Lingua Italiana

Giuseppe Girimonti Greco

Giuseppe Girimonti Greco è traduttore letterario e insegnante di Materie letterarie nella scuola pubblica. Tra gli autori che ha curato e tradotto: Perrault, Proust, Julien Green, Klossowski, Pozner, Simenon, Michon, Jauffret, Quiriny, Boileau&Narcejac. Ha diretto (insieme a Matteo Battarra) la collana «La letteratura secondo Hitchcock» per Il Saggiatore e (insieme a Vanni Santoni) la collana «Romanzi» di Tunué. Si occupa principalmente di Proust, letteratura italiana del Rinascimento, letteratura e arti visive. Collabora con il festival letterario campano «La pagina che non c’era». È redattore della collana «Gli Eccentrici» dell’editore salernitano Arcoiris e di alcune riviste letterarie e accademiche, tra cui: «Quaderni proustiani», «LetteraZero», «The Florentine Literary Review».

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Una Lisabetta da Messina neo-mélo. Il libretto de La grasta furata di Caneva-Sinigaglia

 

Il Decameron è forse il classico italiano che vanta il maggior numero di “traduzioni interne” o endo-linguistiche – tra le più note quelle di Piero Chiara (1984), Bianca Pitzorno (1991), Aldo Busi (1991), –  senza contare quelle inter-linguistiche e quelle inter-semiotiche (riprendo qui la terminologia che Franco Nasi mutua da Jakobson). Innumerevoli sono le riduzioni e gli adattamenti per le scuole (un vero e proprio censimento di questi testi ancora non esiste); non moltissime le riscritture attualizzanti (tra le più recenti spicca per la disinvoltura della reinvenzione e per l’energia narrativa quella di Ilaria Gaspari). Fra le traduzioni inter-semiotiche, nel complesso non sono molte quelle operistiche e – in generale – quelle destinate al teatro musicale (o meglio: sono meno numerose di quanto ci si aspetterebbe). Qui prendiamo in esame La grasta furata, un libretto di Ezio Sinigaglia tratto dalla novella IV, 5, e musicato da Sara Caneva nel 2013.

La novella di Lisabetta da Messina è particolarmente povera di dialoghi; anzi, per la precisione abbiamo solo tre frammenti di parlato: il primo consiste nella dura risposta di uno dei fratelli al continuo domandare di Lisabetta (che viene riportato in forma indiretta) in merito all’assenza di Lorenzo; il secondo è l’annuncio fatto a Lisabetta in sogno dal “fantasma” di Lorenzo. Il terzo, inservibile dal punto di vista drammaturgico, è la frase attribuita “ai vicini” che notano lo strano comportamento di Lisabetta e lo riferiscono ai suoi fratelli. Per le esigenze di una riduzione destinata al teatro musicale era necessario creare, sulla base di quanto suggerito dal testo, una quantità di parlato (e di “cantato”) inesistente nell’originale.

Nel Primo quadro ci sono varie forzature, che però non entrano mai in contraddizione con il testo: l’ambientazione è spostata nella camera di Lisabetta. Il dialogo fra i due amanti è interamente inventato, e sembra in tutto e per tutto un omaggio al topos melodrammatico della separazione degli amanti allo spuntar del sole:

 

Camera di Lisabetta. Alba. Lorenzo, in piedi accanto al letto, si sta rivestendo. Lisabetta, ancora coricata, apre gli occhi.

Lisabetta (teneramente e sottovoce): Lorenzo mio, perché mi ti nascondi?

Lorenzo (curvandosi sul letto per baciarla, sottovoce): Mi vesto, amor, non mi nascondo. È lalba: debbo fuggire!

Lisabetta (trattenendo per una mano Lorenzo che, rialzatosi, stava per      allontanarsi): Ogni giorno mi fuggi!

Lorenzo: Ma non la notte, Lisabetta mia! Suvvia, lasciami andare. Fa chiaro già…

Lisabetta:  …e la tua pelle si fa doro! Ma ai miei occhi è proibito di vedere Lorenzo quando è doro.

Lorenzo (con giocosa premura, curvandosi di nuovo sul letto): Anima mia, se davvero risplendo come dici, ancor più lesto debbo andarmene. Pensa, se lun dei tuoi fratelli fosse già desto…!

Lorenzo si rialza e, rapidamente, raggiunge la porta e la apre.

Lisabetta (sempre dal letto, girandosi verso la porta e spalancando le braccia): Ancora un bascio!

 

La domanda di Lisabetta che apre questo dialogo è una sorta di “programma”: “Lorenzo mio, perché mi ti nascondi?” è infatti il tema dominante, e la frase sarà ripetuta altre due volte, come un ritornello straziante. Alla terza ripresa risponde il “fantasma” di Lorenzo:

 

La camera di Lisabetta. Notte. Lisabetta è seduta sul letto, in camicia da notte, sul punto di coricarsi.

