Lingua Italiana

Vera Gheno

Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall’ungherese, ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca. Attualmente ha una collaborazione stabile con la casa editrice Zanichelli. Insegna come docente a contatto all’Università di Firenze e alla LUMSA a Roma. Ha pubblicato: "Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi)" (2016), "Sociallinguistica. Italiano e italiani dei social network" (2017, entrambi per Franco Cesati), "Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello" (con Bruno Mastroianni, 2018, Longanesi). Nel 2019 ha dato alle stampe "Potere alle parole. Perché usarle meglio" (Einaudi), "La tesi di laurea. Ricerca, scrittura e revisione per chiudere in bellezza" (Zanichelli), "Prima l'italiano. Come scrivere bene, parlare meglio e non fare brutte figure" (Newton Compton). La sua ultima pubblicazione è "Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole" (EffeQu).

Pubblicazioni
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Schwa: storia, motivi e obiettivi di una proposta

Una dichiarazione di intenti

«Lo statuto della sociolinguistica è simile a quello di molte scienze umane; essa accoglie e fonde nozioni del senso comune, assiomi e concetti tecnici, esigenze di formalizzazione e di quantificazione; presuppone nel suo cultore più anime coesistenti; alla sintesi impressionista oppone il linguaggio delle statistiche e dei questionari, ma rivendica poi l’insostituibilità dell’intuizione, dell’empatia antropologica; aspira a generalizzazioni ampie e insieme spia le particolarità del vivere quotidiano. Se il linguista è un curioso di parole, che può osservare anche nelle pagine di un dizionario, il sociolinguista è un curioso di discorsi, che deve necessariamente spiare nella pratica viva dell’interazione. Ma a caratterizzarlo non è soltanto il campo visuale delle sue osservazioni; è la spinta a interpretare quel che vede, a cercare correlazioni pertinenti tra i comportamenti linguistici da un lato e la struttura della società, dei suoi ruoli, status, funzioni, istituzioni, dall’altro. A differenza del linguista, non considererà estranee alla sua attenzione categorie come il potere e l’autorità, il conflitto e l’antagonismo, la subordinazione, lo scambio, la legittimazione, la solidarietà; al contrario, ne cercherà le manifestazioni, ordinarie o solenni, e i meccanismi di controllo e manipolazione».

 

Apro il mio pezzo con una lunga citazione di Giorgio Raimondo Cardona (Introduzione alla sociolinguistica, a cura di Glauco Sanga, UTET, Torino, 2009, pp. 5-6); lo faccio non tanto per richiamare un argumentum auctoritatis, quanto per mettere subito in chiaro quale sia l’impostazione di studio e ricerca che ho fatto mia da molti anni. In particolare, ritengo una necessità quella di non scindere i fatti linguistici dai fatti sociali, pena – a mio avviso – una visione solo parziale del quadro che si ha di fronte. Per questo, parlerò qui di (socio)linguistica, certo; ma vorrei che al centro del discorso rimanessero coloro che troppo spesso ne vengono estromesse, ossia le persone.

 

Che cos’è lo schwa e come mai se ne discute

La questione di cui mi occupo da qualche anno ha come suo fulcro un simbolo: lo schwa o scevà, nome che indica una e ruotata di 180°, ossia ə, un simbolo appartenente all’IPA, International Phonetic Alphabet o Alfabeto Fonetico Internazionale, un alfabeto “di lavoro” usato in ambito linguistico per descrivere i suoni linguistici delle lingue del mondo. Osservando la trascrizione fonetica di una parola, dunque, è possibile, posto che si conosca l’IPA, comprenderne la pronuncia.

 

In particolare, lo schwa indica una vocale media-centrale, che si situa al centro del quadrilatero vocalico: se, dunque, per pronunciare le altre vocali occorre “deformare la bocca” (pensiamo ad a-e-i-o-u), per pronunciare lo schwa la bocca va tenuta in posizione rilassata, semiaperta. È il suono iniziale dell’inglese about, come pure quello finale del napoletano jamm; tale suono non è presente nell’italiano standard, e il simbolo manca dal nostro alfabeto; in compenso lo schwa, seppure con un valore fonetico leggermente diverso, fa parte da qualche tempo dell’alfabeto latino della lingua azera e anche di quello pan-nigeriano; si noti, peraltro, che in azero la versione maiuscola dello schwa è lo stesso carattere aumentato di dimensioni, ə-Ə, mentre nel pan-nigeriano lo schwa maiuscolo è una E rovesciata: ə-Ǝ.

 

Il motivo per cui questo simbolo è diventato oggetto di un’accesa discussione, che ha portato fino alla creazione di una petizione su change.org intitolata “Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra”, è che negli ultimi anni il suo uso ha iniziato a diffondersi in vari contesti per cercare di superare quello che alcune categorie di persone giudicano come un limite espressivo della lingua italiana, ossia il fatto che non sia possibile non esprimere il genere di una persona o di un gruppo di persone.

 

L’italiano, una lingua con genere grammaticale

L’italiano, come è noto, è una lingua dotata di due generi grammaticali: sostantivi e pronomi sono o di genere maschile o di genere femminile, tertium non datur (per un’analisi dettagliata, cfr. Federica Formato, Gender, Discourse and Ideology in Italian, Palgrave Macmillan, London, 2019, specialmente cap. 2, An Overview of Grammatical Gender in Italian, pp. 39-80). Mentre per oggetti inanimati e concetti la distinzione appare convenzionale (anche se non del tutto priva di conseguenze a livello semantico, come argomenta ad esempio la scienziata cognitiva e psicologa Lera Boroditsky), per animali ed esseri umani il genere grammaticale tende a essere scelto in accordo con il sesso dell’animale o il genere della persona che si va a designare. Sebbene più fonti colleghino tradizionalmente il genere grammaticale al sesso biologico, ritengo che, quando si parla di persone, sarebbe ancora più preciso dire che il genere grammaticale viene scelto in base al genere percepito di una determinata persona (si pensi al personaggio femminile interpretato dall’attore Gianluca Gori, Drusilla Foer, normalmente nominato al femminile al di là del suo sesso biologico: nella percezione, infatti, è una donna). Aggiungiamo, infine, che l’italiano ha notoriamente perso il neutro, che esisteva in latino in riferimento, principalmente, a concetti astratti e oggetti.

 

Sesso, genere, orientamento sessuale: cerchiamo di fare chiarezza

Oggigiorno, la percezione diffusa è ancora che il mondo sia composto di esseri umani di sesso maschile e di sesso femminile. Nel suo importante libro Queer. Storia culturale della comunità LGBT+ (Einaudi, Torino, 2021), Maya De Leo spiega come questa concezione dicotomica del sesso, ossia il dimorfismo sessuale, si diffonda massicciamente nel XVIII Secolo anche grazie alle (supposte) scoperte in campo medico. Precedentemente, il centro del sistema era rappresentato dal maschio, rispetto al quale la femmina non era altro che una «versione imperfetta» (p. 19); d’altro canto, però, la concezione androcentrica permetteva concettualmente l’esistenza di altri sessi «a minor grado di perfezione» (p. 13), comprese persone intersex (una volta definite ermafrodite) e in altri modi non conformi al genere. Il dimorfismo sessuale, che ancora oggi è la concezione prevalente, «non prevede […] la possibilità di corpi non riconducibili a uno dei due poli» (p. 20). Eppure, nel frattempo, la medicina, e la conoscenza dell’essere umano in generale, sono andate avanti, permettendo di scoprire che esiste una percentuale di persone con caratteristiche cromosomiche “non standard”, quindi non-XX e non-XY, ma anche che l’identità di genere di una persona è ben più complessa del suo sesso biologico. Per l’esattezza, per ogni essere umano possiamo identificare:

1) Il sesso biologico assegnato alla nascita: normalmente maschile o femminile, dunque; e siccome l’assegnazione del sesso alla nascita si basa, nella maggioranza dei casi, sull’osservazione delle caratteristiche fisiche dell’infante, è possibile che situazioni di intersessualità non vengano scoperte in quel momento, e in alcuni casi addirittura mai.

