare soltanto tre esempi, due classici, e uno, invece, recentissimo:

L’armata Brancaleone, del 1966, di Mario Monicelli;

Il mestiere delle armi, del 2001, di Ermanno Olmi;

Il pataffio, del 2022, di Francesco Lagi.

Sul versante televisivo, tra i classici del suo genere, è da citare, senza ombra di dubbio, lo sceneggiato televisivo del 1975, a cura di Luca Ronconi, ricavato dal testo teatrale del suo stesso spettacolo del 1969 (scritto con Edoardo Sanguineti), dedicato all’Orlando furioso, con soluzioni di adattamento televisivo che, però, non replicavano più la simultaneità delle narrazioni teatrali (che si tennero in posti, o location, differenti e distanti tra loro della città di Milano, con gli spettatori, confusi e mischiati agli attori, che erano, quindi, chiamati a compiere delle scelte, se seguire o no questo o quell’altro filo narrativo), in ossequio alle diverse linee (o fili, per dirla in modo ariostesco) della narrazione dell’autore. In questo caso, la limitatezza dello strumento televisivo, necessariamente unidirezionale e lineare, mortificava la multi-direzionalità dello stile narrativo di Ludovico Ariosto, reticolare e ipertestuale (e degli stessi Ronconi e Sanguineti, per la versione teatrale). Nella messa in scena televisiva, dunque, vennero meno le due specificità del Furioso teatrale, e cioè la partecipazione attiva del pubblico (che sceglieva quale linea narrativa seguire), e la simultaneità della rappresentazione, con la perdita di quel labirinto visivo, che, invece, a teatro, era stato il punto di forza (rivoluzionario) dello spettacolo.

 

Buttitta e Strehler

Tradizione antica, e molto radicata, sia a livello popolare che colto, in Sicilia, ma, più in generale, in tutta l’Italia meridionale, questa del teatro dei pupi e delle marionette, a impianto epico-cavalleresco (la così detta materia di Francia, con il focus sulle storie di Angelica e di Orlando). A questa tradizione è legato il nome del poeta Ignazio Buttitta, autore di molti testi teatrali, che ha saputo rinnovare l’arte dei cuntastorie girovaghi. Risale infatti al 1956 la collaborazione tra Buttitta e Giorgio Strehler, che portò alla messa in scena, a Milano, dello spettacolo Pupi e cantastorie di Sicilia.

 

Il ciclo paperingio

Tra i classici del fumetto vanno ricordate, innanzitutto, due parodie della Walt Disney:

Paperin furioso, del 1966, parodia disneyana del poema ariostesco, scritta e disegnata da Luciano Bottaro (che già nel 1960, comunque, aveva disegnato Paperino il Paladino, considerata la prima parodia disneyana a tema epico-cavalleresco, dando vita al così detto ciclo paperingio);

Paperin meschino, del 1958, scritta da Guida Martina e disegnata da Pier Lorenzo De Vita, che metteva in parodia il Guerrin Meschino di Andrea Da Barberino (scritto intorno al 1410).

 

Tiziano e Guido Reni

I rapporti tra la pittura e il poema ariostesco sono stati intensi e immediati. È difficile, se non impossibile, quindi, riferire di tutte le trasposizioni pittoriche del poema di Ariosto, o di singole scene, o episodi, oggetto di re-invenzione pittorica (affreschi, cicli, incisioni, ecc.), a opera dei più grandi artisti italiani (e stranieri), del calibro di Tiziano, o di Guido Reni, tanto per fare due nomi soltanto. Pertanto, mi limito a citare, tra le cose più recenti, l’iniziativa voluta e patrocinata dal Comune di Reggio Emilia, tra il 2014 e il 2015, per celebrare i 540 anni della nascita di Ludovico Ariosto (1474), con l’invito rivolto a una cinquantina di artisti contemporanei a re-interpretare il Furioso. Facendo click sul seguente link, è possibile visionare una galleria delle immagini realizzate:

https://www.palazzomagnani.it/exhibition/lorlando-furioso-incantamenti-passioni-e-follie/

 

Segnalo, inoltre, presso il sito Treccani, il progetto «L’Orlando furioso nello specchio delle immagini»:

https://www.treccani.it/catalogo/catalogo_prodotti/edizioni_di_pregio/identita/Orlando_Furioso

 

Canzoni e Big Nomi

Tra le canzoni pop italiane direttamente ispirate al poema ariostesco, cito le seguenti:

L’Orlando, del 1970, di Sergio Endrigo, che mette in scena, con ironia, due voci narrative, quella cristiana e quella musulmana, con la funzione di raccontare, dai due diversi (e opposti) punti di vista, lo stesso evento, e cioè lo scontro tra i due eserciti, ciascuno detentore della propria verità, contro gli «infedeli» (cristiani o musulmani, che siano tali infedeli, a seconda, cioè, del punto di vista preso in considerazione); chi volesse ascoltare la canzone, potrebbe inquadrare il seguente QR Code:

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_421.html

Boccaccio riscritto, tra perbenismo e provocazione

 

La fortuna pop del Decameron di Giovanni Boccaccio, in termini di ri-scritture e di re-invenzioni, iniziò piuttosto presto, se è vero, com’è vero, che una prima testimonianza del successo pop dell’opera di Boccaccio, è ravvisabile già nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti, scritto con molta probabilità tra il 1392 e il 1400, anno di morte dello scrittore. Nel proemio alla sua raccolta di novelle, infatti, Sacchetti dichiarava l’intenzione di assumere il Decameron di Boccaccio come modello (e si poneva, ovviamente, in gara con esso). Dunque, un destino pop immediato, quello del Decameron di Giovanni Boccaccio, anche se contraddittorio, visto che, già nel Cinquecento, il solo Boccaccio delle cornici (non certo quello delle novelle) veniva indicato da Pietro Bembo (1470-1547), nelle Prose della volgar lingua (1525), come modello di scrittura, da imitare (individuando, invece, per la poesia nel Canzoniere di Francesco Petrarca l’altro modello di scrittura); e visto che, nel contempo, Giovanni Boccaccio entrava immediatamente, proprio per il Decameron, nell’Indice dei libri proibiti (Index librorum prohibitorum), celeberrimo elenco di opere la cui lettura era vietata, redatto dalla Chiesa cattolica nel 1559, per volontà di papa Paolo IV. Come ulteriore testimonianza dell’immediato e larghissimo successo pop del Decameron, sempre relativamente al XVI secolo, cito Pietro Aretino (1492-1556), scrittore e poligrafo, che, in due sue opere a impianto dialogico, ma con molte novelle inserite nel tessuto narrativo, e cioè il Ragionamento della Nanna e della Pippa, e il Dialogo nel quale la Nanna insegna alla Pippa sua figliuola, rispettivamente del 1534 e del 1536, esplicitamente citava Giovanni Boccaccio e il Decameron, assunto a modello narrativo (non soltanto da imitare, ma anche da superare), indipendentemente dal suggerimento “alto” di Pietro Bembo.

Infine, cito pure, sempre a testimonianza della fortuna pop del Decameron di Boccaccio, già nei primi secoli della letteratura italiana, Lucilio Minerbi, romano di nascita ma attivo a Venezia, che pubblicò un Vocabulario dell’opera di Boccaccio, organizzato in ordine alfabetico, e collocandolo in apertura all’edizione del 1535 del Decameron, a uso dei lettori.

 

Il Dante di Boccaccio…

Per il ri-uso pop odierno del Decameron, e, più in generale, di Giovanni Boccaccio, partirei dall’ultima opera uscita nelle sale cinematografiche, che rilancia il mito (e la fortuna) dello scrittore di Certaldo, e cioè il film di Pupi Avati, Dante (2022). Com’è noto, il film è stato ricavato da Pupi Avati da un suo stesso precedente romanzo, L’alta fantasia, edito per i tipi Solferino, a Milano, nel 2021, con un sottotitolo molto esplicativo, e cioè «Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante». Romanzo e film ricostruiscono, tra storia e fantasia, la missione che effettivamente compì Giovanni Boccaccio, nel 1350, per conto dei Capitani della Compagnia fiorentina dell’Orsanmichele, con l’incarico di consegnare alla figlia di Dante Alighieri, suor Beatrice, a Ravenna, una somma, pari a 10 fiorini d’oro, a titolo di risarcimento (morale, ancorché tardivo), per l’ingiusta condanna e l’altrettanto ingiusto esilio, patiti dal padre. È pure noto a tutti che Giovanni Boccaccio dedicò a Dante Alighieri un Trattatello in laude, scritto, probabilmente, tra il 1351 e il 1365, ricco di notizie, sulla vita di Dante, comprendente una orgogliosa giustificazione per l’utilizzo del volgare, da parte di Dante, in quanto scelta forte e innovativa, nella scrittura del poema, ma anche ricco di informazioni, che oggi definiremmo autentiche fake-news, sulla vita del poeta e sulla stessa storia del poema. Boccaccio scrisse pure le Esposizioni sopra la Comedia, nei suoi ultimi anni di vita; tenne pubbliche letture su alcuni canti dell’Inferno dantesco, fino al canto XVII, per conto del Comune di Firenze, presso l’Abbazia fiorentina di Santa Maria, dalle parti del Bargello, interrotte bruscamente per l’aggravarsi della sua condizione di salute.

 

e il Boccaccio di Pupi Avati

Il film di Pupi Avati, dunque, Dante, e il suo romanzo, L’alta fantasia, dal quale il regista stesso ha tratto la sceneggiatura, sono da intendere come testimonianze pop relative a Giovanni Boccaccio (e non a Dante). Sempre per il cinema, ispirato più o meno direttamente al Decameron, va citato, nella gran massa delle pellicole realizzate, specie in Italia, nella seconda metà del XX secolo, almeno, Maraviglioso Boccaccio, dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, uscito nelle sale nel 2015, che propone allo spettatore una scelta di cinque novelle, tratte dal Decameron. Scelta molto diversa, questa dei fratelli Taviani, rispetto a quella operata da Pier Paolo Pasolini, nel 1971, per il suo film Decameron, realizzato come primo episodio della così detta Trilogia della vita (che vide, nel 1972, l’uscita del film I racconti di Canterbury, e nel 1974 Il fiore delle Mille e una notte). Nel caso del film di Pasolini, le novelle furono dieci (l’episodio intermezzo sull’allievo di Giotto, interpretato dallo stesso Pasolini, era diviso in due momenti), con la sola coincidenza, rispetto alla scelta delle novelle fatta dai fratelli Taviani, per la novella 2 della IX giornata, quella relativa alla badessa e alle brache del prete.

