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Anna Giurickovic Dato

Anna Giurickovic Dato è una scrittrice italiana. È nata a Catania nel 1989, ha origini serbe, è cresciuta a Milano e vive tra Roma e Parigi. Nel 2014 si è laureata in Giurisprudenza; ha un dottorato in diritto pubblico, conseguito presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2020. È avvocato, ma non esercita, ed è sceneggiatrice e autrice di cartoni animati per la tv (tra cui “Giù dal nido”, in onda su RAI YOYO, e “Incredibile”, in onda su RAI Gulp). Il suo primo romanzo si intitola “La figlia femmina” (Fazi Editore, 2017), tradotto all’estero in cinque paesi tra cui Francia, Germania e Spagna e finalista al Premio Brancati 2018. Il suo secondo romanzo si intitola “Il grande me” (Fazi Editore, 2020), selezionato vincitore dalla giuria popolare del Premio Wondy 2021. Ha collaborato e collabora con vari giornali e riviste, tra cui Il Corriere della Sera, La Repubblica, Il Foglio, F, Donna Moderna, Nuovi Argomenti, The Post Internazionale, La Sicilia, Futura, ecc.

Pubblicazioni
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La via delle sorelle

 

Gaia Manzini

La via delle sorelle

Milano, Bompiani, 2023

 

Le sorelle sono state, per secoli, le stelle di riferimento per chi navigava: i marinai, scossi dal mare grosso, persi nel buio e disorientati dalle correnti, cercavano nel cielo nero una risposta alle loro domande inquiete e, quando vi scorgevano il luccichio della costellazione delle Pleiadi, si rasserenavano e riprendevano la rotta. Le sette sorelle hanno abitato cieli e poemi, miti e annali, dalla Grecia di Esiodo e Omero alle leggende cinesi, giapponesi, aborigene e Hindu. Gaia Manzini, in La via delle sorelle, ricostruisce l’itinerario di una vita segnata da scelte e rinunce, della sua nave che ha proceduto, attraccato e salpato non sempre avendo a disposizione cartina e bussola, ma seguendo la luce fulgida e chiarificatrice delle sorelle.

 

Amiche perdute e ritrovate, incrociate soltanto per un’ora, attinte dalla letteratura e comunque vere, presenti, vive e luminose come fari. Gaia Manzini disegna la sua, personale, costellazione, animata da Frida, Silvia, Marina, Luisa, Teresa, Paola, ma anche da Natalia Ginzburg, Alda Merini, Anne Sexton, Sylvia Plath, Lalla Romano, Antonia Pozzi, Pippa Bacca, Simone de Beauvoir, e molte altre. Non “grazie a loro”, ma attraverso il rapporto di sorellanza, scopre il proprio corpo, i propri limiti e quelli degli altri, il rispetto che deve alla propria vocazione e la misura dei danni provocati da un desiderio tradito, ma soprattutto si impadronisce delle parole giuste per nominare le cose, come violenza, creatività, mancanza, vergogna, paura, presunzione.

 

Le consapevolezze dell’autrice e protagonista si stratificano progressivamente nel suo memoir, tra racconti di vita propria e frammenti di biografie altrui, sentimenti e saperi, intarsi di narrativa e saggistica. Gli eventi, i piccoli urti quotidiani, i bivi e i tentennamenti sono raccontati attraverso la congiunzione di brevi archi narrativi che portano la fabula a non coincidere mai con l’intreccio. La linea narrativa si sorregge su una raccolta di ricordi personali che, di volta in volta, vengono introdotti da aneddoti sulle scrittrici e le artiste che l’autrice ha scelto come sorelle putative. Così, Antonia Pozzi ha una fotografia che le è particolarmente cara e Gaia Manzini ne evoca una che la ritrae bambina: entrambe somigliano a un ragazzo, entrambe sorridono felici. Sylvia Plath e Anne Sexton sono libere e pazze e si rifugiano nella poesia, “l’unico luogo dove non c’era follia, solo esattezza”; Gaia Manzini lancia arancini sugli invitati, durante una festa, la chiamano “matta”, ma lei in quel momento incede verso la propria libertà. Natalia Ginzburg è “grave e materna”, i suoi figli rappresentano per lei un auto-limite, il confine tra determinazione e tentazione; Gaia Manzini, nel momento in cui “nasce” come madre, compie un ampio passo, una falcata, nel suo percorso identitario: entrambe, però, comprendono che deve esistere un limite anche nel sentirsi visceralmente madri e che esso coincide con la vocazione.

 

Per raccontare le svolte della propria formazione, l’autrice ha bisogno di ripercorrere la strada tracciata da chi l’ha solcata prima di lei; ciascun tragitto è esplorato in compagnia di una “sorella” e descrive una parabola, un insegnamento che si tramanda di donna in donna. Così: “La creatività e le ambizioni femminili si consumano tra l'incompiuto e la rinuncia"; “In quegli anni intorno al mio corpo c’era violenza e io non lo sapevo”; “Vivere dentro una proiezione allontana dalla realtà, ma soprattutto allontana da sé stessi. Tutte le volte che ho aderito a un’immagine che volevo proiettare ho costruito un muro”.

 

La narratrice entra ed esce dalla narrazione, coincide con il personaggio principale – la scrittrice – ma si racconta ora come soggetto che prende parte agli eventi, ora come soggetto che gli eventi è capace di controllarli e che, spesso dichiarando prima i suoi intenti, dirige la scrittura laddove deve andare, laddove vuole che vada: come quando, interrompendo la narrazione che procede all’imperfetto, cambia tempo e al presente avverte che “È per questo che la mia amica, nei miei ricordi e in queste pagine, sarà sempre e solo Frida”; e ancora, poco dopo, afferma che “È di loro che voglio raccontare: amiche con cui ho iniziato a sognare, che ho amato tanto da voler essere come loro, con cui ho immaginato grandi imprese; amiche che mi hanno indicato una strada”. Allo stesso modo, la narratrice, raccontando una storia di complicità, evocando un’amicizia pura “come l’acqua di un ruscello”, d’improvviso sospetta di se stessa, esce fuori dalla narrazione e chiarisce che “Forse tra noi c’erano piccole gelosie, piccole invidie; sicuramente ho sognato di venire impagliata dallo zio cacciatore di Silvia, ma non lo ricordo. Voglio credere che certi affetti siano stati cristallini; ho bisogno di un serbatoio di purezza a cui attingere di tanto in tanto”. In altri momenti la narratrice interrompe il narrare e rinuncia all’onniscienza per amor del vero, decidendo di non ricorrere alla finzione neanche per colmare le dimenticanze: “Un venerdì sera ci sarebbe stata una festa. Non mi ricordo cosa si festeggiasse, ricordo però la vasca da bagno di G. riempita di ghiaccio, decine e decine di bottiglie di birra.” Attraversando lo stesso flusso, le stesse immagini, l’autrice salta da un evento a un pensiero e da un tempo all’altro: “Aveva nove anni Simone… Un giorno era entrata in classe una bambina più grande, i capelli bruni tagliati corti, il viso intelligente, una simpatia innata. Si chiama Élisabeth Lacoin, detta Zaza, e spicca sul conformismo che la circonda”.

 

L’autrice si mostra non convenzionale non solo laddove dirige la narrazione dentro e fuori la storia, tra la vita della scrittrice-personaggio e i pensieri della scrittrice-narratrice, ma anche nei diversi momenti in cui, evocando un aneddoto, se ne appropria al punto da decidere di non usare le virgolette per delimitare i dialoghi: ciò che è avvenuto ed è stato detto è indistinguibile da ciò che la narratrice pensa sia avvenuto e pensa sia stato detto. Così, per esempio, raccontando dell’incontro tra Virginia Woolf e Katherine Mansfield, Gaia Manzini scrive: “La loro amicizia era iniziata da una lettera di Katherine nel giugno 1917. Non vedeva l’ora di incontrarsi ancora una volta con Virginia. Amo pensare a te come a un’amica. Ti prego di considerare quanto sia raro trovare qualcuno con la stessa passione per la scrittura, qualcuno che desideri essere altrettanto autentico e scrupoloso. Capace di concederti la stessa libertà che solo ti può concedere una grande città. È una richiesta di intimità”. Ora parlano i personaggi tra loro, ora invece è la scrittrice che si rivolge al lettore. Le parole sono le stesse, ambivalenti, prestate e prese in prestito.

 

La via delle sorelle è un libro che nasce dal bisogno profondo di indagare l’amicizia e la femminilità, alla ricerca di un legame slegato dallo spazio, dal tempo e dal sangue, avulso da invidie e gelosie e riconoscibile in tutti gli incontri che sono stati testimoni o baluardi di una determinata metamorfosi. Gaia Manzini, cucendo e tagliando tra ricordi personali e evocazioni storiche, arriva a isolare la sua personale soluzione di sorellanza: “l’amicizia – quella vera – è letteratura”, scrive, e poi ribadisce che “La scrittura è una festa piena di invitati e dialoghi silenziosi di artiste, donne, sorelle, qualcuna ancora viva, qualcuna deceduta; famose, anonime, dimenticate, emergenti. Un luogo di condivisioni, e di amicizia”.

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Il dio disarmato

 

Andrea Pomella

Il dio disarmato

Torino, Einaudi, 2022

 

Per alcuni saranno delle semplici otto ore, per altri 480 minuti, 28800 secondi, 0.33 giorni o 0.047 settimane. Per Andrea Pomella sono nervi e tendini, viti e rondelle, chiese a pianta circolare, cinturini di orologi, stoffa degli abiti appesi alle grucce, una strada larga otto passi. Se un romanzo è un’entità che in potenza permette di contrarre le ore, i giorni, i mesi e gli anni, Il dio disarmato è un dio attento e posa il suo sguardo su ogni piccolo spasmo emotivo, sulla regolarità degli atti respiratori, su ogni frammento visto e non visto, sulla carne e sul pensiero, sull’azione compiuta e sull’ineluttabilità di ogni scelta, tentando, così, un’impresa diversa: dilatare il tempo.

 

Sono le 9.02 del 16 marzo 1978 quando accade qualcosa che dura pochi secondi eppure “continua ad accadere”: lo stesso giorno in cui il Parlamento voterà la fiducia al nuovo governo Andreotti, l’Onorevole Aldo Moro viene sequestrato da un nucleo armato delle Brigate Rosse. In quei pochi minuti perdono la vita cinque persone. Per chi osserva, per chi è fuori dall’attimo in cui si determina l’evento, esso è nato laddove è avvenuto e da quel momento in poi rilascia le sue spore e, segnando la Storia, comincia a scandire il futuro. Per chi dell’evento è l’artefice, esso è lo spartiacque tra intenzione e comprensione, tra l’essere parte e il chiamarsi fuori dal genere umano. Per chi l’evento lo subisce, esso non esiste se non nelle radici che affonda nel passato, nelle scelte compiute e incompiute, nell’istante residuo che ancora, candidamente, ha il coraggio di chiamare “vita”.

 

Il presidente è il fiume in prossimità dell’ultima ansa, è il fronte acquatico colto nel passaggio che precede il salto nella cascata. Forse il fiume in quel punto avverte una lieve curvatura, un risucchio più forte dettato dalla forza di gravità, intuisce il mutamento imminente come lo intuiamo tutti in ogni attimo delle nostre vite, senza però prevederne l’effettiva portata. Il fronte acquatico non sa che dietro l’ansa c’è il dislivello, sente arrivare qualcosa, arriva sempre qualcosa, il corso del fiume in fondo è questo, qualcosa che aspetta al varco, che muta, che attrae e sospinge. La possibilità di una cascata, l’ipotesi del salto”.

 

Con una lingua di rara eleganza, un registro linguistico elevato, lirico, lo scrittore ripercorre uno degli eventi più cruciali del secondo dopoguerra, che ha rappresentato una cesura della storia contemporanea e segnato la crisi della democrazia italiana. Pomella si serve di periodi lunghi, distesi, ariosi; la costruzione ipotattica non allenta il ritmo del discorso, ma mette le parole al servizio di un pensiero complesso ed estremamente strutturato. La trama si dispiega in un’unica sequenza narrativa, il cui naturale dinamismo viene scomposto dall’autore in micro-sequenze statiche, siano esse descrittive, riflessive, argomentative o lirico-espressive. A prescindere dall’esigenza espositiva o narrativa che rincorre, Pomella non rinuncia mai a ricercare la perfezione stilistica, a indovinare la dimensione poetica che lega, indissolubilmente, gli eventi all’intensità emotiva dei personaggi che li abitano.

 

Così, nelle sequenze descrittive, l’autore evoca gli oggetti come avessero anima, moto e coscienza: “Il mondo di fuori è una strada, palazzine di tre piani, siepi di pitosforo, grossi pini protesi verso il cielo grigio del mattino, vite nascoste dietro le finestre o condensate negli oggetti sui terrazzi”; “La salita dell’ascensore placa per un istante il gorgoglio dei rovelli”; “l’aria le irrompe nei polmoni, il mazzo di chiavi le brucia fra le mani”; “Grida laceranti cadono dalle cime dei pini…”; “Il cielo è coperto, ha un che di biancastro, non piove ma tira vento e fa freddo, nell’albume dell’aria c’è qualcosa che si espande, creando dei piccoli vortici dentro ai quali se ne prepara uno più grande.”

 

Le sequenze riflessive non dimenticano di riflettere anche la bellezza, una bellezza irrequieta e spaventosa: “Ma anche la guerra è una maschera che cura la colpa”; “Intuisce che non solo i morti diventano fantasmi, ma anche i vivi, che ogni individuo che siamo stati su questa terra continua a vagare in qualche intersezione della realtà e del tempo, senza avere più diritto alle cose del mondo”; “I due seduti davanti a lui sono lì per proteggerlo, ma il presidente può leggere la paura incisa sui loro corpi. Non una paura consapevole, ma fisica. «Dolce Gesú…» pensa, furono le parole pronunciate da Maria Stuarda quando il boia, sbagliando il colpo fatale, senza decapitarla le fracassò la nuca”.

 

Le sequenze argomentative enunciano tesi filosofiche, ricorrendo a rigorose strutture logiche e matematiche: “Azione e comprensione non possono accadere nel medesimo istante, altrimenti a fare la differenza sarebbero unicamente i rapporti di forza. In un assalto invece la variabile dell’intenzione – o se vogliamo della sorpresa – è fondamentale. Ed è determinata da una sola unità di misura: il tempo. E questo tempo è di tre secondi.” Ancora: “La violenza naturale è contenuta nella violenza morale, mentre non si può dire il contrario. Cioè, la violenza naturale è uno degli strumenti a disposizione della violenza morale. La violenza morale è raffinatissima e terribile, ed è solo degli umani, perché affiora là dove c’è la fantasia.”

 

Addirittura, per descrivere la mutevolezza di via Fani, divenuta celebre dopo l’agguato a Moro e alla sua scorta, e che cambia a seconda delle percezioni che di essa esistono, Andrea Pomella ricorre a un esempio di tipo geometrico: “Se dispongo sullo stesso asse, da sinistra a destra, tre cerchi di diverse dimensioni, dal più grande al più piccolo, ponendo i loro centri a distanze regolari, a una prima osservazione la distanza fra il primo e il secondo cerchio non sembrerà la stessa che c’è tra il secondo e il terzo”, là dove il cerchio grande rappresenta la percezione storica dello spazio di via Fani, mentre quello piccolo la sua percezione attuale.