2) L’identità di genere: è un insieme di fattori psicologici e culturali e risponde, all’incirca, alla domanda “come mi sento”: maschio, femmina, altro? Si definisce con il termine cappello transgender una persona che, genericamente, non si identifica nel sesso assegnatole alla nascita, mentre da qualche tempo viene definita cisgender chi, al contrario, vi si riconosce. Io, ad esempio, sono una donna cisgender. Sotto il termine transgender abbiamo, invece, persone transessuali, ma anche non binarie, gender-fluid, agender, genderqueer, genderflux, genderfuck, in generale gender non-conforming. Molta terminologia del settore, al momento, è in inglese, perché la consapevolezza rispetto a questi temi è sicuramente più avanzata in ambito angloamericano (cfr. Sally Hines, Il genere è fluido?, Nutrimenti, Roma, 2021, traduzione di Martina Rinaldi di Is Gender Fluid?, 2018).

3) Non ovunque, però, è possibile manifestare liberamente la propria identità di genere, giacché il coming out come persona transgender implica spesso molte difficoltà, se non veri e propri pericoli, a livello sociale (su questo rimando ancora alla disamina di De Leo 2021). Dunque, un terzo fattore è proprio l’espressione di genere, che all’incirca risponde alla domanda “come mi presento”.

4) Infine, ogni persona ha un orientamento sessuale: semplificando, è la risposta alla domanda “chi mi piace”. Normalmente, sempre come lascito della visione dicotomica di cui sopra, tenderemo a pensare che esistano persone eterosessuali e omosessuali; in realtà, ultimamente sta venendo nominata una pletora di altre sessualità come, ad esempio, la bisessualità, la pansessualità, l’asessualità, ecc. (per questa nomenclatura rimando alle pagg. 16-21 di AA.VV., Questioni di un certo genere. Le identità sessuali, i diritti, le parole da usare: una guida per saperne di più e parlarne meglio, Iperborea, Milano, 2021).

 

Identità di genere e schwa

Questa lunga premessa era, a mio avviso, necessaria per cercare di comprendere meglio la radice della questione dello schwa. L’apertura del ventaglio delle identità di genere verso “generi altri” crea una tensione con la tipologia della nostra lingua, che de facto prevede solo maschile e femminile. Dunque, chi non si riconosce in questo dimorfismo, prova un disagio dovuto all’incapacità di trovare una sistemazione all’interno del sistema-lingua.

 

Normalmente, a questo ragionamento si obietta in due modi: il primo ricorre all’affermazione che, in fondo, la questione è residuale perché impatta direttamente solo su un numero molto limitato di persone; come scrive Cecilia Robustelli su Micromega (30 aprile 2021): «la quasi totalità delle persone è identificabile su base sessuale come maschio o femmina. È vero, le persone intersex (1%) restano fuori, ma eliminare le desinenze grammaticali significa impedire la rappresentazione di metà della popolazione italiana, quella di sesso femminile» (si noti che si rimane sul piano del sesso biologico, nominando le persone intersex, e non si parla di identità di genere). In realtà, ricordando che non si tratta di eliminare le desinenze grammaticali, ma di ricercare ulteriori modi per esprimersi, al di là del problema posto dalla necessità di nominare direttamente le persone non binarie esistono numerose situazioni in cui forse sarebbe meglio non creare alcun bias di genere (si pensi a un annuncio di lavoro). La seconda obiezione è che la soluzione migliore, quella prevista dalla grammatica italiana, rimarrebbe quella di ricorrere senza distorsioni al maschile sovraesteso (chiamato di volta in volta inclusivo, non marcato, neutro ecc.), come ci ricorda Paolo D’Achille nella sua dettagliata analisi pubblicata sul sito web dell’Accademia della Crusca.

 

Mi sento di dissentire da entrambe le affermazioni; tornerò al primo punto nel prosieguo, mentre qui vorrei fare riferimento ai diversi studi che rilevano come l’uso del maschile sovraesteso sia tutt’altro che “naturale”, quanto piuttosto motivato da questioni storiche e culturali: «La lingua quotidiana riflette e amplifica una divisione già di per sé così netta come quella sessuale, e il predominio sociale dei ruoli maschili impronta di sé anche la nostra concezione della lingua; infatti quella che viene sempre assunta come forma “normale” di una lingua è proprio quella usualmente parlata dagli uomini» (Cardona, op. cit., p. 74). Non solo, ma è anche dato ormai verificato che l’uso del maschile non è privo di conseguenze a livello cognitivo: lo studioso Pascal Gygax lo rileva da molti anni (qui una lista delle sue pubblicazioni; qui la sua presentazione al simposio di studi Équivalences; Gygax viene citato anche da Giuliana Giusti in un suo recente articolo sul tema. Cfr. anche Federica Formato, op.cit., cap. 3, Feminine Forms Between Recommendations and Usages, pp. 81-133).

 

La strada dello schwa si incrocia con la questione di genere all’incirca una decina di anni fa, quando nelle comunità LGBTQIA+, nei collettivi transfemministi, intersezionali o anarca-femministi (per questa definizione, cfr. Chiara Bottici, Manifesto anarca femminista, Laterza, Roma-Bari, 2022), iniziano a manifestare la propria presenza persone gender non-conforming. Per tenere conto di loro, in vari gruppi si ricorre a soluzioni “fatte in casa” per cercare di superare non solo il maschile sovraesteso, sentito già come non sufficiente dalle donne, in particolare le femministe (come già argomentato da Alma Sabatini nel suo famoso saggio Il sessismo nella lingua italiana, 1987), ma anche la doppia forma (“Buonasera a tutte e tutti”), osservando semplicemente che quel “tutte e tutti” non comprende tutta la varietà umana esistente.

 

Le soluzioni adottate – tuttora in circolazione – sono molte, dall’asterisco (“Buonasera a tutt*”) alla chiocciola, all’apostrofo, alla barra; dalla u (“Buonasera a tuttu”) alla x, alla z, allo schwa (“Buonasera a tuttə”). Queste soluzioni (di cui ho cercato di fornire un elenco, per quanto parziale, nel 2020, qui, e che sono recentemente state sottoposte a una prima analisi quantitativa da Gloria Comandini, Salve a tuttə, tutt*, tuttu, tuttx e tutt@: l’uso delle strategie di neutralizzazione di genere nella comunità queer online, “Testo e senso”, 23, 2021) rispondono ad almeno due necessità: quella di rivolgersi a una moltitudine mista e quella di parlare a una persona che non si riconosce nel binarismo di genere. Dunque, sarebbe forse corretto identificare questi tentativi come la ricerca non di un neutro o di un terzo genere, ma di una forma priva di genere. È difficile trovare attestazioni di questa prima fase, perché il grosso di tali sperimentazioni è avvenuto all’interno delle specifiche comunità, in assenza di una regia comune.

 

La prima vera e stabile attestazione dello schwa è dunque rappresentata da un articolo pubblicato online nel 2015 a firma di Luca Boschetto, “Proposta per l'introduzione della schwa come desinenza per un italiano neutro rispetto al genere, o italiano inclusivo”; successivamente, nel 2020, il testo di quell’articolo è diventato parte del sito web Italiano Inclusivo, creato e mantenuto a oggi sempre da Boschetto; non un linguista, dunque, ma una persona interessata a fatti di lingua che fa parte della comunità queer. La proposta di Boschetto è di integrare l’italiano con due caratteri diversi: lo “schwa breve”, “ə”, per il singolare, e lo “schwa lungo”, “ɜ”, per il plurale; sul sito vengono fornite anche delle linee guida piuttosto puntuali per il loro uso.

 

Quando, nel 2020, la casa editrice effequ decise di tradurre e pubblicare Feminismo em comum, un libro della femminista brasiliana Marcia Tiburi (che è apparso in Italia, nella traduzione di Eloisa Del Giudice, con il titolo Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune), si trovò di fronte una difficoltà: in un paio di occorrenze l’autrice usa nel testo il plurale “inclusivo” in e che esiste ufficiosamente sia in spagnolo sia in portoghese: accanto a todas e todos, dunque, anche todes. Si noti, peraltro, che queste sperimentazioni linguistiche hanno destato e destano proteste da parte del mondo accademico nei paesi ispanofoni e lusofoni.

