Lingua Italiana

Fabio Rossi

Fabio Rossi (Roma, 1967) è professore ordinario di Linguistica italiana presso l’Università di Messina. Nel 1998 ha conseguito il Dottorato di ricerca in Linguistica italiana presso l’Università di Firenze, dopo essersi laureato in Lettere alla Sapienza di Roma. Dal 1999 al 2002 ha lavorato come assegnista di ricerca presso l’Università di Ferrara. Nell’àmbito della storia della lingua italiana, Rossi è interessato soprattutto alla lingua della musica (trattatistica cinque-secentesca e librettistica ottocentesca), al parlato dei media, all’analisi sintattica e pragmatica della lingua parlata, alla didattica dell’italiano (anche come lingua straniera) e alle ideologie linguistiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, partecipazioni a convegni internazionali e collaborazioni con prestigiose istituzioni culturali (Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Accademia Nazionale dei Lincei ecc.) e con università italiane e straniere.

Pubblicazioni
/magazine/lingua_italiana/speciali/scrittura/Rossi.html

Per una grammatica viva

 

Curiosamente, quando gli italiani si interrogano sulla loro lingua, sembrano prevalere sempre le solite tre lamentele: 1) nessuno usa più il congiuntivo; 2) l’italiano è schiacciato dall’inglese; 3) nessuno sa più scrivere o parlare per colpa degli SMS e delle chat (geremiadi anti-faccine, anti-abbreviazioni, anti-tecnicismi, anti-calchi e anti-neologismi del tipo chattare, loggare, bookmarcare ecc.). Lamentele ben avallate da molti giornalisti (e da innumerevoli blog e siti web), anche se non dai linguisti, e che non trovano un completo riscontro nella realtà linguistica nazionale. Se è vero, infatti, che i rilievi OCSE hanno relegato l’Italia tra gli ultimi posti nelle abilità comunicative scritte (lettura e composizione di testi: cfr. Rossi-Ruggiano 2015:7), la responsabilità di tali carenze non ricade né sull’inglese, né su Internet, né tantomeno sull’indicativo usato al posto del congiuntivo. Ce ne rassicurano, in diverse sedi, i nostri linguisti più aggiornati (sull’inglese si veda, tra l’altro, l’intervista a Tullio De Mauro nel portale Treccani).

 

Quali sono i veri problemi

 

Come comprendere e riassumere un testo (distinguendo, dunque, gli argomenti salienti da quelli accessori), come connettere un periodo all’altro, una proposizione all’altra e più in generale più porzioni di testo tra loro, come essere coerenti e quali termini ed espressioni selezionare in base agli scopi comunicativi e ai tipi di testo sembrano essere i veri problemi degli italiani di oggi di fronte alla lettura e alla scrittura. Come risolverli?

Molto è già stato fatto, nei programmi scolastici più recenti, per non limitare l’insegnamento dell’italiano a scuola alla sola letteratura e per includere teorie ed esercizi legati, tra l’altro, alla sintassi, al lessico e alla linguistica testuale (cfr. Serianni-Benedetti 2009, Serianni 2010). Sarebbe utile anche guardare a tradizioni glottodidattiche più aggiornate della nostra: non soltanto quella anglo-americana, ma anche quella dell’insegnamento dell’italiano come lingua straniera. In quest’ultima, infatti, l’obiettivo dell’arricchimento lessicale e fraseologico è da anni perseguito mediante gli esercizi di cloze (vale a dire di completamento, da parte del discente, di porzioni di testo eliminate dal docente), che ormai vengono apprezzati anche dai nostri insegnanti (se ne trovano in abbondanza in Serianni 2013). Anche la parafrasi e il riassunto dovrebbero essere più presenti a scuola, in quanto utili pratiche cognitive che, più che all’analisi metalinguistica, addestrano alla comprensione e all’elaborazione dei contenuti. Proficui anche elementi di confronto tra più lingue (soprattutto in classi sempre più multietniche), tra lingue e dialetti e soprattutto l’apertura dello spettro testuale a forme oggi imprescindibili quali i testi audiovisivi, gli ipertesti, i testi brevi, i linguaggi settoriali ecc.

 

La necessità degli esercizi

 

A partire da queste necessità, l’Accademia Nazionale dei Lincei da ormai tre anni organizza una serie di incontri di aggiornamento tra docenti universitari e insegnanti scolastici, dedicati soprattutto alla comprensione, all’analisi e alla produzione di testi argomentativi (cfr. l’iniziativa I Lincei per una nuova didattica nella scuola: una rete nazionale). Più o meno ai medesimi obiettivi, si parva licet, è dedicato un recente eserciziario (Rossi-Ruggiano 2015), che si presenta come una sorta di applicazione delle teorie presentate nel manuale Rossi-Ruggiano 2013. Oltre a una serie di esercizi su argomenti più tradizionali, quali l’analisi del periodo, la consecutio temporum, le figure retoriche o il riconoscimento delle diverse funzioni del che, si affrontano temi meno usuali, ma che sono quelli che più danno filo da torcere agli studenti (anche universitari) alle prese col testo scritto, quali l’uso della punteggiatura (troppo spesso trascurata dalla manualistica), la coesione e la coerenza, le costruzioni marcate, le collocazioni lessicali, gli usi modali del verbo, la tipologia testuale, il discorso indiretto libero, lo schema soggiacente a un testo argomentativo (premesse ipotesi argomenti antitesi confutazione dell’antitesi tesi), il riconoscimento dei tratti tipici del parlato rispetto a quelli tipici dello scritto.

 

Colmare il divario linguistica/grammatica

 

L’intento principale di entrambe le pubblicazioni (Rossi-Ruggiano 2013 e 2015) è quello di contribuire a colmare il divario tra gli insegnamenti di linguistica al livello universitario e quelli di grammatica al livello scolastico, o, se si preferisce, di far incontrare i due estremi della grammaticografia italiana rappresentati prototipicamente da Renzi et al. 1988 e da Serianni 1997. I risultati di tale scollamento sono sotto gli occhi di tutti. Non è raro imbattersi in studenti universitari che sanno tutto (o quasi) sulla differenza tra significato e significante, asse paradigmatico e sintagmatico, diacronia e  sincronia, atti linguistici e addirittura implicature e presupposizioni e financo apocope o anafonesi, ma che non sono in grado di riconoscere un che relativo da un che congiunzione, né di interpungere un testo in modo intelligibile e, certe volte, neppure di distinguere un soggetto da un complemento oggetto o un verbo attivo da uno passivo. Per non parlare delle competenze testuali: all’atto della stesura della tesi di laurea vengono al pettine nodi quali l’incapacità di distinguere tra registro formale e informale, testo argomentativo e narrativo e simili.