 

Infine, nelle sequenze lirico-espressive, il narratore si serve dei modi del testo poetico, sigillando, così, il legame emotivo con il lettore. Gorgogliano, tra le pagine, moltissime figure retoriche; soprattutto similitudini e metafore, spesso fantasiose, spingono le riflessioni del lettore anche al di là del significato che sarebbe proprio di alcune parole. Ricorrendo, con una certa costanza, allo stratagemma della libertà metaforica, lo scrittore consente a chi legge, ma anche a sé stesso, di categorizzare il pensiero. Pertanto, la paura è come il sentimento che prova “il petalo di una margherita tirato per il peduncolo e in procinto di essere scisso”; la fiducia ingenua, ispirata dal non sapere, è “come un’infanzia colma di religione”; le sirene rimbombano “come donne che ridono sguaiatamente, incapaci di dominare un’ubriacatura”; un sogno aleggia nella testa “come un nugolo di uccellini impalpabili e dispettosi”; e “al centro della scena c’è un Cristo consunto, gracile, con lunghi capelli neri e una mascolinità contadina, tipica di certi uomini svigoriti dall’esistenza, nei cui tratti, come nel velo trasparente di una fiamma, sembra luccicare la prefigurazione della morte”.

 

Il narratore è esterno e, come a volersi sottrarre da ogni possibile categorizzazione, ora resta nascosto, ora si palesa, alternando la terza e la prima persona per commentare, spiegare e giudicare le vicende dei personaggi, come nei più noti romanzi storici dell’Ottocento. Il narratore, però, è anche lo scrittore, un personaggio che scalpita all’interno dell’opera e si consente di interrompere la narrazione per svelare al lettore il proprio senso di inadeguatezza, il timore di essere un impostore che tenta di ricostruire, a partire dal “mondo di fuori”, che è un’evidenza, il “mondo di dentro”, che è una creazione. Il suo ingresso nella narrazione risponde, quasi sempre, all’esigenza di giustificare una mancanza, alla necessità di spiegare al lettore che se lì c’è qualcuno che non crede allo scrittore è lo scrittore stesso. Pomella, così, confessa che: “Il mondo di dentro invece non è dato saperlo, neppure al narratore che finge di sapere tutto”. E ancora: “Il narratore non sa che cosa ha fatto l’ingegnere stamattina, a che ora ha aperto gli occhi nel letto, con chi ha dormito, cosa ha mangiato a colazione, e neppure sa come sarebbe dovuta proseguire la sua giornata se non avesse appoggiato il piede a terra all’incrocio in quell’esatto momento. Tutto scompare dietro a un velo di nebbia, passato e futuro, una nebbia che il narratore potrebbe diradare solo inventando, ma il narratore odia dover conoscere per forza qualcosa che non vuol sapere affatto, sarebbe un effetto da macchina del fumo”.

 

Lo sguardo del lettore, continuamente invocato dallo scrittore/narratore, diviene anch’esso presente e attivo, ma, senza condividere l’insicurezza di chi lo invoca, resta estasiato davanti alla narrazione – al contempo, indisciplinata e perfetta – di fronte alle parole centrate con la precisione di un compasso, dinanzi a una poetica così musicale e suggestiva com’è quella con cui Andrea Pomella costruisce questo romanzo storico. Il dio disarmato disarma al punto che quello che è stato uno degli eventi più evocati nella contemporaneità, sembra accadere, in queste pagine, per la prima volta. Chiuso il libro, non v’è alcun dubbio che noi lettori ci trovassimo proprio lì, negli abiti di Moro, alle 9.02 di quel triste 16 marzo.

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Animale

 

Giuseppe Nibali

Animale

Trieste-Roma, Italo Svevo, 2022

 

Mi viene in mente un piccolo, apparentemente insignificante, episodio dell’infanzia di Dennis Nilsen, feroce omicida seriale britannico. È il giorno del funerale del nonno materno, Dennis ha cinque anni, avanza verso la bara e osserva quel corpo che ha tanto amato, ora disteso, bianco, emaciato, fatuo. Gli dicono che il morto è andato in un luogo migliore. Dennis, che con quel nonno ha trascorso molti momenti intimi, chiede alla madre: “Mi portava ovunque, perché non anche in questo posto migliore?” Il commiato dal cadavere diventa uno dei suoi ricordi più vividi. In quel momento le sue idee di amore e morte si fondono. Ed è forse per questa spaventosa fusione che il serial killer, dopo aver strangolato o affogato ben dodici volte, laverà i cadaveri, li cospargerà di borotalco, infine li vestirà per conservarli a casa il più a lungo possibile, come amanti silenziosi.

 

Anche Animale (Italo Svevo, 2022) potrebbe raccontare di un piccolo, apparentemente insignificante, evento della vita di un figlio e di un padre, se non fosse che a narrare è Giuseppe Nibali, con una prosa elegante e macabra, capace di giocare con i vivi e con i morti e di nutrire una continua metafora tra gli strati del mondo e gli stati della putrefazione. Giuseppe – questa volta il protagonista, non l’autore – lascia Bologna per ricongiungersi con il padre malato, con i luoghi abbandonati dell’infanzia, con i congelati ricordi di un’antica vitalità, con le narrazioni smarrite, con i dolorosi affetti e i resti di lontani amori decomposti. Sergio, suo padre, è reduce da un ictus che lo ha reso un animale o, meglio, ne ha evidenziato, agli occhi del figlio, la bestialità che sempre lo ha contraddistinto. È l’emblema di quell’animale indiretto di cui parla Cioran nel suo Sommario di decomposizione: l’uomo, a differenza dell’animale che va dritto al suo scopo, si perde in una lentezza che produce coscienza e lo trasforma in “un convalescente che aspira alla malattia. Niente è sano in lui se non il fatto di esserlo stato”.

Giuseppe ascolta il padre affannarsi tra i ricordi, la rabbia e il dolore; lo osserva, costretto com’è all’immobilità del letto d’ospedale, e in lui vede “un animale ferito che viene soccorso, sempre incerto tra la fuga e l’aggressione”. Sergio non è altro che un “corpo imploso” di cui il figlio ha vergogna, “un viso scemo che sorride e fa smorfie”, squarciato, confuso, impaurito, “è un complesso di carne cadente, suo padre”, ha la gamba “spappolata come il cuore di un tonno”, è nudo in mezzo al letto, goffo, sudato, putrido e “il suo corpo è la mappa del suo martirio”. Quello dipinto da Nibali è il ritratto di un uomo decadente, che deve il proprio status di umano soltanto a una contingenza rispetto a cui non ha né merito né colpa. Ricorro ancora a Cioran che, sempre riferendosi all’uomo, così chiosa: “Che sia un angelo che ha perduto le ali o una scimmia che ha perduto il pelo, non è potuto emergere dall’anonimato delle creature se non grazie alle eclissi della propria salute”.

 

Non vi è amore, ma osservazione reciproca, in questo rapporto tra un padre e un figlio che si sono abbandonati l’un l’altro e oggi si accompagnano in solitudine, nel ruolo inverso del genitore accudito da un erede accudente, dove a mancare è proprio un’eredità: nessun lascito, nessun insegnamento, nessun patto, nessuna promessa di affezione, cura, memoria, sostegno. Negli spazi lasciati vuoti da tutto ciò che avrebbe dovuto essere e non è stato, crescono i rami secchi dell’isolamento, del distacco. Vi sarebbe un anelito d’amore tra padre e figlio ma, rotto dallo spasimo, non assume mai il vigore di un respiro pieno. Così, mentre gli uomini, malati nel corpo o nella mente, perseverano inutilmente nella vita e la loro vita non si regge su nulla, hanno di fronte a loro un’unica nota esatta, la morte, che florida, rigogliosa come non mai, si propaga, conquistando e corrompendo gli spazi di cui, per diritto di natura, sarebbero titolari le cose vive e animate.

 

Già nelle prime pagine Nibali affonda, con grazia, la sua spada, quando scrive: “Sta andando da suo padre. Finalmente potrà entrargli dentro la testa, scavare tra le macerie, separare le parti vive da quelle morte. Il buio vuole cercare, quello che la distanza ha covato, e che l’ictus ha poi reso libero”.

 

Nel mondo fabbricato da Nibali e osservato attraverso lo sguardo del protagonista che gli è omonimo, Giuseppe, i vivi si confondono con i morti, gli animali sono carcasse, ogni movimento, anche il più vigoroso e selvaggio, è un inutile tentativo di salvezza che punta dritto alla putrefazione. I sostantivi e gli aggettivi utilizzati, scelti con minuzia dall’autore, costruiscono un registro necrotico che accompagna la lettura degli eventi attraverso una scenografia sentimentale che non lascia al lettore la libertà di un’interpretazione. Chi legge non è mai in ciò che accade, non si colloca al di fuori dello sguardo di chi scrive, ma al suo interno, non ha bisogno di decodificare, ma ne esce decrittato. Vi è una musica silenziosa nella narrazione che dà il tono alla lettura: non v’è più differenza tra uomini e animali, tra corpi integri e corpi sventrati.

 

Animale è un metatesto collegato direttamente con l’inconscio. Le parole sono spari: bum, pisciare, bum, scarnificare, bum, trapassare, bum, evaporare, bum, ribollire, bum, ingurgitare, bum, divorare, bum, inondare, bum, esplodere, bum, sprofondare, bum, lacerare, bum, spappolare, bum, massacrare. Attraverso un vocabolario feroce e brutale, Giuseppe Nibali è capace di rendere apocalittico anche il più naturale, trascurabile evento, donando a ogni cosa inanimata un corpo e un potenziale spasimo: così è “il corpo devastato della città”, quello che oggi gli appare come “uno stomaco di trenta metri, senza porte né finestre”; i “calzini sparsi come conigli in un campo”, l’acqua che ingoia, la pancia del mare, la mattina che esplode sullo Ionio, “le spazzatrici elettriche che puliscono le strade, sgretolando la calma del lungomare”, il sale e il vento che si mangiano le case e le mura, le lenzuola tra le quali si naufraga, le labbra che divorano un cazzo, il motorino che diventa una carcassa irriconoscibile, e il mare, “una bestia che, sempre più cupa, inizia a ingrossarsi”.

 

Mentre racconta il doloroso disfacimento del proprio padre, della propria città, della propria vita, della propria passione, della propria identità, Giuseppe semina specie animali in ogni pagina, in ogni video che guarda su youtube, in ogni ricordo che lascia riaffiorare. Gioca alla fattoria, come faceva da bambino, ma in questo suo giocare ha perduto qualcosa: l’ordine, la speranza, la disciplina. Il regno animale era protagonista dei suoi giochi più sereni, nella sua più tenera infanzia, nel momento precedente allo scollamento, quando era presente sua madre, quando, seppure nel preludio di ciò che poi sarebbe accaduto, quella “bambola triste” lo baciava ancora sulla fronte. Tra le pagine se ne contano a bizzeffe, un elenco sterminato di lupi, cani, gatti, formiche, porcellini d’India, conigli, maiali, mosche, pesci, tonni, squali, topi, caprioli, nutrie, folaghe, uccelli, canarini, polli, pappagalli, corvi, avvoltoi, poiane, diamantini, vermi. Sono le bestie indomite uscite dal recinto della gioia illusoria di un bambino che è fermo nel suo ricordo più vivido, dove ha fuso le idee di amore, animale e morte: “Lì, in quel giardino … giocava alla fattoria sotto lo sguardo attento del padre: costruiva lo steccato e sparpagliava gli animali, poi fingeva di nutrirli con le foglie della siepe, che per lui era paglia. Quando Annina li chiamava per il pranzo, era già tutto in ordine, nella valigetta: i maiali con i maiali, i cavalli con i cavalli, le galline con le galline. Aveva questa ossessione per le specie animali. Qualcosa che gli è sempre rimasto.”

 

Se il protagonista, da bambino, costruiva e decostruiva, oggi il narratore osserva tutto ciò che è rimasto, ovvero solo resti: ossa, denti, nasi, lingue, pelli, carni, diaframmi, nudità, ginocchia, occhi e orecchie, cotenne, zampe, glutei, muscoli, code, becchi, piume, ogni cosa che, divisa dal proprio corpo e dal contesto, mostra la sottile linea tra l’esistere e l’inesistenza.

«Ogni mattina, quando mi sveglio, penso», dice Sergio all’improvviso, e intanto con un colpo di spalla è riuscito a riprendersi l’arto.

«Buono, buono, professore!»

«Mi sveglio e penso: non sono mai esistito. Mai.»

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La mia Babele

 

Marcello Fois

La mia Babele

Milano, Solferino, 2022

 

Vi fu un tempo – un tempo biblico – in cui tutti gli uomini parlavano la stessa lingua, usavano e comprendevano le medesime parole, a prescindere da quale fosse il lenzuolo di terra che abitavano. Non v’era ambiguità linguistica, allora, e la comunicazione non si prestava né all’interpretazione né al compromesso. Venne in mente ai parlanti di costruire una città che non occupasse soltanto lo spazio terreno, ma si erigesse in cielo, alta e imponente: un assalto a Dio. Il Padre, però, non perdonò ai propri figli l’arroganza, tantomeno la disobbedienza: “disperdetevi”, aveva comandato, “disperdetevi su tutta la terra”, ma, contravvenendo alla prescrizione divina, gli uomini avevano scelto di concentrarsi su un unico asse, una torre la cui cima avrebbe infilzato il giardino di Dio. Il Signore ebbe timore, un popolo unito da una sola lingua avrebbe potuto compiere qualunque opera, avrebbe saputo rendere possibile l’impossibile, e per questo, di fronte a quell’operosità, ai primi strati di mattoni messi in fila, scese sulla terra e confuse la lingua. Gli uomini non si compresero più, si dispersero, la torre rimase quel che era e non arrivò mai a toccare le volte celesti.

 

Marcello Fois analizza, strato per strato, la propria torre di Babele, la personale fortificazione dove si sono sedimentati lingua e ricordi, battaglie e compromessi, significanti e significati, sconfitte e vendette. La mia Babele (Solferino, 2022) è un romanzo-saggio, un memoir ibrido che oscilla tra narrazione e riflessione e indugia tra autobiografia e studio critico. Con una lingua raffinata e un lessico ricco e accurato, l’autore ripercorre le fasi che hanno segnato il proprio percorso di scrittore, dal nome di battesimo alle plurime traduzioni che ne hanno accompagnato il successo. Il racconto della nascita, della famiglia, della formazione rappresenta una ricerca che vuole rispondere a due domande di fondo: in che modo lo scrittore ha concepito l’attitudine professionale a tradurre la vita? Se tradurre è tradire, quanto gli è costato ogni tradimento?

 

La mia Babele è costruita lungo quattro direttrici del tradimento: tradurre è tradire, la lingua italiana è tradimento, scrivere è tradire, nominare è tradire. Quattro direttrici che confermano una sola tesi: non v’è infedeltà peggiore di quella insita nel linguaggio.

 

Tradurre è tradire

È noto: tradurre è letteralmente tradire, poiché traghetta da una lingua all’altra. Fois lo mostra attraverso una serie di esempi concreti che preleva dalla propria autobiografia, dal suo essere sardo, dal suo essere scrittore, dal suo essere tradotto e traduttore. Raccoglie aneddoti che hanno come protagonisti “Caronti” imperfetti, che traghettando perdono, consumano, travolgono, stravolgono, rinunciano, impongono.

Tradisce il traduttore che rinuncia allo slang dello scrittore, propendendo per uno stile che ritiene più elegante: traduce “a babbo e mamma” con “to my mother and my father”, anziché con “to dad and mum”, e intanto rinuncia ai segni di un primissimo linguaggio infantile (connotato dalla sillaba ripetuta e dalla consonante bilabiale) per fare posto a quello che, in fin dei conti, è un francesismo.

Così, anche il traduttore che traduce settembre con settembre in qualsiasi altra lingua, tradendo il clima di un mese che è diverso a seconda che sia osservato dalla Sardegna o, invece, dalla foresta nera.

Tradisce anche il traduttore che rinuncia a un doppio senso cadendo vittima dell’intraducibilità di alcune parole, ma tradirebbe comunque, anche qualora propendesse per una “traduzione inventiva”. Non fu un egregio tradimento quello che Calvino servì a Queneau?