 

Boccacciano e boccaccesco

Ad ogni modo, resta contraddittoria, proprio perché oscillante tra divieto perbenista e ostentazione provocatoria, la presenza, pur larga, specie a partire dagli inizi del Novecento, del Decameron, nelle ri-scritture pop contemporanee, con particolare riferimento al teatro (leggero) e al cinema. Di differente qualità, infatti, le trasposizioni che si son date, tra caricatura (anche becera e plebea), trasposizioni, contaminazioni, adattamenti, attualizzazioni, storpiature comico-ludiche, trasgressioni erotiche, e così via. Nel lessico comune, per esempio, a seguito di tutto questo fiorire, nel corso del Novecento, di ri-scritture pop, l’aggettivo boccaccesco, è stato percepito, nell’immaginario collettivo, come sinonimo di licenzioso, scurrile, salace, ed è stato, quindi, sostituito, in sede scientifica, dal più neutro boccacciano, proprio per sganciare dalla precedente voce la figura e, soprattutto, l’opera, di Giovanni Boccaccio. La gran mole di trasposizioni e rifacimenti cinematografici, che rinviano, o che, genericamente, si rifanno al Decameron, sono, in termini di quantità, secondi soltanto alla Bibbia.

 

Martin Mystère a Certaldo

Una curiosa incursione fumettistica nel mondo di Giovanni Boccaccio, che mi piace segnalare, è l’albo n. 148 del fumetto «Martin Mystère», intitolato Decameron!, uscito nel mese di luglio del 1994, che narrava di un misterioso manoscritto inedito di Boccaccio, che, quindi, costringeva il protagonista, il detective dell’impossibile Martin Mystère, appunto, a recarsi a Certaldo, per indagare, su improbabili congegni, che permetterebbero di volare, e su di un favoloso tesoro nascosto. Nessun fumetto della Disney è dedicato al Decameron (stando alla mia ricognizione). Come pure, in sede di monumentalizzazione dell’autore, a dimostrazione della scarsa (se non nulla) forza, o suggestione, come dire, educativa, di Giovanni Boccaccio, se si esclude la toponomastica, che, in vero, risulta piuttosto diffusa, di borgo in borgo e di città in città, il suo nome è quasi del tutto assente, ad esempio, nelle denominazioni di scuole, o di istituti scolastici. È attestata, infatti, una sola intitolazione, a Firenze, per una scuola elementare, a lui dedicata. Per il resto, assolutamente nulla, in nessuna contrada della nazionale italiana. A fronte, invece, delle circa quattrocento scuole, d’ogni ordine e grado, intitolate a Dante Alighieri; e delle sessanta scuole intitolate a Francesco Petrarca. Tanto per limitarci, sotto questo profilo, della presenza simbolica, cioè, attraverso le intitolazioni di edifici pubblici scolastici, alle tre corone della nostra patria letteraria. Giovanni Boccaccio, quindi, non gode di questa monumentalizzazione, perché, evidentemente, viene percepito (ancora) come autore scandaloso, da non indicare, quanto meno nelle intitolazioni di scuole.

 

Romanzi

In ambito romanzesco, tra i progetti letterari più recenti, in tema di re-invenzione e di ri-scrittura pop del Decameron, segnalo i seguenti titoli:

 

- L’allegra brigata, del 2020, curato da Emanuele Trevi, Neri Pozza Editore, con sette scrittrici e tre scrittori, che, in condizione di pandemia da Covid-19, provano a trovare consolazione nel rifugio virtuale della scrittura; per dieci giorni, infatti, attraverso un collegamento digitale, via computer, ispirandosi ai temi delle giornate del Decameron, i dieci scrittori si raccontano storie, a turno, all’interno di un locus amoenus virtuale (digitale); il risultato è confluito, appunto, in un’antologia che potrei definire Decameron 2.0;

- Nuovo Decameron, del 2021, per i tipi HarperCollins, con il concorso di dieci scrittrici e scrittori contemporanei, che si sono cimentati con la ri-scrittura del capolavoro di Boccaccio; l’esperimento letterario che ne è nato, dettato dalla triste cornice della pandemia da Covid-19, che ha costretto, a livello globale, tutti a restare chiusi in casa, per confinamento, è stato quello di sostituirsi, con piena libertà inventiva, ai dieci narratori medievali, oscillando tra fedeltà e tradimento, rispetto al testo del Decameron; ma anche con re-invenzioni linguistiche, con capovolgimenti, con adattamenti al contemporaneo, e così via;

- Decameron project, del 2021, NN Editore, anch’esso legato alla situazione di reclusione forzata dovuta alla pandemia da Covid-19, con ventinove autori selezionati dagli editor del «New York Times Magazine», che hanno dato vita a racconti e a testimonianze di un tempo straordinario, quello, appunto, della reclusione forzata, annoverando firme prestigiose, di grandi autori, come, per esempio, tra gli altri, quella di Margareth Atwood, ovvero, quella del nostrano Paolo Giordano;

- Boccaccio noir, di Sergio Conca Bonizzoni, del 2022, Leone Editore, è una re-invenzione in chiave noir del capolavoro di Boccaccio, con l’allegra brigata che, in questo gioco letterario, immaginato da Conca Bonizzoni, autore non nuovo a simili esperimenti creativi, è chiamata a fare i conti con un qualcosa di macabro e di oscuro, che serpeggia tra di loro, e che proprio la situazione paradossale della peste, con la forzata convivenza, avrebbe contribuito a far emergere.

 

Bibliografia di riferimento

Nella vastissima bibliografia scientifica boccaccesca, specie intorno al Decameron, mi limito a segnalare, proprio perché coerente con la mia particolare prospettiva di lettura pop dei Classici italiani, che sto provando a proporre, in questi miei interventi, il saggio di Marco Bardini, Boccaccio pop. Usi, riusi e abusi del Decameron nella contemporaneità, ETS, Pisa 2021, per l’analiticità e per la vastità della ricerca, e per il taglio anche irriverente (e arguto) della sua scrittura.

 

 

La serie Classici della letteratura italiana in salsa pop è curata e scritta da Trifone Gargano.

Qui l’elenco degli articoli già pubblicati:

Dante, cento selfie dall’aldilà

 

Immagine: Screenshot dal film Maraviglioso Boccaccio (2015), di Paolo e Vittorio Taviani

 

/magazine/lingua_italiana/speciali/SpaesaMenti/2_Gargano.html

«Matto è chi spera»

 

Il titolo di questo mio intervento rinvia esplicitamente al verso 34 del canto III del Purgatorio dantesco, al problema della fisicità delle anime, che, nonostante la loro natura non più corporea, soffrono pur tuttavia tormenti fisici. La questione è stata affrontata e dibattuta più volte, sia dalla critica dantesca, che, soprattutto, da quella teologica, nel tentativo di conciliare, appunto, il fuoco reale, di cui si legge nella Scrittura, e al cui tormento sono sottoposte le anime (temuto anche da Dante: «e io temëa l foco» [Pg, XXV, 116]), con la così detta teoria dell’anima separata, dell’anima cioè divisa dal corpo, che resta in terra, al momento della morte, elaborata da Dante (nel successivo canto XXV del Purgatorio). Dante, in qualche modo, pone (e liquida), per bocca di Virgilio, con l’espressione «matto», il problema della fisicità delle anime, già in questo canto III, con due terzine fulminanti, entrambe degne di un tweet contemporaneo:

 

A sofferir tormenti, caldi e geli

simili corpi la Virtù dispone

che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.

 

Matto è chi spera che nostra ragione

possa trascorrer la infinita via

che tiene una sustanza in tre persone.

 

La follia come insensato

Come si può ben notare, Virgilio apre e chiude la questione, senza alcuna possibilità di replica. Trattasi di mistero divino, a noi inconoscibile. Virgilio, cioè la ragione umana, prende atto della propria impotenza. Di conseguenza, egli giudica folle (matto) colui che s’illude di penetrare tale mistero, ricorrendo alla sola ragione. Tanto è vero che Dante, nel canto XXV del Purgatorio, farà trattare la questione, in modo esaustivo, non più a Virgilio, ma a Stazio, anima che ha quasi ultimato il suo cammino purgatoriale, e che, quindi, si appresta a salire al Paradiso celeste. Stazio come voce, evidentemente, più degna di quella di Virgilio, che può, cioè, affrontare, con parole (quasi) definitive, la questione della fisicità delle anime. Del resto, in quella circostanza, è lo stesso Virgilio a chiamare in causa Stazio, e a concedergli la parola, ammettendo, di fatto, l’incapacità della sola ragione umana a penetrare certi misteri: «ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego / che sia or sanator de le tue piaghe» (Pg. XXV, 29-30).

Dunque, la prima declinazione di «follia», in Dante, è proprio quella di “insensato”, “dissennato”, “stolto”. I luoghi danteschi, a sostegno di questa prima declinazione della parola «follia», che potrei citare, sarebbero tanti, sia all’interno del poema, che attingendo ad altre opere dantesche, dalle

Rime, alla Vita nuova. Del resto, «folli» son detti Paolo e Francesca («che la ragion sommettono al talento», If. V, 39), e folli son detti pure gli spiriti amanti del terzo cielo, il «folle amore» (Pd. VIII, 2), Cunizza, Folco e Raab. Ma potrei continuare, con altre anime, per esempio, con quelle anime che, in vita, si lasciarono trascinare dalla superbia, o dall’invidia, come Sapia, nella seconda cornice purgatoriale, che si autodefinisce «folle», a dispetto del suo stesso nome, che, invece, dovrebbe rinviare a un’idea di saggezza: «odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle» (Pg XIII, 113). Superbia, invidia, ira, accidia, avarizia (e prodigalità) sono, infatti, colpe gravi, collocate da Dante, nel suo Purgatorio, nelle prime cinque cornici, in quanto vizi sociali, non semplici colpe individuali.