 

Incontri tra professori

 

In sostanza, non si tratta di “abbassare” gli insegnamenti universitari né di “innalzare” quelli della scuola, bensì di farli dialogare di più. Con quali strategie? In primo luogo con una serie di incontri tra professori di scuola e professori dell’università. In secondo luogo con pubblicazioni di alta divulgazione, con una maggiore attenzione ai temi linguistici come quelli sopra elencati. In terzo luogo (che è il più importante), incentivando gli studenti, di qualunque ordine e grado, alla riflessione linguistica, dal momento che la curiosità è la molla principale dell’apprendimento, insieme con la motivazione suscitata dai testi e dagli argomenti proposti. E proprio alla luce di quest’ultimo elemento, gli stessi Rossi e Ruggiano hanno creato, nel marzo 2015, un sito di consulenza sull’italiano: DICO - Dubbi sull’italiano consulenza online (www.unime.it/dico). Oltre a rispondere ai dubbi degli utenti (che confluiscono in un archivio liberamente consultabile), DICO propone una serie di approfondimenti sull’analisi del testo, sulle etimologie, sull’analisi grammaticale attraverso testi di canzoni e altro ancora.  E, proprio grazie alla forza trainante delle canzoni, queste ultime vengono commentate, dal punto di vista linguistico, anche nella trasmissione radiofonica, legata al sito, dal titolo DICO alla radio, sulle frequenze dell’emittente messinese RadioStreet (anche online: http://www.radiostreet.it/).

 

Nonostante Alex Britti

 

Ci piace concludere con qualche esempio pratico proprio dalle canzoni. Non è vero mai, di Alex Britti e Bianca Atzei, si presta ottimamente a spiegare gli usi e gli abusi di nonostante, come si evince fin dai primi versi: «nonostante stanotte, nonostante la filosofia / rimane qualcosa di intenso, nonostante sei andato via»; vale a dire, l’uso di nonostante come introduttore sia di complemento (concessivo) sia di proposizione (concessiva) e la violazione della regola che assegna a nonostante la reggenza del congiuntivo anziché dell’indicativo. E ancora: «nonostante che piangi» esemplifica la reggenza più formale, cioè con il che, pur con l’“errore” dell’indicativo, che forse è errore voluto dagli autori, per rendere più chiara la persona verbale con l’indicativo, occultata, invece, dall’identità delle prime tre persone del congiuntivo. Ambiguità che invece è (poeticamente) perseguita in un altro verso della canzone: «Nonostante le notti avevi altre emozioni», che può essere interpretato sia come complemento concessivo (nonostante le notti), sia come subordinata concessiva, con la solita predilezione per l’indicativo substandard (nonostante avevi).

 

Che Vasco!

 

La canzone di Vasco Rossi, Sarà migliore, sembra, invece, scritta a posta per commentare le varie funzioni di  che, tra le quali un che polivalente, tra il dichiarativo e il causale: «non ti preoccupare che domani sarà tutto uguale».

Certe notti di Ligabue esemplifica infine l’utilità della dislocazione a sinistra di proposizione: «dove ti porta lo decide lei».

Insomma, anche le canzonette, non meno dei testi letterari, possono essere un’utile palestra metalinguistica per i nostri studenti. E che dire della lingua della pubblicità (ricchissima di dislocazioni a destra, tra l’altro), dei film, dei siti internet ecc.? Ma tutto questo ci porta troppo lontano e può essere materia di futuri approfondimenti.

 

Letture consigliate

Lorenzo Renzi, Giampaolo Salvi, Anna Cardinaletti (a cura di), Grande grammatica italiana di consultazione, 3 voll., Bologna, il Mulino, 1988.

Fabio Rossi, Fabio Ruggiano, Scrivere in italiano. Dalla pratica alla teoria, Roma, Carocci, 2013.

Iid., Esercizi di scrittura per la scuola e l’università, Roma, Carocci, 2015.

Luca Serianni, con la collaborazione di A. Castelvecchi, Italiano, Milano, Garzanti, 1997.

Id., L’ora d’italiano. Scuola e materie umanistiche, Roma-Bari, Laterza, 2010.

Id., Leggere, scrivere, argomentare. Prove ragionate di scrittura, Roma-Bari, Laterza, 2013.

Id., Giuseppe Benedetti, Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti, Roma, Carocci, 2009.

 

 

Immagine: LEGO Store at Fairview Mall

 

Crediti immagine: Raysonho @ Open Grid Scheduler / Grid Engine [CC0]

/magazine/lingua_italiana/speciali/pubblicita_00/Testa.html

Come salvare la pubblicità (buttandone metà)

 

Intervista ad Annamaria Testa*, a cura di Fabio Rossi

 

Nel passato la pubblicità è stata oggetto di numerosi studi, anche da parte di storici della lingua: Bruno Migliorini, tra gli altri. Oggi sembra scarsa, almeno in Italia, una riflessione scientifica sulle tecniche compositive dei testi pubblicitari, soprattutto in riferimento ai nuovi mezzi di comunicazione (Internet). Forse perché è problematico il concetto stesso di pubblicità, nella generale crisi dei mercati, e sempre meno spazio viene concesso alla parola rispetto all’immagine. Eppure lo spot ben si presta, quale prototipo di testo breve e altamente condensato, ad illustrare il funzionamento della comunicazione in tutte le sue forme: dalla semiotica alla sintassi, dagli atti linguistici all’interazione tra immagini, suoni e parole. Abbiamo interpellato, su questi e su altri temi, una delle nostre principali “creative”, vale a dire autrice di messaggi pubblicitari: Annamaria Testa. Dal suo discorso, puntuale e accattivante anche per i non addetti ai lavori, si ricaveranno preziose coordinate di navigazione nella pubblicità attuale.

 

Qual è l’incidenza della lingua della pubblicità sulla lingua di tutti i giorni, oggi? Ci sono ancora casi di slogan tormentone ripetuti da tutti quali “più lo mandi giù e più ti tira su”, “Lavato con Perlana”, “Che cosa vuoi di più dalla vita”?

 

Sì e no. Nell’ambito del costume le domande sono nette, mentre le risposte sono spesso sfumate. Tra lingua pubblicitaria e italiano corrente c’è sempre stato un interscambio: la pubblicità, come forma del discorso persuasivo, va a cercare ciò che è già condiviso, per amplificarlo e riproporlo in modo che sia facile da riconoscere, da accettare e da adottare. Da questo punto di vista la pubblicità è un grande specchio dei comportamenti, degli stili e dei sistemi di valori medi e un grande frullatore e omogeneizzatore del linguaggio medio.

Tra l’altro, uno dei fattori di successo della lingua pubblicitaria sta nel suo essere aderente al parlato quotidiano, molto più della lingua dei telegiornali o di buona parte della comunicazione televisiva o su carta stampata.

Il fenomeno dei modi di dire mutuati dalla pubblicità, secondo me (ma non ho dati certi al riguardo), si è ridimensionato, mentre è stato fortissimo fino alla seconda metà degli anni Ottanta. Il motivo è semplice: la spaventosa crescita della pressione pubblicitaria conseguente all’avvento delle televisioni private ha determinato un enorme aumento del “rumore”. Oggi è difficile che un messaggio pubblicitario riesca ad avere la forza necessaria ad emergere dalla marmellata degli slogan per installarsi nella memoria collettiva.

Se non ci sono più picchi di memoria su un singolo slogan, la contaminazione è in realtà ancora più forte rispetto a qualche anno fa.

Se ascoltiamo le persone in metropolitana o per la strada, quando parlano di prodotti sembrano uno spot. Così come tutto il linguaggio del dolore è quello delle telenovelas: le persone esprimono sentimenti con uno stile mutuato dai dialoghi, spesso modesti, dei serial televisivi italiani. È una brutta copia fraintesa dell’italiano letterario, che ha perso la forza genuina dei dialetti per diventare non un italiano medio, ma un italiano mediocre.