 

La lingua italiana è tradimento

"… La mia lingua madre mi è sembrata un rifugio di purezza, perché potevo usarla senza capirla, senza presagirla, senza tradurla”, scrive Fois, mentre racconta del sé bambino “sardo-parlante” che prende l’italiano a calci, del sé ragazzo che scambia un bicchiere per una tazza (o per una tassa), del sé adulto che sogna in nuorese, del sé furioso con l’animo obbediente alla sola lingua sarda, del sé sotterraneo in cui albergano concetti intraducibili, come chi è stato fattu a làddara, cioè “ridotto come una quercia invasa dalla galla”, del sé esiliato che ritrova nella sardità un passaporto piuttosto che una prigione.

 

Se la traduzione è sempre un tradimento in potenza, la lingua italiana è un tradimento consumato, una forzatura che disattende i dialetti. Eppure, Marcello fa dell’italianistica il proprio futuro, lo fa per vendetta (contro chi, lo scoprirà scrivendo), lo fa anche per tentare di superare l’impostura. Tra doppi sensi e falsi amici, confessa: “È probabile che sia stata proprio la parola «italianistica» a convincermi. Con quel che ha di assolutamente inquadrato. Preciso. Quella era una freccia che aveva un unico bersaglio. Nessuna vaghezza, nessuna dispersione. Italianistica: studio della lingua e della cultura italiana. Lei si era imposta e io mi vendicavo”.

 

Scrivere è tradire

Scrivere è tradurre: ha la pretesa di immortalare il movimento, di dire l’indicibile, di catturare nella parola non solo la realtà, ma anche l’impressione, e per questo tende all’infedeltà anche quando ispirata dal massimo rigore, dalla più incontestabile buona fede. Scrive Fois, in uno dei suoi momenti lirici: “Si è alzato il vento, nel frattempo, e il cielo si è oscurato, quella specie di fermo immagine in grigio piombo di poc’anzi si è sciolto in una sequenza turbolenta e violacea. C’è dell’inganno in certe giornate di marzo, è noto. Bisognerebbe essere pronti, avere le parole adatte a raccontare il cambiamento repentino senza essere costretti a cercarle chissà dove. Ogni perdita di tempo, ogni appuntamento fallito con la parola giusta, genera una microscopica apocalisse di senso”.

 

Scrivere è tradire: si tratta, pur sempre, di una forma di auto-traduzione; chi scrive accetta di farsi comprendere e rinuncia a qualcosa di intimo, all’identità profonda. La scrittura, proprio come la traduzione, è sempre il risultato di un’approssimazione.

 

Perciò quando si decide, o si prende atto del fatto, che la scrittura deve essere il proprio destino, allora si capisce che il traguardo di questo viaggiare e tradursi da un sistema all’altro è di mantenere intatto quel principio secondo cui lo stesso sole tramonta per tutta l’umanità, o la stessa mela che sta sulla tua tavola è esattamente la stessa che ha addentato Eva. Saper descrivere «l’ombra dei boschi» è esattamente quella fiammella che ti rende comprensibile in contrade dove si parlano lingue lontanissime dalla tua. Non è l’idioma dunque. È «l’ombra» che conta.”

 

Noi umani, noi parlanti, noi lettori, imprigionati sin dall’infanzia nella caverna della lingua, non aspettiamo certo di cogliere la realtà, ci bastano le sue infinite proiezioni. Lo scrittore lo sa e, tradendosi, ci tradisce.

 

Nominare è tradire

Infine, persino nominare è tradire. Il protagonista de La mia Babele nasce prematuro: sarebbe dovuto morire, così avevano sentenziato i medici, e per questo i genitori gli riservano un “battesimo in articulo mortis” e un nome estraneo alla linea parentale, in deroga ai precetti familiari. Marcello non muore: è un dramma. Da subito, la sua non-morte provoca dissidi; la nonna, matriarca patriarcale, rivendica il diritto di affermare la propria proiezione sull’infante, che d’improvviso viene chiamato Antonello, poi, di nuovo Marcello (negli ambienti in cui la burocrazia prevale). Cresce, così, il binomio vivente, tra nominazioni ambigue e perplessità identitarie, impostore per natura, dottore anziché medico, solo anziché unico.

 

Non v’è scampo, perché è il linguaggio stesso a rappresentare un tradimento. Il simbolo è la morte della cosa, sostiene Hegel ne La fenomenologia dello Spirito, poiché nello stesso momento in cui siamo in grado di indicare e nominare un oggetto esso è-stato e, quindi, non è più. Come la parola non coincide mai con la cosa. “Marcello” aveva un senso e significava “morto”: nel momento in cui egli non muore, tradisce, con il proprio corpo vivente, il destino che era contenuto nel significato del proprio nome.

 

Ripensando alla torre, viene naturale un parallelismo: anche a essa, infatti, è stato dato un nome che tradisce; gli uomini decisero di costruirla al fine di non disperdersi, ma dopo l’intervento di Dio fu nominata Babele, dall’ebraico bālal che significa confondere.

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Morsi

 

Marco Peano

Morsi

Milano, Bompiani, 2022

 

 

Mordere ha a che fare con i denti, ma anche con la parola: addentare e dir male sono azioni che fanno della bocca un organo di senso ambiguo, come ambigui sono sia il morso che il linguaggio. Ne è consapevole Marco Peano (Morsi, Milano, Bompiani, 2022) che, con la sua penna furiosa, costruisce una fiaba intrisa di realtà simbolica: ci sono gli adulti che, a furia di ripeterle, sembrano aver svuotato di significato le parole; e i bambini, con i denti da latte e l’incapacità di masticare il senso vergognoso di quei discorsi che, seppure non li riguardano, non li risparmiano: i più piccoli sognano parole che fanno paura e che divengono morsi. Vi è un pazzo, senza denti e per questo incapace di fare male a sé e ad altri; vi è un dubbio pre-adolescenziale che è racchiuso in una domanda: “Quando si bacia con la lingua … come si fa a non mordere l’altro e a non essere morsi a propria volta?”; vi è una scuola, che dovrebbe incarnare l’altare del senso e invece si rivela essere il “centro esatto del caos”; vi è il Natale, promessa simbolica della quiete domestica, che si trasfigura, invece, in un concentrato di tabù, nell’alba di tutte le morti. Infine, vi sono le masche, il cui potere si tramanda di donna in donna, da nonna a nipote, saltando, meticolosamente, una generazione.

 

 

Ricordando le streghe di Dahl

Vi son donne che possono fuggire al destino di strega, ma non esistono streghe in grado di sottrarsi al loro destino di donne, si sa. Certamente lo sanno i bambini, almeno da quando, con un celeberrimo romanzo per ragazzi (Le streghe, 1983), Roald Dahl lo spiegò con una certezza quasi descrittiva. La citazione è d’obbligo, poiché anche Morsi, conferma lo stesso assioma, raccontando di una nipote che si ritrova a passare le vacanze con la nonna materna, in un paesino perso nel tempo e coperto dalla neve, sconvolto da un evento indicibile, “l’incidente”… Al di là del parallelismo, però, Marco Peano, con la sua scrittura saettante, vuole colpire la coscienza del lettore adulto e, per questo, narra una fiaba che chiede di essere decodificata su più piani.

 

 

Tra significante e significato

Vi è, innanzitutto, il piano del linguaggio, la cui struttura detta le regole di un macabro gioco. I protagonisti di Morsi avanzano, come equilibristi, sul crinale tra significante e significato, lungo la sottile linea di confine che separa il mondo reale da quello fantastico, il luogo dell’essere dal luogo del dire. “Aveva di nuovo sognato le parole”, così comincia il romanzo e continua: “Le accadeva spesso, quando passava la notte a Lanzo: una successione di lettere che sbocciavano una dopo l’altra mentre dormiva, e nessuna catena logica a guidarle. Le parole generate da quelle lettere sfilavano come su un nastro e si rincorrevano dando forma a frasi incomprensibili, risultando oscure anche al risveglio. Talvolta, appena spalancati gli occhi sul mondo reale, si sforzava di riacciuffare brandelli di senso…” A sognare le parole è Sonia, una bambina per cui molti vocaboli non sono “nient’altro che suoni” che lei tenta, inutilmente, di decifrare. Sua nonna Ada, la strega, invece “a un certo punto della vita … aveva imparato i segni”.

 

 

La fragile logica della parola

Alla dimensione del linguaggio si interseca il tema della crescita, il percorso nell’orrore che porterà Sonia e Teo – i due giovanissimi protagonisti – a valicare la dentellata cortina dell’infanzia: “Quell’evento di cui da giorni erano unici testimoni non sanciva la fine del mondo, ma solo la fine di un mondo: il loro.” Una spinta verso una maturazione affettata, all’interno dell’istituzione familiare, dove la logica della parola è talmente fragile da non essere in grado di svolgere il proprio ruolo: istituire l’esperienza del limite, segnare lo spartiacque tra ciò che può essere fatto e ciò che non deve avvenire. Nel piccolo paesino di Lanzo, metafora di un’intera generazione, le colonne crollano: gli adulti sono morti, assenti, alcolizzati, violenti, blasfemi. Individui troppo occupati a berciare “contro il mondo e contro la vita” per rendersi conto che è in atto, davanti agli sguardi innocenti dei bambini (testimoni di quei disperati), una simbolica, definitiva autoeliminazione: il giorno del giudizio si manifesta per mezzo di un’inspiegabile “infezione cannibale”.

 

 

Il mito di Erisittone

Ed ecco che, sul piano della crescita, appare il tema dell’uccisione simbolica dei padri: Marco Peano, con incredibile grazia, costruisce un romanzo/fiaba capace di emblematizzare la crisi dell’uomo moderno. A colpire, però, non è la mano di Edipo: i padri, le istituzioni, le forme, le leggi si smantellano da sé e ai figli – i giovani, gli eredi – non resta neanche la colpa…

D’altra parte è chiaro ai protagonisti che “diventare grandi significa imparare a dire addio”.

Un mito narra che Erisittone, uomo privo di regole, limiti e rispetto per la natura e per il divino, scatenò l’ira implacabile di Demetra; lei, la dea dell’abbondanza e del nutrimento, non dovette fantasticare molto per trovare una punizione originale: e fu così che Erisittone, affamato e insaziabile, finì per mangiarsi da solo. Marco Peano si spinge oltre, immaginando l’autofagia di un popolo. Ma è un’autofagia di gruppo ad azzerare gli abitanti di Lanzo, oppure una violenta scossa di terremoto? L’ambiguità regna nella narrazione, come regna nello sguardo – innocente e fantasioso – di Sonia e Teo. Al lettore la scelta, che ciascuno trovi la propria spiegazione. D’altra parte, potrebbe non essere poi così fondamentale stabilire la natura degli eventi che sconvolgono il paesino di Lanzo; basti pensare che Erisittone significa letteralmente: “colui che apre la terra”.

 

 

Il germoglio è nel dialetto

Resta una speranza, un germoglio, e il germoglio è nel dialetto (piemontese), che apre un nuovo piano dove, dalla demolizione del vecchio, si accede alla reinvenzione di ciò che, nelle radici, rimane. E ancora in tema di linguaggio, leggiamo Peano che dissemina una serie di corsivi, voci dialettali, dialettalismi e regionalismi di cui, non soltanto noi lettori, ma anche i due protagonisti ignorano il significato: sono solo suoni, riferiti a oggetti, tradizioni, ormai dimenticati. Meliga, merenda sinoira, putagé, papìn, masca, sukaj, rubatà, bocia, puciu, chintana, sgiai, gagni, conegrina, fricieuj, rumenta, peru-peru, erba brüsca, ciapinabò, fricandò, bagige, patela, bialera e via così. Il dialetto è il simbolo dell’incomunicabilità, del conflitto intergenerazionale, del fatto che “Lanzo era un posto da vecchi” dove erano rimasti soltanto i giovani. Sono non-parole e per questo possono essere utilizzate come un gioco, senza che a esse si attribuisca la responsabilità di un significato. Fin quando, proprio le parole, che sino a un certo momento non avevano avuto senso, cominciano ad acquisirne e i più giovani si riappropriano del linguaggio. La crescita, però, ha un caro prezzo: quello evidente, che si inerpica tra le tragiche pagine di Morsi, e quello simbolico, che qualche lettore attento saprà stanare al di là del narrato. Una cosa è certa: chi diceva, “non-dice” più, perché non è solo nel dire, ma soprattutto nel non dire (o nel non ascoltare) che si apprende l’alterità e, solo attraverso questo passaggio, si acquisisce l’identità.

 

Siamo proprio uguali noi due, sai?, non-disse suadente la voce di mamma Sara, nell’istante in cui le scarpe di Teo e la fronte di Sonia stavano quasi per fondersi con l’infinito.”

 

 

Immagine tratta dalla copertina del romanzo Morsi (Bompiani, 2022) di Marco Peano.

 

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Marsiglia è una sineddoche

 

A Marsiglia con Jean-Claude Izzo (Roma, Perrone editore, 2022) è un libro, è un taccuino, è un bignami, è un romanzo, una biografia, una mappa, un sussidiario, una guida turistica, un ricettario, una raccolta poetica, una sceneggiatura, è analisi e commento, aneddotica, manifesto politico, un invito e un ringraziamento. Un libro che non bada al genere, ma alla ricerca: il genere stesso si piega al vero, si fluidifica nelle forme per mirare all’essenza di ciò che è oggetto dell’inchiesta.

Persino l’oggetto, però, si fa soggetto, poi attributo qualificativo, infine predicato: Vins Gallico cerca Marsiglia; non una Marsiglia qualsiasi, ma il suo nucleo, il fondamento, l’anima più pura della città. E se il divenire, negando l’essere, può portare all’assurda conclusione che l’essere non sia, non sembrerà di certo più assurdo sostenere che l’essenza di Marsiglia non coincide con Marsiglia stessa, ma con Napoli, Algeri, Messina, Barcellona, Reggio Calabria. Marsiglia, smembrata sino allo scheletro, diviene ancor più ampia di come non sia “vestita”, e assumendo le sembianze di un concetto geografico, antropologico, storico, politico e culturale, si offre come “minimo comun Mediterraneo”.

 

Marsigliosfera

Né Oriente né Occidente, Europa non del tutto, territorio misto, ferito, altero per definizione; né intero né incompleto, né ritrovato né perduto, né mare né muro, ma asse, cerniera, cardine, sutura. Questa la Marsiglia/Mediterraneo che ricostruisce Vins Gallico, osservandola dalla sua finestra di Reggio, di Roma, di Berlino; osservandola attraverso gli occhi dello scrittore Jean-Claude Izzo.

 

Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora, ciò che c’è da vedere si lascia vedere”, scrive Izzo.

 

Marsiglia è la sua luce, corrisponde a essa e con essa viene rappresentata. Sembra quasi che non si tratti di una luce riflessa, che non giunga dal sole, ma che emani direttamente dall’interno della marsigliosfera. (…) La città, adesso luminosissima, sparisce. (…) Marsiglia è come le micosi, come l’herpes, come tutto ciò che è diventato cronico: una volta che ti sei contagiato ce l’hai per sempre”, scrive Gallico.

 

Il lettore potrebbe, quindi, pensare che si proceda a una visita letteraria di Marsiglia, attraverso la Marsiglia di cui è intrisa la biografia di Jean-Claude Izzo. Non è affatto vero, Gallico non si limita a ricostruire la città attraverso le vicende biografiche dello scrittore, ma mischia vita e finzione, senza distinzione, non importa che si percorra un viale inseguendo Izzo o un suo personaggio.

 

Mio padre mi aveva detto: “Non dimenticarlo. Quando arrivammo qui, con i miei fratelli, non sapevamo se, a pranzo, avremmo avuto da mangiare, e poi si mangiava comunque”. Questa era la storia di Marsiglia. La sua eternità. Un’utopia. L’unica utopia del mondo”, scrive Fabio Montale, il protagonista dei più noti libri di Izzo.