 

La follia come temerarietà

Una seconda declinazione della parola «follia», in Dante, è quella del canto XXVI dell’Inferno, il canto di Ulisse: «de’ remi facemmo ali al folle volo» (If. XXVI, 125). La follia di Ulisse è la temerarietà. La sua colpa, infatti, risiede nell’essersi affidato totalmente alla sola ragione umana, pur mosso da una insopprimibile (e nobile) sete di conoscenza («a divenire del mondo esperto», v. 98), per seguire il suo «ardore», il suo desiderio di conoscenza, sia sul mondo, che sugli uomini (conoscerne vizi e virtù), mettendosi, però, in acque, forse, troppo aperte, per lui. Dante stesso, all’altezza di Paradiso XXVII, ricorderà e sottolineerà nuovamente la colpa di Ulisse: «il varco / folle di Ulisse» (vv. 82-3). Eppure, proprio il suo essere andato oltre il “limite”, fa di Ulisse un personaggio totalmente moderno. Se è vero, com’è vero, che molti artisti e interpreti contemporanei, della canzone pop italiana (e non solo italiana), si rifanno proprio alla sua (folle) idea di varcare lo “stretto”, per tracciare una via. Alludo, per esempio, a Ermal Meta, e al testo della canzone Un pezzo di Paradiso, del 2016 (inserita nell’album «Umano»):

 

E chissà dove finisce il mare

Dove la gente traccia il suo confine

Oltre il quale non ci sono strade

Dove non chiudi gli occhi per sognare

 

Nella mia citazione, torna, dunque, il motivo del limite da oltrepassare, esattamente come le colonne d’Ercole oltrepassate da Ulisse. Segnalo pure, in questa operazione di ri-scrittura e di re-interpretazione della figura e del mito di Ulisse, la canzone Nostos, di Vinicio Capossela, del 2011, inserita nell’album doppio Marinai, profeti e balene.

 

Alla follia come dissennatezza, sono riconducibili i versi iniziali (direi, per intero, le prime quattro terzine) del canto XI del Paradiso:

 

O insensata cura de’ mortali,

quanto son difettivi silogismi

quei che ti fanno in basso batter l’ali!

[vv. 1-3]

 

L’affanno umano, dice Dante in questi versi incipitari, con tono solenne e alto, è totalmente dissennato e vano (folle). Non a caso, queste parole vengono pronunciate in uno dei canti del Sole, il cielo degli spiriti sapienti, precisamente, il canto di san Francesco, con tutto ciò che questo comporta, in quanto a modello di vita (e di santità), nella visione dantesca (e cristiana) dell’umanità. All’uomo (folle) sfuggono le cose essenziali, ed egli si perde in occupazioni vane.

 

Nel canto primo del Purgatorio, possiamo leggere di un’altra declinazione della parola «follia», in un contesto di semplice comunicazione argomentativa. Virgilio, infatti, rivolgendosi a Catone, che sbarra l’accesso al secondo regno ai due poeti, gli chiarisce che Dante è ancora vivo, anche se è stato, per colpa della sua «follia», lì lì per morire, e che quindi deve proseguire il viaggio, attraversando il Purgatorio, in ragione di una grazia speciale:

 

Questi non vide mai l’ultima sera;

ma per la sua follia le fu sì presso,

che molto poco tempo a volger era

[vv. 58-60]

 

Per quanto riguarda la terza cantica, il Paradiso, in essa, non mancano, certo, le ricorrenze della parola «follia», con varie attestazioni della sua presenza, e di quelle delle sue diverse declinazioni, come ho pur sommariamente dimostrato, con le mie precedenti citazioni proprio dal Paradiso (e come pur si potrebbe fare, con una puntuale rassegna lessicale, sul testo della terza cantica ), ma è il concetto di follia come dissennatezza, come smarrimento della «diritta via», tanto per utilizzare una celeberrima espressione dantesca, che qui, in Paradiso, via via, scompare (quasi) del tutto. Le anime del Paradiso, infatti, sono sante, non manifestano più orgoglio, superbia, invidia, ecc., fino alla colpa estrema dello smarrimento (se non della perdita) della fede. In Paradiso VII, al verso 93, ricorre la parola «follia», a indicare, appunto, la superbia umana, la sua presunzione di farsi simile a Dio: «o che l’uom per sé isso / avesse soddisfatto a sua follia». Come pure, volendo fornire ancora un esempio della presenza del vocabolo «follia» in Paradiso, nel canto XXVII, Dante, discutendo con san Pietro, cita proprio il «varco / folle» di Ulisse. Il tono complessivo della cantica, però, e la disposizione delle anime, soprattutto, come ho già precisato, soni radicalmente (e definitivamente) mutati.

 

Bibliografia di riferimento

Bosco, U., Dante vicino, Caltanisetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore 1966, pp. 55-75.

De Martino, D., La follia femminile da Dante a Manoel de Oliveira, in M. Martín Clavijo, M. González de Sande, D. Cerrato & E. M. Moreno Lago (editores), Locas, Escritoras y personajes femeninos questionando las normas, (pp. 441-452).

Gargano, T. (a c. di), Divina Commedia, testo integrale con parafrasi, Progedit, Bari 2021.

Favati, G., Follia, in «Enciclopedia Dantesca», Treccani, Roma 1970.

 

Per chi volesse ascoltare la canzone di Ermal Meta, Pezzi di Paradiso, e quella di Vinicio Capossela, Nostos, ecco i rispettivi link qui riprodotti:

Meta, Pezzi di Paradiso: https://www.youtube.com/watch?v=u1aUr9iUXaI

Capossela, Nostos: https://www.youtube.com/watch?v=kZaGaQQTpwk

 

Immagine: Priamo della Quercia, illustrazione al Canto XXVI, via Wikimedia Commons

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_413.html

Dante, cento selfie dall’aldilà

 

Classico è quel testo che è capace, a distanza di secoli, di continuare a ispirare artisti e intellettuali, e che è presente, quindi, nei diversi codici espressivi contemporanei, dal fumetto, alla canzone pop e rock, ai romanzi, ai selfie, ai brand alimentari, agli stili comunicativi social, fulminanti, sentenziosi e arguti (tweet e post), ai videogiochi, ecc. Classico, dunque, come lievito, o, per dirla con le parole di Dante, Classico è quella «poca favilla», quella scintilla, che scatena un incendio (che «gran fiamma seconda»). L’influenza della Commedia sull’immaginario degli artisti contemporanei è stata ed è imponente. Fonte per citazioni preziose, ma anche paradigma interpretativo per i traumi, le angosce, le aspirazioni, e le speranze della nostra età.

 

Nella Divina Commedia, su un totale di ben 4711 terzine, sono presenti 3422 periodi. Di questi periodi, ben 2152 si chiudono nello spazio di una sola terzina. Su due terzine, invece, si chiudono 774 periodi; su tre, 174. La singola terzina consta di poco più di 100 caratteri (spazi bianchi inclusi). Ben al di sotto del limite massimo di 140 battute, suggerite come protocollo comunicativo da Twitter. Per i periodi formati da due terzine, invece, il protocollo comunicativo di riferimento è quello di Facebook (260 battute). Dunque, abbiamo un Dante scrittore social prima degli odierni social network, capace cioè di scrivere in modo arguto, veloce e fulminante. Le sue sono «terzine fulminanti», tweet fulminanti. Applicando questo mio metodo di lettura al canto I dell’Inferno, classificherei, al suo interno:

- tweet: 22 terzine (sintassi e metro in 1 sola terzina)

- post: 7 doppie terzine (sintassi e metro su 2 terzine)

- flame: 3 casi di sequenza ternaria (sintassi e metro su 3 terzine).

 

Inoltre, suggerisco di vedere nei 100 canti del poema dantesco, ben 100 selfie dell’aldilà. Nel canto X del Purgatorio, Dante utilizza l’espressione «visibile parlare» (v. 95), per alludere alle sculture presenti lungo la parete rocciosa delle sette cornici, a completamento visivo della sua narrazione. Dante, cioè, nel suo poema, fissa per l’eternità peccatori, purganti e beati, grazie a veri e propri scatti da selfie, capaci, cioè, di renderli riconoscibili ai lettori di tutti i tempi. Ciacco è immerso nel fango, da goloso; Paolo e Francesca sono abbracciati, tra i «peccator carnali»; Manfredi, principe negligente, biondo, bello e di gentile aspetto, mostra la sua ferita; il conte Ugolino rosicchia la testa dell’arcivescovo Ruggieri, nel Cocito ghiacciato; Cunizza, Folco e Raab ridono felici, tra i folli amanti del cielo di Venere; l’invidiosa Sapìa ha le palpebre cucite con il filo di ferro; e così via. Dunque, 100 selfie, per 100 canti.

 

Fumetti dall’Inferno

Il fumetto è un mezzo di comunicazione di massa che si avvale di testo e di immagini, per dar vita ad un racconto in sequenza. Ecco alcuni esempi di trasposizione in fumetto del Classico per eccellenza della letteratura italiana. L’Inferno di Topolino della Walt Disney, sceneggiatura a cura di Guido Martina e disegni di Angelo Bioletto, fu pubblicato per la prima volta, a puntate, su «Topolino» dall’ottobre del 1949 al marzo del 1950. Le vignette di questo fumetto presentano una didascalia composta da una, o da più terzine, liberamente ispirate al testo di Dante, sia per lo stile, che per il contenuto. Qualche decennio dopo, nel 1987, arrivò l’Inferno di Paperino, con uno sforzo di re-invenzione della struttura dell’Inferno dantesco, attualizzandone l’ordinamento morale, i peccati e il relativo contrappasso: inquinatori, burocrati, piromani, automobilisti, tele-radio-dipendenti, ecc.

 

Un progetto organico di trasposizione in fumetto dell’intero poema dantesco è quello di Marcello Toninelli, che ha trovato compimento, rispettivamente, negli anni 2004 (l’Inferno), 2005 (il Purgatorio) e 2006 (il Paradiso). Trasposizione che segue i due criteri della sintesi e della parodia. A Dante, Toninelli ha dedicato anche un albo biografico. È da citare pure la versione manga della Divina Commedia, a cura di Go Nagai (uscita nel 1993, e ristampa di recente). Il tratto del disegno di questa edizione manga del capolavoro dantesco deve però molto alle classiche tavole del francese Gustave Doré, che, nella seconda metà dell’Ottocento, illustrò l’intera Divina Commedia. Con la traduzione di Fiorenza Conte, le edizioni Quodlibet hanno pubblicato il graphic novel del maestro statunitense Seymour Chwast, La Divina Commedia di Dante. Inferno Purgatorio Paradiso (2019), uscito in lingua originale nel 2010. Versione decisamente spiazzante del viaggio ultraterreno di Dante (anche qui, in molte tavole, s’intravede la memoria visiva di Gustave Doré). Nello stile tipicamente irriverente e pop, Dante è ritratto nelle vesti di un detective, con tanto di impermeabile, occhiali da sole, pipa, e usa modi piuttosto spicci. Il maestro e duca Virgilio, a sua volta, indossa i panni di un aiutante di polizia: baffetti, completo nero, papillon, bombetta e bastone.