 

Ha anche Lei l’impressione che al pubblico odierno piacciano meno i giochi di parole? Forse “Sfrizzola il velopendulo” e “Titilla la papilla” oggi non piacerebbero molto. Neppure le parole macedonia, da digestimola a docciaschiuma, sembrano oggi amate come un tempo dalla pubblicità, né le infrazioni alla grammatica, da “Metti un tigre nel motore”, a simmenthalmente, a comodosa, risparmiosa ecc.

 

Sono fenomeni diversi. I ragazzi di oggi si sentono più liberi che in passato di manipolare e deformare il linguaggio. È però, per dirla con Piaget, una manipolazione inconsapevole. Nel senso che non si conoscono bene le regole e si va come capita. Spesso i ragazzi non hanno gli strumenti lessicali necessari a cogliere il cortocircuito del senso che può star dietro un buon gioco di parole.

Invece le parole macedonia, che si usavano molto attorno agli anni ’60, oggi suonano fin troppo sloganistiche. Sono una scorciatoia che non amo: alcune hanno impatto, ma è l’impatto del mostro, del basilisco. Digestimola mi sembra brutto anche perché troppo facile: non c’è gioco, non c’è libertà di interpretare. L’inglese ha maggiore facilità dell’italiano ad accettare questa violenza sulle parole.

 

Sembrano molto lontani anche i giochi più sofisticati dei suoi messaggi pubblicitari migliori, che si basavano talora sul solo significante (come la già citata campagna per Golia), altre volte, nei casi più felici, sulla semantica e la sintassi: “In farmacia qualsiasi risposta non è mai una risposta qualsiasi”; “Leggi di natura” («Airone»). Altre volte, infine, sull’ottima interfaccia tra visual e testo: “Liscia, gassata o Ferrarelle?”. Se la sentirebbe di dire che oggi il linguaggio pubblicitario ha perso di efficacia e di raffinatezza?

 

È vero. Mi imbarazza apparire nostalgica, però non posso non ricordare che fino agli anni Settanta diventavano copywriter squisiti intellettuali i quali consideravano la pubblicità un modo per guadagnare e anche per entrare nel main stream del divenire culturale. Le agenzie erano strutturate come botteghe professionali: ci si entrava sottopagati, cercando un Maestro, si faceva una consistente gavetta e si imparava a usare le retoriche proprie del medium pubblicitario.

Oggi questo non succede più. L’onere dell’istruzione dei ragazzi è quasi interamente trasferito alle scuole di pubblicità, dove l’apprendimento è necessariamente più sfocato: mancano il contesto dell’agenzia, la pressione del cliente, il confronto competitivo con i colleghi più bravi, la supervisione occhiuta e magari vessatoria dei seniores. Gli stessi ottimi professionisti coinvolti nell’insegnamento spesso si limitano a commentare il proprio lavoro: non si mettono certo per un anno a correggere furiosamente i bodycopy degli studenti aggiustando le virgole e tagliando ogni parola di troppo, o a riscrivere e riscrivere headline cercando la soluzione migliore.

Un altro punto critico: scuole di pubblicità e corsi di Scienze della comunicazione sfornano ogni anno una quantità di studenti superiore, temo, al complesso degli addetti italiani del settore. Basti dire che tutti i dipendenti delle agenzie aderenti ad Assocomunicazione, la maggiore associazione di categoria, sono poco più di seimila.

E poi: spesso si va a studiare comunicazione e pubblicità perché sembra una faccenda brillante, divertente e poco impegnativa, e a prescindere dal fatto che si sappia, per esempio, leggere e scrivere correttamente. Insomma: abbiamo troppi ragazzi che vogliono fare questo mestiere, ne abbiamo molti che sono omologati, lucidi, scintillanti ma privi di originalità, e ne abbiamo pochi davvero bravi.

Così, dal calderone della pubblicità contemporanea ormai spuntano anche strafalcioni esilaranti, come il seguente, uscito sul quotidiano «La Repubblica»: si vede un (finto) professore di Scienze della comunicazione che pubblicizza il sito ilmiolibro.it (un servizio web per pubblicare testi a pagamento) con le seguenti parole: «Le dispense per i miei studenti le ho stampate io con ilmiolibro.it. Adesso nessuno è più dispensato dall’ignorare le mie lezioni». Possibile che nessuno dei redattori si sia accorto che dalla triplice negazione deriva un senso opposto a quello atteso: ‘tutti sono obbligati a ignorare le mie lezioni’?

Questo esempio (magnifico nella sua circolarità: un errore prodotto proprio da un supposto studioso di comunicazione) racconta la fragilità intrinseca del sistema meglio di mille parole. Non me la prendo con il povero copywriter – un momento di distrazione capita a tutti – ma con chi non ha corretto il suo testo, tra tutti quelli che di sicuro l’hanno visto: dal senior, al direttore creativo, all’account, al product manager

Una delle cose che uccidono la pubblicità è l’essere tolleranti con le sciocchezze, perché tanto “è solo pubblicità, sciocchina per definizione”. Certo, per mettere in crisi l’italiano ci vuole ben altro, ma la manutenzione è anche fatta di attenzione ai dettagli, no?

 

Quali nuove strade dovrebbe percorrere la pubblicità per non suscitare il rigetto di chi ne fruisce? Oggi siamo un po’ tutti smaliziati e dunque i messaggi pubblicitari tradizionali non attecchiscono più come un tempo? Oggi si spende più o meno di ieri per la pubblicità? Forse si preferiscono voci di spesa promozionale per nuove forme, come i gadgets, i film e gli advergames?

 

Anche in pubblicità, less is more. La pubblicità dovrebbe autoregolamentarsi, per sopravvivere. L’idea che quanto più si ripete qualcosa tanto più si è efficaci, figlia delle televisioni private e degli anni Ottanta, si sta dimostrando inefficace. L’affollamento pubblicitario non è solo una seccatura. È l’esplosione del senso. Trasmettere il medesimo spot quattro volte nel corso di un film non ha logica e può essere controproducente, fino a generare avversione o disgusto.

So che non ci si salva se non riducendo la pressione pubblicitaria, depurando le città, la televisione, le testate, di un buon 40% di messaggi pubblicitari. I rimanenti, venduti a prezzo alto, come una risorsa preziosa: oggi i prezzi degli spazi pubblicitari sono più bassi di un tempo, in una rincorsa senza fine agli sconti.

Se si vuole che la pubblicità continui ad avere e a produrre un senso che magari si trasforma in propensione all’acquisto, i temi da affrontare sono diversi. Il primo riguarda, appunto, il dire meno e il dire meglio. Non so se ci arriveremo mai. Il secondo riguarda i nuovi media, di cui parleremo tra un attimo. Il terzo è quello dell’interattività, del dialogo con il pubblico e dello sviluppare offerte e discorsi specializzati, di nicchia, ritagliati sui desideri e i bisogni dei singoli. Il quarto riguarda l’abbandonare una serie di stereotipi invecchiati e inadeguati: quelli femminili, per esempio. Purtroppo, però, ogni Paese ha la pubblicità che si merita.

 

In un’intervista recente, Lei ha osservato che oggi la pubblicità non deve più convincere, ma se mai divertire, emozionare ed essere imitata: lo dimostrano le migliaia di messaggi pubblicitari raccolti e spesso rifatti (ironicamente) in YouTube. Insomma, oggi il messaggio pubblicitario è una specie di ipertesto, nel senso genettiano del termine, un testo cioè che dà origine ad altri testi, che li manipola, li ricicla ecc. Serve per essere smontato e rimontato come un gioco degno di Queneau, insomma? Un po’ come diceva già nel 1994 Jean Baudrillard, oggi la pubblicità ha come merce sé stessa, ovvero tende sempre più all’autoparodia?