 

Nel 2019, era stato pubblicato dalla stessa casa editrice il mio libro Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, che accenna al tema dello schwa in un breve trafiletto di una decina di righe (pp. 184-185):

 

«In italiano, alcuni tentativi per far riemergere una sorta di neutro hanno portato all’impiego, nello scritto, dell’asterisco in fine di parola: car* tutt*; un uso interessante e molto espressivo, forse più elegante del raddoppio care tutte e cari tutti, che può effettivamente diventare molto farraginoso, ma con un difetto che non può che limitarne l’impiego su ampia scala: l’impronunciabilità. Proprio tenendo conto di questo limite oggettivo, qualche tempo fa avevo proposto (ma non sono stata la prima a farlo) l’impiego, in questi contesti, dello schwa, ossia della vocale indistinta che, nell’alfabeto fonetico internazionale, viene identificata con il simbolo ə: lo si trova in molti dialetti, in fine di parola (per esempio, in napoletano), ed è la vocale che potremmo descrivere come il suono che emettiamo quando abbiamo la bocca ‘a riposo’, non contraiamo nessun muscolo ed emettiamo semplicemente un suono così, con il viso rilassato. Certo, lo schwa ha a sua volta un limite: il simbolo non è presente sulla tastiera standard, e anzi, è noto solo a una parte della comunità dei parlanti. Ciononostante, chissà che non possa un giorno porsi come alternativa valida per i casi in cui non identificare il genere di una moltitudine o di una persona è rilevante: Carə colleghə, siete tuttə benvenutə.»

 

A partire da questa idea in nuce, effequ iniziò a pensare alla possibilità di rendere todes con lo schwa, tuttə; un impiego, quindi, che è differente da quello proposto da Italiano Inclusivo (che all’epoca di quella prima formulazione non era noto né a me né a effequ), e alla cui sistematizzazione ho successivamente lavorato assieme alla casa editrice; secondo la “scuola di pensiero” che io stessa seguo, basta un solo simbolo in più per gestire sia il singolare sia il plurale, dato che nella quasi totalità dei casi gli accordi intrafrasali sono sufficienti per disambiguare il significato: “lə scrittorə sceltə dalla commissione vincerà un premio in denaro” vs “ə scrittorə sceltə dalla commissione vinceranno in premio in denaro” (cfr. Cos’è quella “e” rovesciata, in Questioni di un certo genere, op.cit., pp. 24-33).

 

Dopo quella prima sperimentazione, dunque, effequ ha deciso di impiegare lo schwa al posto del maschile sovraesteso nella sua collana di saggistica (i “Saggi Pop”). Proprio la necessità di usare il simbolo con consistenza e coerenza, pur nella consapevolezza che si tratta di un esperimento, ha reso necessaria la creazione di una norma redazionale consistente, che riporto qui per sommi capi, e che compare anche nel già citato Questioni di un certo genere, p. 32.

- Sostantivi (singolare): la sindaca, il sindaco, lə sindacə; la dottoressa, il dottore, lə dottorə; la poeta, il poeta, lə poeta; l’autrice, l’autore, l’autorə, un’amante, un amante, unə amante.

- Sostantivi (plurale): le sindache, i sindaci, ə sindacə; le dottoresse, i dottori, ə dottorə; le poete, i poeti, ə poetə, le autrici, gli autori, ə autorə; delle amanti, degli amanti, deə amanti.

- Pronome personale 3a persona singolare: lei, lui, ləi; a lei/le, a lui/gli, a ləi, lə.

La scelta, nel caso di termini come lettore/lettrice, di unire lo schwa alla radice lettor-, nasce dall’osservazione che i femminili dei nomi in -tore e -sore prevedono, tra gli esiti possibili, quello a suffisso zero (come gestora accanto a gestrice, o assessora, o incisora). Il pronome personale ləi pone senz’altro delle difficoltà in più, poiché normalmente lo schwa si trova in posizione atona, non tonica; tuttavia, esistono esempi, nelle lingue del mondo, di ə in posizione tonica, a testimonianza del fatto che non si tratta di un’articolazione foneticamente impossibile, per quanto indubbiamente complessa, soprattutto per una persona italofona.

 

È interessante notare che da qualche tempo in tedesco si usa, con funzione “epicena”, la doppia suffissazione (Bürger+Bürgerinnen=Bürger*innen); uno degli ostacoli citati più spesso da coloro che si oppongono all’esperimento è quello della difficoltà di pronuncia. In realtà, come argomentato dal sociolinguista Carsten Sinner durante un recente convegno, il modo più semplice per pronunciare tali nessi è inserendo un colpo di glottide, che i germanofoni impiegano già inconsciamente in molte altre occasioni (ad es, nella pronuncia di Rührei ‘uovo strapazzato’); dunque, un po’ come per lo schwa in italiano, si tratta di rendere consapevole una pronuncia presente inconsapevolmente nei parlanti.

 

Chiaramente, gli esempi offerti non coprono tutta la casistica che si incontra in una lingua, ma a oggi le due “scuole” (Italiano Inclusivo ed effequ) sono quelle che presentano lo stadio più avanzato di sistematicità nell’uso; d’altro canto, è evidente (e anche normale) che in una fase di sperimentazione diffusa ci siano numerose incertezze, non esistendo una direzione normante e comune, quanto piuttosto il desiderio di provare a impiegare un linguaggio meno connotato per genere. Per quanto, dunque, le sperimentazioni con lo schwa siano diventate più diffuse, si notano oscillazioni nel suo impiego (si veda, ad es. Michela Murgia, Chiara Tagliaferri, L’uomo ricco sono io, Mondadori, Milano, 2021), che non sono altro che l’ulteriore dimostrazione della mancanza di quell’“imposizione dall’alto” che viene invece spesso paventata da più parti.

 

Nel 2021 Femminili singolari è stato ripubblicato con l’aggiunta di un capitolo intitolato L’avventura dello schwa, che tenta di ricostruire quanto successo tra il 2020 e oggi. In più, il volume è stato aggiornato inserendo nel testo lo schwa al posto del maschile sovraesteso; recentemente, ne è stata pubblicata la versione audiolibro, letta quindi con lo schwa. Per dare invece un esempio di testo scritto con lo schwa, ecco un passaggio da In altre parole. Dizionario minimo di diversità, di Fabrizio Acanfora (effequ, Firenze, 2021, p. 42):

 

«È importante essere consapevoli del ruolo fondamentale del linguaggio nella costruzione della nostra realtà e della realtà di coloro che incontriamo sul nostro cammino. Il modo in cui ci rivolgeremo a loro, le parole che useremo per posizionarci nei confronti deə altrə e per descrivere la loro identità in relazione al nostro mondo, avrà un’influenza diretta sulle loro vite non solo a livello personale ed emotivo, ma contribuirà a forgiare la percezione che il mondo avrà di loro influendo anche su aspetti come i diritti, le leggi, le libertà. Bisogna essere consapevoli che garantire a ciascunə il diritto a esistere non toglie nulla a noi e ai nostri diritti. È importante domandarci come le persone diverse da noi desiderino essere definite e rappresentate, perché questo semplice gesto garantisce loro l’esistenza, almeno nel nostro mondo, e non è poco. E dobbiamo capire che allargare le nostre possibilità linguistiche interrogandoci ad esempio sull’uso dei pronomi e su quanto le nostre consuetudini non includano una fetta anche piuttosto consistente della popolazione, abbia conseguenze dirette sulla loro visibilità come individui aventi gli stessi diritti e le stesse opportunità di chiunque altrə».

 

Come si può notare, la presenza del simbolo non è così impattante come si potrebbe pensare, e viene ridotta al minimo indispensabile. In generale, l’idea che segue effequ è di limitare il ricorso allo schwa allo stretto necessario, preferendo, ove possibile, formulazioni alternative (come sto cercando di fare anche in questo articolo), ad esempio tramite il ricorso a termini semanticamente neutri come persona, individuo, essere umano, o a circonlocuzioni come la cittadinanza, la popolazione studentesca, chi lavora in questa azienda ecc.