Il celeberrimo episodio dei «peccator carnali» (If., V, 38), nell’albo L’Inferno di Topolino del 1949-50, non era presente. Solo nel 1980, sul n. 1261 di «Topolino», verrà pubblicata, infatti, la breve storia di Paolino Pocatesta e la Bella Franceschina, per recuperare quella lacuna (censura). Nel bel fumetto A riveder le stelle, di Milo Manara (Mondadori, 1999), con chiara destinazione di lettori di fascia adulta, viene esaltata la «bella persona» di Francesca.

 

Romanzi e gelati

Molti sono i romanzi danteschi usciti, in Italia, dal 2000 a oggi, in quanto esempi di re-invenzione narrativa di passi, personaggi e situazioni del poema, o della vita del poeta. Potrei indicare in Giulio Leoni e nel romanzo Dante Alighieri e i delitti della Medusa, A. Mondadori (2000), il fortunato e primo esempio di questa lunga serie di romanzi danteschi. Dante (e la Commedia) sono presenti pure nei brand alimentari. Bene ha fatto, allora, la «Algida», per la linea Magnum, a celebrare i 700 anni della morte di Dante Alighieri (1321-2021), con la proposta di tre edizioni limitate di gustosissimi gelati: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Nella Commedia, il cibo (con valenza reale, ma anche magico-simbolica) è molto presente, sia attraverso le immagini del bere e del mangiare, sia come fame e sete di conoscenza. Nella Commedia, infatti, sono presenti citazioni di piatti e pietanze: il pane senza sale di Firenze, le anguille del lago di Bolsena, la Vernaccia, il vino di cui era ghiotto papa Martino IV, tra i golosi del Purgatorio, gli alberi rovesciati e carichi di frutta dei golosi purgatoriali, ecc. Nel 1921, la «Magnesia San Pellegrino» aveva messo in vendita una curiosa confezione dell’omonimo (e celeberrimo) purgante, recante stampati, sulla tradizionale scatoletta di latta, l’immagine di Beatrice, e un motto (con funzione di réclame) che, in realtà, era la citazione di un verso tratto dal canto II dell’Inferno, e cioè: I’ son Beatrice che ti faccio andare (If., II, 70). La trovata pubblicitaria suscitò la divertita reazione dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione, il filosofo napoletano Benedetto Croce.

 

All’interno del vasto fenomeno del dantismo creativo, un posto di rilievo viene occupato dalla musica pop e rock, nella quale Dante è molto presente, e riesce ancora oggi a ispirare interpreti e artisti contemporanei. Musicisti e cantautori, infatti, si sono cimentati (e continuano a farlo) con ri-scritture e con re-invenzioni del poema dantesco, contribuendo, così, a rinnovare, e a rilanciare, il mito di Dante, fin dentro il nostro (tormentato) tempo. Cito soltanto, qui, per ragioni di sintesi, la prima di queste canzoni, che risale al 1960, e che inaugura il fenomeno: la canzone Una zebra a pois, cantata da Mina, che fu inserita nell’album Il cielo in una stanza, secondo album ufficiale della cantante. Dante e Beatrice vengono citati nel preambolo della canzone. Canzoni e Autori, e sono più di cento, che potrei citare, da De André a Venditti, da Vecchioni a Jovanotti, da Caparezza a Ligabue, da Guccini a Bennato, da De Gregori a Carone, da Nannini a Capossela, da Vavolo a Murubutu, o a Meta, e a tanti altri ancora, citano direttamente e re-inventano episodi, personaggi e versi del poema dantesco.

 

Gabbani, Avati e Paperone

In conclusione, dunque, sul versante delle ri-scritture pop, cito tre esempi, in ordine cronologico:

1. la canzone Peace & love, di Francesco Gabbani, uscita nel mese di maggio del 2022, ri-usa, nel suo pirotecnico testo, un verso del canto XXVI dell’Inferno (il celeberrimo «fatti non foste a viver come bruti», pronunciato da Ulisse, come monito, piuttosto inascoltato, ahinoi, a condurre un’esistenza seguendo le virtù e la conoscenza, e non, piuttosto, come invece accade ancora oggi, violenza e guerra)

2. il film Dante, di Pupi Avati, uscito nelle sale ai primi di ottobre 2022 (tratto da un romanzo dello stesso Avati, L’alta fantasia, Solferino, Milano 2021, che racconta del viaggio fatto da Giovanni Boccaccio nel 1350, sulle orme di Dante, per incarico del Comune di Firenze, che lo inviò a Ravenna, dalla figlia del poeta, Antonia, poi, suor Beatrice, con una somma di scudi d’oro da donarle, in forma di tardivo e postumo risarcimento morale, per l’ingiusta condanna del 1302, e l’esilio patito dal poeta per tutto il resto della sua vita). Il libro e il film di Avati seguono, ovviamente, la fabula del Trattatello in laude di Dante, scritto da Boccaccio nel 1362, primo profilo biografico di Dante (nel film di Avati, Sergio Castellitto interpreta Boccaccio, e Alessandro Sperduti Dante)

3. la nuova, incredibile, avventura Disney, Zio Paperone e il CI canto della Commedia, soggetto e sceneggiatura di Alessandro Sisti, disegni di Alessandro Perina (albi 3434 / 3435 / 3436 / 3437 del 2021). La storia, ambientata in diverse città italiane (Firenze, Padova, Bologna, ...), che è collocata tra il nostro presente, e gli anni dell’esilio dantesco (dal 1302 al 1321), racconta dell’avventurosa caccia di un misterioso e sconosciuto CI canto della Commedia, mai pubblicato. Si tratterebbe, dunque, dell’autografo di un canto andato smarrito, per il quale zio Paperone ha fiutato l’affare. Il fumetto, in effetti, allude alla dibattutissima questione dell’autografo dantesco, che, nel corso dei secoli, ha impegnato fior di studiosi, ma pure alcuni romanzieri.

 

 

Bibliografia di riferimento

 

Per la questione dell’autografo della Commedia, rinvio alla lettura dei due romanzi qui citati:

Manfredi, V.M., L’isola dei morti, Marsilio, Venezia 2004

Tosches, N., La mano di Dante, Mondadori, Milano 2002

 

Per la presenza di Dante nei testi delle canzoni pop, e, più in generale, dei codici espressivi contemporanei:

Gargano, T., Dante pop e rock, Progedit, Bari 2021

Virtute e c@noscenza, Antologia della Commedia di Dante (a c. di T. Gargano), Editori Laterza, Bari-Roma 2010

La “Divina Commedia” in 100 selfie (a c. di T. Gargano e con illustrazioni di M. Roberto), Progedit, Bari 2021.

 

 

Immagine: Tratta da https://www.youtube.com/watch?v=GutbQwKtMlA, dal film Dante (2022) di Pupi Avati

 

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Pasolini, Barbiana e l’epistolografia di don Milani

 

L’immagine che tutti abbiamo, vivida, nella nostra mente (e nei nostri cuori) di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è quella del corsaro, del provocatore. L’immagine, cioè, del Pasolini fustigatore della società (degradata e volgare) dell’Italia della prima metà degli anni Settanta, attraverso le colonne del «Corriere della sera». Fustigatore severo (e mai cinico) dell’Italia del così detto boom economico, delle sue mille contraddizioni (sulle quali pochissimi altri intellettuali acuti come lui erano riusciti a mettere gli occhi, per farle emergere, preferendo, piuttosto, far finta di nulla, ignorarle e cantare le lodi di un progresso economico che, però, come denunciava Pasolini, non procedeva di pari passo con acquisizioni di civiltà), delle prime avvisaglie del terrorismo (rosso e nero), delle devastanti e sanguinose stragi (che, poi, avremmo imparato a definire, con amara consapevolezza, come stragi di Stato, rimaste impunite ancora oggi, a distanza di più di cinquant’anni).

 

«Il vuoto del potere»

Apparso sul «Corriere della sera», il primo febbraio del 1975, con il titolo «Il vuoto del potere», l’articolo, oggi, è universalmente conosciuto come l’apologo della «scomparsa delle lucciole». In questo scritto corsaro, Pasolini dichiarava tutta la sua amarezza per l’irreversibile trasformazione dell’Italia rurale e contadina, sacrificata in nome e sull’altare del progresso industriale. La denuncia per la scomparsa delle lucciole apparve come una sottolineatura quasi romantica, se non ingenua, che, però, Pasolini interpretava come il segnale più evidente della irrimediabile fine della civiltà contadina. La morte di un mondo come morte di una visione della vita, e di una idea dei rapporti umani. A suo giudizio, infatti, con la scomparsa delle lucciole, in realtà, si perdeva tutto un tessuto millenario di stile delle relazioni umane, lasciando il posto alla violenza della cultura del consumismo. Il suo grido di allarme, forse, ingenuo, in realtà, era un drammatico e profetico atto di denuncia, fatto con decenni di anticipo, rispetto a tutti gli altri. Intellettuale scomodo e mai intruppato con una parte, sempre libero e capace di denunciare, in modo profetico e lucido, devastazioni e aberrazioni, che soltanto decenni dopo sarebbero diventate acquisizioni consapevoli di massa.