 

Una guida quantistica della città

Non importa nemmeno che si insegua Izzo o un’altra persona, purché essa sia vissuta a Marsiglia, purché abbia in qualche modo contribuito a fare di Marsiglia Marsiglia, dei marsigliesi i marsigliesi, di Izzo Izzo. Vins Gallico compone una guida quantistica della città, un percorso sincronico della sua topografia e della sua storia: è possibile scrivere di tutto e attraverso il tutto arrivare alla città, e attraverso la città arrivare all’uomo, e attraverso l’uomo arrivare allo scrittore. Poco importa che Izzo non coincida perfettamente con Marsiglia e viceversa, che non abbia mai incontrato Mazzini, mentre fondava la giovine Italia, che non abbia assistito né al suicidio di Liliana Castagnola né a quello di Saint Exupery, che non si sia mai posto il problema di distinguere tra Roch Siffredi e Rocco, che non abbia partecipato ai processi creativi di Brauquier o ai successi calcistici di Zidane: sono tutte particelle subatomiche capaci di disegnare un’orbita marsigliese che, seppure non esiste, tende vigorosamente all’esistenza. Componente emblematica di questo surreale lavoro di ricostruzione è il capitolo ventotto, dedicato ai luoghi di Marsiglia che Izzo non cita.

 

Vins Gallico ricostruisce Marsiglia in maniera sineddotica, stratagemma retorico che attribuisce allo stesso Izzo, il quale “osserva e immagina alcune parti di Marsiglia per parlare di tutta Marsiglia”. Per trovare l’essenza della città è necessario comprendere più cose insieme: che è meglio la zuppa al basilico della bouillabaisse, che “la luce è al contempo salvezza e inganno”, e che la lingua dei marsigliesi è rustica, dura, “tende al rap, alla mitraglia, al canto del muezzin”.

Gallico, però, non si limita a raccontare la città attraverso contiguità quantitative e, se da una parte prende in prestito lo stile di Izzo, dall’altra aggiunge del suo, attraversando i quartieri con un andamento metaforico: la caotica città portuaria diventa la metafora del mondo. Così, ci si perde a Marsiglia come a Bologna; Place Jean-Jaurès è il quartiere bobo di Marsiglia, come lo sono il Pigneto o Testaccio a Roma, e come lo è Nolo a Milano; Frioul, il braccio di mare fra Pomègues e Ratonneau, lo Stretto, non può che essere associato, dall’autore, a Reggio Calabria, al punto da divenirne “un’eco”, una “reminiscenza”. La ricerca spasmodica di Gallico viene presto confessata: “alla fine vado a Marsiglia e cerco sempre una specie di San Lorenzo o di Pigneto, anzi di Giufà o di Tuba (due librerie romane culturalmente molto attive nei rispettivi quartieri citati)”.

 

Contiguità e spaesamento

A differenza di Izzo, che cerca nel dettaglio un modo per mettere a fuoco, per definire lo sguardo, Gallico allarga l’obiettivo, introducendo nel proprio campo visivo porzioni di un mondo conosciuto che gli permettono, per contiguità, di evitare lo spaesamento. Applicando questo schema lo scrittore riduce il viaggio, accorcia la distanza, importa l’ignoto in una stanza nuova della propria casa, guardando altrove si “impaesa”, riducendo la sorpresa a un déjà vu.

Uno sforzo retorico e psicologico che, d’altra parte, si mostra perfettamente coerente con la Marsiglia che Izzo e Gallico intendono mostrare: una città dove nessuno è straniero, “la prima città del terzo mondo”, molteplice, multiculturale, multirazziale, multimusicale, il porto dove ciascuno può sentirsi accolto senza dover rinunciare alle proprie radici, l’abbraccio che accoglie senza chiedere, in cambio, nessun sradicamento. Per Gallico, Marsiglia è “una cittadinanza, un matrimonio, un patto di fratellanza o sorellanza”. Per Izzo non è una meta in sé, “ma soltanto una porta aperta. Sul mondo, sugli altri. Una porta che rimanga aperta, sempre”.

 

A Marsiglia con Jean-Claude Izzo finisce per somigliare curiosamente alla città, tra pendenze, diversi strati e diverse altezze. Non è solo la città a essere scandagliata dall’osservatore, ma la vita di Izzo – tra nascita, fuga e morte – le sue opere, una per una, e gli adattamenti cinematografici; e poi, i flussi migratori, i disastri ambientali, il mare e il porto, la soglia e il confine, l’amicizia e la resistenza.

 

Immagine: Tratta dalla copertina di A Marsiglia con Jean-Claude Izzo (Perrone editore, 2022) di Vins Gallico

 

 

 

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Diavoli di sabbia

 

Elvira Seminara

Diavoli di sabbia

Roma, Einaudi Editore, 2022

 

 

Accade che, in assenza di nubi evidenti e di temporali, laddove ogni cosa sembra quieta, e invece è solo deserta, inaspettatamente si alzi in aria un tornado di sabbia, compia alcuni giri su se stesso, come trascinato da un’invisibile corrente, e poi collassi, producendo alcuni danni irrimediabili prima di dissolversi con la stessa rapidità con cui è nato: li chiamano diavoli, Diavoli di sabbia.

Nel romanzo di Elvira Seminara il fenomeno meteorologico presta il nome al fenomeno psico-sociale che la scrittrice, grazie a una capacità d’indagine acuta, evidenzia e approfondisce. Nella banalità di ogni vissuto quotidiano emergono contraddizioni e nefandezze, instabilità capaci di minare gli equilibri di ogni relazione umana. Nella sua sardonica ricostruzione del contemporaneo, Seminara mostra l’assenza di appigli e fondamenta: ciascun rapporto è un malinteso, ciascun valore è discutibile, ciascuna costruzione è una demolizione in potenza.

“Dicevo solo che è uno sbaglio rattoppare e ricucire quando è più sano demolire.”

 

Un coro di personaggi a comporre il ritratto della società, in una Catania grigia, piovosa e mondana che si allontana dalla tipica ambientazione siciliana, quasi a voler dimostrare come il particolare celi l’universale. L’analista nevrotico che, per protesta, si chiude a chiave dentro una camera e non ne esce più; una madre che finge di avere un cancro per ottenere le attenzioni e il tempo di una figlia anaffettiva e indaffarata; due ragazzi innamorati ma troppo stanchi per dimostrarselo; la commessa pettegola, l’amante vendicativa; l’informatico che poi diventa massaggiatore e infine accompagnatore di donne anziane al ristorante e al cinema; il rapinatore, prima creatore di falsi alberi genealogici e ancora prima compositore di discorsi per i funerali; la donna che sogna di uccidere il marito e quella che non l’ha ucciso abbastanza.

 

La coerenza tra narrato e narrazione, tra sostanza e forma, mostra come la ricerca dell’autrice non si limiti al tema e ai personaggi, ma coinvolga tutti gli strumenti che sono a disposizione di chi narra: persino la struttura del romanzo è uno sperimentale diavolo di sabbia; ogni anello del tornado, ogni capitolo, ha un solo punto di contatto con il precedente e il successivo. A ogni giro, come in una staffetta, il personaggio corre fino alla linea tracciata, occupando lo spazio che gli è stato concesso da un narratore assente ma tiranno, poi torna indietro e passa il testimone al personaggio successivo. A differenza di una staffetta vera e propria, però, ciascuno gioca da solo e, anche quando non ne è consapevole, non appartiene a nessuna squadra: non una distinzione di poco conto, il risultato desolante è che in palio non vi è alcuna vittoria. Tutti perdono, anche quando da perdere hanno poco.

 

Non può non richiamarsi – d’altra parte il riferimento è palese – una grande opera dalla simile struttura narrativa: nel suo Girotondo, Schnitzler, costruiva scene e dialoghi che coinvolgono, di volta in volta, due personaggi; proprio come avviene in Diavoli di sabbia, solo uno dei due resta per occupare la scena successiva e prestarsi da interlocutore al nuovo personaggio entrante. In teatro, però, il dialogo è l’opera stessa, mentre Elvira Seminara ripete l’esperimento in un’opera narrativa, e in questo modo rende la propria impresa più ardua: ciascuno, di volta in volta, è sia personaggio che narratore. La narrazione è contenuta nei dialoghi, perché, diversamente dal teatro, non è previsto un palcoscenico che ospiti, oltre agli attori, scenografie, musiche e azioni mimiche. Le descrizioni vengono, quindi, inglobate dall’autrice all’interno del colloquio: “Aspetta, ho un messaggio su Whatsapp, dammi i tuoi occhiali.” Oppure: “Hai visto il mio cellulare? Sta suonando”. E ancora: “Avvicina la sedia, ti vedo male”, “Certo, hai una lente rotta, lineata. Accendo anche questa lampada, mi vedi meglio?”, “Sì, stai bene con la barba. È ancora più rossa dei capelli, ma tu sei alto quindici centimetri più di me”.

 

Lo sperimentalismo della scrittrice segue il rigore che dovrebbe caratterizzare ogni innovazione, senza tradire la dialettica irrinunciabile fra memoria e oblio. I contenuti già depositati dalla memoria, nella storia della cultura, sono recuperati e rimaneggiati in un nuovo territorio di ricerca. Trasmigrare l’espediente dall’opera teatrale al romanzo alza il livello di difficoltà, ma allo stesso tempo si allinea con le esigenze più evidenti della contemporaneità: la struttura seriale, la presenza di una trama orizzontale che s’interseca con quelle verticali dei diversi personaggi che si passano il testimone di racconto in racconto, la bassa definizione del punto di vista, il tempo indeterminato e un flusso narrativo aperto.

 

La scrittura di Elvira Seminara è tagliente, la sua lingua ricca nonostante il dialogo richieda una certa colloquialità. Anche qui emerge l’esperienza di chi scrive, capace di accoppiare linguaggio e personaggio, senza mai svelare la presenza di una direttrice d’orchestra, che resta sempre ben nascosta nella cavea, tra gli spettatori e la scena. La lama di Seminara è affilata, sarcastica, intelligente, elegante e contundente, capace di fare emergere, nel connubio fra trama e parola, la portata insieme drammatica e comica del quotidiano, della retorica, dell’aridità umana, dei paradossi e delle convenzioni sociali: “Una volta ho sognato che sfilavo la pelle a mio marito, e poi la tagliavo in piccole strisce, che diventavano nastri. Ho tagliato e cucito tre donne, mi piace il laboratorio, volevo dire tre gonne”; “E comunque, l’ecologismo senza lotta di classe è giardinaggio”; “Quella boutique rivestita di specchi, dal pavimento al tetto… I clienti andarono in crisi, per eccesso di verità.” “Avevamo visto un delfino, siamo a Stromboli, ad agosto. Ma quanti sono i giorni felici, in una vita, secondo te? Un mucchietto così, di sabbia d’oro. Tutti gli altri servono a fare massa, come la paglia sotto le bottiglie, nei cesti di Natale”; “IL DIAVOLO NON È CATTIVO, DEVI SOLO SAPERLO PRENDERE. Devo dirlo a Olimpia che è fissata col diavolo, dice che è troppo demonizzato.” “Lo sai che ho fatto un corso, anni fa, sull’alfabeto pedestre? Mi è servito anche per il negozio, io capisco il linguaggio dei piedi, e non per dire, mica diventi a caso il riferimento che sei, e non solo per le scarpe, in tutta la città”. E infine: “Senti qua bella mia, a me piacciono gli uomini, e infatti ne ho sposati tre, con tre divorzi. Non erano male poveracci, ma si erano fermati a guardare i treni che passano. Ehilà, gli ho detto, io sono viva! Io monto sul vagone, adieu! Odio la solitudine, anche quella tradizionale a senso unico, figuriamoci in due! A lei piace il movimento, sentire la vita che cambia, persino in questo pub dove conosco tutti e tutto, e so a memoria le macchie di quel divano e le scritte sui tavolini, anzi guarda! Alza le mani e sposta i bicchieri, io chiudo gli occhi, così, e tu controlla le parole sul tavolo: QUANDO ARRIVI E TI SIEDI QUI, SAPPI CHE TI AMO. È giusta?”

 

Un romanzo, Diavoli di sabbia, che si snoda di pettegolezzo in pettegolezzo, dove ciascuno è protagonista e narratore, dove ognuno parla ed “è parlato”, la fotografia di un contemporaneo sul quale siamo invitati prima a ridere, poi a riflettere. Anche da questo punto di vista Elvira Seminara attinge dalla storia e poi innova, se è vero che alle origini del linguaggio vi siano i pettegolezzi e la loro funzione sociale.

 

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Essere off dal Salone, essere in letteratura

 

In occasione dell’ultimo Salone del Libro, in una Torino infuocata, intasata, immobilizzata e frastornante, mi trascino verso una graziosa libreria nel quartiere di Borgo Vittoria. In una sala stracolma de La Piola di Catia, una cinquantina di persone si sventolano con ventagli, pezzi di carta, orli di gonne o giacche o, chi l’ha già acquistato, con il libro di cui si parla: QUCHI. Quello che ho ingoiato (Roma, edizioni E/O, 2022). Siamo a quattro chilometri dal centro storico e a nove da Lingotto, dove ha luogo la fiera della letteratura che, in questi giorni, attrae migliaia di persone. Subito penso: questo libro è un miracolo! La libreria piena, le cosce sudate, Caterina Venturini, l’autrice, che urla perché la sua voce possa superare lo stridore del tram e gli altri fenomeni acustici che ci deliziano dalla strada, mentre dall’altra parte della città si tiene la fiera. Poco dopo penso: questo libro è un paradosso! Appena uscito, fresco fresco di stampa – tempistica perfetta per trovare una collocazione nello straboccante programma di Cuori Selvaggi (questo il tema della XXXIV edizione della kermesse libresca) –bellissimo, innovativo, eppure confinato in una costola del Salone Off.

Insomma, mentre al Salone dialogano, monologano, spettegolano scrittori più o meno grandi, con libri più o meno recenti, con voci più o meno dirompenti, e poi tanti cantanti, politici, ballerini, vignettisti famosi, cabarettisti, blogger, youtuber, influencer, mogli, mariti, personaggi che hanno saputo tramutare in una geniale operazione di marketing i propri problemi ginecologici o che tornano, in grande forma, per discutere di un tema di fondamentale attualità (il proprio romanzo autobiografico pubblicato dieci anni prima), al “Fuori Salone” Caterina Venturini ci parla di Letteratura.

 

La «futura infelicità americana»

D’altra parte, non sarebbe andata diversamente per Carla Longhi, l’amabile, tormentata protagonista di QUCHI. Quello che ho ingoiato. Carla, che non si sente né giovane, né bella, né libera e neanche eroica, e che, per l’ennesima volta, si chiede: cosa posso fare, io, in questo mondo? Qualcosa, in realtà, ha fatto: ha pubblicato alcuni romanzi di cui non si è accorto nessuno, ha raccolto molti rifiuti, ha fallito in molte carriere, e poi ha inseguito la propria «futura infelicità americana». A Los Angeles, come ogni altra volta, Carla ha provato ancora a dimostrare di essere all’altezza di un lavoro, uno qualsiasi. Cura meticolosamente l’annuncio e la camera in affitto, l’acqua minerale gratis nel frigo, i profumini in bagno, persino una scatola di assorbenti interni, lustra il pavimento, lucida lo specchio, acquista i prodotti migliori, dall’anticalcare all’antiruggine, dall’ammoniaca alla cera per il parquet, applica la teoria dei giochi per indovinare il contenuto della recensione ricevuta dagli ospiti e regolarsi di conseguenza. Eppure, ancora una volta, si trova a fallire o temere di fallire (poco le importa della differenza): «Il telefono s’illumina e vibra nel buio della sua stanza. Phyllida wrote you a review. Cosa vuole quella puttana? – si chiede subito Carla, spazzando via anni di studi femministi. Puttana, sì. Anzi dentro di sé, ama dire da un po’ di tempo: quella gran troia».