 

Teorizzando, si rischia di rendere la realtà più complicata di quanto non sia. Qualsiasi prodotto dell’ingegno umano può essere usato in molti modi. E anche la pubblicità. Più i modi sono molteplici, più il prodotto viene piacevolmente usato e meno facilmente risulta sostituibile. Questo fatto, fra l’altro, si traduce in consistente vantaggio competitivo.

L’obiettivo primario della pubblicità è raccontare storie sui prodotti, aggiungendo il valore dell’emozione, in modo da renderli differenti l’uno dall’altro, più gratificanti e tali da confermare il senso d’identità di chi li usa. Pensiamo alla pubblicità delle automobili: io scelgo un’auto che mi rappresenti, all’interno delle mie possibilità economiche, perché in qualche modo racconta di me come vorrei che gli altri mi vedessero. La stessa cosa faccio con un abito, con un cibo. Avrà notato quanto i cibi pronti si propongano come espressione di amore materno: faccio i sofficini e tutta la famiglia mi è grata.

La pubblicità deve fare prima di tutto questo. Riesce a farlo tanto meglio quanto più è piacevole, capace di intrattenere e di farsi adoperare. Se mi perdona il paragone impertinente, la pubblicità è come un insegnante, che riuscirà tanto meglio a trasmettere contenuti didattici quanto più sarà comprensibile, interessante, coinvolgente, e quanto più saprà aiutare i ragazzi ad usare i contenuti trasmessi come fossero i loro.

Spesso ci si dimentica che tutto questo fa parte delle regole di base della comunicazione: vengo tanto più creduto quanto più sono autorevole, tanto più ascoltato quanto più sono empatico, quanto più offro informazioni interessanti, utilizzabili, vicine ai desideri, ai bisogni e agli umori di chi dovrà usarle. Sono le dinamiche proprie di qualsiasi comunicazione. È ovvio che si dia più retta ad una persona simpatica che ad una antipatica, o che si impari di più da un insegnante vivace che da uno noioso. Ma tutto ciò sembra manipolatorio se accade in pubblicità.

 

Ma tutto questo non ci dimostra che la pubblicità in quanto tale, in quanto legata al prodotto da far acquistare, è oggi in forte crisi? Lei lo diceva già nel 2004. Non trova che la pubblicità odierna, come del resto un po’ tutti i messaggi mediatici, tenda all’autoreferenzialità? Lei ha detto che i giovani oggi sono meno esposti alla pubblicità e che su di loro le mode attecchiscono più col passaparola e con l’esempio di personaggi famosi che grazie agli spot. Dunque, mi chiedo e Le chiedo, a che e a chi serve la pubblicità, oggi?

 

I giovani oggi non sono esposti ai media classici. I ragazzi sentono forse più la radio, ma guardano poca televisione e non leggono i quotidiani né i periodici.

 

Dunque, come ha già anticipato prima, il futuro della pubblicità sembra risiedere in Internet? Ma allora perché la pubblicità in Internet è tanto deludente (“rudimentale”, la definisce Lei in un suo volume)? Banner che sembrano riprodurre stantii manifesti o pagine di gazzette d’altri tempi. Certo, forse la pubblicità in Internet deve seguire altre strade, da quelle di banner e popup. E la pubblicità radiofonica? Non è a dir poco irritante, il più delle volte? Con quei dialoghetti insulsi con prevedibilissimi nonsense. Ma serve?

 

Internet è un mondo nuovo per leggere il quale si stanno usando vecchie categorie. Per esempio, l’UPA (Utenti Pubblicità Associati, costituito dalle principali aziende industriali, commerciali e di servizi che investono in pubblicità) censisce come pubblicità on line soltanto gli spazi acquistati (banner, annunci su Google e simili), senza pensare che un sito è in sé pubblicità e può fra l’altro costare moltissimo per progettazione e gestione, al di là della piccola spesa per l’acquisto di un indirizzo web. Dunque le statistiche non sono realistiche e le spese sono, credo, ampiamente sottostimate.

Noi non abbiamo ancora idea di come si evolverà la comunicazione via web. È un mezzo ancora troppo giovane: non sono state ancora inventate retoriche e linguaggi ad hoc. È tutto così veloce che i sistemi narrativi non riescono a star dietro all’evoluzione tecnologica.

L’idea che un sito nel suo complesso possa essere considerato uno strumento di comunicazione commerciale scardina tutto quanto sappiamo delle retoriche pubblicitarie. La pubblicità così come noi la conosciamo oggi, infatti, è nata a partire dai vincoli di spazio (la pagina, il manifesto) e tempo (30 o 60 secondi di spot) da acquistarsi a caro prezzo sui mass media.

Ma in un sito saltano i vincoli che ci fanno riconoscere la pubblicità come tale, e che la obbligano a presentare tratti formali ricorrenti. Primo fra tutti il vincolo della sintesi all’interno di un format che integra parole e immagini e isola il messaggio dal resto dei contenuti del medium.

In un sito il tempo di fruizione è potenzialmente infinito. Lo spazio ha sì le dimensioni dello schermo del computer, ma può anch’esso moltiplicarsi in infinite schermate. È come se uno potesse comprarsi un’intera rivista per riempirla di pubblicità.

Ma il web offre anche una gamma di possibilità di interazione del tutto nuove. I destinatari dei messaggi sui mass media hanno a disposizione pochi feedback possibili: assentire e magari comprare, dissentire e ignorare, al massimo scrivere una lettera di protesta all’azienda. Sul web possono discutere, contribuire, manipolare, diffondere, deformare, progettare (sia comunicazione che prodotti: è il crowdsourcing), specificare, ampliare, confrontarsi, protestare, assentire esplicitamente, diventare fan e a loro volta promotori…

Queste potenzialità vanno ancora sperimentate pienamente. Coca Cola ha fatto cose interessanti al riguardo, proponendo siti interattivi. Diverse aziende (Lego è stata una delle prime) stanno coinvolgendo utenti esperti nella progettazione: ma è solo l’inizio.

Domani potrò immaginare una sitcom su un prodotto e chiedere al pubblico come dev’essere la prossima puntata. Oppure ospitare contributi del pubblico. Questa opportunità di dire la propria, nel proprio modo, essendo protagonisti, oggi si esprime già, per esempio, in alcune produzioni di scrittura collettiva, o in certi siti di fanfiction.

È uno sviluppo non solo possibile, ma anche probabile. E non determinerebbe la morte dei creativi pubblicitari, ma la nascita di una metacreatività, volta non tanto a inventare messaggi quanto a progettare strutture e modi tali da permettere al pubblico di interagire producendo propri messaggi.

 

L’impressione è che oggi si deleghi quasi tutto all’immagine e pochissimo alle parole (e questo spiegherebbe i deludenti risultati della pubblicità radiofonica e la riduzione della verbalità nei banner), o invece non è così? Lei stessa sostiene come nello spettatore resti sempre più in mente l’immagine della parola, poiché colpisce la sfera emotiva prima di quella logica.