 

Un iniziale fastidio

Di don Lorenzo Milani, e dell’esperienza della Scuola di Barbiana, Pasolini si occupò direttamente nel 1967, allorquando, cioè, fu invitato, dai ragazzi di Barbiana, dopo la morte del priore (avvenuta il 26 giugno 1967), a tenere un intervento presso la Casa della Cultura di Milano nell’ottobre del 1967, dal titolo La cultura contadina della scuola di Barbiana (poi pubblicato, nel gennaio del 1968, nel fascicolo IV della rivista «Momento», e oggi disponibile nel Meridiano Mondadori dedicato ai Saggi sulla politica e sulla società). L’attenzione di Pasolini si concentrava sul testo della celeberrima Lettera a una professoressa, confessando di averlo sfogliato e letto «qua e là», esattamente come si fa, con impazienza, dinanzi a un libro del quale si percepisce la grandezza. Pasolini confessava subito, e senza mezzi termini, di aver provato una iniziale irritazione:

 

[...] ero infastidito dalla eccessiva facilità delle parole, da un certo «neo-pascolianesimo»

(cito dall’edizione Mondadori: p. 830)

 

Questo iniziale fastidio, comunque, svaniva subito dopo, poiché, qualche rigo sotto, Pasolini affermava di essersi trovato in uno dei più bei libri che avesse mai letto: «un libro straordinario, anche per ragioni letterarie» (p. 831). Pasolini, inoltre, affermava di aver scorto, nel testo di Lettera a una professoressa, quella ch’egli giudicava come una delle definizioni più belle della letteratura, che avesse mai letto, e cioè: «la poesia sarebbe un odio che una volta approfondito e chiarito diventa amore» (ibidem).

 

L’analisi del testo e dello stile

Allargando l’analisi del testo e dello stile, Pasolini notava che, a suo giudizio, in questo scritto donmilaniano, mancasse quella consueta dissociazione ch’egli, invece, rintracciava in molti altri autori cattolici, e, in modo analitico, negli scritti di due papi, Giovanni XXIII e Paolo VI, tra encicliche e scritti privati:

 

quando essi parlavano in privato, scrivevano in un modo, quando parlavano in pubblico, scrivevano in un altro modo

(ibidem)

 

In don Milani, invece, annotava Pasolini con soddisfazione, questa dissociazione «non si avverte», per poi aggiungere che l’aspetto sorprendente della Lettera a una professoressa, e che più lo avesse entusiasmato, fosse la consonanza ideale con la coeva nuova sinistra americana, newyorchese, ovvero, con la «rivoluzione culturale cinese»:

 

la stessa forza ideale, assoluta, totale, senza compromessi; ed è questo che nel paese del qualunquismo mi ha riempito di gioia

(p. 832)

 

Il mancato interrogativo

Questo passaggio dell’intervento di Pasolini segnava, sicuramente, il punto più alto del suo intervento critico sull’esperienza di Barbiana; punto di maggiore adesione, tra Pasolini e Lettera a una professoressa, con la (speculare) presa di distanza dal qualunquismo imperante in Italia (nell’Italia di sempre). Che questo sia il vertice del ragionamento pasoliniano sull’esperienza della Scuola di Barbiana, lo si avverte anche a una lettura distratta del testo di Pasolini, poiché, quasi come un giro di boa, dopo queste affermazioni, egli annotava che fosse giunto il momento di elaborare qualche critica. Quasi come un dovere etico e intellettuale, Pasolini dichiarava di dover «muovere delle critiche» alla Lettera. E il succo di questa sua critica, che indirizzava ai ragazzi di Barbiana, risiedeva nel non essere stati capaci, loro, di porsi una domanda chiave, e cioè

 

in che cosa consiste e dove nasce la cultura piccolo-borghese

(p. 833)

 

Da questo mancato interrogativo, scaturivano, a giudizio di Pasolini, tutta una serie di fraintendimenti e di mancate messe a fuoco del senso autentico della cultura contadina, in Italia, e in quel momento storico ben preciso, cioè, al passaggio dal mondo rurale a quello neo-capitalistico. Senza questo scavo, infatti, secondo lui, i ragazzi di Barbiana non erano riusciti a cogliere il sottile legame che tenesse assieme la cultura piccolo-borghese della professoressa (che li bocciava agli esami), e quella loro cultura contadina, che, però, nell’analisi di Pasolini, aveva generato la nuova cultura piccolo-borghese cittadina. Per Pasolini, i ragazzi non erano riusciti a cogliere il dato politico che il mondo contadino dal quale essi provenivano fosse «circoscritto, parziale, particolaristico» (p. 836). Non riuscendo a cogliere, inoltre, che quel mondo contadino fosse al tramonto, in modo irreversibile, una volta compiuta l’industrializzazione totale delle campagne. A giudizio di Pasolini, infatti, la rivoluzione di quei ragazzi, la loro contestazione, il loro «meraviglioso idealismo», ch’egli diceva di sottoscrivere appieno, e del quale abbracciava la causa, definendolo «concreto idealistico», restava, però, il «prodotto di un mondo provinciale», soccombente.

 

Come un antico segretario umanista

Il nome di don Lorenzo Milani (1923-1967) viene associato, nella mente dei più, a un genere letterario ben preciso, quello dell'epistolografia. Non c'è, infatti, in Italia e nel mondo, persona di cultura, uomo di scuola, ma anche semplice lettore, che non identifichi il nome del priore di Barbiana con il genere della lettera, e, in maniera particolare, che non lo identifichi con Lettera a una professoressa. Del resto, se si provasse a scorrere la ricca bibliografia donmilaniana, si noterebbe che i suoi scritti assunsero quasi esclusivamente proprio la forma del genere epistolare: dalla già citata Lettera a una professoressa, del 1967, redatta in forma collettiva (dal priore e da alcuni dei ragazzi della scuola di Barbiana), alla lettera L'obbedienza non è più una virtù, del 1965, alle stesse epistole di don Lorenzo indirizzate a vari destinatari: Lettere di don Lorenzo Milani, edite nel 1970, e Lettere alla mamma (1943-1967), pubblicate nel 1973. Don Lorenzo Milani, per comunicare il proprio pensiero, seppe interpretare e innovare il genere epistolare, nella consapevolezza di avere alle spalle una lunga e prestigiosa tradizione culturale e civile, che affondava le proprie radici nell'antica letteratura latina (laica, pagana e cristiana), e che aveva trovato nell'esperienza dell'Umanesimo fiorentino dei secoli XV-XVI un sicuro punto di riferimento, e un modello da imitare, non solo sul versante propriamente letterario e stilistico, ma anche su quello umano e intellettuale, quello, cioè, della passione civile. È con questa grande stagione dell’Umanesimo civile fiorentino, dunque, e con la sua nuova visione del ruolo dell'intellettuale, che, a mio giudizio, le lettere di don Milani vanno messe in stretto collegamento. Egli, cioè, ha rilanciato e rinnovato, in un'epoca totalmente differente, rispetto all'età delle Signorie e dei Principati, e con modalità inedite, la passione civile e la capacità (direi, il dovere) dell'intellettuale di sentirsi chiamato all'impegno, in difesa dei più deboli e degli ultimi. Don Lorenzo Milani, attraverso le lettere, ha saputo interpretare appieno il ruolo dell'intellettuale umanista, tutto calato nella «vita attiva». Le sue lettere, cioè, come quelle di un antico segretario umanista (si pensi a Coluccio Salutati, o a Niccolò Machiavelli), hanno avuto, infatti, la forza e l'intelligenza di immergersi nel coevo dibattito collettivo, e condizionarlo.

 

Bibliografia di riferimento

Pasolini, P.P., Saggi sulla politica e sulla società, a c. di W. Siti e S. De Laude, A. Mondadori Editore, Meridiano, Milano 1999

La Porta, F., Pasolini, il Mulino, Bologna 2012

Id., Pasolini. Uno gnostico innamorato della realtà, Le Lettere, Firenze 2002

Id., Pasolini e Sciascia. Ultimi eretici, Marsilio, Venezia 2021

Gargano, T., PPP. Pasolini Prima di Pasolini, Edizioni Radici Future, Bari 2022

 

Immagine: Don Lorenzo Milani insieme ai suoi studenti di Barbiana

 

Crediti immagine: Oliviero Toscani, Public domain, attraverso Wikimedia Commons

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Pasolini e Moccia, «ragazzi di vita», sub specie roman(acci)ae linguae

 

I «ragazzi di vita» di Pasolini

Nessuno, più di Pier Paolo Pasolini, ha compiuto, nella sua multiforme attività artistica, il percorso pop, cioè, quel cammino di progressivo (e radicale) avvicinamento al popolare. Dagli anni della poesia (in dialetto, e in lingua), alla narrazione in prosa (racconti, romanzi, saggi), al giornalismo (corsaro, sportivo, d’inchiesta), al teatro, alle interviste (radiofoniche, televisive), alle illustrazioni (disegni, ritratti, autoritratti e graphic novel, come la sceneggiatura de La terra vista dalla luna), ai testi per le canzoni, al cinema. Un percorso unico, inimitabile. Per davvero, Pasolini è stato una «eccezione» pop. Giorgio Nisini (2008) ha sottolineato la natura anarchica e circolare dell’intera produzione pasoliniana, refrattaria alle classificazioni di genere, e incline allo sperimentalismo formale continuo. Nei primissimi anni romani, la sperimentazione fu la cifra stilistica della sua scrittura esplosiva: romanzi, racconti, pezzi autobiografici, memorialistici, reportage di viaggi, note e appunti a carattere documentaristico e descrittivo, saggi, testi giornalistici e cronachistici, recensioni, prosimetri e appunti di sceneggiature; insomma, un magma testuale. In effetti, come ha scritto Francesco Piccolo (2022), Pasolini autore «molteplice».

In compagnia di sua madre, Susanna Maria Colussi, Pasolini giunse a Roma a fine gennaio del 1950, e si immerse immediatamente nella vita delle borgate. Trovò alloggio in una stanzetta in piazza Costaguti, nel ghetto. Da lì, dal Tevere, cominciò la sua immersione nelle borgate (Primavalle, Pietralata, Tiburtino...). La città gli apparve «divina» (la «città di Dio»), con tutte le sue contraddizioni, e con tutte le sue miserie, com’egli stesso scrisse ai corrispondenti di quegli anni. Girava di giorno per le borgate, e viveva di notte la città, con Sandro Penna, o con Carlo Emilio Gadda, con Sergio Citti, conosciuto proprio in borgata, imbianchino precario (con qualche problema con la giustizia), che gli fece da interprete e da intermediario in quel magma linguistico e umano delle borgate. Come ha notato Filippo La Porta (2022), nei racconti, negli abbozzi e negli studi di quegli studi (in preparazione del romanzo Ragazzi di vita) Pasolini ritrae:

 

«il mondo amorale delle borgate, una umanità che vive alla giornata, tra espedienti e imbrogli. Lo scrittore non la idealizza. Piuttosto vede in essa un mix di candore e ferocia, di cinismo e slanci di generosità»

 

Pasolini narratore esterno, di quel mondo, che fa un

 

«uso sapiente del discorso indiretto libero – lo slang che mette in bocca ai suoi personaggi (non estraneo al romanesco gaddiano) – è la giusta mediazione linguistica per entrare nella loro testa e nel loro corpo» (La Porta 2022)

 

Giorgio Nisini, dinanzi alla difficoltà, se non alla impossibilità, di classificare l’opera pasoliniana, specie per la gran mole di scritti e di appunti degli anni 1950-1951, ritiene perfino non accettabile la bi-partizione in due tronconi, e cioè testi puramente narrativi e testi dalla natura più incerta; affermando, invece, che quella produzione sia da intendere come «anarchica e circolare» (Nisini 2008, p. 159).

