Lingua Italiana

Filippo La Porta

Critico e saggista. Scrive regolarmente su «Repubblica», «Il riformista» e su «Left». Insegna alla Scuola Holden e in altre scuole di scrittura corsi di introduzione ai generi letterari. Abilitato all'insegnamento universitario di letteratura italiana moderna e contemporanea come professore associato. Delle sue innumerevoli pubblicazioni citiamo soltanto:”La impossibile cura della vita. Tre medici-scrittori: Cechov, Céline, Carlo Levi”, Castelvecchi 2021: ”Come un raggio nell'acqua. Dante e la relazione con l'altro”, Edizioni Salerno 2021; “Eretico controvoglia. Nicola Chiaromonte, una vita tra giustizia e libertà”, Bompiani 2019; “ll bene e gli altri. Dante e un'etica per il nuovo millennio” Bompiani 2018; “Disorganici Maestri involontari del 900”, Edizioni di storia e letteratura 2018; “Poesia come esperienza.Una formazione nei versi”, Fazi 2013; “Roma è una bugia”, Laterza 2012; “Pasolini”, Il Mulino 2012; “La nuova narrativa italiana”, Bollati Boringhieri 1995.

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La resistenza all’urto della lingua

 

Stimolato dal bell’intervento di Luigi Matt – Le risorse illimitate del romanzo (a seguito di una recensione al suo ultimo libro) – e in disaccordo con alcune sue conclusioni, provo a suggerire alcune riflessioni sulla letteratura attuale, e su alcuni possibili compiti della critica.

Ho conosciuto Matt tre anni fa a un convegno di critici italiani – in una singolare, quasi esotica trasferta a Bruxelles! – e trovai il suo contributo uno dei più utili e penetranti. Potrebbe sembrare questa una captatio benevolentiae per quanto scriverò ora, ma si tratta invece di un riconoscimento sincero.

Dico subito, a mo‘ di premessa generale, che proprio nei testi preparatori a quel convegno non si metteva mai l’idea di letteratura in relazione all’idea di verità. Ora, la letteratura è sì – manganellianamente – menzogna, però è quella menzogna che dice la verità. Altrimenti non distingueremmo scrittori autentici dagli scrittori fasulli, la moneta vera dalla moneta falsa. Memoriale di Volponi non appartiene alla stessa categoria di Il nome della Rosa di Eco. La letteratura è – dantescamente – il «ver ch’ha faccia di menzogna» – quella verità cioè che si manifesta attraverso l‘artificio. Anche la pagina contenutisticamente più “ripugnante” di un romanzo di Walter Siti può essere bella proprio perché è vera, perché risuona con una verità dell’esperienza del lettore che prima di lui nessuno aveva messo così bene a fuoco. Sappiamo che la verità letteraria è ambigua, diversa dalla verità delle scienze o del giornalismo (assai meno “controllabile”), però è precisamente ciò che innerva le opere. O meglio: la ostinata ricerca della verità, in sé sempre inafferrabile.

 

Un midcult d‘autore

Andando all’intervento di Matt su queste pagine: certo, Tristam Shandy, narrazione digressiva e straniante, rappresenta un filone fondamentale del romanzo moderno, accanto a Robinson Crusoe e a Pamela, ma siamo sicuri che vada scomodato per elogiare Capriccio italiano di Sanguineti (1963)? Prima di accostarlo a un altro romanzo uscito cinque anni dopo proviamo a ripassare la trama di Capriccio italiano: banale crisi coniugale, probabile tradimento, scomparsa della moglie, stanza di hotel, festa da ballo, ricordi affastellati, immagine del lago (simbologia alchemica) e infine la costante del gioco. Si obietterà: la letteratura è fatta più del "come" che del "cosa". Giusto. Qui il tutto viene raccontato in modo scomposto, sapientemente frammentario (si sa, viviamo nella società della "alienazione"), e versato in una atmosfera onirico-allucinatoria. Sembra l'Antonioni dell'incomunicabilità, in versione ipercolta (l'autore ha letto tutti i libri!) e a tempo scaduto (La notte era di due anni prima), quasi midcult, però un midcult d'autore, di nicchia, che fa sentire intelligenti. La pagina riproduce insistentemente il parlato, tra anacoluti e volute ripetizioni, con un effetto di saturazione. L'io narrante vede una donna piangere in ascensore: «che non so mica cosa farci, che mi viene soltanto da suonare quel tasto che di fianco c'è scritto ALLARME». Anche al lettore, respinto da una scrittura così perfettamente inemotiva, viene voglia di suonare quel tasto... (spero di non indulgere qui in un «perbenismo estetico», stigmatizzato giustamente da Matt).