 

Il passaggio da questione di nicchia al mainstream

La questione dello schwa sarebbe probabilmente rimasta interna a contesti specifici, se il 25 luglio 2020 il giornalista Mattia Feltri non avesse pubblicato un trafiletto intitolato Allarmi siam fascistə sulla prima pagina del quotidiano La Stampa. Riporto qui il testo, rimandando a Manuel Favaro, Linguaggio inclusivo e sessismo linguistico: un’introduzione (Testo&Senso, 23, pp. 7-9) e al già citato estratto da Femminili Singolari (2021) per una disamina dei fatti attorno alla sua uscita.

 

«Anche se non siete entomologi dei social, anzi entomolog*, vi sarà capitato d’imbattervi in parole scritte con l’asterisco al posto dell’ultima vocale. L’asterisco indica un plurale né femminile né maschile, poiché in italiano il plurale neutro finisce in -i, e coincide col maschile. Dunque è sessismo. Cioè, se scrivo cari amici intendo cari amici e care amiche, ma il maschile che psicologicamente prevale sul femminile fa di me un fascio. Quindi scriverò car* amic*. Francamente, non so se scrivendo car* lettor* sono lo stesso un po’ fascio, essendo il femminile lettrici, e qui l’asterisco fallisce. Comunque l’asterisco è perfetto anche nel singolare se converso con una persona fluida, cioè dal genere inespresso dalle rudimentali categorie maschio/femmina. Ma quando passo alla comunicazione orale? Su Facebook un’accademica della Crusca – dove ritengono oltraggioso per la nostra lingua se i ragazzi dicono spoilerare anziché svelare il finale – suggerisce l’uso dello schwa. È un fonema che si pronuncia a metà fra la a e la e come nell’inglese about, e si scrive ə. Penso ai professori, anzi professor*, anzi professorə. Quando vi rivolgete aglə studentə d’ora in poi dovete scrivere e dire studentə. Forza, ripetete con me: “Ragazzə, aprite il libro a pagina ventuno”. Dai dev’essere qualcosa fra ragazzae e ragazzea. Non è chiaro? Facciamo così: fino a ragazz ci siamo, poi dite una vocale che sia una specie d’abbozzo di sbadiglio, ragazzaoew. Vabbè, pensate a Stanlio e Ollio e sarà sufficiente. L’uditorio, maturo e consapevole, apprezzerà lo sforzo e non vi sputerà addosso: non è che potete diventare democraticə dalla sera alla mattina, bruttə fascistə.»

 

Questo testo è rilevante, nella vicenda, perché rappresenta a mio avviso il momento dello spillover, della tracimazione dell’istanza da ambiti circoscritti a un pubblico indistinto; ed essendo il trafiletto scritto con un tono ben preciso, di scherno misto a indignazione, è anche il testo che definisce, in buona parte, il tenore della discussione successiva, portando a una repentina quanto violenta polarizzazione tra schwaisti e contrari allo schwa (sulla disamina dei vari contributi di intellettuali, linguisti e linguiste pubblicati nei mesi successivi a tale elzeviro, rimando ai testi già citati di Favaro e Gheno).

 

È importante sottolineare un aspetto: stiamo discutendo di una tra le soluzioni “ampie” nate in seno alle comunità LGBTQIA+, usata da membri di tali comunità e da simpatizzanti con la causa, generalmente in un numero limitato di contesti e spesso non in maniera consistente, che ha raggiunto un certo grado di standardizzazione perché almeno una casa editrice ha deciso di usarlo in maniera regolare in una sua collana, mentre diverse altre lo hanno impiegato in alcuni dei loro volumi (ad es. Grada Kilomba, Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano, Capovolte, Alessandria, 2021, traduzione di Mackda Ghebremariam Tesfaù e Marie Moïse di Plantation Memories. Episodes of Everyday Racism, 2008; Zoe Mendelson, Pussypedia, Fabbri, Milano, 2022, traduzione di Angela Lombardo e Stefania Ionta dell’omonimo originale del 2021).

 

Dunque, successivamente alla sua nascita e alla sua iniziale circolazione, si è sentita l’esigenza di definirne l’uso in maniera più precisa, anche se tali norme non sono usate univocamente e in maniera diffusa. Si può, considerato tutto questo, parlare davvero di un uso “inventato a tavolino” e “imposto dall’alto”? Dove si riscontra tale obbligo? Eppure, uno dei punti forti della già citata petizione è proprio la supposta imposizione, tanto che nel testo si parla della «proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un'intera comunità di parlanti e di scriventi»; peraltro, di tali direttive impositive non viene fornito alcun esempio.

 

In un altro passaggio della stessa petizione, il promotore scrive:

 

«Lo schwa e altri simboli (slash, asterischi, chioccioline, ecc.), oppure specifici suoni (come la "u" in "Caru tuttu", per "Cari tutti, care tutte"), che si vorrebbe introdurre a modificare l'uso linguistico italiano corrente, non sono motivati da reali richieste di cambiamento. Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell'inclusività».

 

Penso che il disagio linguistico manifestato da una minoranza che fa in ogni caso parte della nostra comunità di parlanti sia reale (basta, del resto, confrontarsi con le persone direttamente interessate alla questione per averne una conferma), e che questo fermento linguistico ne sia un segnale concreto, per quanto rimanga assolutamente imprevedibile la direzione che la riflessione prenderà: non è da escludere che si possa, un giorno, tornare pacificamente all’uso del maschile sovraesteso, ma solamente se questo avverrà con una mentalità completamente diversa da quella attuale. Ma questo è un problema diverso.

 

Lo schwa in contesti ufficiali

In realtà, la pietra dello scandalo, per molti tra quelli che hanno sottoscritto la petizione, pare essere il fatto che lo schwa (breve e lungo) sia finito in sei verbali di una commissione ministeriale per l’Abilitazione Scientifica Nazionale. Si noti che di questo si occupa un singolo passaggio della suddetta petizione, che infatti è stata più comunemente interpretata come una sorta di grido di allarme contro il presunto degrado della lingua italiana.

 

Sono d’accordo che dei documenti ministeriali non siano il contesto più adatto per una sperimentazione linguistica (così come avevo avuto qualche perplessità quando l’amministrazione comunale di Castelfranco Emilia aveva deciso di adottare lo schwa nella sua comunicazione social; a quanto vedo, peraltro, il Comune è successivamente tornato sui suoi passi). La prima strategia di non-espressione del genere dovrebbe rimanere quella di scegliere, ove possibile, circonlocuzioni semanticamente neutre; non si può, infatti, prestare attenzione alla questione di genere dimenticandosi di chi potrebbe subire un danno nella sua capacità di decodificare il testo (ad esempio persone anziane o con una scarsa conoscenza dell’italiano). Insomma, la leggibilità deve venire preservata, soprattutto per documenti che devono essere fruibili da un pubblico ampio e indistinto.

 

Per lo specifico caso dei verbali in discussione, tuttavia, considerando che si è trattato della decisione di un singolo estensore, il professor Maurizio Decastri, che successivamente ha spiegato le proprie ragioni in una lettera pubblicata sul blog del Corriere La 27a ora, non credo che la strada giusta per discutere della sua scelta fosse quella di creare una petizione pubblica: contro cosa, esattamente? Con quali finalità? Per ottenere quale risultato? (per una critica dettagliata al testo della petizione, consiglio la visione del video registrato dal filoso femminista ed estetologo Lorenzo Gasparrini e la lettura di Matteo Pascoletti, L’assurda petizione per ‘difendere’ la lingua italiana, “Valigia Blu”, 9 febbraio 2022, nonché di Dario Accolla, La congiura (inesistente) dello schwa, ibid., 13 febbraio 2022).

 

Contro lo schwa

Il popoloso fronte di anti-schwaisti solleva numerose obiezioni. Vediamo le principali; per un approfondimento su questo tema, rimando a un articolo recentemente uscito su Valigia Blu (Schwa, asterisco e linguaggio inclusivo: proviamo a rispondere alle critiche più frequenti, 4 marzo 2022).