 

La scarsa qualità della pubblicità radiofonica ha diversi motivi: la radio viene di rado considerata un medium autosufficiente, e spesso i radiocomunicati sono adattamenti di campagne uscite altrove. Costa poco ed è accessibile anche a clienti piccoli, che quindi investono meno anche in progettazione e produzione. E… fare un radiocomunicato e produrlo è meno divertente e gratificante che progettare uno spot. Quindi, magari, qualche volta ci si lavora sopra con minore passione. Ma, ad ascoltare bene, qualche buon radiocomunicato si trova.

 

Il segreto di un buon messaggio pubblicitario sembra dunque, al solito, quello della giusta misura, mentre o troppo parlati o troppo poco sembrano gli spot televisivi di oggi, no? Quasi sempre muti quelli di profumi e abiti, troppo densi di parole e di giochi verbali quelli delle compagnie telefoniche, non le pare?

 

Certi settori merceologici che sono più vicini alla cultura della comunicazione, come quelli della moda, del design e dell’editoria spesso si “fanno in casa” la pubblicità, ma la fanno a partire dalla propria competenza specifica: e allora agli annunci della moda e del design mancano le parole, a quelli dell’editoria fanno difetto le immagini. E i risultati non sono proprio esaltanti.

L’iperparlato degli spot delle compagnie telefoniche deriva, credo, sia dal fatto che per definizione al telefono si parla, sia dall’impiego di testimonial famosi, e dunque costosi. Difficile resistere alla tentazione di sfruttarli al massimo trasformandoli in televenditori.

 

Quali sono, secondo Lei, le differenze più evidenti tra la pubblicità italiana e quella straniera? A me pare che quella straniera di buon livello osi di più della nostra, no? Sia meno retorica, meno prevedibile, con un miglior accordo tra immagine, musica e parole, meno finalizzata ad assimilare ogni prodotto a uno stimolo sessuale. O il mio atteggiamento è frutto di esterofilia?

 

Il sesso è una scorciatoia fin troppo facile. Perfino l’«Economist» ha rilevato lo stravagante e diffuso impiego nazionale di ragazze molto poco vestite per vendere telefonini. Un’altra espressione della propensione italiana a piazzare veline anche là dove non servirebbero.

Le emozioni sono motivanti, e il sesso è un grande motore motivazionale ed emozionale, non nascondiamocelo. Ma quando viene usato come ingrediente universale, per pubblicizzare qualsiasi cosa, si depotenzia, perde mistero, logora il desiderio, diventa plastica. Così, una sessualizzazione esagerata e spesso incongruente consuma anche il discorso pubblicitario. E logora perfino l’immaginario relativo a un prodotto, se questo viene mostrato come pura, casuale appendice a una bella pupa svelata.

All’estero la figura femminile viene meno mortificata. Basti prendere ad esempio la campagna americana del sapone Dove. Nel sito www.nuovoeutile.it pubblico diversi link a siti che ospitano rassegne internazionali di eccellente pubblicità. Se si vuol capire che cosa di nuovo succede nel mondo dell’advertising bisogna guardare quanto di meglio si fa negli Stati Uniti o in Inghilterra, ma anche in Sud America, nella penisola scandinava, o in Giappone. Nel Suo giudizio c’è però anche un vizio percettivo: noi vediamo la crema della pubblicità straniera. Se si guardano le mille emittenti locali americane si trovano cose proprio bruttine.

Infine: la cultura, il gusto, lo stile in pubblicità sono per tradizione di derivazione anglosassone. Per noi latinos è più dura. E, fra i latinos, spagnoli e sudamericani sembrano comunque più propensi a innovare: forse questo deriva anche da una maggior presenza di giovani e donne là dove si decide quale pubblicità approvare e produrre. Non dimentichiamo che le agenzie presentano sempre diverse proposte di campagna. Può anche darsi che da noi, più spesso che altrove, vengano scelte le ipotesi più conformiste perché mediamente più conformisti sono i luoghi dove si maturano le decisioni.

 

Più volte Lei ha ribadito che la creatività non è trasgressione fine a sé stessa, né frutto di un genio innato, ma si acquisisce con lo studio e l’esperienza e soprattutto consiste nel combinare elementi della tradizione in modo nuovo. Come, secondo Lei, si può imparare ad essere creativi?

 

Più che di imparare ad essere creativi, parlerei di sviluppare la creatività individuale. Questo si fa essendo rigorosi, esigenti con sé stessi, curiosi, tenaci. E cercando di lavorare nei posti dove il tasso di innovazione e la possibilità di sperimentare sono alti. Fino agli anni Settanta la pubblicità era un lavoro nuovo, capace di attrarre persone brillanti: dagli uffici della comunicazione Olivetti, è passata una bella fetta dell’intellighenzia nazionale. Oggi, paradossalmente, per un giovane decidere di fare il pubblicitario di professione invece che scommettere, per esempio, sul web è una scelta per certi versi poco originale.

Un altro problema è questo: il mondo della pubblicità italiana (al contrario di quello delle ricerche e di quello del marketing) ha prodotto poca cultura professionale. Ma un sistema che non produce cultura e innovazione o si limita a sostenere un’innovazione formale venata di autoreferenzialità, diventa più fragile e meno capace di crescere, di migliorarsi, di difendere la qualità. Anche la stampa di categoria, confrontata con le grandi testate internazionali, presenta ampi spazi di miglioramento.

Ma, poiché cambiare prospettiva è in sé un fatto di creatività, proviamo a farlo: ridiscutere il tema della pressione pubblicitaria, inventare nuovi modi per interagire con il pubblico, trovare retoriche adatte ai nuovi media, sviluppare una relazione più equa e trasparente con i consumatori, ridiscutere le interazioni e i processi creativi propri delle agenzie, integrare nuove professionalità. Queste sì, se venissero colte, potrebbero rivelarsi sfide creative piuttosto interessanti.

 

 

*Annamaria Testa si occupa da oltre trent’anni di pubblicità, creatività e comunicazione. Sue le storiche campagne di Golia («Titilla la papilla», «Sfrizzola il velopendulo») e altre («Liscia, gassata o Ferrarelle?»). Sulle caratteristiche della comunicazione non solo pubblicitaria ha scritto numerosi articoli e volumi, tra i quali: La parola immaginata (1988); La pubblicità (2003); Le vie del senso (2004). È giornalista, docente universitaria (Roma, Torino, Milano), consulente di molte imprese, ha collaborato con la RAI e si è occupata di comunicazione pubblica e politica. Nel 2005 ha fondato «Progetti Nuovi», società per la comunicazione d’impresa. Ha recentemente creato il sito www.nuovoeutile.it, repertorio (gratuito e utilissimo per studenti, studiosi, addetti e non addetti ai lavori del campo della comunicazione creativa) di materiali riguardanti teorie, pratiche e applicazioni della creatività.

 

 

 

/magazine/lingua_italiana/speciali/doppiaggio/Rossi.html

Doppiaggese, filmese e lingua italiana

 

Doppiaggio? Certo, l'ideale sarebbe farne a meno: la specificità del linguaggio cinematografico sta proprio nell’intersezione di codici (immagini, gesti, voci, rumori, musiche, dialoghi, scritte di scena e fuori scena...) che, se compromessa, lede inevitabilmente la fruizione del testo filmico. Salvaguardare le voci originali degli attori e la lingua nella quale il film è stato concepito sarebbe indubbiamente l’optimum. In questo senso, dei buoni sottotitoli rappresentano una valida alternativa al doppiaggio, il quale tuttavia, in Italia e non solo, rimane la principale tecnica di traduzione audiovisiva.
 