Lisabetta (sconsolata): Dove sei tu, Lorenzo mio? perché mi ti nascondi?

Buio per pochi istanti, poi una luce fioca. Lisabetta è a letto e dorme un sonno agitato. Entra Lorenzo, e si accosta a uno dei lati del letto, ma mantenendo una certa distanza.

Lorenzo: Giorno e notte mi chiami, Lisabetta, e piangi, e della lunga assenza mia mi accusi. Non straziarti così, amante mia, mia amata! Io non posso tornare. I tuoi fratelli, lultimo dì che mi vedesti… Lisabetta… mi uccisero! Se non lo credi, vai al fondaco vecchio, il più remoto, presso la vigna, e scava là dove la terra è smossa. Quel corpo che tanto amasti, che tanto cerchi, Lisabetta mia, lo troverai allora, sì, ma morto, e guasto. Lorenzo non può tornare… né lo potrà… più non chiamarlo!

 

All’economia della riduzione operistica si può ricondurre anche un’altra soluzione molto vistosa: il complotto dei tre fratelli, narrato dal Boccaccio in modo esplicito ma senza alcun frammento di parlato, si traduce in una frenetica concatenazione di battute. Il bisbigliare cospiratorio dei due fratelli “minori” è musicalmente molto marcato, anche attraverso il ricorso alla frammentazione, che si spinge fino alla lallazione onomatopeica, con effetti ritmici e musicali legati alle esigenze del canto a più voci:

 

La corte. Giorno pieno. In un angolo appartato della corte, sono riuniti in semicerchio Assassino Uno e Assassini Due e Tre.

Assassini Due e Tre (sconvolti, bisbigliando a turno): Bisi biso bisu bìbile, frate, diso disi cusi lasi, rocchia nostra?

Assassino Uno (indignato): Sì, Lisabetta, la sirocchia nostra!

Assassini Due e Tre: E visi visu visi curu, frate, lusi luso lufa, tòri nostro?

Assassino Uno: Lorenzo, sì! Lu fattori nostro!

 

Un altro esempio di forzatura è la trasformazione della canzone composta da “alcuno” dopo la morte di Lisabetta per celebrarne la macabra vicenda in una canzone cantata dalla stessa Lisabetta. Questo è il caso più evidente di “infedeltà necessaria”, per così dire: un’infedeltà suggerita dalla necessità di trasformare una novella in opera lirica.

In questo esperimento di riscrittura intermediale appare arditamente sfruttata una duplice potenzialità del testo di partenza: l’intrinseca teatralità melodrammatica (oltre che tragica) e il linguaggio. La lingua dei libretti dell’opera seria e dell’opera buffa italiana (che tanto deve all’italiano dei classici pre-moderni) è un linguaggio insieme ricercato e goffo, difficile da descrivere teoricamente, ma facile da cogliere all’orecchio. Ebbene: “All’alterità del toscano antico, Sinigaglia risponde con l’alterità ben presente della lingua del melodramma, una sorta di vivissimo fossile, messo lì accanto alle didascalie per ricordarci che il monolinguismo è una mera illusione […]” (così Simone Giusti in un intervento dedicato all’insegnamento dell’Italiano attraverso il Decameron).

Prendiamo, per concludere, l’aspra risposta che il maggiore dei fratelli di Lisabetta (Assassino Uno) le scaglia addosso per mettere a tacere il suo ansioso “domandare”, una battuta che nell’originale è al tempo stesso incalzante (per via delle due interrogative consecutive) e spietata, nella sua perentorietà (“Che vuol dir questo? Che hai tu a far di Lorenzo, che tu ne domandi cosí spesso? Se tu ne domanderai piú, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene”). Sinigaglia la rende con una certa disinvoltura; vediamo come:

 

Quinto quadro

La corte. Mattino. Lisabetta è affacciata alla finestra. Assassino Uno, uscendo dalla casa diretto al centro della corte, volge lo sguardo in alto e all’indietro per farle un cenno di saluto.

Lisabetta: Salute, frate mio.

Assassino Uno: Salute, Lisabetta.

Lisabetta (cercando di nascondere l’angoscia): E Lorenzo dov’è?

            Quando ritorna?

Assassino Uno (con durezza): E che hai tu a fare con Lorenzo, che

            ne domandi così spesso? Non domandarne più: egli è dov’io lo

            voglio.

Buio.

 

Come si vede, subito dopo la didascalia, che fornisce (come in tutto il libretto) delle precise indicazioni sceniche e di regia, ha inizio un dialogo serrato (dai saluti alla rispostaccia di Assassino Uno) che nell’originale è implicito: le due interrogative pronunciate da Lisabetta sono ricavate da una semplice subordinata (“domandandone ella molto instantemente”). Il “ti faremo quella risposta che ti si conviene” diventa “egli è dov’io voglio”, una trovata melodrammatica, che da un lato appare in linea con la psicologia e l’indole tirannica del personaggio, e dall’altro presenta il vantaggio di alzare la tensione drammaturgica e, per così dire, la temperatura tragica del copione (Pitzorno opta per un più aderente “Sta’ attenta, che se continui a chiedere di lui ti daremo la risposta che meriti”; Busi per una resa sopra le righe: “Se non la finisci con questo interrogatorio, ti risponderemo per le rime”).