 

Avanguardia o accademia?

La letteratura si può definire in tanti modi. Ad esempio è – almeno – dire qualcosa in modo interessante (definizione minima, empirica, e poco "scientifica", ma per me più calzante della famigerata "funzione" linguistica di Jakobson, che privilegia solo un tipo di letteratura). Bene, fin dalle prime pagine anche il lettore più motivato si annoia a morte, e annega non tanto nel lago allegorico ma in una paratassi estenuata, tutta frasette brevi, senza guizzi immaginativi (se compare un personaggio la descrizione è quasi azzerata: «c'era anche un giovanotto, infatti, che adesso era lì che si vedeva sul balcone, un po' biondo, un po' robusto...»), e con una blanda mimesi del parlato. Del secondo romanzo, Il gioco dell'oca, Geno Pampaloni, pur rispettando l'ingegno dello scrittore («sottile e ben armato») dirà che libri come questo ci spiegano dalla cattedra che il disordine è in casa: «sono intimidatori quando il rischio è finito». Mentre all'epoca delle avanguardie storiche il disordine era percepito come qualcosa di tragico e minaccioso, non un divertissement raffinato (insomma: l'avanguardia diventa qui accademia, museo e parco a tema). Un neorealismo mescolato alla fiaba, al sogno e al mito. Ma l'impressione è che all'autore non costi nulla, proprio perché non senti l'attrito tra la lingua e qualcosa che alla lingua resiste. Mi chiedo: Sanguineti – almeno dal punto di vista della sua produzione in prosa – ha mai veramente rischiato qualcosa, lui che tra l'altro era ben protetto da un gruppo intellettuale affiatato e vagamente lobbistico, da una fede marxista granitica e aliena da tentazioni eretiche (un chierico organico, poi deputato del PCI)? La sua produzione in versi è un'altra storia, ma non è questa la sede per approfondirla.

 

Il Bassani che rischia

Chi rischia in prosa è, ad esempio, il Bassani dell'Airone, che in pieno '68 pubblica un romanzo disperante – l'ultima giornata di un suicida, che va a caccia nella nebbia padana –, un romanzo che va indietro mentre tutto il mondo va trionfalmente in avanti! Nega la Storia, il Progresso, l'Utopia, la Rivoluzione, tutti gli idoli di quell'anno formidabile, mostrandoci una dimensione che ha a che fare con il sacro (cristianamente: con la nuda inermità della creatura). E lo fa con una lingua tesa, dolente, minuziosa, quasi autoprosciugata (Garboli parlò del calco di una lingua morta) con una radicalità vertiginosa e disturbante (l'immagine dell'airone imbalsamato in vetrina: la vita finalmente pura ma solo perché immunizzata anche contro se stessa) che ricorda il miglior Simenon, trapiantato nel ferrarese. Proprio Bassani venne chiamato teppisticamente da Sanguineti la Liala di quegli anni, benché – a ben vedere – non avesse niente di sentimentale o consolatorio!