Versioni multiple per ogni lingua
 
L’invenzione del sonoro (1927-30) recò immediatamente il problema dell’esportazione dei film, ovvero della loro traduzione. La soluzione scelta in un primo momento nel nostro Paese fu quella che sembrava la più rapida ed economica: l’ammutolimento delle pellicole e il ripristino dei cartelli con didascalie in italiano, dal momento che l’uso pubblico di parole straniere, scritte o parlate, era colpito da straordinari oneri fiscali e dal 1930, con espresso riferimento al cinema, era del tutto vietato. Ma il pubblico non accettò facilmente il regresso a una fruizione soltanto visiva del film, tanto che fiorirono alternative quali l’impiego di una voce-traduzione fuori campo e addirittura la costosissima realizzazione di cosiddette “versioni multiple”, ovvero film girati, con nuovi cast, in tante edizioni quante erano le lingue di distribuzione di quello stesso soggetto.
 
Doppiatori italoamericani
 
Dal 1932 si stabilizzò la tecnica della postsincronizzazione o doppiaggio.
I film americani destinati alla distribuzione italiana vennero, dapprima, adattati e doppiati oltreoceano. Se ne occupavano perlopiù italoamericani con conoscenza assai sommaria della nostra lingua e con conseguente inserimento di errori, dai calchi semantici alla pronuncia sensibilmente difforme dalla norma, anche per via delle inconsapevoli interferenze dialettali d’origine. Contro questi soprusi, ma anche per ostacolare l’importazione dei film stranieri e per controllarne meglio il consumo in patria (con eventuale rassettatura ideologica, in sede di doppiaggio: si pensi a Casablanca, 1942, di Michael Curtiz, giunto in Italia fortemente censurato), il Governo sancì l’obbligo di realizzare la versione postsincronizzata esclusivamente in Italia (decreto-legge 261 del 5 ottobre 1933).
 
La rarità del suono in presa diretta
 
Il primo studio di doppiaggio italiano, affidato alla direzione di Mario Almirante, fu aperto a Roma, nel 1932, dalla Casa Cines Pittaluga. Ne seguirono molti altri, a breve distanza. A partire dal 1937-38 si consolidò anche la prassi di postsincronizzare i film italiani, motivata dal fatto che il doppiaggio degli attori era più sicuro ed economico di una buona riproduzione del suono in presa diretta. Divenne così possibile anche migliorare le prestazioni vocali degli attori neorealistici presi dalla strada.Da allora, almeno fino all’ultimo ventennio del Novecento, i film italiani integralmente in presa diretta saranno una rarità. La postsincronizzazione dei film italiani non si può spiegare soltanto con l’imperizia degli attori non professionisti. Evidentemente, con il progredire del film sonoro, il pubblico diventa sempre più esigente (già assuefatto all’estetica vocale del doppiaggio dei film stranieri), ricercando sia una perfetta resa acustica, sia una dizione scevra dalle interferenze dialettali e dalle peculiarità timbriche pure ammesse a teatro. Senza dimenticare l’estrema comodità, per i cineasti, di poter correggere successivamente (e in mancanza degli attori originari, eventualmente impegnati su altri set e, comunque, troppo esigenti e difficili da gestire, rispetto ai doppiatori di professione) errori di recitazione e d’acustica.
 
Con Fellini, gli attori diedero i numeri
 
Celebre la passione di Fellini per il doppiaggio: lo stesso regista dichiarò più volte di far recitare ai propri attori soltanto dei numeri, riservandosi la costruzione definitiva dei dialoghi proprio in sede di doppiaggio.
L’enorme diffusione del doppiaggio di film italiani comincerà presto a generare problemi e paradossi, come ad esempio quello di professionisti presenti nello stesso film sia come attori (doppiati da altri) sia come doppiatori (da Cigoli, a Gassman, a Manfredi), oppure il caso di stelle del cinema occasionalmente doppiate: celebri i casi di Gassman doppiato in Riso amaro, 1949, di Giuseppe De Santis; di Mastroianni doppiato da Sordi in Domenica d’agosto, 1950, di Luciano Emmer; di Salerno e Gassman doppiati nella Tratta delle bianche, 1952, di Luigi Comencini.
 
Lo scaricatore di porto parla come un lord
 
Indubbiamente il doppiaggese, vale a dire la varietà di lingua propria dei film doppiati, ha influenzato direttamente non soltanto l’intera lingua del cinema italiano (il cosiddetto filmese), ma anche l’italiano scritto e parlato tout court, e questo non tanto in virtù dei numerosi calchi, soprattutto dall’inglese, di cui son prodighi i nostri doppiatori (dacci un taglio,da cut it out, invece di piantala o finiscila; ci puoi scommettere!, da you bet!, o you can bet!, invece di senza dubbio!, naturalmente!, lo credo bene! e simili; e ancora non c’è problema invece di va bene; sono fiero invece di sono orgoglioso, mi fa piacere; tranquilli! invece di zitti!, silenzio! ecc.; dipartimento invece di ministero; realizzare invece di accorgersi, rendersi conto di; essere in condizione di fare anziché poter fare; suggestione invece di suggerimento, e tanti altri ancora), ma soprattutto per quella generale impressione di artificiosa formalità e azzeramento delle varietà tipica di quasi tutti i doppiaggi, nei quali lo scaricatore di porto parla come l’avvocato, al massimo con l’aggiunta del turpiloquio ma, ad accrescere l’inverosimiglianza dell’operazione, sempre in una dizione ineccepibile e scevra d’ogni inflessione regionale.
 
Adattamenti culturali
 
Passando ad altri ambiti linguistici, si potrebbero citare almeno l’iperestensione del Tu a scapito del Lei (con tutto il corredo di falsa informalità), nei film doppiati e da lì anche in altre sfere espressive, e l’uso del passato remoto e del futuro ben più esteso nell’italiano doppiato che altrove. Sempre la pigrizia dei traduttori (o meglio degli adattatori dialoghisti, che predispongono i dialoghi tradotti affinché vengano recitati in sincronismo labiale dai doppiatori) induceva, fino a non molti anni fa, certa predilezione per l’obsoleto allocutivo di cortesia Voi, in luogo del Lei, ricalcante la forma You dell’inglese.
Un'altra caratteristica del doppiaggio italiano, più di ieri che di oggi, è la preferenza per la traduzione etnocentrica (target oriented, mirante cioè ad ambientare il più possibile il film straniero all’orizzonte culturale dei destinatari d’arrivo), piuttosto che per la traduzione fedele alla fonte (source oriented) e quanto più possibile alla cultura dell’autore e del pubblico di partenza. Oltre all’abitudine comune, fino ad epoca recente, di tradurre, o cambiare del tutto, i nomi propri (Giovanni e Maria in luogo di John e Mary), si pensi a un esempio del genere: «When it comes to relationship, I’m the winner of the August Strindberg Award», adattato (in Manhattan di Woody Allen, 1979) in: «Quando si tratta di rapporti con le donne io sono il vincitore del premio Sigmund Freud». Evidentemente l’adattatore, ritenendo che lo spettatore medio italiano sarebbe stato spiazzato dal riferimento a Strindberg, ha provveduto a sostituirlo con un personaggio a tutti noto.
 