Non solo: il quadro immediatamente precedente si chiude così:

 

Quarto quadro

La corte. Tramonto. Lisabetta è affacciata sulla corte dalla finestra della sua camera. Dalla tenebra-campagna entrano nella luce della corte i tre fratelli, soli.

Lisabetta (a parte, ansiosa): Lorenzo mio, perché mi ti nascondi?

(poi, rivolta ai fratelli che si sono nel frattempo avvicinati alla casa): E Lorenzo? Non tornò con voi?

Assassino Uno (con noncuranza): A Palermo lo mandai, pe’ ccerti

            affari. Starà via ’na pezza.

Buio.

 

Questo dialogo è inventato di sana pianta, o meglio è ricavato dal primo accenno all’ansia e all’insistenza di Lisabetta (“Non tornando Lorenzo, e l’Isabetta molto spesso e sollecitamente i fratei domandandone, sí come colei a cui la dimora lunga gravava, […]”). Rispetto alle traduzioni endo-linguistiche, più o meno libere o aderenti, qui assistiamo a una generosa espansione delle parti dialogate, e fin qui niente di strano: alcuni elementi impliciti nel testo vengono estratti dal non-detto (oltre che dal narrato e da tutto ciò che è accennato o appena suggerito), e utilizzati in chiave di Leitmotiven, di riprese musicali, pensate appositamente per il recitar cantando. Il che porta a delle libertà anche considerevoli (si pensi soltanto all’inflessione siciliana del personaggio del fratello, che ha tutta l’aria di essersi “naturalizzato” messinese). Libertà che sarebbe bello ritrovare ogni tanto anche in quei testi pensati “per la scuola” che si prefiggono come obiettivo l’insegnamento dell’Italiano “attraverso Boccaccio” e attraverso la drammatizzazione del Decameron, ovvero la trasformazione delle singole novelle in copioni “funzionali”. Da questo genere di testi sarebbe giusto aspettarsi una rigorosa riflessione “a monte” sulle scelte stilistiche, sulle mediazioni linguistiche e – in generale – sui problemi posti dalla lingua viva e da quella lingua altrettanto viva che (paradossalmente) è ancora l’italiano letterario “delle origini”; e, soprattutto, dal loro rapporto dialettico (antico-moderno, varietà dei registri lessicali, discorso indiretto-discorso diretto, sintassi, prosodia, ecc.)

 

 

Bibliografia

Simone Giusti, Insegnare con il Decameron nella scuola del primo ciclo, in Letterature e letteratura delle origini: lo spazio culturale europeo, a c. di Giuseppe Noto, Torino, Loescher, 2018, pp. 85-105

Franco Nasi, L’onesto narrare, l’onesto tradurre in Id., Specchi comunicanti. Traduzioni, parodie, riscritture, Milano, Medusa, 2010, pp. 85-126

Ezio Sinigaglia, La grasta furata, in Sara Caneva, La grasta furata: Atto Unico in undici quadri, tesi di Diploma Accademico di II livello in Composizione, a.a. 2012-2013, rel. Luciano Pelosi, Conservatorio Santa Cecilia, Roma (il libretto è in corso di pubblicazione sulla rivista «Fronesis», nel numero XVI, 20, 31 a cura di Mascia Cardelli)

Ilaria Gaspari, Giornata IV, novella V, Urlare al cielo, in AA. VV., Nuovo Decameron, HarperCollins Italia, 2021, pp. 59-70; se ne può leggere un ampio estratto online: Reinterpretare Boccaccio: Ilaria Gaspari riscrive la novella di Lisabetta da Messina.

Ezio Sinigaglia, Cannibali d’amore, in «Medicina delle tossicodipendenze», VI, 3, 1998

P. Liberale, La competenza letteraria attraverso la sceneggiatura, in Per una letteratura delle competenze, a c. di Natascia Tonelli, “I quaderni della Ricerca”, 6, Torino, Loescher, 2013, pp. 139-144

Alfonso D’Agostino, Boccaccio 2000: il Decameron sulle scene e al cinema, in Boccaccio: gli antichi e i moderni (“Biblioteca di Carte romanze”, 7), a cura di A. D’Agostino e Anna Maria Cabrini, Milano, Ledizioni, 2018, pp. 283-297.

 

 

Immagine: Lisabetta piange sopra il vaso contenente la testa dell'amato Lorenzo

 

 

Crediti immagine: William Holman Hunt, Public domain, via Wikimedia Commons