 

Lo schwa crea difficoltà di lettura

In primis, lo schwa rappresenterebbe un problema per persone dislessiche, neurodivergenti o, in generale, con difficoltà di lettura (per esempio le persone anziane). Questa questione è reale e da non sottovalutare. Tuttavia, la difficoltà di fronte alle forme di linguaggio ampio non è unanime, come si legge in questa lettera aperta comparsa sulla pagina Facebook di Fərocia e promossa da «persone neurodivergenti appartenenti alla comunità lgbtiaq+, insegnanti, attivistə e semplici allies». Il già citato Fabrizio Acanfora è autistico (lui sceglie per sé la definizione identity first, per cui la uso in ossequio al suo desiderio), e ha più volte ribadito, assieme ad altri membri della sua comunità, di non provare particolari difficoltà nella lettura e nell’uso dello schwa. Del resto, se si riflette in una prospettiva intersezionale (sul concetto di intersezionalità cfr. Barbara Giovanna Bello, Intersezionalità. Teorie e pratiche tra diritto e società, FrancoAngeli, Milano, 2020), appare più chiaro come non abbia senso mettere una minoranza (quella di dislessici e neurodivergenti) contro un’altra (quella delle persone gender non-conforming); intanto, perché ci sono persone che appartengono a entrambe le categorie; secondariamente, perché se le soluzioni oggi in circolazione non soddisfano ogni soggettività, nulla vieta di cercare altre vie o di ricorrere ad altre soluzioni.

 

Lo schwa non è supportato dalla tecnologia

In secondo luogo, lo schwa sarebbe difficile da usare perché le tastiere non lo riportano; in più, non è riconosciuto dai lettori vocali di testo, essenziali, tra l’altro, per rendere fruibili i testi per persone cieche e ipovedenti. Questa è una questione reale e seria quanto quella precedente. Tuttavia, in questo caso i problemi sono legati alla tecnologia, più che alle persone, e questo vuol dire che forse sono risolvibili più facilmente.

 

Intanto, nella primavera del 2021 il sistema operativo Android ha inserito lo schwa tra le alternative della lettera e sulla tastiera di cellulari e tablet che lo montano; a settembre dello stesso anno la medesima innovazione è stata introdotta da Apple per iOs. Al momento, digitare lo schwa sulla tastiera di un computer è più difficile, ma non impossibile, anche se indubbiamente è necessario ricorrere a qualche accorgimento in più. Per quanto riguarda, invece, la tecnologia assistiva, il problema non è di facile risoluzione; tuttavia, se ci fosse un vero interesse a impegnarsi per superare questo limite, ossia la leggibilità dello schwa da parte dei software di lettura, la questione potrebbe probabilmente essere risolta in tempi contenuti.

 

Lo schwa e gli ostacoli presenti nel sistema lingua

Lo schwa sarebbe de facto “impossibile” a livello di sistema linguistico: su questo hanno dato il loro parere molte persone di grandissima competenza, come Roberta D’Alessandro («Una regola come quella dello schwa, nel sistema italiano che marca il genere binario e ha il maschile di default (cioè lo usa nei verbi impersonali o in quelli meteorologici) non è acquisibile» [Huffington Post, 21 settembre 2021]), Cristiana De Santis, presente anche in questo Speciale («Decidere di agire sulla terminazione o sul corpo delle parole per occultare il genere, in ogni caso, non equivale a intervenire solo sull’ortografia (non si tratta di cambiare una lettera, sostituendola con un simbolo più “neutro”): vuol dire intaccare in profondità la morfologia della nostra lingua, smagliandone anche la sintassi (che non può prescindere dalla regola dell’accordo) e la testualità (l’accordo delle parole, anche a distanza, è uno dei requisiti della buona formazione dei testi perché contribuisce alla coesione, cioè alla compattezza del discorso). Sarebbe comodo, certo, pensare di estendere un espediente ‘semplice’ (facilmente accessibile oramai sulle tastiere alfanumeriche) per risolvere i nostri problemi di (in)tolleranza e convivenza civile, se non ci fosse una controindicazione tanto forte da agire come dissuasore: non solo avalleremmo una soluzione semplicistica, ma ci sottrarremmo alle regole grammaticali della nostra lingua, acquisite in modo libero e spontaneo da ogni parlante madrelingua» [Treccani, 9 febbraio 2022]), Giuliana Giusti (cfr. Inclusività della lingua italiana, nella lingua italiana: come e perché. Fondamenti teorici e proposte operative, in “DEP – Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile” n° 48, 1/2022”), Cristina Lavinio (Generi grammaticali e identità di genere, in “Testo e senso”, n° 23, dicembre 2021, pp. 31-42), ecc.

 

Ritengo che continuare a discutere sulla liceità di un uso sperimentale già diffuso sia fuori fuoco: un “fatto di lingua” esiste nel momento in cui ci sono persone che vi fanno ricorso; questo non implica però che tale uso debba arrivare in alcun modo “a regime”. In altre parole io stessa, da persona che sta studiando il fenomeno (e che, in quanto ally della comunità LGBTQIA+, usa lo schwa in alcune situazioni per rimarcare il proprio interesse per l’istanza), non credo che lo schwa sia la soluzione definitiva al problema, quanto piuttosto il segnale di un’esigenza per la quale, al momento, non è stata pensata una risposta più sostenibile di questa. Tutto questo, per quanto mi riguarda, non toglie minimamente rilevanza agli esperimenti inclusivi. Bisognerebbe quindi casomai riflettere sulla loro praticabilità o sulla possibilità di altre soluzioni, come si è fatto recentemente al già citato simposio multilingue Équivalences (i materiali condivisi in tale occasione dal sociolinguista Carsten Sinner sono utilissimi perché forniscono una disamina delle varie soluzioni inclusive implementate in tedesco e francese).

 

Approcci di studio differenti non sono insoliti all’interno della stessa branca del sapere; dunque, anche quella che genericamente potrebbe essere definita “linguistica” è fatta da mille rivoli differenti: dalla pragmatica alla glottologia, dalla psicolinguistica alla sociolinguistica, dalla storia della lingua alla linguistica descrittiva, ecc. Quando ventun anni fa iniziavo a ragionare sulla mia tesi di laurea, che volevo dedicare al linguaggio dei newsgroup, tra le prime forme di aggregazione virtuale, professori e professoresse con cui mi ero consultata per il tema ne misero in dubbio la rilevanza, chiedendomi se fossi sicura di scrivere una tesi di laurea su un argomento “che entro qualche anno perderà qualsiasi rilievo”. Più di due decenni dopo, quasi non esiste linguista che non abbia detto la sua sulla comunicazione mediata dal computer. È con lo stesso spirito laico, ma da entusiasta frequentatrice della comunità LGBTQIA+, che adesso studio le molte realizzazioni del linguaggio ampio (e non inclusivo, così come cerco di non usare inclusività, ma preferisco l’espressione convivenza delle differenze, seguendo il ragionamento del già citato Acanfora).

 

Lo schwa e la cancellazione del femminile

Infine, spesso si parla dello schwa come di un tentativo di “opacizzazione del genere”, di cancellazione del femminile che a oggi, va riconosciuto, è ancora poco strutturato nell’uso. Nella mia esperienza personale, che del resto condivido con molte altre persone (si pensi solo alla visione anarca-femminista di Bottici, già menzionata precedentemente), lo schwa, se usato al posto del maschile sovraesteso e là dove doppie o triple forme à la Marcia Tiburi sarebbero insostenibili, non va a sostituire o nascondere il femminile, ma semplicemente a evitare il maschile sovraesteso con tutte le conseguenze cognitive legate al suo uso. La mia impostazione di femminista intersezionale non mi fa vedere le due istanze di visibilizzazione, quella femminile e quella queer, come in contrasto, bensì in continuità, come teorizza anche la linguista Manuela Manera (La lingua che cambia. Rappresentare le identità di genere, creare gli immaginari, aprire lo spazio linguistico, Eris Edizioni, Torino, 2021).