Originale, doppiata o sottotitolata
 
Certo, sarebbe meglio fare a meno dei filtri del doppiaggio, ma quanti italiani riescono a seguire disinvoltamente un film recitato anche solo in inglese? E quanti riescono a leggere i sottotitoli senza difficoltà (si pensi a bambini e ipovedenti, per tacere della distrazione dall’immagine indotta dai sottotitoli). Più che prendersela contro doppiaggio o sottotitoli, varrebbe forse la pena di lavorare ad un doppiaggio e a sottotitoli migliori, più fedeli all’originale da un lato, ma anche più attenti alle sfumature stilistiche, anche a costo di ricorrere alle nostre inflessioni regionali, perché no?, o a voci meno fonogeniche. E le sale cinematografiche dovrebbero consentire fruizioni alternative per ogni film, così come fanno i migliori DVD, con possibilità di far scegliere allo spettatore la versione che preferisce: originale, doppiata o sottotitolata in varie lingue. Tra l’altro, da almeno una decina d’anni ormai, molti corsi di laurea in lingue contemplano moduli specifici per la traduzione multimediale (Trieste, Forlì) e linguisti e traduttologi hanno compreso l’insostituibile utilità delle risorse audiovisive nell’insegnamento di L2 (ovvero delle lingue straniere).
Varrebbe la pena di incoraggiare decisamente la prassi del doppiaggio e della sottotitolatura in inglese (tanto per cominciare) di prodotti cinetelevisivi italiani (Montalbano sta godendo di un notevole successo in Inghilterra): come da noi la passione (e prima ancora la distribuzione sistematica) del cinema americano ha da sempre portato con sé un incredibile indotto commerciale (dall’abbigliamento all’alimentazione, dai viaggi a tutto quanto consentisse di abbracciare l’american way of life), chissà che una migliore distribuzione all’estero dei nostri film non aiuti a vendere meglio il made in Italy?
 
Letture consigliate
Delia Chiaro et al. (a cura di), Between Text and Image. Updating Resarch in Screen Translation, Amsterdam/Philadephia, John Benjamins, 2008.
Giuseppe Massara (a cura di), La lingua invisibile. Aspetti teorici e tecnici del doppiaggio in Italia, Roma, Nuova Editrice Universitaria, 2007.
Vincenza Minutella, Translating for dubbing from English into Italian, Torino, Celid, 2009.
Mario Paolinelli e Eleonora Di Fortunato, Tradurre per il doppiaggio. La trasposizione linguistica dell'audiovisivo: teoria e pratica di un'arte imperfetta, Milano, Hoepli, 2005.
Maria Pavesi, La traduzione filmica. Aspetti del parlato doppiato dall'inglese all'italiano, Roma, Carocci, 2005.
Elisa Perego, La traduzione audiovisiva, Roma, Carocci, 2005.
Elisa Perego e Christopher Taylor, Tradurre l'audiovisivo, Roma, Carocci, 2012.
Fabio Rossi, Il linguaggio cinematografico, Roma, Aracne, 2006.
Christopher Taylor (a cura di), Tradurre il cinema, Trieste, Dip. di Scienze del linguaggio dell'interpretazione e della traduzione, 2000.
 
 

/magazine/lingua_italiana/speciali/cinema/rossi.html

Un trailer linguistico (1945-2006)

L’italiano di Gary Cooper

La storia del cinema è legata a quella della lingua italiana a filo doppio: per i prestiti del cinema alla lingua comune e per la capacità dei dialoghisti ora di fotografare, ora di deformare (amplificandone o, viceversa, attenuandone alcuni tratti) le mille facce del nostro parlato. I prestiti veri e propri non sono numerosi, ma significativi: si tratta perlopiù di titoli di film felliniani diventati presto, e talora (dolcevita e paparazzo) non soltanto in Italia, parole comuni: amarcord ‘ricordo nostalgico, evocazione malinconica’, dall’omonimo film del 1973 (l’espressione romagnola vuol dire, letteralmente, ‘io mi ricordo’); bidone ‘imbroglio, raggiro’, dall’omonino film del 1955; dolcevita e paparazzo (da La dolce vita, 1955); vitellone ‘giovane ozioso e fatuo’, da I vitelloni, 1953. A parte Fellini (tuttora il regista italiano più conosciuto all’estero, almeno fino al "fenomeno Benigni" della Vita è bella, 1997), i nostri cineasti non sembrano aver inciso sull’italiano tanto quanto la televisione, alla quale spetta senza dubbio il titolo di prima vera maestra (buona o cattiva che sia) di lingua degli italiani, come Tullio De Mauro e Raffaele Simone hanno più volte ribadito.
Occorre tuttavia ricordare il ruolo determinante del doppiaggio di film stranieri, americani nella fattispecie, da sempre preferiti dal grande pubblico nostrano. La tribù degli adattatori e dei doppiatori ha fatto della lingua italiana un uso un po’ ingessato: rispetto all’agile varietà dei dialoghi originali, la versione adattata sembrava, almeno fino al 1970, decisamente più scolastica, scevra quasi sempre da elementi regionali (che sarebbero parsi stranianti, in un contesto internazionale, e che, all’opposto, costituivano la conquista di maggior valore della produzione nazionale, almeno a partire dagli anni Trenta, con l’avvento del sonoro) e anche da un parlato dell’uso medio, realtà, come si sa, abbastanza recente. L’autarchia linguistica e la dialettofobia degli ultimi anni del fascismo hanno sicuramente ritardato lo svecchiamento del doppiaggio, che nondimeno, proprio in virtù della sua immobilità, ha esercitato una certa azione didattica sull’apprendimento linguistico degli italiani, se si considera, come ricorda brillantemente il regista Luigi Magni, che nell’immediato secondo dopoguerra «l’italiano lo parlava soltanto Gary Cooper, perché era doppiato». Salvo eccezioni (i ristoratori italoamericani Tony e Joe, doppiati in siciliano nel disegno animato Lilli e il vagabondo, 1955), la prima adozione del dialetto nel doppiaggio ha una data ben precisa: 1972, col Padrino di Coppola.

«Ehi amico, dacci un taglio!»