Purtroppo la lingua di per sé non è un criterio sufficiente per dare alla critica un carattere scientifico – sostituendo il gusto letterario –, e anzi proprio una attenzione esclusiva alla lingua può generare equivoci. Leggiamo un saggio recente di un autorevole linguista, a proposito della narrativa contemporanea. Vi si parla di maldestri tentativi di alzare col lessico il livello di una sintassi impacciata (Dara: «nacqui zoppo a causa di uno sbilanciamento corporeo»), di eccessi specialistici in un contesto volutamente colloquiale ( Montanari: «Cosimo era più alto ma senza l'ipertono muscolare...») o di tentativi di contrapporsi alla medietà ma con una tecnica prevedibile (cfr. Petruccioli). E ancora: il tentativo di dare l'impressione della precisione soltanto nominando un oggetto col suo nome commerciale (Longo), analogie incomprensibili (Lagioia), uso di stereotipi («escalation di violenze», «castello di menzogne», Saviano), smania di iperletterarietà nel compiacimento degli elenchi (Baricco). L'ambiguità consiste in questo: ogni incongruenza e incertezza viene riportata dall'autore alla volontà di discostarsi dalla lingua media. Ecco dove è finito il famigerato scarto dalla norma! Queste notazioni le ho prese da Storia dell'italiano letterario. Dalle origini al XXI secolo (Einaudi) di Vittorio Coletti, in cui lo studioso della lingua ripercorre agilmente la nostra storia letteraria, da san Francesco a Camilleri, evidenziando costanti, eredità, cesure, nell'uso del lessico e della sintassi.

 

La lingua, l’opera, la complicazione della vita

Torniamo alla domanda di fondo. Cosa è avanzato in letteratura? Ciò che coincide con l’oltranza linguistica? Il contributo dei linguisti alla critica è prezioso (come abbiamo visto con Coletti) ma proprio attraverso la linguistica la critica letteraria cadde nella illusione mortale di poter diventare scientifica. I metodi formalistici costituiscono un apporto fondamentale ma da noi finivano spesso in una critica tautologica, che smontava e rimontava le opere senza dirci niente di interessante su di esse (non così i loro fondatori, come Sklovskij!). Per tutti i saggi letterari ispirati alla semiotica che lessi coercitivamente ai tempi dell’università non darei una sola pagina del grande Lionel Trilling, uno storico della morale che lavora con materiali letterari.

Parlando di letteratura di ricerca non si riconosce abbastanza che il criterio di giudizio da più di un secolo non è più la novità. Su questo rimando a Guido Mazzoni e al suo studio sul romanzo: «il nuovo ha perso prestigio come criterio di giudizio», poi cita i Buddenbrook, Il dottor Zivago e Vita e destino (il romanzo di Grossman con la sua trasparenza e linearità narrativa, a tratti perfino convenzionale, ci è più contemporaneo di Robbe-Grillet!). Il criterio di giudizio va cercato lì dove avviene l’urto della lingua con qualcosa che le fa resistenza, che le impedisce di librarsi nel vuoto di una sperimentazione gratuita. Può trattarsi di una scrittura espressionista come di una scrittura classica e molto tradizionale. Eviterei discorsi troppo prescrittivi, su poetiche e opzioni stilistiche (ad es. criticare un romanzo perché troppo poco digressivo, o una scrittura senza valenza simbolica, o un’opera stilisticamente facile, etc.). Tutto va bene, anche usare il vituperato italiano medio o uno stile semplice”. Basta che funzioni. Che funzioni cioè una capacità di rivelazione dell’opera, grazie a quell’attrito suscitato dalla lingua. Ovvero: riuscire a arricchire e complicare l'esperienza del mondo dei lettori (compito della politica: semplificarci la vita; della letteratura: complicarcela), liberare la lingua dai cliché e dall'ovvio (nei modi e nei generi che ognuno ritiene per sé più congeniali, con un romanzo-ben-fatto o con testo ibrido o con un memoir o con un reportage o con il metaromanzo). Qui la riflessione di Matt mi appare un tantino convenzionale: dobbiamo prendercela ancora con Fabio Volo e l’intrattenimento dozzinale? Siamo ancora a questo punto? Proviamo invece noi a rischiare qualcosa e a indicare esempi di intrattenimento alfabetizzato per la nuova middle class culturale (ironica e sentimentale), quell’intrattenimento che fa sentire più intelligenti, appunto il midcult d’autore. Nelle mie recensioni ne ho indicati molti, ma vorrei concludere su esempi positivi, due libri della narrativa italiana di questa stagione.