 

Allo stesso modo, non penso che sia corretto pensare di sistemare prima la situazione femminile, riservando a un momento successivo la riflessione sulle persone gender non-conforming, perché in questo modo non si farebbe altro che spostare il confine del privilegio, senza però rimuovere le iniquità che, certo, sono sociali, ma che si realizzano anche a livello linguistico (su questo argomento, cfr. Kübra Gümüsay, Lingua e essere, Fandango, Roma, 2021, trad. di Lavinia Azzone di Sprache und Sein, 2020 e Vera Gheno, La lingua non deve essere un museo. La necessità di un linguaggio inclusivo, in AA.VV., Non si può più dire niente?, UTET, Torino, 2022, pp. 107-124).

 

Il momento storico richiede studio, collaborazione, discussione e riflessioni sul tema nella maniera meno polarizzata possibile, prendendo atto dell’esistenza di un’esigenza che può inizialmente essere di difficile definizione ma, soprattutto, lavorando a contatto con le comunità LGBTQIA+, i cui malesseri e le cui richieste vengono ancora ascoltate troppo poco. Nella polarizzazione, esattamente come prevede il concetto dell’ingiustizia discorsiva («l’appartenenza a un gruppo sociale discriminato […] sembra distorcere e a volte annullare la possibilità di agire efficacemente con le proprie parole», cit. Claudia Bianchi, Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio, Laterza, Roma-Bari, 2021, p. 17), la voce del mondo queer viene spesso ignorata quasi del tutto. Come si può pensare di affrontare la questione senza dare ascolto a chi di questa riflessione linguistica sente il bisogno?

 

Al di là delle questioni linguistiche, di sistema, è urgente mantenere una visione internazionale (già, perché la ricerca di una lingua abitabile comodamente anche dalle persone non binarie è in corso in molti idiomi) e soprattutto, come già menzionato, rimettere al centro le persone. Ho la sensazione che spesso si neghi l’esistenza di un indubbio privilegio, quello di avere una lingua a propria immagine e somiglianza, giustificandolo come uno stato di cose naturale e immutabile. Come scrive Sarah Schulman (The gentrification of the mind. Witness to a lost imagination, University of California Press, Berkeley, 2012, p.167):

 

«In order to transform the structures, we who benefit from them would have to accept that our privileges are enforced, not earned. And that others, who are currently created as inferior, just simply lack the lifelong process of false inflation and its concrete material consequence. Facing this would mean altering our sense of self from deservingly superior to inflated. That would be uncomfortable. […] Being uncomfortable or asking others to be uncomfortable is practically considered antisocial because the revelation of truth is tremendously dangerous to supremacy. As a result, we have a society in which the happiness of the privileged is based on never starting the process towards becoming accountable».

 

Invito chi ritiene che l’intera istanza sollevata dallo schwa sia una moda, o che determinate persone “soffrano” di una “fluttuazione del genere” (e non, invece, per le ingiuste conseguenze sociali date dall’avere un’identità di genere non conforme), o ancora, che queste questioni siano leziosità figlie di un’ossessione per il “politicamente corretto” (sul tema rimando a Federico Faloppa, Breve storia di una strumentalizzazione. Alle origini dell’espressione “politically correct”, in Non si può più dire niente?, op.cit., pp. 69-88), a leggere il testo di questo messaggio privato arrivatomi un anno fa su Facebook, che a mio avviso spiega la questione – e il mio approccio – meglio di qualsiasi dato empirico, oggettivo (il messaggio è riprodotto nella forma originale).

 

«[…] Mia figlia adolescente, che sta vivendo un momento di passaggio probabilmente a un futuro genere maschile, non ama ovviamente essere interpellata al femminile. Io cerco di adeguarmi ma con grandissima fatica e spesso mi rendo conto di pronunciare la schwa come estremo tentativo di tenere in equilibrio i due generi che compongono la sua personalità. Sarà pure aborrita dai puristi della lingua ma io ci trovo un segnale di inclusività e amore verso il genere umano nelle sue infinite sfaccettature che non riesco a spiegare altrimenti se non raccontando la mia esperienza».

 

Tutta questa riflessione è, forse, davvero marginale; ma del resto, come ci ricorda bell hooks (Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli, Milano, 1998, trad. di Maria Nadotti), è proprio al margine che si manifestano fermenti, innovazioni, istanze che talvolta, da una posizione centrale, si fatica a vedere.

 

Immagine: The inclusivity of the LGBTQ community

 

Crediti immagine: CCO Public Domain, CC0, attraverso Wikimedia Commons

 

 

 

 

 

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#Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole

 

Federico Faloppa

#Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole

Novara-Milano, Utet, 2020

 

Da una ventina di anni il nome di Federico Faloppa, linguista e professore all’Università di Reading, è associato a testi curati e approfonditi, ma soprattutto militanti. La militanza non va affatto data per scontata, perché non è così facilmente conciliabile con la vita universitaria. Nel caso di Faloppa, invece, l’impegno scientifico, quello politico e quello sociale a favore degli “ultimi” convivono in maniera naturale e decisamente felice; si può dire che proprio da tale modus vivendi et operandi nasca la sua ultima fatica: #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole (UTET, 2020).

 

Il corposo testo deve molto, oltre che a studi pluriennali – come messo in luce da una bibliografia vasta e plurilingue – e all’attenta e costante osservazione dei meccanismi (più perversi) della comunicazione, al coinvolgimento diretto del linguista nel contrasto ai discorsi d’odio sia in qualità di collaboratore di Amnesty International Italia sia come membro del Committee of Experts on Combating Hate Speech del Consiglio d’Europa. Tuttavia, per il sottotitolo del suo volume Faloppa non sceglie termini come “lotta”, “contrasto” o “guerra”: preferisce, programmaticamente, “resistenza”, una parola che esplicita una precisa posizione ideologica e che implica l’agentività da parte del singolo, cioè la necessità che ogni persona, letteralmente, si faccia carico in maniera attiva del problema dell’odio. Troppo spesso, infatti, come nota l’autore, nell’affrontare la questione dell’odio si determina un doppio distanziamento: orizzontale, tra un “io” che non potrebbe mai diventare odiatore e i famosi hater, saldamente “altri da noi”,  raffigurati come dei veri e propri professionisti dell’insulto, e verticale, che considera la questione come troppo smisurata per affrontarla nel proprio piccolo e demanda quindi la soluzione ai “grandi attori” come multinazionali, governi, forze dell’ordine, ecc. In conseguenza a questo atteggiamento, accade quindi che la maggior parte delle persone rimanga sostanzialmente immobile. Come si può, dunque, diventare parte di una sorta di movimento di resistenza all’odio, tanto per richiamare il titolo scelto da Faloppa? Per iniziare, forse proprio leggendo questo manuale.

 

L’autore sceglie di aprire le sue pagine con una tagliente citazione di Alexander Langer, che va a definire senza fraintendimenti il tono dell’intera opera:

 

«Io credo che – semplificando – abbiamo due scelte: una è quella che ultimamente è diventata famosa col termine epurazione etnica, cioè ripulire ogni territorio dagli altri, rendere omogeneo, rendere esclusivo, etnicamente esclusivo un territorio, e quindi dire che chi lì non diventa uguale agli altri, perché vuole coltivare la sua diversità o chi semplicemente viene cacciato da lì, cioè non gli viene neanche permesso di integrarsi, se ne vada, con le buone o le cattive, fino allo sterminio. L’altra possibilità è quella che ci attrezziamo alla convivenza, che sviluppiamo una cultura, una politica, un’attitudine alla convivenza, cioè alla pluralità, al parlarsi, all’ascoltarsi. Ora credo che finché non costava, finché era una moda, il plurietnico, il pluriculturale, era anche bello, faceva chic. Per esempio l’Italia era un paese in cui tutti i grandi giornali erano pieni di sdegno sulla xenofobia altrui […]. Oggi ci accorgiamo che questo diventa tragicamente realtà anche da noi; forse per la semplice ragione che prima gli altri non li avevamo tra noi e quindi era facile sopportarli finché stavano lontani. Una volta che ci sono diventa meno facile. Allora credo che promuovere una cultura, una legislazione, un’organizzazione sociale, per la convivenza pluriculturale, plurietnica, diventa, oggi, uno dei segni distintivi della qualità della vita, una delle condizioni per poter avere un futuro vivibile.» (p. 9)

 

L’intento è condensato tutto in queste righe, scelte come incipit; e proprio per andare incontro alla necessità di promozione della convivenza pluriculturale che Faloppa concepisce un manuale diviso in cinque parti, che porti il lettore passaggio dopo passaggio a comprendere l’argomento a fondo.