 

Il cavallo e le mele marce

Con ironia tagliente e un certo sarcasmo, ricorrendo a una serie di interlocutori che invoca a seconda di quel che vuole raccontare, Caterina Venturini conduce il lettore nelle vie, percorse e abbandonate, tra i frammenti di una quotidianità tutto sommato ordinaria, che insieme compongono il dramma di Carla. L’incontro speranzoso con Mara Calamai, la boriosa editor della casa editrice Apice: «“Buongiorno”, dice Mara, stringendo la mano a Carla, senza alzarsi. Del resto il galateo non lo prevede».

Le pagine in cui Carla deride se stessa, ridicolizza il proprio modo di narrare, mentre si ostina a paragonare la propria vita alla fiaba del cavallo, dato in cambio di animali, di valore sempre inferiore, e infine scambiato con un sacco di mele marce: «Man mano che gli animali apparivano e scomparivano, sempre meno persone restavano in piazza, molti se n’erano andati urlando: cos’è questa messinscena? Non ho un minuto in più da perdere con questa Carla Longhi. Qualcuno aveva sussurrato: anche la madre se n’è andata un’ora fa, lamentandosi: mia figlia non si sforza abbastanza. Proprio non ce la fa a raccontare una storia dall’inizio alla fine. Fatemelo dire: mia figlia è una stronza».

D’altra parte, è la stessa madre che una volta la rimprovera così: «Se io scrivessi, vorrei piacere a molti, non a pochi. Tu piaci sempre a pochi, non c’è da essere contente di questo».

In altri casi è Angela (la sua agente e di tanto in tanto voce narrante) a dileggiare la protagonista: «ti posso dire che il sogno a occhi aperti di Carla mentre si fa la doccia è di parlare a folle immense come dal palco di un concerto rock oppure affacciata dalla finestra del papa».

«Carla coincide con il suo naso. Ne è diventata una straordinaria sineddoche», racconta, ma poi, persino la rinoplastica sarà un fallimento, al punto che il chirurgo le offrirà di rioperarla senza costi aggiuntivi. Come è un fallimento l’inglese, questa nuova lingua che impara, ma non indossa, e che la porta a sentire persino il proprio figlio come un estraneo: «l’ultima volta per sapere cosa voleva mangiare mio figlio, l’ho dovuto far parlare con il dispositivo elettronico Alexa, che ha capito il suo accento meglio di me».

Ma andiamo là, nelle prime pagine, dove ogni riflessione inizia: Carla è a una cena, una Professoressa benemerita le parla, mentre parla mangia e sputa, Carla ha finito gli argomenti che sa sciorinare in un inglese fluent e, per celare il proprio livello B1, mantiene il riserbo. D’un tratto, un pezzo già masticato di salatino schizza dalla bocca della benemerita sul labbro inferiore di Carla e resta lì, non per molto, perché pur di non rischiare di dover essere criticata per il proprio ribrezzo, Carla decide di ingoiarlo. Si tratta, in fondo, di un unico gesto semplice, l’ingoio, e non è molto se può servire a non farsi cogliere in fallo. «Fatto, finito. Perché la professoressa non deve vedere lo schifo che ha combinato, potrebbe pensare che è colpa mia».

 

Il linguaggio irriducibile al senso

Nel proprio romanzo, Caterina Venturini racconta di tutto quanto Carla, nella vita, ha dovuto ingoiare. QUCHI, è ricco sotto più profili, perché avvincente, perché sperimentale, perché gioca con la lingua, con la struttura, con i punti di vista e le voci narranti: salta dalla prima persona alla terza, senza avvertimenti, comincia lo scambio incrociato tra protagoniste e coscienze, tra scrittrice, agente e psicanalista, in una continua lotta tra l’essere e il divenire. Il linguaggio è sia lo strumento, finemente levigato, con cui Venturini trascina il lettore, sia il trauma principale della protagonista che dà ogni colpa al bilinguismo, all’ambiguità delle parole, all’incontro mancato – direbbe Lacan – tra l’Uno e l’Altro. Il linguaggio è irriducibile al senso e Venturini osserva di continuo, attraverso la psicologia di Carla, questo doloroso distacco dal reale: Carla è straniera ovunque, dove è arrivata e dove non è tornata; è partita perché il figlio non dovesse essere il porta-parola della propria madre, ma si dispera quando scopre il tradimento che si cela dietro a una cattiva traduzione; Carla sa quanto sia necessario abitare la lingua dell’altro per conquistarlo, ma sa anche che non può fare altro che partire dall’italiano – e dalla scrittura – per ricucire le sue origini, i suoi lembi spezzati. Accade raramente che il significante agguanti il significato, ed è una scoperta che emoziona e rincuora: «Provo un’eccitazione improvvisa che somiglia alla commozione, mi succede ogni volta che le parole coincidono integralmente con i fatti». Per il resto del tempo è una lingua-ombra che ci abita e ci divide.

 

«“Io so perché non parlate. Voi siete ombre” What? chiede qualcuno. “You are shadows”, ripete lei. Io smetto di guardarla. Siamo ombre, tutti quanti. Privati della vostra lingua, di una comunità, dei vostri affetti, delle famiglie d’origine… che altro potevamo essere? Non importano i motivi diversi per cui siamo finiti lì dentro».

 

Libro, bolo ed editoria

Torniamo, per un momento, al miracolo, al paradosso, ai Cuori Selvaggi che di selvaggio non hanno accolto nulla, a Carla che ha tanto ingoiato – dice – e a tutti i personaggi che, invece, brillano esibendosi alla kermesse torinese. E se fosse il contrario? E se è proprio chi ha fatto dell’ingoio un’abitudine che oggi siede sugli spalti, sotto la scritta illuminata On, mentre chi, diversamente, ha ingoiato una sola volta e se n’è vergognata così tanto da dover vomitare il bolo in un libro, brilla – lei sì che brilla – nella tribuna cieca della squadra degli Off? Anche in questi ribaltamenti sussulta la genialità del romanzo di Caterina Venturini che, con talento e un escamotage escheriano, ha saputo restituire, attraverso un prodotto editoriale, il ritratto fedele dell’editoria come ciclo produttivo.

 

«Non sono un’esiliata. Non sono una rifugiata. Non sono una perseguitata. Non sono una cosmopolita. Non sono arrivata qui di notte con i barconi, non sono arrivata qui strisciando alla frontiera e mi sento in colpa anche per questo. Mi sento sempre perennemente in colpa. Mi sento sempre nel torto. Non riesco a mantenere un’unità di tono, anche quando scrivo. È come se ogni poco mi voltassi e vi dicessi: ora però cambiamo strada che questa mi ha stancato. Mi seguite? Vi prego, seguitemi», ci implora Venturini, e noi, senza bisogno di alcuna supplica, la seguiremo.

 

Immagine: Particolare della copertina del libro QUCHI. Quello che ho ingoiato (Roma, edizioni E/O, 2022) di Caterina Venturini 

 

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Vocabolario di guerra e vocabolario del corpo

La guerra è il luogo delle parole mancanti e mancate, delle ferite innominate e innominabili, dei corpi senza voce, delle bombe nemiche e amiche, delle morti senza colpe, delle colpe senza reato, dei figli senza padri e delle madri senza figli, degli amori senza scuse, delle donne violate, delle lettere scritte per non dire, dei ricordi forti e delle presenze lievi. La guerra c’è sempre e non c’è mai, ora ci riguarda, ora ci è estranea e, a seconda da dove la osserviamo, ci uccide, ci privilegia o ci definisce.

 

Attraverso case e trincee

Con La figlia del ferro (Roma, Perrone editore, 2022), Paola Cereda costeggia le sponde di una e di tutte le guerre, attraverso case e trincee indaga su ciò che è rotto e su quello che, invece, rimane integro, ispeziona le abitudini smarrite e quelle che restano, la capacità di adattarsi alla perdita, l’assuefazione al dolore e alla ferocia, la facilità con cui l’uomo si conforma alle regole dell’odio come a quelle dell’amore e la naturalezza con cui può persino smettere di distinguerle. Inseguendo la storia di Iole (l’inafferrabile Iole), la scrittrice dirige un coro di voci e compone, così, l’universale, da Annarita a Lia, da Umberto a Mario, da Tecla a Cesarina, da Klaus a Ibrah, da ieri a domani.

 

Le camicie nere all’isola d’Elba

All’isola d’Elba, tra il mare e i castagni, le miniere e il metallo nei capelli e nei polmoni, “le camicie nere dettavano le regole e allungavano le mani sui corpi, sulla morale e sulle paghe della povera gente”. In un’isola è il mare a restituire la verità e sulla spiaggia l’acqua deposita i morti: è il 1943, la guerra infuria, le sirene danno l’allarme, i rifugi, sempre bui, puzzano di muffa, c’è chi va in piazza d’Armi a mendicare e chi legge il tariffario della Casa del Piacere per acquistare un quarto d’ora di sollievo. La guerra non interrompe la vita, ma la cambia, e le abitudini – quelle che restano – sono il primo segno della resistenza: Iole lava la biancheria delle ragazze, cuce gli orli e rivolta i cappotti per l’inverno, fa l’amore e sorride; Mario, per Iole, è disposto a rubare; Tecla lavora in casa dell’avvocato, risponde al suono della campanella che di giorno e di notte la riporta alle sue mansioni e alle sue solitudini; Cesare si è risposato e Cesarina, quando in piena notte la sirena suona, indossa il suo abito più elegante, quello di mussola color caffè. I portoferraiesi continuano a uscire di casa all’alba per andare al porto, al lavoro, al mercato, le donne si radunano attorno ai banchi del pesce, il sale scarseggia ma per fortuna esiste l’acqua del mare, per mitigare la fame alcuni mangiano erbe selvatiche.

Di nascosto a Dio, la Madonna continua a fare miracoli. Ciascuno, nel suo piccolo, ha inventato un modo perché le giornate non siano scandite soltanto dalla tragedia e dalle bombe; è l’arte del rammendo: “Dentro l’ago fuori l’ago, un tiro per evitare le pieghe, dentro l’ago fuori l’ago… Rammendava per aggiustare, per fare in modo che le cose non sfuggissero alla forma”. La natura, invece, non si adatta, non si accorge della guerra, non si accorge della fame né dei boati che squarciano il cielo: “Per fortuna la primavera era generosa e mite. Le gemme non si curavano degli uomini e delle loro guerre, spuntavano le foglie novelle, le prime fioriture e gli steli d’erba si alzavano ritti per annunciare il ritrovato benessere. Tra i muri e le crepe delle strade e delle case, l’euforbia e i cisti si prendevano il giusto spazio, il sole scaldava il mare già tiepido e la macchia era così verde da prendersi gioco delle parole”.

Arriva il 1944, sbarcano gli alleati, ma all’Elba la guerra non finisce ancora…

 

Immagini feroci

Con le parole Paola Cereda sa disegnare immagini feroci, distribuire la verità su più piani e diverse percezioni, costruire registri livellati a seconda che rimandino ai balli o alle esplosioni, ai baci nei campi o alle mani che scavano tra le macerie. Cereda non risparmia nulla al lettore, non cerca di attenuare né di confondere, la narrazione è spietata come a volte lo è la vita e la lingua non è lo strumento del mitigare e del nascondere. “Lo avevano picchiato fino a fargli perdere i sensi, lo avevano purgato con l’olio di ricino e, l’indomani, se l’erano portato a spasso per la città, pieno di vomito e di merda, legato per il collo come un ciuchino zoppo.” Oppure: “Più di una volta sulla spiaggia si erano arenati dei corpi gonfi d’acqua che galleggiavano a faccia in giù, con le braccia aperte in segno di resa al destino infame”. E ancora: “I pesci si erano accaniti sulla sua faccia e, in corrispondenza delle orbite, avevano lasciato due buchi profondi che non servivano più a niente”.

 

La riformulazione lessicale

Nessun tabù, nessun compromesso, nessun velo e, soprattutto, nessuna autorizzazione a riscrivere la storia. La Storia appartiene, innanzitutto, agli innocenti, cui è concesso di maledire gli “eroi”, perché sono i soli detentori della verità. Così, i liberatori diventano invasori, stupratori, saccheggiatori, le donne divengono cadeaux, i morti disertori, le feste giornate di lutto e le martiri puttane. Ogni racconto cambia se si sposta il punto di vista, l’angolo di campo varia al variare dell’obiettivo e ciascuna pellicola ha sempre il suo negativo.

 

La lingua di Cereda non solo è vera, implacabile, sconvolgente, ma è scandita da due persistenze tematiche che sembrano voler affermare con forza una “persistenza della memoria”: attraverso il vocabolario di guerra e il vocabolario del corpo.

 

Boati e preghiere

Nel glossario di guerra fanno incursione anche la speranza e l’ostinazione: lettere e cadaveri, batterie e polveriere, incursioni e aerofoni, panico e pericolo, paura e rifugio, bombe e volantini, bottini e mendicanti, sentinelle e sfollati, caduta e potere, soprusi e coraggio, resa e riarmo, alleati e invasori, veleno e peccato, assoluzione e pentimento, fame e soldati, soldi e silenzio, scorciatoie e attese, danno e pace, scarpe e macerie, volontari e sopravvissuti, viscere e benedizioni, crolli e resti, polvere e singhiozzi, boati e preghiere, muri e misericordia, anarchici e infermiere, fiori e cortei, dignità e dolore, sarte e ladri, coprifuoco e carestia, sbarchi e ritirate, piscio e minestra, ossa e dinamite, patria e casa, sacrifici e botte, sangue e calcinacci, vedove e miseria, fiamme e bandiere, furia e confine, pietà e barriere, libertà e memoria.

 

Il corpo mutilato, il corpo violato

Il glossario del corpo racconta non solo di quello mutilato dei soldati; a essere protagonista è, soprattutto, il corpo violato, sacrificato, difeso e talvolta liberato delle donne: il campo di battaglia nascosto, quello a cui si chiede di restare continuamente in silenzio. “Se non eri così piccina te lo facevamo provare noi, il manganello. Capace che ti piaceva”; “Eppure l’aveva partorita lei, l’aveva attaccata al seno e nutrita con il suo latte!”; “La vostra figliola più piccola… Lo sapete che va coi maschi? E mica con uno soltanto.”; “Iole cresce storta peggio d’un traliccio di vite”; “Ricorda che il primo dovere di una moglie è quello della sottomissione”; “Quando lui si avvicinava per chiederle un po’ d’attenzione, quando le sue mani la toccavano, quando il sesso di lui le premeva sul ventre, respirava a fondo, teneva gli occhi chiusi e pensava al suo primo marito.”; “Troppo bionda, troppo in carne, con gli occhi troppo celesti e un’aura luminosa sulla testa che la faceva sembrare una santa”; “Mi diceva vieni qui, Peppina, obbedisci, dammi il buco che c’hai in mezzo alle gambe”; “Picchiala con la verga”; “…appesa pe’ i capelli a quel portone, con la schiena a pezzi e la crocchia infilata in un chiodo così lungo”; “Io non scappavo dalla guerra, scappavo dai padroni”; “Ma è una donna. Non è una donna. C’est un bonbon… c’est ton droit”.

Sino a che persino il corpo si fa pensiero: Tecla ha una gamba che spurga incubi.

 

Le guerre tra narrazioni

Ispirandosi a una storia vera – quella di Olimpia – la scrittrice impone una riflessione generale a partire dal ruolo della narrazione: che non trascuri, che non oscuri, che non giustifichi né assolva. Un avvertimento che risuona oltremodo attuale, oggi, davanti a una nuova guerra che si presenta, anzitutto, una guerra tra narrazioni. Ne La figlia del ferro, la guerra non è un punto di rottura, ma un ciclo, una ripetizione, parte stessa della natura dell’uomo. Uomini “incuranti (persino) dell’impegno di una radice” o della nascita di un bocciolo, capaci di far del male senza provare nulla, “non la colpa, non la voglia, non il disgusto”, rei di guerre tutte uguali perché le stesse parole le contengono tutte e non ne spiegano nessuna. Campeggia una domanda che contiene la crudeltà della retorica: “Dov’è che finisce l’uomo, dov’è che non c’è Dio?”