Da allora è storia nota, per il pubblico contemporaneo: è difficile, oggi, non incontrare almeno un’inflessione meridionale nella miriade di film americani sulla malavita d’impronta italiana. Ma, soprattutto, i film doppiati hanno regalato all’italiano, con costante indignazione dei puristi di ieri e di oggi, decine di calchi, precocemente segnalati, tra gli altri, da Raffaello Patuelli (1936): «La banda sta per l’inglese band; e chi non capisce che si vuol dire orchestrina? "è un amatore" dice la signora. Voi pensate subito a un dongiovanni; oppure a un raffinato collezionista. Si tratta invece di un agile tennista, di un robusto calciatore, di un rachitico cineasta, di un dilettante insomma, di un amateur. Così con queste rassomiglianze, sinonimie, omofonie, quelli che traducono il copione col vocabolario inglese alla mano, senza aver forse mai consultato in vita loro quello italiano, arrivano al prodigio della sincronizzazione. Ed ecco che gli indigeni diventano i nativi perché in inglese si chiamano natives, il fellone, il tristo, un villano dall’inglese vilain, il pudore, modestia, dall’inglese modesty, col beneplacito dell’etimologia e degli arcaismi che fanno sempre buon gioco quando torna conto appellarsi ad essi. Il carretto è diventato un vagone da wagon, l’articolo una storia da story, il festeggiare un celebrare da celebrate [...]. Quante sono le parole che offrono al traduttore semplicista una facile sincronizzazione! mustard è la salsa di senape ed egli la traduce con mostarda; camphorine è la naftalina ed egli la traduce con "canfora"».
Oltre a quelli notati dal Patuelli, potremmo aggiungere almeno: dannato, dannazione e dannatamente (damn, damned; oggi perlopiù fottuto: fucking) invece di maledetto, maledizione e maledettamente; ehi, amico (ehi, man, o buddy, o mate e simili) invece di senti, bello, o della semplice eliminazione del vocativo; dacci un taglio (cut it out) invece di smettila o piantala o finiscila; ci puoi scommettere! (you bet!, o you can bet!) invece di senza dubbio!, ci puoi giurare!, te lo giuro!, naturalmente!, lo credo bene!, e simili; esatto (exactly) invece di , hai ragione, sono d’accordo, ecc.; abuso di voglio dire (I mean) invece di cioè; prego (please) invece di per favore; realizzare (to realize) invece di accorgersi, rendersi conto di; posso aiutarla? (can/may I help you?) invece di desidera?; suggestione (suggestion) invece di suggerimento; andare a vedere qualcuno (to see someone) invece di andare a trovare qualcuno; lasciami solo (leave me alone) in luogo di un più appropriato lasciami stare/in pace o vattene, e moltissimi altri.
Ma già i primi analisti del film sonoro si erano accorti che d’oltreoceano arrivavano non soltanto calchi e cattive abitudini linguistiche, bensì anche un salutare ringiovanimento di stile dialogico e un allontanamento dalle pastoie dell’italiano scritto. Ecco le parole di Paolo Milano (1938): «Che linguaggio sceglierà il Cinema, fra i molti che ogni lingua possiede? Il più semplice, il più documentario, il più legato all’esistenza spicciola e quotidiana. Qualunque altro linguaggio più sostenuto, letterario o (come si suol dire) aulico, rischierebbe d’assumere un valore artistico proprio, a tutto scapito della visione filmica, in ibrido e sterile connubio [...]. [S]ullo schermo si deve parlare poco, e il linguaggio di tutti i giorni. Così stando le cose, gli americani sono a cavallo [...]: quel gergo disossato e breve che sembra fatto di ammiccamenti e di urti più che di parole, quell’inglese d’oltresponda diventato irrispettoso e pregnante. È la lingua cinematografica per eccellenza, sia detto senza complimento: cioè la lingua più lontana dalla poesia [...]. Ora, sarebbe tempo che anche il dialoghista cinematografico si associasse con lena e buon diritto a un’opera che si prosegue da più di un secolo, alla quale hanno contribuito e Manzoni e Verga e Pirandello, e a cui lavorano più o meno inconsapevolmente giornalisti e padri di famiglia e uomini della strada: la creazione di una lingua italiana di tutti i giorni [...] [I]l personaggio dello schermo deve parlare come quello che lo spettatore incontra ogni giorno a un angolo di strada, al caffè, in ufficio, in un salotto. Propongo una multa per il primo sceneggiatore che ancora una volta metterà in bocca a un personaggio di film una frase come "Ho detto loro...". Vergogna! Sullo schermo si dice, anche al plurale e in barba alla Crusca, "gli ho detto", e si resta in ottima compagnia, visto che Manzoni l’ha scritto tante volte».

I dialetti sullo schermo

Se torniamo alla produzione nazionale, non possiamo non rimanere colpiti dalla centralità della componente linguistica (e spesso metalinguistica) in film anche di serie B o C. Specialmente la filmografia comica fornisce esempi in gran messe. Su tutti Tòtò, più volte irresistibile "maestro" di lingua: dalle disquisizioni sugli accenti o sulle desinenze (mìssile o missìle, succube o succubo), alla celeberrima lettera dettata a Peppino De Filippo in Totò, Peppino e... la malafemmina, all’espressionistico eloquio mistilingue anglo-italo-franco-tedesco nel medesimo film. Non mancano, in Totò, sfuriate puristiche, contro lingue straniere e dialetti, talora concluse dall’esclamazione: «E parli italiano benedetto Iddio!». E che dire del camaleontismo di un Gassman o di un Giannini? O dell’impietoso ritratto, anche linguistico, del borghesuccio meschino e frustrato tratteggiato da Alberto Sordi?
Pochi dialetti sono rimasti fuori dalla lente dei nostri dialoghisti "all’italiana" (Age e Scarpelli indiscussi maestri): la fanno da padrone il romanesco (spesso annacquato – dopo i fasti del realismo rosselliniano e desichiano – come nella saga di Poveri, ma belli, filmata da Dino Risi a partire dal 1957), il napoletano (il cui impiego filmico risale addirittura agli inserti cantati nelle sceneggiate filmate all’epoca del muto) e il siciliano (dai film sulla mala, alle commedie "erotiche" di Germi, alle farsacce di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia), seguiti, più o meno a pari merito, dalle varietà pugliesi (da Lino Banfi a Sergio Rubini), lombarde, romagnole, venete... Ultima, in ordine cronologico, la fortuna del toscano, a partire dalla serie di Amici miei (1975 e successivi) per finire con Benigni e con i più scialbi Nuti, Benvenuti, Pieraccioni e compagni.
Ma le sfaccettature glottologiche della penisola continuano a interessare i nostri cineasti non soltanto sul versante dei dialetti, ma anche su quello delle varietà sociali e professionali. Come non ricordare, dunque, il Moretti di Ecce bombo (1978) e soprattutto di Palombella rossa (1989), caricatura del "giornalese" (come del "giovanilese" e del "politichese" era il primo film) pieno soltanto di luoghi comuni e di «plastismi» (come li avrebbe chiamati, qualche anno fa, la linguista Ornella Castellani Pollidori): «Lei parla in modo un po’ superficiale – sospira Moretti, discutendo con una giornalista che imbelletta le proprie domande a suon di tensione morale, rapporto in crisi, fuori di testa, Kitsch, chip, trend negativo – chi lo sa come scrive? [...] Dove l’andate a prendere queste espressioni?! [...] Come parla?! Le parole sono importanti! [...] Non riesco nemmeno a ripeterle queste espressioni. Noi dobbiamo essere insensibili. Noi dobbiamo essere indifferenti alle parole di oggi. [...] Chi parla male pensa male! E vive male. Bisogna trovare le parole giuste!».
Lo snobismo non s’addice all’osservazione linguistica (né a quella scientifica in generale, ovviamente), e dunque possiamo reperire utile esemplificazione anche in film, forse esteticamente discutibili, attenti a ritrarre la lingua dei nuovi ricchi o arricchiti: dagli "yuppies" agli industrialotti lombardi abilmente "vocalizzati" da caratteristi di vaglia (Jerry Calà, Massimo Boldi, Ezio Greggio...) in tanti film dei fratelli Vanzina o di Enrico Oldoini. Il passaggio dei media da «scuola di lingua» a «specchio delle lingue» (Raffaele Simone) sembra pertanto ormai definitivamente compiuto e, secondo i critici più pessimisti, destinato a cedere il passo alla distruzione della lingua italiana.