 

Dapprima viene definito il discorso d’odio, rimarcandone, de facto, l’insidiosa indefinibilità; successivamente l’autore descrive la normativa esistente, a livello nazionale e internazionale: quando è, insomma, che l’odio diventa reato? La terza parte è dedicata all’odio in rete, a come internet abbia ulteriormente complicato il discorso e reso, in un certo senso, ancora più semplice odiare. La quarta parte entra nel dettaglio tecnico della realizzazione del discorso d’odio, non solo dal punto di vista linguistico, e presenta, spiegandoli, molti meccanismi spesso inconsci che portano le persone ad avere reazioni xenofobe, misogine ecc. come l’effetto innesco (quando un determinato termine porta a un’associazione di idee, ovviamente negativa) o l’effetto corna del diavolo (a causa del quale le notizie negative rimangono in mente molto più di quelle positive). Faloppa chiarisce che non possono bastare liste lessicali di proscrizione o algoritmi-filtro, anche molto avanzati, dato che noi umani siamo imbattibili nell’usare, per insultarci, anche termini apparentemente educatissimi. La quinta e ultima parte è incentrata sul contrasto dei fenomeni d’odio. In questa sezione, molto spazio è dedicato sia al rapporto tra noi e l’odio sia a quello tra noi e le vittime. Quest’ultimo aspetto è essenziale, perché sovente le sofferenze e le sensibilità di chi è vittima vengono sottovalutate.

 

Faloppa ha scelto di aprire il suo libro con le parole impenitenti di Langer e ne usa di altrettanto dure – e dirette – nelle ultime pagine (pp. 214-215):

 

«Non varrebbe la pena mischiare un po’ le carte, sfidare i pregiudizi – a cominciare dai nostri –, negoziare l’armistizio invece che acuire il conflitto? Sfidare e sfidarci su un terreno comune, invece che continuare a tracciare la linea del fronte?

Forse, scopriremmo così che, a parte i troll e i professionisti dell’odio […] non esistono assolutamente cattivi da un lato e assolutamente buoni dall’altro, quanto piuttosto un’eterogenea serie di casistiche, tra le quali si estende un continuum dai contorni non sempre definiti che va dall’odio occasionale all’odio casuale, dal ‘l’ho scritto senza pensarci’ al ‘non pensavo che avrei fatto del male a qualcuno’.

Scopriremmo che nessuno può veramente arrogarsi l’autorità morale per ergersi al di sopra di tutto e tutti. Che ognuno di noi potrebbe ritrovarsi in dinamiche d’odio […].

Scopriremmo che un bagno di umiltà è necessario: per conoscere meglio, e senza paraocchi, il fenomeno, e per trovare delle risposte condivise, non calate dall’alto, non divisive.»

 

L’autore ci richiama tutti, con parole efficaci e comprensibili, a un momento di riflessione: non siamo solo potenziali vittime, ma anche potenziali carnefici; e solo grazie alla consapevolezza, alla responsabilità personale e alla riflessione indotta dallo studio possiamo contribuire a cambiare forma alla realtà in cui ci ritroviamo a vivere, facendola evolvere verso qualcosa che possa “funzionare” non solo per una parte ristretta della società, ma per il numero più alto possibile di persone.

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Coronavirus, una parola infetta

Dopo venticinque anni passati a osservare gli effetti (diretti e collaterali) dei mezzi di comunicazione di massa sull’opinione pubblica, non è la prima volta che assisto alla tempesta di informazioni connessa a un evento funesto e sconvolgente. Alcuni, su Facebook, hanno stilato una lista semiseria, nella quale compaiono le varie grandi guerre che hanno scosso il mondo (Iran-Iraq, Golfo, ex Jugoslavia), di volta in volta viste come i prodromi della terza Guerra Mondiale, nonché le diverse epidemie (AIDS, mucca pazza, Ebola, aviaria, suina, ecc.), ognuna delle quali avrebbe, secondo alcuni, dovuto portare alla fine della civiltà umana “come la conosciamo”. Rispetto al passato, credo però di poter dire che mai prima d’ora sia stato così rilevante il ruolo giocato dalle fonti di informazione che potremmo chiamare secondarie, in particolare i social network e le piattaforme di messaggistica personale, usati spesso in maniera indebita per condividere appelli, testimonianze o informazioni inesatte, quando non completamente false.

 

Mentre scrivo, non voglio né drammatizzare né minimizzare la situazione attuale, connessa all’espandersi delle infezioni definite COVID-19, provocate dal virus SARS-CoV-2, meglio noto come (nuovo) coronavirus: non sono né medica né virologa, per cui parlerei di una cosa a me pressoché sconosciuta. Da linguista, invece, vorrei osservare come la narrazione mediatica, o meglio, il framing di ciò che sta accadendo (come analizzato dal linguista Federico Faloppa in un suo post, offrendomi lo spunto per questa riflessione), abbia contribuito alla sua percezione e ricezione.

 

Abbiamo, nei giorni scorsi, assistito ad alcuni passaggi mediatici fondamentali. Il primo capitolo risale all’incirca alla fine di gennaio 2020, ed è collegato alla diffusione della notizia allo scoppio dell’epidemia in Cina, a Wuhan, con conseguente narrazione apocalittica (o forse postapocalittica) di quanto stava avvenendo all’epicentro dell’infezione: le imponenti misure di contenimento prese dal governo cinese, l’epopea dei connazionali “intrappolati” dalla quarantena, il prodigio dell’ospedale costruito in dieci giorni, la narratio di un evento sconvolgente ma tutto sommato lontano. Fedeli alla filosofia NIMBY, not in my backyard, ‘non nel mio cortile’, i media “nostrani” hanno, a mio avviso, imbastito una comunicazione a tinte forti, complice il fatto che si trattava comunque di un avvenimento remoto.

 

Ovviamente, di pari passo con questa cornice grandguignolesca, non sono stati pochi i casi di razzismo contro i “cinesi” (tra virgolette perché ne hanno fatto le spese, quasi indistintamente, tutti coloro con fattezze orientali: il razzismo non va mai troppo per il sottile), individuati come veri e propri untori del contagio. Poco è importato a una bella fetta dell’opinione pubblica che in Italia esistano comunità estese di cinesi di seconda e terza generazione, nati e cresciuti in Italia, che, come ha chiosato un alunno di seconda media da me incontrato in una scuola fiorentina, “hanno visto la Cina solo su Google Maps”. Come ha notato sempre lo stesso ragazzo, identificare gli orientali come untori è servito per rendere riconoscibili e quindi isolabili i supposti vettori del contagio, rassicurando allo stesso tempo tutti gli altri: fintantoché ci si fosse tenuti lontani dai “cinesi”, non sarebbe potuto succedere nulla di male. Si rilevi, in questa fase, l’uso reiterato del termine untore, con chiari riferimenti alla peste, anche se tra le due malattie non esiste alcun nesso. Vale la pena anche di ricordare che nella definizione da vocabolario di untore è originariamente contenuta l’idea che l’azione di contagio venisse compiuta volontariamente: questo, di certo, non ha aiutato una trattazione “distesa” dell’argomento.

 

Il secondo capitolo è iniziato quando, nella terza decade di febbraio 2020, la malattia è arrivata davvero in Italia (tralasciando quindi il caso di fine gennaio 2020 dei due turisti cinesi ammalatisi e messi in quarantena a Roma) con i focolai del Nord Italia, per l’esattezza in Lombardia e Veneto. Per alcuni giorni, i mezzi di comunicazione di massa, soprattutto quotidiani e televisione, si sono scatenati in una sorta di vero e proprio sabba incontrollato a chi, francamente, la metteva giù più dura. I titoli delle prime pagine di alcuni dei principali quotidiani (appartenenti a vari schieramenti politici), fotografati dal giornalista Luigi Ambrosio il 22 febbraio 2020, a ridosso della scoperta dei casi italiani, erano: “Italia infetta. In Veneto il primo morto di coronavirus”; “Virus, il Nord nella paura”; “Contagi e morte, il morbo è tra noi”; “Vade retro virus. Primo morto: un 77enne a Padova”; “Avanza il virus, Nord in quarantena”. Ovviamente, nessuna di queste è una fake news tout court, quanto piuttosto il prodotto di una precisa scelta di “cornice narrativa” nella quale, per esempio, si è tralasciato di accennare al fatto che il defunto non era esattamente “morto di coronavirus”, dato che soffriva di patologie pregresse, o che la quarantena non riguardava certo tutto il Nord Italia, ma due zone circoscritte.