 

Immagine: Le truppe francesi sbarcano sulle coste dell'Elba il 17 giugno 1944, via Wikimedia Commons

 

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Nonostante tutte

Filippo Maria Battaglia

Nonostante tutte

Torino, Einaudi Editore, 2022

 

 

Nonostante tutte è il romanzo che Filippo Maria Battaglia non ha mai scritto, ma che ha plasmato grazie al talento che è proprio di un vero narratore, offrendo alla letteratura contemporanea un’opera dirompente e innovativa. Non scrive, ma taglia e incolla, frase per frase, parola per parola, le voci di centodiciannove donne realmente esistite che hanno denunciato, confidato, confessato e progettato nel riserbo della loro invisibilità.

 

Un tessitore che inventa una trama, incrociandola a un ordito già predisposto: i fili sono i diari, le lettere e le memorie di donne che hanno attraversato il Novecento e che, forse, non si sarebbero immaginate scrittrici; il rocchetto di fortuna è l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano; l’ago è quello acuto e acuminato di Battaglia; la cruna è il suo sguardo che scandaglia – e quasi anatomizza, come fossero corpi – gli appunti e i ricordi; il ricamo è la vicenda collettiva che si incanala nella storia  di un unico personaggio mai esistito: Nina.

 

Attraverso Nina le anonime si fondono in una protagonista. Vecchi quaderni intrisi di una lingua antica un secolo e brevi pdf corredati da fotografie, da Venezia a Reggio Calabria, da Zero Branco a Salemi, danno voce a una donna dai molti nomi e provenienze, dai più svariati registri linguistici e grafie, ma con una sola storia commovente e coerente, poetica e politica. Una ricostruzione preziosa, innanzitutto perché compone una vicenda generale attraverso una finzione che finge solo in parte e, per il resto, raccoglie la ricchezza, le autenticità e le differenze presenti nella società reale del ventesimo secolo. Il risultato è un “autoritratto collettivo fatto di istantanee in cui l’aderenza alla realtà non coincide con il realismo ma con il suono che la voce fa sulla pagina scritta”.

 

Lo stesso autore racconta la genesi di Nonostante tutte, con una prefazione che si inserisce, a pieno titolo, nella narrazione: “In una piccola piazza di un piccolo Comune toscano c’è una porta di legno dogato che è quasi sempre aperta. Oltre quella porta, hanno trovato riparo novemila voci che hanno impiegato anni a rivelarsi. Serrate in un cassetto, rinchiuse in scatole di conserva, disperse tra fogli di eredità familiari trascurate, hanno fatto i conti con l’anonimato della quotidianità fissando su carta speranze e fallimento, assolvendo il compito di ogni scrittura privata: lasciare traccia di sé attraverso il racconto della propria esistenza.”

 

Come possono più donne, che non si sono mai incontrate né parlate, raccontare un’unica storia? Come possono più di cento autobiografie diventare il materiale di una sola eterobiografia? Filippo Maria Battaglia riesce brillantemente nel suo intento, congegnando un impianto sperimentale che, nonostante si componga di diversi frammenti, non risulta mai frammentario. Ed è proprio nell’organicità e nell’unità che l’autore riesce a restituire, attraverso l’ascolto profondo delle voci e la maestria nel porle in relazione, che risiede la sua grande abilità. Ogni vicenda umana restituisce e trascende il vissuto del singolo, solo lo spazio bianco tra un frammento e l’altro avverte del cambio di voce.

 

“Nacqui leggerissima”, così comincia Nina a raccontarsi. Giocando a covare le uova della sua gallina, con i coniglietti e le carote, con i rametti e gli arcobaleni. Poi comincia la scuola, una classe di bambine pettinate allo stesso modo e alle quali si intima di stare ferme, di obbedire, anche solo in via preventiva, con una forma di silenzio. Di giorno gli adulti sono impegnati a mettere tutto in ordine, di notte i topi escono dal lavatoio. Una volta, nella stalla, tra le mucche e i vitelli, un uomo mette le mani addosso a Nina: è la prima delle tante umiliazioni che la vita di una donna (di tante donne) riserva. Dal padre al datore di lavoro, dal prete a Dio.

 

“Quando ero piccola, Dio era tremendo, onnipotente e in ogni luogo: dal suo sguardo non avevo scampo, come quando si sta dentro una tempesta.”

 

Tra la sfornatura del pane (la cosa più bella) e le crisi “isteriche”, Nina cresce velocemente e intanto cambia la realtà che la circonda: arriva il telefono in casa, quando ancora le interurbane sono così rare da far temere la morte di qualcuno. Dalle cento lire al giorno risparmiate per comprare la TV, a Little Tony che, cantando 24.000 baci, guarda Nina attraverso lo schermo, con occhi neri e penetranti e sembra che l’ammiri. Dalla paura dei maschi alla colpa di aver fatto le “cose proibite” o di aver avuto il menarca: “Quando annunciai «il fatto» alla mamma lei non sembrò gioire ma disse quasi seccata «incominciamo» ed io, forse drammatizzo, pensando a ciò mi viene da piangere.” Poi i soprusi a lavoro, dal capo ingiusto che le intima di abbassare la testa, all’uomo che tenta uno stupro. Nina non è più leggerissima: “Oggi compio 71 anni e mi sento sfinita”.

 

La vitalità e la varietà della lingua non tradiscono l’unità della trama, ma l’arricchiscono. È nel ventesimo secolo che si registra la progressiva diffusione dell’italiano a quelle fasce sociali che erano solite parlare in dialetto, e il libro di Battaglia, testimonianza di cento anni di trasformazione, lo mostra con evidenza. Se tutte le centodiciannove donne si raccontano in italiano, non mancano i residui dialettali. A questi si aggiungono gli errori grammaticali e le sviste che Battaglia, per scelta espressa, ha deciso di non espungere: “Gli estratti presenti in questo romanzo sono stati accostati in modo discrezionale e sono stati riportati nella loro versione originaria, con errori, virgolette, corsivi e refusi, ad eccezione dei pochi casi necessari alla comprensione e alla coerenza narrativa.”

 

Così, tra le espressioni dialettali: “Poi mia madre preparava un pesto di aglio, sale, prezzemolo e farina bianca e ne faceva una montagnola nella quale intingeva el lumac”; “e i signorotti di città chiamavano noi dei paesi mangia rani da pais”; “Giravo il capo e ciutàvo for dai braci”; “Essendo senza denti momolàva ogni boccone”; “un giorno che giocavo a scondi leuro, approfittando del fatto che eravamo al buio del caminèl”.

E tra i disgrafismi: “Era seduto sulla segiola, quella segiola”; “Scapai via, mi misi a correre”; “Ho lasciami andare ho ti faccio la pipì addosso”; “avevo paura del sesso dell’uomo, l’ho sfuggivo come Lucifero”.

 

D’altra parte, Nina esplicita la sua fatica: “quello che mi preoccupava veramente era il fatto di dover parlare un italiano normale”. Il risultato è una fotografia dell’epoca fortemente realista.

Filippo Maria Battaglia costruisce un personaggio che dura nel tempo, nelle cui vicende personali il lettore – la lettrice – non può che riconoscersi. Le voci inespresse delle donne si rivelano tutte insieme in un unico documento, grazie all’autore che per cinque anni cerca, esamina, ritaglia, percepisce ciascuna urgenza e, con grande rispetto, si astiene da ogni tentativo di revisione.

 

Nina è contenta della sua storia corale, ha lasciato traccia scritta e la sua voce non è stata cancellata come quella di molte altre. Il suo verbo sorvola un secolo e plana su un altro, con l’intensità della vicenda umana di più di cento donne, ed è la vicenda di tutte.

“Non so se è poco o tanto. È il mio atto d’amore”.

 

 

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Riscrivere la grammatica di una civiltà

Trema la notte (Einaudi, 2022), di Nadia Terranova, è un romanzo che cala, nelle faglie della terra, le fratture del sociale e dell’umano: è il 1908, la notte miete centoventimila vittime e, mentre il sottosuolo deruba i sopravvissuti di ogni bene, di ogni affetto, di ogni aspirazione, l’esperienza della perdita ripercorre e riscrive la grammatica di una civiltà. Attraverso l’immersione in una delle grandi tragedie della storia – il terremoto che scosse Messina e Reggio Calabria – l’autrice ci svela il contemporaneo.

 

Barbara e Nicola sono i due protagonisti, legati, senza volontà né coscienza, da un destino che cuce i due lembi opposti di uno stesso mare; tra loro una cerniera, la tragedia collettiva, che non si apre né si chiude con il solo tremare della terra. Entrambi, oppressi da una continua opera di “diminuzione” da parte delle rispettive famiglie, guadagnano, con la catastrofe, la propria libertà: ma è una libertà “vestita da baratro”. Barbara, ragazza illusa che emanciparsi dal padre possa garantirle l’arbitrio (almeno del corpo), scopre che la società non lascia a una giovane donna la possibilità di autodeterminarsi, giacché, al contrario, essa è affannata a determinare. Nicola, undici anni, abituato a dormire in cantina, legato dalle mani della propria madre, è illuso di poter trovare la forza di non amarla.

 

Il terremoto si introduce, come un salvacondotto, nelle vicende private di Barbara e Nicola, manifestandosi, al principio, come un castigo selettivo: “sarebbe venuto un terremoto «con gli occhi», che avrebbe visto, identificandoli, i colpevoli e i cattivi che lo meritavano”. Una “teofania” priva di discernimento, però, che abbatte, insieme ai “diavoli”, gli innocenti (“ogni cosa amata e odiata disparve”), come distratto è il terremoto che nella Bibbia accompagna la discesa di Dio per salvare Davide dai suoi nemici (Allora la terra si confuse e tremò, Salmi, 18,8-9).

 

Tra i protagonisti del romanzo, non solo Barbara e Nicola, ma anche i luoghi, il rapporto tra donna e Storia, la prigionia imposta dai nomi e da chi ha il potere di nominare, la lingua.

 

I luoghi

Nadia Terranova non si limita a descrivere le città, ma le evoca con una potenza di linguaggio straordinaria; gli ambienti divengono personaggi, raccontati non attraverso un inventario esaustivo del reale, ma in maniera immaginifica. Così: “Messina era un corpo putrescente, una grande bocca dal fiato marcio e di fumo”; “la città intera era una quinta teatrale, visi di palazzi persistevano nascondendo alle spalle travi divelte”; “Messina era una cicatrice aperta”; e ancora “Messina, un corpo in agonia, sanguinava dalle finestre fracassate e nonostante l’epistassi non moriva, si ostinava a esistere puzzando di sconforto e letame”. Mentre “nel cielo di Reggio Calabria il sole poteva sdraiarsi comodamente per intero”.

 

Il rapporto tra donna e Storia

Barbara custodisce gelosamente il libro di una scrittrice che sembra già essere stata dimenticata e le cui ultime tracce saranno inghiottite dalle macerie: si chiamava Letteria Montoro, scriveva suo malgrado, guidata dalla potenza del dolore; aveva studiato, “stando attenta a non brillare mai troppo per non attirare le invidie degli uomini.” L’impronta della “scrittrice-faro” di Barbara scompare, nella notte delle infinite scomparse, “cancellata come sempre sono cancellate le storie delle donne”. Nessuno ricostruirà la sua lapide, Letteria Montorio non sarà più da nessuna parte, eppure Barbara, conservando una sua fotografia, le sussurra “io non vi cancello”. La stessa fine, lo stesso oblio, prevede per le proprie scritture, che sfumeranno “tra le ombre della storia, dove le luci restano sempre spente e le vite delle persone sono sopraffatte da narrazioni posticce”. V’è un effetto, però, che la Storia, riscritta da uomini senza memoria, non è in grado di cancellare: le scrittrici, accendendo la propria voce, hanno costruito la propria libertà.

 

La prigionia dettata dai nomi

Tema ricorrente del romanzo è il “nominare”: nella società e nella famiglia sono ben distinti coloro che nominano da coloro che vengono nominati, coloro che contribuiscono alla costruzione del proprio futuro e di quello degli altri da coloro che portano il fardello di un destino già scritto nel proprio nome: il “nome del Padre”, il nome della legge, che assegna ruoli, delimita spazi d’autonomia, costruisce categorie di interdetti: le donne e i bambini. Così: “Con un altro cognome accanto potrai fare tutto, col cognome tuo da sola non sei niente.” “A Scaletta mi chiamavano Rina… lo preferiva… mio padre per ribadire che ero più piccola del mio nome, non una Barbara completa. Per lui sarei diventata intera dopo il matrimonio.” E ancora, mormorando Rina, Rina, Barbara pensa “odiavo quel nome, eppure mio malgrado lo desideravo follemente, mi avrebbe fatto sentire al sicuro, come siamo al sicuro dentro ciò che ci ha tenuto in prigione, e quando la prigione si apre ci lascia sprotetti”.

Anche Letteria Montorio, diventando una scrittrice, “non aveva fatto altro che seguire il destino impresso nel suo nome”.

“Forse il problema erano i nomi. Bisognava trovarne altri…”, pensa Barbara, ma vi è sempre un uomo, nel romanzo, che torna a ricordare quanto “Sono importanti i nomi. Non ci restano che quelli”. Barbara e Nicola, tuttavia, compiono, nell’arco della narrazione, un’evoluzione ed entrambi, ciascuno a proprio modo, riescono ad affrancarsi dalla dittatura dei nomi: lui con l’afasia (“La voce non uscì), lei con la scrittura (“solo adesso, con l’ultima parola, la notte ha smesso di tremare”).

 

La lingua

La lingua di Nadia Terranova è ricca, raffinata, ricercata. Stagliandosi, con evidenza, nel panorama contemporaneo, la scrittrice intesse una rete dove ciascuna parola evoca una ricerca accurata: nessuna compare là dove avrebbe potuto esisterne un’altra. In un’epoca in cui la narrativa tende sempre più a semplificarsi, Trema la notte dona una lingua elegante e sempre esatta: “nelle sere di accalmia”, “a seconda dei venti, delle effemeridi”, “infilate a forza dentro uno scranno dorato”, “cresciuta come muffa graziosa e parietale”, “la fillossera che devastava i vitigni”, “una parola mesmerica e morente”, “era tornato sulla torpediniera”, “e rimase un ultimo rumore argentino di stoviglie sparecchiate”.

Il linguaggio è ricco e appropriato, meticolosa è la scelta di ogni vocabolo e la strutturazione sintattica, dove campeggia l’ipotassi.

 

Nadia Terranova, attraverso una lingua alta e lo sguardo rivolto alla Storia, non smette mai di rivelare il presente, e lo fa individuando nel punto d’incontro tra le vicende private e quelle collettive di cui narra, una conturbante verità: persino la terra, tremando, non è in grado di cacciare il morbo che si incardina nelle sue fondamenta. La donna in camicia da notte, seminuda e ferita, superstite tra le macerie, ancor prima di lasciare entrare nel proprio animo la disperazione, cede a un intempestivo senso del pudore: “Dovevo apparire lasciva… Cosa sarebbe successo se mi avessero vista gli uomini?” Per questo, Trema la notte, non solo è un romanzo pregevole, ma è anche importante: avverte il lettore che, per smantellare, bisogna cominciare dalle fondamenta, dagli archetipi. È solo in quel momento che si apriranno i Cieli.