 

Il mosaico di Luca Doninelli

Anzitutto il romanzo-mosaico Tu credi che io dorma (Nave di Teseo) di Luca Doninelli, stregante retablo narrativo fatto a scomparti, composto da cinque storie – che il lettore è chiamato a ricongiungere – e capace di intrecciare con naturalezza racconto e riflessione (più i libri di Kundera, vicini alla conversazione, che i ponderosi romanzi-saggio dei Proust e Musil). L'autore racconta non tanto quello che gli sta a cuore quanto la sua assenza. Al centro del libro, come nel centro della Terra di Verne, si spalanca uno spazio vuoto e insondabile, una domanda senza risposta, che riguarda il senso della vita e la segreta dignità di ogni creatura. La prosa di Doninelli – uno dei nostri migliori romanzieri – scandisce nitidamente la partitura della narrazione, aprendosi a squarci di improvvisa liricità: il cielo senza nuvole sopra Parigi, lungi dall'essere uniforme, è «una tempesta di blu». Non siamo lontani da Cormac McCarthy e Flannery O'Connor, e forse dai fratelli Coen. Una frase che ricorre nel romanzo è «non possiamo falsificare tutto...». Qualcosa, nella nostra esperienza, resiste tenacemente alla falsificazione, e paradossalmente proprio una finzione – quella letteraria – sta lì a ricordarcelo.

 

Il fluviale Gian Marco Griffi

Poi il fluviale Ferrovie del Messico (Laurana, in una collana diretta da Giulio Mozzi) dell'astigiano Gian Marco Griffi, al suo terzo romanzo. Un romanzo epico-comico tra l'Italia della Repubblica di Salò e una fantasmatica America Latina, affollato di personaggi, pieno di avventura e di amore, tentato dalla satira (nella Germania nazista troviamo un gabinetto delle Comunicazioni, un altro delle Decisioni, poi dei Risarcimenti...), scritto in una prosa che imitando gaddianamente il groviglio della realtà (e con un costante effetto di parlato) riesce a dare a questo groviglio un ordine mirabile, imbrigliandolo in una sintassi narrativa quasi classica. Un romanzo spaesante, ma anche affabile, fraterno nella ostinata volontà di dialogo con i lettori. Una involontaria enciclopedia del '900 letterario, che autorizza ogni rimando (da Borges a Bolaño) e richiama a tratti la commedia all'italiana. Non dovete immaginare un accademico tour de force dell'oltranza linguistica. Protagonista è una umanità anonima (oggetto della pietas dell'autore), fatta di individui ai margini della Storia e travolti dalla Storia, «ricoperti da patine di polvere e follia». Ancora una volta: la letteratura, anche quella apparentemente germinata da una virtuosistica abilità retorica, sempre si prende cura di qualcosa. Correggo Gide: non si fa buona letteratura non tanto con i buoni sentimenti ma esibendo i buoni sentimenti (invece consustanziali alla letteratura).

Questi due esempi confermano come la sperimentazione più interessante è quella che non sa di esserlo, che muove non da una ideologia letteraria ma dall’esperienza. Alla fine il Gruppo 63 dopo un maldestro tentativo di sponsorizzazione dei “cannibali”, a metà degli anni ’90, ha davvero esaurito la sua spinta propulsiva (sulla qualità di Sandokan di Balestrini concordo invece con Matt). Proviamo a voltare pagina! Per il romanzo conta soltanto la frase che Stendhal mise in epigrafe al Rosso e il nero: «la verità, l’aspra verità». Tentate di mostrarla, cari romanzieri, nel modo che vi pare.

 

 

Gli interventi precedenti sul romanzo e le sue forme in Lingua italiana-Treccani.it:

 

Gualberto Alvino, recensione di Luigi Matt, Narratori italiani del Duemila. Scritti di stilistica militante

 

Luigi Matt, Le risorse illimitate del romanzo

 

Alberto Sebastiani, Ancora sulle risorse del romanzo

 

Immagine: An ilustration from the novel "Journey to the Center of the Earth" by Jules Verne painted by Édouard Riou, via Wikimedia Commons