 

I mezzi di comunicazione di massa, in quei giorni, hanno contribuito a definire il tono della conversazione pubblica. E non solo le “persone comuni” sui social hanno iniziato ad alimentare il fuoco della paranoia collettiva con contatori di defunti “di coronavirus” (salvo poi scoprire che praticamente nessuno, in Italia, era morto per le conseguenze esclusive dell’infezione, quanto piuttosto per quadri di comorbosità o comorbilità – cioè di coesistenza di più patologie – piuttosto complessi), con ipotesi di complotto (“Non ci stanno dicendo tutto”, “La realtà è ben più grave”), con uscite xenofobe solo in parte giustificate dal sacrosanto e umanissimo timore di ammalarsi; anche numerosi esperti hanno ceduto alla tentazione di richiamare su di sé l’attenzione con dichiarazioni non sempre condivisibili e in più di un caso sopra le righe, talvolta cadendo anche in contraddizione con sé stessi a distanza di pochi giorni, come se una delle caratteristiche di questo presente iperconnesso e ipercomplesso, come lo definisce per esempio Piero Dominici, non fosse quella di rendere impossibile la rimozione delle dichiarazioni fatte in passato. E così, basta fare una ricerca veloce su Google per accorgersi di come anche nomi di primissimo piano abbiano prima minimizzato, poi dichiarato che la situazione era molto grave, poi siano tornati a chiedere un abbassamento dei toni da parte dei media; toni che, in molti casi, avevano contribuito essi stessi a innalzare.

 

Dunque, sono seguiti alcuni giorni di psicosi generalizzata, in cui gli abitanti di molte zone d’Italia, spaventati e disorientati, hanno fatto razzia di mascherine, gel disinfettanti, generi alimentari, come in attesa dell’Armageddon. Diverse regioni hanno chiuso scuole di ogni ordine e grado e molti eventi di massa sono stati o cancellati o rimandati. Si è diffuso un clima di sospetto ostile nei confronti di chiunque esibisse un minimo accenno di malessere, un colpo di tosse. In questo contesto, hanno prosperato anche i mitomani. Due casi particolarmente rilevanti, per quanto mi riguarda, sono stati la falsa ricetta del gel disinfettante fatto in casa (potenzialmente pericolosa, che il chimico e divulgatore scientifico Dario Bressanini ha contribuito a chiarire e rettificare, dando la ricetta corretta) e il messaggio vocale circolato in Toscana per giorni su WhatsApp di una sedicente dirigente della Regione che, affermando di essere appena uscita da una seduta del consiglio regionale, prospettava la chiusura delle scuole invitando le persone a tenere comunque a casa i figli “secondo coscienza”. L’audio ha avuto una diffusione capillare nei gruppi dei genitori delle classi scolastiche e, nonostante la mancanza di una qualifica precisa da parte dell’autrice del vocale, molti l’hanno preso sul serio, contribuendo, ovviamente, a seminare l’incertezza e lo scontento nei confronti degli organi regionali, accusati di non fare abbastanza per arginare l’epidemia. Questo è anche il momento in cui si è iniziato a parlare insistentemente di pandemia nel senso di epidemia impossibile da arginare e contenere, anche se l’OMS ha cercato di chiarire che al momento è improprio parlare della situazione in questi termini.

 

Si giunge, così, pochi giorni dopo, verso il 23-24 febbraio 2020, alla terza fase dell’informazione. Sono arrivati, sia a livello politico che sanitario, inviti ai media ad abbassare e contenere i toni, perché era diventato evidente che la situazione stava sfuggendo di mano. È chiaro che in questo momento si sono sovrapposte varie esigenze: quella di contenere il contagio, certo, ma anche quella di minimizzare i danni economici e politici della situazione: improvvisamente, infatti, gli italiani si sono ritrovati a essere gli “appestati del mondo”, con gravissime conseguenze di immagine. A questo hanno contribuito non poco i succitati toni impiegati dai mezzi di comunicazione di massa.

 

Quella che superficialmente potrebbe sembrare la sostituzione di un certo tipo di notizie con altre è piuttosto un caso di reframing, a dimostrazione di come le stesse informazioni possano essere, con qualche accortezza, date in maniera radicalmente differente, se non opposta, senza che questo comporti per forza una loro distorsione. Per esempio, invece della “conta dei morti da coronavirus” si è passati da una parte a spiegare il quadro patologico delle vittime, spesso anziane o immunodepresse (il che non rende meno tragiche le loro morti, ma serve piuttosto per contestualizzare gli avvenimenti e anche per rendersi conto di quali siano le persone più a rischio dell’insorgenza di complicazioni gravi) e a fare il censimento dei guariti che, per fortuna, sono molti di più dei pazienti con esito fatale.

 

Il problema, a mio avviso, è che questa terza fase si è fatta un po’ attendere e appare in diretta e forzata opposizione alla narratio dei giorni precedenti. Questa opposizione contribuisce a minare la credibilità di molti organi informativi e anche a rendere meno credibili i loro appelli a una “normalizzazione”. Come si fa, del resto, a dare credito a chi ha usato il termine coronavirus come una clava fino a quarantott’ore prima e che adesso richiama alla “sobrietà mediatica”? Il termine coronavirus stesso, peraltro, è stato in larga parte usato impropriamente, dando l’impressione che si trattasse del coronavirus per eccellenza, quando in realtà abbiamo a che fare con un coronavirus, il più nuovo rappresentante della famiglia dei coronavirus, che sono la causa di una parte dei comuni raffreddori oltre che della ben nota SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome).

 

Oltre al termine usato in riferimento al virus, si è abusato forse anche delle parole della “nuvola semantica” circostante: epidemia e pandemia, contagio, infezione e infetto, virus cinese (ottimo assist per episodi di razzismo), contaminazione, psicosi, quarantena, untore, fino all’accostamento arbitrario – e terrificante – con peste. C’è da stupirsi se adesso le persone fanno fatica a credere agli appelli che invitano a un lento, seppur cauto, ritorno alla normalità?

 

Ritengo che i mezzi di comunicazione di massa abbiano una grandissima responsabilità rispetto all’andamento della percezione di quanto sta succedendo in questi giorni. Penso anche che molti abbiano abdicato al loro ruolo di informatori per diventare, spinti forse da voglie di protagonismo, piuttosto deformatori delle notizie. È invece importante, secondo me, che anche in un tempo in cui tutti possono fare del citizen journalism, gli organi “ufficiali” si impegnino a essere fonti autorevoli e affidabili, e soprattutto sobrie.

 

Non è un caso se negli ultimi giorni si è iniziato a parlare sempre di più di infodemia, ossia di epidemia di informazioni spesso contraddittorie, raramente affidabili, mirate non al cervello quanto piuttosto alla parte più bassa e istintiva di noi. Si può arginare, adesso, l’infodemia? Senz’altro, e penso che lo si stia già facendo, ma solo dopo aver assistito alle conseguenze nefaste della rincorsa allo scoop. Che almeno questa sia un’occasione per riflettere, da parte di tutti, sull’importanza della scelta corretta delle parole, che possono essere sempre selezionate per elicitare reazioni istintive oppure, davvero, per informare nella maniera più completa possibile. Penso che, come cittadini di questo presente iperconnesso, abbiamo ancora molto da imparare.

 

Immagine: Disinfezione dei treni della metropolitana di Teheran contro il coronavirus

 

Crediti immagine: Fars News Agency / CC BY (https://creativecommons.org/licenses/by/4.0)