 

Immagine: Le località interessate dal sisma di Messina e Reggio del 1908 illustrate su una vecchia cartolina, via Wikimedia Commons

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Figitale, parola di un presente che è già futuro

Possiamo ancora pretendere di distinguere nettamente tra fisico e digitale o dobbiamo riconoscere che, nel ventunesimo secolo, il confine tra i due concetti è divenuto sempre più labile, sino a scomparire quasi interamente, soprattutto in alcuni settori?

Il termine phygital – neologismo formato dalle parole physical e digital – indica, appunto, una fusione tra fisico e digitale (“a blend of the physical and the digital” è la definizione che ne dà il dizionario inglese Collins). Tale parola non rappresenta, semplicemente, la combinazione tra elementi e dati del mondo fisico e del mondo digitale, ma presuppone che tale combinazione sia riferita a una stessa persona, contemporaneamente presente in entrambe le dimensioni (si pensi a un soggetto che lavori allo stesso tempo da una pagina web e, in presenza, nel negozio fisico): è proprio questa “contemporanea presenza” – peraltro sempre più abituale – a offuscare la distinzione tra i due concetti. Se nel XX secolo, infatti, si incominciava a parlare di “digitale” come di una dimensione separata rispetto a quella fisica (erano gli anni in cui nascevano gli IP, gli HTTP, i WWW), nel XXI secolo l’online entra pienamente nel quotidiano (sono gli anni in cui non solo i citati protocolli risultano ormai consolidati, ma si afferma l’uso dello smartphone, e si usano strumenti come Google Analytics, Flurry Analytics, iBeacon, il 5G, la tecnologia olografica): la continua (iper)connessione che tali tecnologie alimentano conduce alla necessità di elaborare un concetto che si distingua da quello, diverso, di digitale e che contempli la possibilità di registrare, anche linguisticamente, il cambio di paradigma, dove reale e virtuale non possono essere più concepiti in opposizione tra loro.

 

Concepito nel mondo del marketing

Nel 2010, Momentum – un’agenzia di marketing australiana – utilizza per la prima volta il neologismo phygital; nel 2013 ne rivendica il copyright e incomincia a presentarsi sul mercato come: “An agency for the Phygital World”. Un anno dopo, nel 2014, il concetto di phygital viene nuovamente utilizzato, questa volta dalla catena statunitense Lowe’s, in occasione dell’introduzione, in un negozio di San José (California), di due autonomi robot di servizio alla vendita – i cosiddetti “OSHbot” – ai quali è affidato il compito di analizzare come la tecnologia robotica potrebbe offrire benefici sia all’esperienza dei clienti che a quella dei dipendenti. 

 

In Italia, il termine inglese phygital si diffonde, inizialmente, tra gli addetti del marketing. Con la spinta verso il digitale, provocata dalla pandemia da Covid-19 e dalla persistente situazione di confinamento e semi-confinamento, non solo si incomincia a parlare di phygital in molti più settori, ma emerge una nuova esigenza: quella di tradurre un termine destinato, ormai, a divenire d’uso corrente. È così che nasce figitale.

 

figitale [fi-gi-tà-le] agg. der. dell’inglese phygital; parola macedonia composta dagli agg. fisico e digitale. Si usa per indicare la fusione tra la dimensione fisica e quella digitale, la confusione dei confini tra i due ambienti. Neologismo che nasce nel XXI sec., per rappresentare l’interazione costante e indistricabile tra reale e virtuale.

 

Primi utilizzi di "figitale" in Italia

Simona Valenti, oggi architetto, nel 2012 si laurea in Architettura Sostenibile con una tesi dal titolo Convergenze attive: tra comunità intelligenti e spazi pubblici figitali: risulta essere questa la prima volta in cui viene utilizzata la traduzione italiana del termine. Tra le note della tesi è indicato che «il titolo contiene il neologismo figitale risultato della convergenza tra dimensione fisica e digitale». Come si intuisce, figitale viene in questa circostanza utilizzato in un settore che ben poco ha a che vedere con il marketing, in quanto fa riferimento agli spazi pubblici che danno forma alla città. L’auspicio di Valenti è che il nuovo spazio pubblico contemporaneo si serva delle tecnologie digitali per spingere le persone all’interazione e, quindi, alla creazione di reti sociali attive; in tal modo – costruendo collaborativamente un luogo più confacente ai propri bisogni – la popolazione potrà riappropriarsi dello spazio pubblico, anche acquisendo un ruolo attivo nella progettazione del luogo che abitano.

 

Nonostante il pregevole tentativo di conio, l’accezione “urbanistica” di figitale non ha avuto diffusione quanto quella relativa al marketing.

Si registrano, anche in Italia, molti utilizzi del termine phygital negli anni che seguono il 2014, ma è intorno al 2019 – e ancor più nel 2020, dopo la spinta alla digitalizzazione provocata dall’esigenza di contenimento conseguente all’emergenza sanitaria – che la traduzione italiana figitale prende piede.

Oltre a comparire in alcuni siti web e blog specializzati in marketing digitale, Figitale diviene il titolo di un libro (scritto dal consulente commerciale Luca Marchese). Segue una serie – contenuta – di utilizzi del termine figitale, relegati soprattutto a un ambito commerciale, spesso con l’intento specifico di formare gli imprenditori all’e-commerce.

 

Ma è nei primi giorni del 2021 che, tra i pilastri di una ricerca scientifica sul «Futuro probabile» (nata dalla sinergia tra la Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine e la Banca Intesa Sanpaolo) viene inserita la dimensione figitale: l’utilizzo del termine, stavolta, è ampio; indica l’inevitabile transizione in atto, un nuovo paradigma che interessa ogni aspetto del vivere, dell’abitare, dell’apprendere, del fare e persino del pensare, dall’ambiente alla città, dal gaming alla didattica, dall’etica al lavoro, dall’intelligenza artificiale allo spazio.

 

Prima venne l’onlife

Tra le diverse accezioni di onlife, vi è quella coniata dal filosofo Luciano Floridi, che indica «un’esperienza fatta tramite una costante connessione online» (Treccani; v. l’Onlife Manifesto). Anche l’onlife fa suo il presupposto per cui la dicotomia tra reale e digitale o umano e macchina non sarebbe più sostenibile. Così, figitale e onlife sembrerebbero essere sinonimi; residua una differenza, soprattutto con riferimento al campo da cui originano le due parole: phygital proviene dal marketing ed è legata, soprattutto, alle strategie di “omnicanalità” integrata, tra digitale e fisico. Onlife proviene, invece, da una riflessione filosofica sulle condizioni dell’umano. Con l’estensione dell’uso del termine figitale (una moltitudine sempre più eterogenea di soggetti lo utilizza, e lo applica a una varietà di ambiti) la sfumatura tra figitale e onlife sembra, però, assottigliarsi fortemente.

 

Applicazioni concrete di figitale

Come si è detto, il termine figitale nasce e si afferma proprio nel settore del marketing. È in ambito commerciale, infatti, che in anticipo rispetto ad altri settori si percepisce chiaramente il cambio di paradigma dal mondo digitale (quello del XX secolo) al mondo figitale (nel XXI secolo): il sempre  maggiore interscambio tra esperienze online e offline porta le aziende a fare delle scelte necessitate per poter catturare l’attenzione dell’utente e trasformarlo in cliente: ciò avviene tramite la costruzione di strategie interattive e immersive che riducano il confine tra dimensione fisica e dimensione digitale. In particolare, gli esperti del settore teorizzano una pianificazione strategica del “figitale” fondata su tre pilastri fondamentali, le cosiddette “tre i”: immediatezza, immersione, interazione.

 

Nel retail 4.0

Nel retail vengono ormai utilizzate una serie di tecnologie estremamente innovative: IA, voice ordering, beacon per tracciare e monitorare il percorso degli utenti e i loro dati (come avviene nei negozi di Clarks e River Island, negli Stati Uniti), elaborati in tempo reale per consigliare il consumatore nel processo d’acquisto (si pensi alla “product recommendation” di Burberry o alla spesa intelligente di Sam’s Club).

 

Nel 2012 la catena Made apre uno showroom dove i prodotti non possono essere acquistati, ma solo guardati, toccati, analizzati attraverso una tecnologia 3D, inseriti in una lista dei desideri attraverso etichette digitali e acquistabili solo in un secondo momento.

 

Nel 2018, Nike inaugura il suo primo negozio pop-up progettato sulla base dell’analisi dei dati degli utenti. Nel 2019, informa dell’apertura di un nuovo negozio tutti gli utenti che si trovano nel raggio di venticinque chilometri, sulla base dei dati di geolocalizzazione presenti nei propri database. Nello store installa un distributore automatico di accessori gratuiti, ottenibili tramite un codice QR, e un meccanismo di premialità.

 

Sempre nel 2018 nasce Amazon Go, il primo tentativo di “cashless store”: i clienti prendono i prodotti da scaffali dotati di sensori e telecamere ed escono dal negozio senza fermarsi a pagare; intanto, un sistema di IA basato sulla tecnologia machine learning conteggia i prodotti, che vengono automaticamente registrati sul conto Amazon.

 

Nel 2019, in alcuni negozi Sephora diviene possibile prenotare trattamenti di bellezza online o usufruire di esperienze pienamente digitalizzate quali Beauty Studio, Moisture Meter, Beauty Workshop, attraverso cui è possibile analizzare la propria pelle o provare virtualmente i prodotti.

 

Nel settore bancario

La Abu Dhabi Commercial Bank ha aperto il suo primo centro di digital banking al fine di favorire la transizione dai canali bancari tradizionali a quelli esclusivamente digitalizzati, attraverso tecnologie come l’autenticazione biometrica, la firma digitale, l’assistenza virtuale. All’interno dei locali della banca gli utenti possono accedere al wi-fi e alla piattaforma integrata (cd. touchpoint) che prevede una serie di ulteriori servizi volti a fidelizzare il cliente.

 

Inoltre, la Credins Bank ha inaugurato a Tirana una “filiale smart” dove sono presenti touchpoint innovativi, corner relax con tablet a disposizione, schermi digitali interattivi (welcome desk e touch wall).

 

Nell’entertainment

Negli ultimi anni abbiamo assistito alla rivoluzione nel mondo del Video Entertainment; le piattaforme di distribuzione dei contenuti digitali hanno ormai messo in piedi un’offerta multi contenuto (film, musica, giochi, informazione: per es. Amazon Prime). Sempre nell’entertainment, si sono registrati esempi molto innovativi di “figitalizzazione”: si pensi a Fortnite, la piattaforma di gaming che ha cominciato a erogare concerti musicali in live streaming, in ambienti presenti all’interno della stessa piattaforma di gioco, cui l’accesso è consentito soltanto in base a precise regole di partecipazione (si tratta di vere e proprie “real-time 3D social experiences” che coadiuvano più mezzi di intrattenimento, tra giochi, film e musica).

 

Sempre con riferimento al gioco, si ricorderà, poi, il discussissimo caso di Pokemon Go, il famoso gioco che consiste nel “catturare” Pokemon in diversi punti della città, in forma di realtà aumentata.

 

Ma vi sono anche casi in cui il processo è inverso: il gioco che era solo digitale, cambia per abbracciare anche il reale. Su tale scia nasce, nel 2018, Nintendo Labo: il giocatore ha a disposizione una serie di sagome di cartone che deve assemblare sino a creare un oggetto (es. un robot, un pianoforte, una canna da pesca); all’interno dell’oggetto creato viene poi alloggiato lo Switch (la console): questo riconosce, con telecamera e sensori molto sensibili, i movimenti e le inclinazioni che il giocatore dà all’oggetto. In tal modo, fisico e digitale si intersecano perfettamente: per esempio, con una canna da pesca di cartone il giocatore può catturare i pesci virtuali che attraversano lo schermo dello Switch, basta svolgere fisicamente la bobina per abbassare l’amo.

 

Infine, la Disney ha progettato un’esperienza figitale attraverso la quale, il cliente, ha a disposizione un sistema di pianificazione dei viaggi a Walt Disney World e, dopo la prenotazione, la possibilità di usare lo strumento “My Disney Experience” per stabilirne e scoprirne ogni dettaglio, tra cui le attrazioni da visitare e il tempo d’attesa stimato per ciascuna di esse; un braccialetto – il cd. “Magic Band” – funge al contempo da chiave della camera d’albergo, memorizzatore di fotografie e ordinatore dei pasti.

 

Eventistica e musei

A causa del confinamento forzato, molti eventi, per poter continuare a esistere, sono stati reinventati, o meglio riadattati al nuovo paradigma. Così, per esempio, la Milan Fashion Week 2020 ha creato una combinazione di show fisici e digitali; alcuni marchi (come Louis Vuitton) hanno prodotto fashion film di altissima qualità. É stata, inoltre, creata una VR Fashion Week in realtà aumentata che contempla diversi eventi (per es. i tanto oggi nominati “giveaways”).

All’inizio della pandemia, una delle prime esperienze figitali proposte è stata Vatican City in the clouds, in occasione della quale hanno sfilato alcuni modelli virtuali. Poco dopo, all’evento The Fabric of Reality, i partecipanti hanno letteralmente “volato” intorno alla passerella. Ancora, l’Internet Festival di Pisa ha scelto, come parola chiave, proprio phygital, prevedendo anch’esso una commistione di eventi fisici e online. Infine, al galà di Capodanno 2021 della CCTV cinese, metà degli ospiti erano ologrammi.

Non solo eventi legati alla cultura, alla moda, al mercato, ma il figitale trova un’applicazione concreta anche ad eventi anche politici: si pensi al raduno virtuale che un’associazione che opera per la difesa dei diritti umani ha organizzato in Corea del Sud, nel 2016, per chiedere il riconoscimento del diritto di riunione: il “sit-in” è consistito in una spettacolare elaborazione video con centoventi ologrammi, proiettati in una piazza di Seul.

 

La “figitalizzazione” riguarda anche la fruibilità dei musei. L’Osservatorio innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali del Politecnico di Milano ha invitato i musei italiani a virare verso un ecosistema figitale che comprenda anche i parchi archeologici, i poli culturali, le piattaforme web, i social network, i siti di e-commerce, i blog. Così, sono state create app di realtà aumentata nel museo, visori per i tour virtuali, postazioni di realtà virtuale e installazioni immersive. Si pensi, per esempio, al progetto Sm@rt Pompei, dove sono stati impiegati droni, braccialetti, strumenti di video-analisi, telecamere termiche per proteggere il patrimonio; si pensi anche al progetto Vicinato a Pozzo del Comune di Matera, che racconta il passato attraverso la tecnica del projection mapping, e ancora il 9CentRO del Polo del Novecento di Torino, che ha reso accessibile online una moltitudine di documenti presenti negli archivi storici.

 

Nella ristorazione

Il Sublimoton di Ibiza ha previsto, per i suoi avventori, un’esperienza culinaria unica e figitale: tra piatti gourmet, simulazioni sui cinque sensi attraverso la combinazione tra cibo e effetti speciali (immagini, suoni, temperatura e umidità dell’aria vengono modificate, di volta in volta, a seconda della pietanza servita).

Nei ristoranti Le Petit Chef, a bordo delle Celebrity Cruises, è offerto ai clienti un viaggio esperienziale e figitale unico: in attesa del piatto ordinato, l’avventore osserva una versione olografica della creazione della pietanza, creata da uno chef in miniatura che corre intorno al tavolo.

In occasione della fiera del vino 2017, la catena Awabot Solutions ha fornito per la manifestazione un robot mobile di telepresenza (il cd. Sommelier Robot) per mezzo del quale un esperto sommelier è intervenuto da remoto. Il sistema si fonda sulla tecnologia BEAM, che permette il controllo del robot anche a centinaia di chilometri di distanza.

E ancora, la catena cinese Kentuky Fried Chicken ha installato nei propri fast-food degli schermi intelligenti capaci di sfruttare il riconoscimento facciale e l’intelligenza artificiale per proporre offerte speciali ai clienti.