 

I «ragazzi di vita» di Moccia

Uscito in prima edizione (auto-prodotta) nel 1992, con un piccolo editore, il romanzo Tre metri sopra il cielo, di Federico Moccia, fu rilanciato nel 2004 da Feltrinelli, con un successo strepitoso. Tre metri sopra il cielo racconta la storia d’amore (impossibile) tra Step (Stefano Mancini), ragazzo violento e problematico, e Babi (Fabrizia Gervasi), ragazza dell’alta borghesia romana, studentessa snob, che, però, resta affascinata proprio dai modi spicci e violenti di questo teppistello di borgata. Babi comincia a frequentarlo, tra gare clandestine di motociclette, e risse violentissime:

 

È un sacco di tempo che non ci vediamo, eh? Come ti va?”

Step passò il suo braccio dietro le spalle di Poppy, amichevolmente.

Il Siciliano, Pollo e Lucone, che erano stati felicissimi di accompagnarlo, si misero in mezzo al gruppo [...].

Scusa, ma in questo momento proprio non mi sto ricordando.”

Ma come!” Step gli sorrise tenendolo sempre abbracciato, come due vecchi amici che non si vedono da troppo tempo. “Mi fai rimanere male. Aspetta.” Improvvisamente gli venne una splendida idea. “Forse ti ricordi di questo.” Tirò fuori dalla tasca dei jeans il cappello. Poppy guardò quel vecchio copricapo di lana. Poi la faccia sorridente di quel tipo tozzo che lo teneva abbracciato. I suoi occhi, quei capelli. Ma certo. Era quel pischello che aveva menato un sacco di tempo prima.

Cazzo!” Poppy provò a sfilarsi da sotto il braccio di Step, ma la mano di lui gli prese fulminea i capelli, bloccandolo.

Memoria corta, eh? Ciao Poppy.” E tirandolo verso di sé gli diede una capocciata bestiale, spaccandogli il naso. Poppy si chinò in avanti, portandosi il viso fra le mani. Step gli diede un calcio in faccia, con tutta la sua forza. Poppy saltò quasi all’indietro, finì contro la serranda con un rumore di ferro.

Subito Step gli fu sopra, prima che cadesse lo bloccò con una mano alla gola. Con il destro gli diede una serie di pugni, colpendolo dall’alto verso il basso, sulla fronte, aprendogli il sopracciglio, spaccandogli il labbro.

Fece un passo indietro e prima che cadesse gli diede un calcio dritto per dritto in piena pancia levandogli il respiro [...].

Poppy era per terra, Step lo riempì di calci sul petto, in pancia. Poppy provò a chiudersi a riccio, coprendosi la faccia, ma il piede di Step era inesorabile. Colpiva dovunque trovasse uno spazio, poi cominciò a pestarlo da sopra. Alzava la gamba e lo colpiva con il tacco. Secco, con forza, sull’orecchio che si tagliò subito perdendo sangue, sui muscoli delle gambe, sui fianchi, quasi saltandoci sopra, con tutto il suo peso. Poppy strisciando a ogni colpo, muovendosi a scatti, pronunciò un pietoso “Basta, basta, ti prego!”. Quasi tossendo per il sangue che dal naso gli scorreva direttamente in gola, sputacchiando quel po’ di saliva che gli colava dal labbro ormai completamente aperto e sanguinante. Step si fermò. Recuperò il fiato saltellando sulle gambe, guardando il suo nemico a terra, fermo, finito. Poi si girò di scatto e si avventò su un biondino alle sue spalle. Era quello che lo aveva bloccato da dietro. Lo colpì con il gomito in piena bocca, andandogli addosso con tutto il peso del corpo. Al tipo saltarono tre denti. I due finirono a terra. Step gli puntò le ginocchia sulle spalle. Bloccandolo, cominciò a tempestargli la faccia di pugni. Poi lo prese per i capelli sbattendogli la testa per terra, con violenza, di seguito, con forza.

[p. 44-45]

.

Step è il leader del suo gruppo criminale. Vive di espedienti (violenti). Colmo di rabbia, cerca tutte le occasioni, nella giornata, per provocare risse. Teppista incallito, in compagnia dell’inseparabile Pollo (che morirà vittima di una gara clandestina), e di altri ragazzi (il Siciliano, Lucone, Schello, Bunny, il Calamaro, Dario, ...). La violenta aggressione di Step, a danno di Poppy, aveva una antica genesi, risalente a otto mesi prima, allorquando, cioè, Poppy aveva provato a rubargli un berretto, e lo aveva anche pestato selvaggiamente:

 

Ti do dieci secondi per andartene di qui.”

Un certo Poppy, più grande di lui, gli stava davanti. A Villa Flaminia ce lo avevano tutti, colorato, fatto a mano dai ferri di qualche ragazza. Quello lì glielo aveva regalato sua madre, prendendo il posto della ragazza che ancora non aveva.

E ora non aveva più neanche il cappello, ce l’aveva Poppy ed era facile capire perché. Voleva litigare [...]. Poppy, un tipo grosso, con i capelli scuri, di almeno due anni più grande di lui, gli si avvicinò.

Vattene.”

E così dicendo gli aveva sfilato il cappello [...].

Stefano lo guardò. Per la rabbia non vide più niente. Fece per colpirlo, ma appena mosse il braccio fu bloccato da dietro. Qualcuno gli circondò le braccia bloccandogliele lungo il corpo. Poppy passò il cappello a uno lì vicino e lo colpì in pieno sull’occhio destro aprendogli il sopracciglio. Poi quel bastardo che lo aveva bloccato da dietro lo spinse avanti, verso la saracinesca di Anzuini che, visto l’andazzo, aveva chiuso prima del previsto. Stefano sbatté il petto contro la serranda, facendo un gran botto. Gli arrivarono subito una scarica di pugni sulla schiena, poi qualcuno lo girò.

[p. 30]

 

Questa mia proposta di lettura in parallelo di Ragazzi di vita e di Tre metri sopra il cielo non deve scandalizzare (o, peggio, far gridare allo scandalo, giudicandola irriverente). È una ipotesi di ricerca, e di studio, del duplice universo (narrativo e linguistico), tra la Roma (e l’Italia) dei primissimi anni Cinquanta, povera, cattiva e miserabile; e la Roma (e l’Italia) di Moccia, totalmente cambiata, in appena qualche decennio, decisamente più ricca e spavalda, rispetto alla precedente, ma ugualmente miserabile e cattiva, violenta e cafona.

 

Bibliografia

Gargano Trifone, PPP. Pasolini Prima di Pasolini, Edizioni Radici Future, Bari 2022

La Porta Filippo, Pasolini, il Mulino, Bologna 2012

Id., Pasolini. Uno gnostico innamorato della realtà, Le Lettere, Firenze 2002

Id. (a c. di), Pasolini e Sciascia. Ultimi eretici, Marsilio, Venezia 2021

Id., I romanzi. Il narratore di se stesso, in «Robinson», la Repubblica, n. 273, del 26.02.2022, p. 29.

Moccia Federico, Tre metri sopra il cielo, Feltrinelli, Milano 2005

Nisini Giorgio, L’unità impossibile. Dinamiche testuali nella narrativa di Pier Paolo Pasolini, Carocci, Roma 2008

Pasolini Pier Paolo, Ragazzi di vita, in Romanzi e Racconti, vol. 1, a c. di W. Siti e S. De Laude, A. Mondadori, 1998, pp. 523-771.

Piccolo Francesco, Un uomo solo che non riesce ancora a tacere, in «Robinson», la Repubblica, n. 273, del 26.02.2022, p. 2.

 

Immagine: https://www.youtube.com/watch?v=SnizSECeI94

 

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Pasolini. La Divina Mimesis

 

La Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è, forse, il più noto (e ambizioso) progetto in forma di appunti e di frammenti in prosa, tutti risalenti agli anni 1963-1965, rimasto incompiuto. La ri-scrittura pasoliniana riguardò (soltanto) alcuni canti dell’Inferno dantesco: I-IV e VII. Pasolini, in una intervista del 1962, definì tutto questo materiale come un «poema satirico in prosa», facendo riferimento anche a La Mortaccia, che è, dunque, da considerare come un incunabolo della Divina Mimesis. Nella Mortaccia, infatti, una prostituta affronta il viaggio infernale, grazie alla suggestione provata dopo aver letto una versione a fumetti dell’Inferno di Dante.

L’opera uscì postuma nel dicembre del 1975, per i tipi della casa editrice Einaudi. L’incompiutezza fu una ben precisa scelta di Pasolini, che, come ha chiarito, di recente, Filippo La Porta, considerava le sue opere, tutte le sue opere, sempre come un “assaggio”:

 

«nell’opera di Pasolini tutto si presenta in forma incompiuta e instabile. Non per l’adesione a una ideologia letteraria (meno che mai “avanguardistica”), ma perché tale instabilità coincide per lui con la forma stessa della vita. Appunti, bozze, scalette “cantieri”. Tutto si offre come “saggio” (nel senso di assaggio)»

 

Nel primo frammento della Divina Mimesis, si legge che, intorno

 

«... ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita. Qualunque cosa facessi, nella “selva” della realtà del 1963, anno in cui ero giunto […], c’era un senso di oscurità…»

 

Lo stile semplice e il linguaggio quotidiano, direi umile, dell’incipit di questa Divina Mimesis rinviano all’analogo incipit della Divina Commedia, canto I dell’Inferno, analogamente caratterizzato da uno stile piano e umile, e dall’estrema semplicità del lessico:

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita.                            3

 

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura!              6

 

Il rapporto con il testo dantesco, in questi primissimi righi dell’opera di Pasolini, è immediato, e si caratterizza:

 

- per il riuso del vocabolo selva

- per l’impiego dell’aggettivo oscuro

- per il ricorso all’espressione «mi accorsi di trovarmi», che rinvia al «mi ritrovai» dantesco

- per la notazione cronologica «Intorno ai quarant’anni», che rinvia al celeberrimo «Nel mezzo del cammin di nostra vita»

 

Pasolini e la questione della lingua

In Dante, il tono dimesso, didascalico, da narrazione autobiografica, del primo canto dell’Inferno, trova una spiegazione nell’individuazione del valore della variazione dei toni. È proprio la mescolanza degli stili che conferisce, nel poema, rilievo poetico anche alle parti più direttamente didascaliche dell’opera, resistendo al tempo, e rimanendo versi indimenticabili, fissati per sempre nella memoria del lettore medio italiano (e non solo italiano), nonostante l’usura dei secoli. In Pasolini, invece, la questione intorno al linguaggio e ai toni dello stile, per certi aspetti, è ancor più complessa, rispetto a Dante Alighieri. In quello stesso periodo, infatti, Pier Paolo Pasolini era impegnato, sul versante teorico, con la riflessione intorno al problema linguistico della nascita, in Italia, di una nuova lingua, determinata non più – secondo il suo giudizio – dalla letteratura, ma dalla tecnica, e con il prevalere, in questa nuova lingua, del fine comunicativo su quello espressivo. Questo nuovo italiano «tecnologico», non più «umanistico», sotto la spinta dei centri industriali del Nord Italia, e della borghesia neo-capitalistica, finiva, secondo Pasolini, per determinare un vero e proprio «genocidio culturale», capace di distruggere non solo i dialetti delle classi popolari, ma anche le loro «diversità culturali», le loro ideologie, le loro visioni. Questa nuova lingua «tecnologica», comunque, nata brutta, nel giudizio di Pasolini, perché comunicativa e non espressiva, finiva per diventare l’aspirazione stessa del Pasolini autore della Divina Mimesis.

 

Pasolini-Virgilio nelle borgate

Nella Divina Mimesis, Pasolini racconta di un viaggio compiuto nelle borgate di Roma, in compagnia del sé stesso degli anni Cinquanta, cioè in compagnia del Pasolini degli anni della poesia civile, della poesia delle ceneri di Gramsci, e della poesia delle belle bandiere. Ebbene, questo Pasolini civile s’incaricava di svolgere il ruolo del Virgilio dantesco, di guida, capace di accompagnarlo nei cerchi e nei gironi dell’Inferno contemporaneo. Dalla «selva oscura», alla «selva della realtà». Le singole visioni di questa ri-scrittura pasoliniana, infatti, corrisponderebbero, per un gioco di rispecchiamento, ai rispettivi cerchi danteschi. Al momento del viaggio, Pier Paolo Pasolini è intellettuale maturo, ancorché deluso; alle prese, cioè, con un bilancio interiore non più rinviabile, da affrontare (e, quindi, da raccontare). Dieci anni dopo, nel 1974, Pasolini avrebbe dichiarato che la sua discesa agli «inferi» fosse da leggere come una denuncia del genocidio in atto, in quell’Italia che viveva il boom, e che stava interpretando la sua rivoluzione industriale (post-bellica), senza, però, porsi tanti interrogativi sui prezzi sociali e culturali che quel progresso comportasse. La questione del genocidio Pasolini, in quegli stessi anni, la stava sviluppando sulle colonne del «Corriere della sera», con articoli corsari, dal tono e dal sapore, appunto, graffianti e polemici. Egli denunciava, da quelle colonne, la degradazione neo-capitalistica dell’Italia degli anni del boom economico, tra nostalgia regressiva, per la perdita della civiltà contadina, e acuta e spietata diagnosi delle contraddizioni dei cambiamenti in atto, così profondi e così repentini. La voce critica di Pasolini, la sua spietata visione corsara, fu, in quegli anni, una delle poche, se non l’unica, che si levò, con spirito profetico (mai cinico). La gran parte degli intellettuali italiani, invece, in quegli stessi anni, pur spettatori dello stesso «genocidio», preferirono il più comodo (e utilitaristico) silenzio indifferente.

 

La bandiera dell’indifferenza

Si legge, infatti, in un frammento al canto III della Divina Mimesis, sempre in gara con il corrispettivo canto dantesco, che il Pasolini viandante si accorse che tutta:

 

«... quella gente, lungo le strade del loro mondo di impiegati, di professionisti, di operai, di parassiti politici, di piccoli intellettuali, in realtà correvano come matti dietro a una bandiera. Per le viuzze medievali, o per le grandi strade burocratiche, liberty, o, infine, per i quartieri nuovi, residenziali o popolari, essi non si agitavano trascinati – come pareva – dall’orgasmo del traffico o dei loro doveri: ma correvano dietro a quella bandiera. Si trattava, in realtà, di uno straccio, che sbatteva e si arrotolava ottusamente al vento [...]».

 

Bibliografia minima

Per le citazioni dantesche, il testo utilizzato è quello dell’edizione critica di Giorgio Petrocchi (1966-1967).

Per il testo della Divina Mimesis, il testo utilizzato è quello dell’edizione Einaudi, Torino 1975.

 

La Porta, F., Il narratore di se stesso, in «la Repubblica», Robinson, numero speciale del 26.02.2022, n. 273, p. 29.

La Porta, F., Pasolini, Profili di Storia Letteraria, collana diretta da Andrea Battistini, il Mulino, Bologna 2012.

La Porta, F., Pasolini. Uno gnostico innamorato della realtà, Le lettere, Firenze 2002.

La Porta, F., Paolini e Sciascia, Marsilio, Venezia 2021.

Toffolo, D., Intervista a Pasolini, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2002.

 

Per una lettura critica diffusa, condotta in modo speculare, tra Pasolini e Dante, mi permetto di rinviare al mio PPP. Pasolini Prima di Pasolini, Edizioni Radici Future, Bari 2022, pp. 87-118.

 

Immagine: Dante e Virgilio entrano nella foresta

 

Crediti immagine: The William Blake Archive, Public domain, via Wikimedia Commons

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«errar per malo obietto». I vizi capitali nella Commedia dantesca

 

L’ordinamento del Purgatorio dantesco segue la classificazione tomistica dei vizi: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia e prodigalità, gola, lussuria. San Tommaso, infatti, aveva affermato, nella Summa Teologica, che «ogni essere che agisce, qualunque esso sia e qualunque sia la sua azione, opera per amore» [I ii, 28, 6 c]. Dunque, è per colpa dell’amore mal diretto che si pecca, così come si legge nel canto XVII (vv. 91-6) del Purgatorio:

 

«Né creator né creatura mai»,

cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,

o naturale o d'animo; e tu 'l sai.                       

 

Lo naturale è sempre sanza errore,

ma l'altro puote errar per malo obietto

o per troppo o per poco di vigore.                  

 

Con uno stile solenne, in questo canto centrale, rispetto all’intera cantica (ma anche rispetto all’intero poema), Dante pone un tema di prima grandezza, e cioè l’amore come causa prima di tutto: in Dio, negli uomini e nel creato. L’intero poema dantesco è fondato sull’amore, quell’amore che move il sole e l’altre stelle (Paradiso, XXXIII, 145). Sull’amore è costruito lo schema del Purgatorio: l’amore naturale, l’istinto, non sbaglia, perché viene da Dio; l’altro, quello che scaturisce dalla volontà e dall’intelligenza, può sbagliare, perché è amore libero. Questa è la colpa propria dell’uomo, il suo errar. Su questo errore umano è organizzata la tripartizione del Purgatorio: 1. per malo obietto (superbia, invidia, ira); 2. per poco di vigore (accidia); 3. per troppo vigore (avarizia, gola, lussuria). Com’è noto, tale schema è inverso rispetto a quello infernale. In Purgatorio, infatti, si procede dai peccati più gravi (superbia, invidia, ira), verso quelli meno gravi (gola e lussuria). Queste ultime due colpe, gola e lussuria, non sono più colpe sociali, ma individuali, che attengono cioè alla sfera privata, non più alla humana civilitas. La ripartizione purgatoriale dei peccati segue la logica cristiana dell’amore (che, evidentemente, era sconosciuta agli antichi). Per la gola e la lussuria, la prospettiva non è più quella della comunità, bensì quella dell’individuo, della singola persona che, liberamente, sceglie (e sbaglia). La libertà che Dio ha concesso all’uomo (tema sviluppato nel XVI del Purgatorio, attraverso il discorso di Marco Lombardo, ai vv. 73-78) può portare al male. È l’uomo, dunque, che vuole e che sceglie il male. Del trittico purgatoriale, XVI – XVII – XVIII, il canto centrale, il XVII, è riservato alla descrizione della distribuzione delle pene nelle sette cornici della montagna (in analogia con il canto XI dell’Inferno, nel quale Dante ha illustrato, sempre per bocca di Virgilio, la struttura delle diverse zone dell’Inferno). Nel primo regno, la ripartizione delle colpe e delle pene segue l’etica aristotelica (cfr. Inferno, XI, vv. 79-84); nel Purgatorio, invece, è l’etica cristiana che sta al fondo del ragionamento dantesco. La divisione delle colpe si fonda, infatti, sui sette peccati capitali, definiti tutti, tomisticamente, in funzione dell’amore. Questa è la rivoluzionaria soluzione dantesca, rispetto all’etica pagana. L’amore governa l’intero universo fisico; guida i cuori degli uomini, e ha dato origine al creato, che è, quindi, naturalmente sospinto a tornare verso il suo creatore (così come Dante ribadirà in Paradiso, I, vv. 103-105):

 

e cominciò: «Le cose tutte quante

hanno ordine tra loro, e questo è forma

che l’universo a Dio fa simigliante...»

 

Il Purgatorio segna il nuovo inizio di Dante (e dell’umanità), rispetto al mondo infernale che ha lasciato dietro di sé (Purgatorio, I, vv. 1-6):

 

Per correr miglior acque alza le vele

omai la navicella del mio ingegno,

che lascia dietro a sé mar sì crudele;      

 

e canterò di quel secondo regno

dove l’umano spirito si purga

e di salire al ciel diventa degno.                       