 

Il figitale trova, poi, applicazione, in moltissimi altri ambiti: con riferimento ai pagamenti, dove la moneta elettronica è usata per transazioni sempre più ridotte (le cosiddette microtransazioni) e per l’utilizzo di “microservizi”, come le telefonate in aereo o i microacquisti online; nel campo medico, dove si sviluppa fortemente la telemedicina attraverso apparecchiature diagnostiche miniaturizzate e, in generale, attraverso diverse tecnologie che rendono alcuni servizi accessibili anche da remoto; con riferimento alle città (le “smart-city”), che vorrebbero essere sempre più inclusive, sostenibili e interconnesse, e che sempre più spesso sono dotate di telecamere di sorveglianza, energie rinnovabili, semafori intelligenti e sistemi di building automation.

 

 

Bibliografia

L. Floridi, The Onlife Manifesto: Being Human in a Hyperconnected Era, Springer, 2015.

S. Valenti, Convergenze attive: tra comunità intelligenti e spazi pubblici figitali, 2012.

G. Roccasalva, S. Valenti, Convergenze negli spazi pubblici figitali. Rendere le comunità più intelligenti, in Città sobria, Edizioni scientifiche italiane, 2013.

L. Marchese, Figitale, youcanprint, 2020.

N. Andreula, Phygital, Hoepli, 2020.

G. Leganza, Figitale. 2030-2014, le parole di domani, Civiltàdellemacchine.it, 2022

T. Castelli, The New Revolution Will Be Physical, Not Digital, AdAge,2016.

Zhang and H.-W. Hon, Embracing Digital Transformation as a ServiceCalifornia Management Review, 2020.

 

Immagine: Museo Virtuale del Garofalo

 

Crediti immagine: VeeSara, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

 

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La penultima illusione

Ginevra Bompiani

La penultima illusione

Milano, Feltrinelli, 2022

 

 

La penultima illusione è il memoir con cui Ginevra Bompiani tesse il rapporto tra le sue vite passate e il suo presente, o meglio, tra le perdite del suo passato e quella in atto. “L’eterno presente del passato” e il “remoto passato del presente”, i due tempi cui appartiene la vita, si affrontano in una ricerca diacronica di senso. Anzitutto, il senso delle parole.

 

La singolare numerazione dei capitoli rispecchia l’intreccio delle narrazioni storiche: 80.1, 30.1, 8.1, 80.23, 20.2, 50.7, 80.91. La prima cifra corrisponde all’età che l’autrice ha nell’episodio narrato; memorie che si rincorrono senza seguire un ordine cronologico, come se la narratrice, attraverso una libera associazione, volesse superare ogni possibile opposizione inconscia alla verbalizzazione dei propri ricordi. La seconda cifra scandisce, invece, le rievocazioni legate a una specifica età. Così, a ottant’anni, con N., Ginevra insegue, per l’ennesima volta, il desiderio di maternità. A trenta assaggia la libertà, a uno delude chi l’avrebbe voluta figlio e non figlia, a otto si difende dalle compagne che la picchiano in camera, a diciassette ha la sua prima “decompressione”, a sessanta attraversa il Sahara per salvare dei libri, a venti si separa dal suo più grande amore: la sorella. Solo quattro capitoli – intitolati Vite natural duranti – escono dallo schema delle età e raccontano l’eterno.

 

Il presente in compagnia di N. è lo specchio attraverso cui l’autrice si esplora e si mostra, prelevando dal passato i frammenti delle sue età. “Quel che faccio con lei è forse quel che faccio in queste pagine? mettere a confronto non solo me e lei, ma la mia vita e la nostra?”

N., la ragazzina Somala che G. ha preso in affido, è la penultima promessa d’amore e di perdita. Che lingua parla la sua “piccola antagonista”? Da quale tempo e luogo proviene la “giovanissima Ecuba”? Sarà in grado di rispondere all’insaziabile domanda d’amore che promana dalla sua “madre volontaria”? Sarà lieta, quantomeno, di lasciarsi amare?

 

Il dibattito terminologico è subito acceso ed è il filo conduttore della narrazione: cosa significano le parole per gli altri? Per G. mamma è il suggello della più desiderata intimità, per N. è rispetto e protezione. Dio per G. è un forse, per N. un’evidenza-verità. Per G. bello è antico, per N. è spazio. Per G. il Ramadan è poco salutare, per N. è il pezzo di terra che è riuscita a portare con sé. Per G. la magrezza è una categoria morale, per N. significa non essere stuprata. Per G. nera si riferisce all’umore, per N. si è neri sempre. Per G. il possibile è una continua minaccia, per N. può solo migliorare.

Per N. raccontare significa “rompersi il collo”, la fortuna è una terra bagnata dalla pioggia, avere il ciclo è essere impura, le botte fanno male ma possono mancare, la pipì l’ha bevuta, l’unica luce della notte è la luna e Tevere è, ormai, il nome che ridefinisce ogni corso d’acqua della sua infanzia.

G. ha un progetto per la vita di N. che coincide con la sua integrazione. La irrita la resistenza di N. a far proprie le nuove parole e si innervosisce per la sua indolenza. Cerca di convincerla a usare la forchetta, ma lei, orgogliosa e muta, si ostina ad affondare la mano nel sugo. L’odore di olio e cipolla fritta che emana dalla cucina alla fine del Ramadan, G. non riesce a sopportarlo; sospetta dei suoi amici, della sua fede, del suo gusto, delle sue bugie.

“N. è un capriolo. Vorresti tenerlo, anche se divora le scorze dei giovani alberi. Come il papero che tenevo sul terrazzo e mi mangiava le rose. C’è un punto in cui dirò: non posso sacrificare tutte le mie rose? Ce ne sarebbero tanti di punti, ma dopotutto, le rose..”

G. è desiderosa di accogliere l’ospite che ha sempre atteso (l’inatteso, l’illusione), ma non a costo di “spogliarsi di sé”.

A salvare la comunicazione tra le due, talvolta, interviene la metafora: “un ponticello per scavalcare i torrenti tumultuosi”, “un’anfora a due mani”. Le metafore, però, non si occupano di definire la verità, ma si limitano a generare comprensione attraverso la costruzione di “evidenze parallele”, destinate a non incontrarsi.

La consapevolezza dell’autrice è che il senso di una parola dipende dall’accordo che si è fatto con chi ascolta, che la lingua, al di fuori dell’esperienza antropologica specifica, non è traducibile: scaturisce sempre dall’uso contestuale che ne fa il parlante. Così, se da una parte l’autrice scrive “La semiotica non mi interessò mai molto”, dall’altra parte tradisce la propensione opposta: tutta la narrazione apre questioni di semiotica e semantica.

 

Per aggirare lo scoglio dell’incomunicabilità e favorire la comprensione, Ginevra Bompiani si propone di inventare parole che siano in grado di dire – o anche di tacere – la verità.

Con questo intento conia alcuni neologismi: impaesamento, madrimonio.

 

L’impaesamento non coincide con inserimento, ambientazione o integrazione; è “un lento processo di appartenenza, un esercizio di somiglianza”, dove l’individuo che deve impaesarsi è chi è spaesato (senza Paese). Non è un esercizio a due e implica non solo l’inserimento all’interno di una società, ma anche l’imposizione di un gusto.

 

Il madrimonio prende in prestito l’intenzione del matrimonio – diventare consanguinei per scelta – e lo declina nel rapporto madre-figlia. Si può essere “madri per scelta”, purché la volontà sia condivisa con i “figli per scelta”.

 

La lingua di Ginevra Bompiani è autentica, varia, raffinata e estremamente efficace: il registro alto si alterna a quello informale di N. (povero di vocaboli, ma immaginifico) e, di tanto in tanto, lascia spazio ad alcuni giovanilismi (“avevano acceso a palla l’aria condizionata”, “la gattina.. sempre sul pezzo”, “come se una spina mi si fosse infilata nelle chiappe”).

 

Il commovente memoir di Ginevra Bompiani è, insieme, narrativo e filosofico; ripercorrendo, a ritroso, le cause dell’oggi, affronta temi fondamentali, come quelli della maternità mancata o approssimata, e del rapporto con il divino e con il potere, della scienza con la fede, dell’amore con l’autorità, del formalismo con la forma, del corpo con l’anima, dell’essere col divenire. Tra i moltissimi “personaggi” che intersecano la vita dell’autrice, però, ve ne è uno che si impone, senza dubbio, quale protagonista: il linguaggio. C’è qualcosa di “insignificantizzabile” nell’esperienza umana, che coincide con il desiderio dell’Altro e produce una perdita insanabile. Una piccola menzione sembra contenere questa convinzione tutt’altro che illusa: l’incontro con Anna Basso, con la quale nasce e muore la cura per l’afasia.

 

L’illusione di G., però, permane nel suo sguardo: come quando s’illude di osservare la propria casa, invece sta contemplando il cielo. E, ferma sulla soglia, scopre che la sua immaginazione si è infranta sull’unica verità ineludibile: the end is the end.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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A Milano con Luciano Bianciardi. Alla scoperta della città romantica

 

Gaia Manzini

A Milano con Luciano Bianciardi. Alla scoperta della città romantica

Roma, Giulio Perrone Editore, 2021

 

A Milano con Bianciardi, di Gaia Manzini, è un libro cantiere: cantiere di linguaggio, di percorsi, di scavi e strati, demolizioni e ricostruzioni ragionate che conducono il lettore e la scrittrice stessa dentro l’anima della città. Luciano Bianciardi è il mezzo, non il fine: un Caronte moderno e contemporaneo, nocchiero capace di offrire una percezione multidimensionale di Milano.

 

Un libro “autoeterobiografico” dove chi si auto-racconta si serve di chi è etero-narrato per compiere uno sforzo maieutico: portare alla luce l’essenza più vera della città. Un uomo, uno scrittore, un arrabbiato che sogna di annientare la verticalità milanese; e una donna, una scrittrice, che per non cadere nel precipizio si è fatta isola: i grattacieli li ha visti, ma non li ha guardati. D’altra parte “Nessuno ti guarda” scrive, “perché il precipizio crea vertigini e nessuno vuole cadere insieme a te”. E Milano “è il posto perfetto per sprofondare con calma” respinge, desolata e cara, e tiene con sé, corteggiando le diverse solitudini.

 

Così, il parallelismo incerto e imperfetto tra i due scrittori, i testimoni di due generazioni che nemmeno si sfiorano, comincia sin dalla prima intenzione: lui – il suo personaggio – arriva a Milano per far saltare in aria il “torracchione”, sede della società mineraria Montecatini; lei, molti anni dopo, raccoglie dati e dettagli nella ricca bibliografia che consulta, cerca le coordinate precise per poter trovare il fabbricato, quello vero, la vittima inequivocabilmente designata da Luciano, che sarebbe dovuta saltare insieme alle fondamenta della città simbolica. La scrittrice, l’investigatrice, non inneggia a nessuna esplosione; vorrebbe soltanto osservare le torri milanesi con gli occhi diversi di chi, ora, è guidata dallo sguardo offeso di Bianciardi. Se per molto tempo non ha distinto un grattacielo dall’altro (“il grattacielo non influiva mai su quello che accadeva sotto di lui, rimaneva là con la testa tra le nuvole”), la scrittrice ora si offre al contrasto: a quali spese tutta quella altezza si è prodotta? Quale paradosso mina il suo basamento? E così viaggia, mentre noi lettori ripercorriamo Milano e i suoi punti cardinali: la brutale Torre Velasca, la slanciata Torre Galfa, il “Pirellone”, la Torre Branca, la Torre Breda, la Torre Rasini, e poi tutte le nuove costruzioni, da Porta Nuova al CityLife.

 

Oltre alla ricerca dell’altezza – certo, con mire diverse: per l’uno un bersaglio, per l’altra una comprensione profonda – a riunire le storie dei due scrittori vi è una bomba. L’ordigno agognato e inesploso di Luciano, derivazione della sua rabbia, e la bomba invece esplosa in via Palestro, dietro alle spalle di una Gaia diciottenne che non se ne cura perché ha fretta di andare a ballare.

 

Ma dov’è che la rabbia di Bianciardi e la città si incontrano? Nell’aspirazione alla verticalità. Anzi, per Bianciardi non è affatto un’aspirazione, ma è potere: “la verticalità era quella che portava il progresso e il nuovo boom economico. In basso, sottoterra, c’erano i minatori destinati a morire e a essere dimenticati. In alto, l’industria; il governo dell’economia.” Bianciardi se la prende con la dirigenza avida della Montecatini, vede tirar fuori dalla miniera quarantatré morti i cui corpi vengono, poi, disposti nella sala delle proiezioni cinematografiche. La sua rabbia non è arginabile, è un sentimento ancestrale che a macchia d’olio ricopre tutto, il potere e l’industria, il mondo della cultura e dei giornali, gli impiegati, le segretarie, i ragionieri e gli intellettuali che non riescono a fare gruppo, “a influire sulla vita cittadina, ma diventano parte di un apparato e, se gli va bene, lavorano per la pubblicità.”

 

Non è attraverso la rabbia contro Milano che la scrittrice si identifica con lo scrittore, “città che invece, con i suoi spigoli, la fa struggere d’amore”; la comunanza risiede nel disagio di non sentirsi mai al posto giusto e nel senso di solitudine, in “quel tornare sempre a sé nonostante tutto, come sicurezza, come condanna.”

 

Il parallelismo imperfetto si ripete, anche, nel boom economico: all’epoca di Bianciardi un boom che faceva confondere in molti, all’epoca di Manzini è un boom per pochi, pochissimi: e mentre ritornano le differenze abissali, le sperequazioni, i privilegi, e Milano, da città dell’economia e della crescita si trasforma nella città della finanza e della speculazione, Gaia Manzini rievoca il profetico scrittore. Se Bianciardi si porta dentro una consapevolezza dettata dalla propria dimensione archetipica mineraria – imprescindibile nella sua comprensione di Milano – la scrittrice fa parte di quella generazione che, “per procedere”, si è dimenticata del passato. L’emergenza dello scrittore, che ora vive nella sua penna, la porta, però, a fare un passo indietro, tant’è che rievoca le sue origini famigliari: un nonno operaio la lega, almeno formalmente, alla ricerca di Bianciardi.

 

Nella lingua di Gaia Manzini brillano non solo la densità lessicale e la complessità stilistica, ma anche una persistenza tematica: un “linguaggio architettonico” conduce la scrittrice lungo la sua ricerca, non solo nella descrizione esplicita dell’architettura milanese, ma contamina l’intera narrazione: “Cammino per novemila metri quadrati; se alzo la testa verso il cielo nero, è uno sguardo lungo trenta metri”; e ancora, parlando del panettone di Motta: “Il dolce originario gli era subito sembrato basso e dalla forma dismessa, decise allora di produrlo stringendone la base e dandogli una forma torreggiante (sì, ancora le torri)”. Insomma, il parallelismo tra Bianciardi e Manzini si rafforza nella ricerca linguistica, dove emerge l’ossessione per l’incessante tensione verso l’alto di Milano.

 

Ripercorrendo le parole di questo bellissimo racconto, la scrittrice – e con lei il lettore – si infila nello sguardo di un altro per ricalibrare il proprio rapporto con Milano: la città che prende e non lascia, dove si raccolgono i talenti e gli illusi, dimensione di disponibilità e chiusura, un mercato dove puoi vendere quanto hai da vendere, ma nel quale non ti senti mai veramente accolto.

Chi a Milano ci è arrivato, poi se ne è andato, ma vi è tornato a morire (Luciano Bianciardi); chi, invece, come Gaia Manzini, vi è nata e, al culmine del suo viaggio introspettivo e retrospettivo, riscopre la corrispondenza tra due diverse dimensioni milanesi, quella sociale e quella esistenziale: sentirsi paradossalmente bene in un contesto che incarna una discrasia interiore che sente far parte di sé.