 

Il Purgatorio come approdo a un mondo nuovo, dal quale ripartire, verso la nuova vita. Le sette cornici dei vizi capitali si chiudono tutte con l’annuncio della corrispondente beatitudine, in un contesto dottrinale, cornice per cornice, che è quello del suffragio, della preghiera, grazie alla quale chi è di là avanza, procede celermente (cfr. Purgatorio, III, v. 145), verso l’alto:

 

I cornice: superbia, umiltà

II cornice: invidia, misericordia

III cornice: ira, mansuetudine

IV cornice: accidia, sollecitudine

V cornice: avarizia e prodigalità, giustizia

VI cornice: gola, temperanza

VII cornice: lussuria, castità

 

In ciascuna cornice, Dante vede e sente la duplice catena degli esempi didattici dei vizi puniti e delle virtù premiate, dandocene vivida testimonianza. Per uno di questi esempi, nel canto X, egli conia una celeberrima e potente espressione sinestetica, il visibile parlare (v. 95), tra vista e udito, con riferimento al terzo esempio di virtù premiata. Questa è la prima cornice, quella dedicata al vizio peggiore, alla superbia.

Le cornici purgatoriali, arricchite dalle scene dei vizi e delle virtù, collocate lungo la parete rocciosa e sul pavimento, con funzione di ammaestramento per le anime, a ben riflettere, potrebbero essere intese come un originalissimo setting didattico dantesco. Nella prospettiva metodologica della così detta aula tematica, gli ambienti attrezzati hanno valore didattico di per sé stessi. Non così nelle tradizionali aule, disadorne, spoglie e, quindi, neutre, proprio perché non attrezzate tematicamente, rispetto all’insegnamento. Le cornici purgatoriali possono essere interpretate come un originalissimo archetipo letterario degli odierni ambienti tematizzati. Non l’Inferno dantesco, che pur è tematizzato (di cerchio in cerchio), dove però i dannati restano bloccati per l’eternità nel rispettivo luogo di dannazione. Analoga situazione di fissità si registra nel Paradiso. I beati non si spostano, di cielo in cielo; ma risiedono, in eterno, nella candida rosa, a contemplare Dio. È il Purgatorio il luogo dantesco che si presta a essere visto come suggestiva e potente metafora delle odierne aule tematiche, o aule attrezzate. Le anime dei purganti, infatti, sono in continuo cammino (come accade per gli studenti, nelle scuole dove vige questa sperimentazione). Si spostano di zona in zona (dopo un certo numero di secoli), da una cornice all’altra, tutte tematicamente attrezzate in modo specifico: superbi, invidiosi, iracondi, ecc. Si spostano dopo aver acquisito le necessarie competenze per proseguire il viaggio verso l’alto. L’angelo che, di volta in volta, cancella la P sulla fronte di Dante è da vedere come il docente che certifica la promozione al livello successivo. Nelle cornici purgatoriali, il poeta, sostando giusto il tempo necessario per interagire con le anime, si purifica, e quindi acquisisce le competenze per proseguire il viaggio salvifico. L’arrivo dell’angelo, alla fine di ciascuna cornice, rappresenta il momento dell’esame, al quale Dante stesso è sottoposto (e come lui anche le altre anime, una volta giunto, per ciascuna di loro, il momento del passaggio alla cornice successiva). Si vedano i vv. 88-90, di Purgatorio XII:

 

A noi venìa la creatura bella,

biancovestito e ne la faccia quale

par tremolando mattutina stella.

 

La cancellazione della prima P, quella relativa alla superbia, consente a Dante di avvertire e di sottolineare l’enorme differenza tra i melodiosi salmi e inni, che sente, e le infernali strida (Purgatorio, XII, vv. 110-26):

 

'Beati pauperes spiritu!' voci

cantaron sì, che nol diria sermone.       

 

Ahi quanto son diverse quelle foci

da l'infernali! ché quivi per canti

s'entra, e là giù per lamenti feroci.        

 

Già montavam su per li scaglion santi,

ed esser mi parea troppo più lieve

che per lo pian non mi parea davanti.

 

Ond' io: «Maestro, dì, qual cosa greve

levata s'è da me, che nulla quasi

per me fatica, andando, si riceve?».     

 

Rispuose: «Quando i P che son rimasi

ancor nel volto tuo presso che stinti,

saranno, com' è l'un, del tutto rasi,       

 

fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti,

che non pur non fatica sentiranno,

ma fia diletto loro esser sù pinti».        

 

L’Inferno dantesco, collocato spazialmente all’opposto, rispetto alla candida rosa e alla sede di Dio, suddivide i peccati seguendo l’Etica aristotelica (Inferno, XI, vv. 79-84):

 

Non ti rimembra di quelle parole

con le quai la tua Etica pertratta

le tre disposizion che 'l ciel non vole,   

 

incontenenza, malizia e la matta

bestialitade? e come incontenenza

men Dio offende e men biasimo accatta?

 

Il canto XI dell’Inferno è occupato (quasi) per intero dalla digressione dottrinale, tanto didascalica quanto necessaria, perché dà al lettore elementi di conoscenza e di riflessione sull’ordine dell’intero universo, dai cieli paradisiaci, fino alle estremità più oscure (e puteolenti) dell’Inferno. Ed è proprio la puzza, il fetore che esala dall’abisso infernale, a offrire a Dante il pretesto narrativo per una sosta, e quindi per la spiegazione dell’ordinamento di quel luogo di eterna dannazione (vv. 4-6):

 

e quivi, per l’orribile soperchio

del puzzo che ‘l profondo abisso gitta,

ci raccostammo [...]

 

Era stato solennemente enunciato già nel canto III dell’Inferno che è la giustizia divina a presiedere all’ordine universale, a commento della scritta posta a sommo della porta (vv. 4-6):

 

Giustizia mosse il mio alto fattore;

fecemi la divina podestate,

la somma sapïenza e ’l primo amore.

 

Armoniosa simmetria e perfetta razionalità, evidenti in tutte le parti dell’universo, presiedono, dunque, alla precisa sistemazione gerarchica dei peccatori. La spiegazione di Virgilio procede in tre distinti momenti; nel primo, egli illustra quei peccati che si trovano all’interno della città di Dite, definiti di malizia, che sono i più gravi, perché presuppongono una decisione dell’intelletto. Peccati, dunque, che offendono direttamente la giustizia (Inferno, XI, vv. 22-4):

 

D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista,

ingiuria è ‘l fine, ed ogne fin cotale

o con forza o con frode altrui contrista.

 

Questi peccati, inoltre, si suddividono in ulteriori due categorie: per violenza, o per frode. Quest’ultima, la frode, che è tipica dell’uomo, è colpa maggiormente grave. La frode, poi, può esplicarsi o contro coloro che non si fidano; ovvero, contro coloro che, per un legame speciale (di sangue, di patria, di amicizia, ecc.), si fidano di colui che li tradisce. La città di Dite, dopo gli eretici,  ospita tre grandi cerchi:

 

- il settimo, destinato ai violenti, suddiviso in tre ulteriori gironi

- l’ottavo, destinato ai fraudolenti, suddiviso in dieci rispettive bolge

- il nono, destinato ai traditori, suddiviso in quattro zone, con al centro Lucifero, il più grande dei traditori, l’invidia prima.

 

Il secondo momento della spiegazione di Virgilio riguarda i peccati collocati tra il secondo e il quinto cerchio infernali, definiti di incontinenza, cioè commessi da quei peccatori che, in vita, si lasciarono travolgere dalle passioni, che non seppero contenere. Secondo Dante, si tratta di peccati meno gravi, collocati, quindi, al di fuori della città di Dite. La distinzione (e la gravità) tra incontinenza e malizia sta nel fatto che i primi sono peccati di passione; gli altri di ragione.

Il terzo e ultimo momento della spiegazione virgiliana si concentra sull’usura. Colpa grave, che affligge le famiglie e le città.

 

Se provassimo a sistemare, in uno schema, i vizi capitali, rispetto all’ordinamento purgatoriale, noteremmo che, oltre alla simmetria rovesciata, nella mappa mancherebbero l’invidia e la superbia:

 

II cerchio: lussuria

III cerchio: gola

IV cerchio: avarizia e prodigalità

V cerchio: ira e accidia

 

L’invidia nell’Inferno dantesco non ha una collocazione ben definita; essa viene citata più volte, e in più luoghi, quasi sempre in compagnia della superbia e dell’avarizia, come dirà Ciacco a Dante, nel canto VI dell’Inferno, riferendosi ai tre mali che affliggono Firenze e che la porteranno al disastro (Inferno, VI, vv. 74-5):

 

superbia, invidia e avarizia sono

le tre faville c’hanno i cuori accesi.

 

L’invidia è vizio sociale, è colpa grave, agli occhi di Dante (come egli stesso chiarirà meglio nel Purgatorio, nel canto XIII, seconda cornice, incontrando Sapìa, la nobildonna senese, che, accecata dal suo male, giunse a desiderare la sconfitta della sua città, e se ne rallegrò per l’avvenuta disfatta di Siena, nel 1269, per mano di Firenze).

 

Peccato di superbia, al massimo grado, commise Lucifero, mettendosi a capo della ribellione contro Dio. Per questa ragione, egli è conficcato sul fondo dell’abisso infernale, nel luogo più lontano da Dio, orribilmente trasformato (con tre facce e tre paia d’ali di pipistrello), da splendente Serafino che era stato.

 

Bibliografia minima

Per le citazioni dantesche, il testo utilizzato è quello dell’edizione critica di G. Petrocchi (a cura di), Dante Alighieri: La Commedia, secondo l'antica vulgata, Mondadori, Milano, 1966-67.

 

A. Pupi, La carità secondo Tommaso d'Aquino, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», vol.68, n.3, 1976, pp.381-439: 381, Vita e Pensiero.

T. Barolini, La “Commedia” senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale, Feltrinelli, Milano, 2003.

F. La Porta, Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio, Bompiani, Milano, 2018.

Papa Francesco (in dialogo con Marco Pozza), Dei vizi e delle virtù, Rizzoli, Milano, 2021.

M. Santagata, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, il Mulino, Bologna 2011.

 

 

Immagine: La Divina Commedia di Dante di Domenico di Michelino, attraverso Wikimedia Commons