Lingua Italiana

Daniele Scarampi

Laureato in storia e già insegnante di materie letterarie nella Provincia di Savona, Daniele Scarampi è Dirigente Scolastico del nuovo Polo didattico di Finale Ligure, che di recente ha accorpato i Licei Scientifico, Linguistico e delle Scienze Umane "A. Issel" con i Servizi Alberghieri e I.P.S.I.A. "A. Migliorini"; ha inoltre diretto gli Istituti Comprensivi di Vado Ligure e di Sassello, entrambi appartenenti alla Provincia savonese. Esperto di didattica e, nella fattispecie, di didattica dell’italiano, collabora dal 2015 con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana e, dal 2019, con Giunti Scuola. Ha inoltre all'attivo diverse collaborazioni editoriali con testate scolastiche specialistiche quali Tecnodid, Euroedizioni, Logus e Guerini&Associati.

Pubblicazioni
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Mia patria sono gli oppressi. Don Milani, la scuola, la guerra

 

Vanessa Roghi

Mia patria sono gli oppressi. Don Milani, la scuola, la guerra

Illustrazioni di Marco Petrella

Roma, Momo edizioni, 2023

 

Abbiamo parole per vendere

parole per comprare

parole per fare parole

ma ci servono parole per pensare.

Gianni Rodari, Le Parole

 

 

In una Detroit distopica e dominata dal crimine – portata sul grande schermo nel 1987 da Paul Verhoeven – l’integerrimo agente di polizia Alex Murphy viene assassinato in un conflitto a fuoco e successivamente riportato in vita come RoboCop, potente cyborg tutore della legge: Devo andare, da qualche parte stanno commettendo un crimine! diverrà la sua più frequente ammissione e vendicare ogni sopruso la sua unica ragione di vita.

Sembra quasi il sunto della battaglia di don Lorenzo Milani e del suo indefesso impegno contro l’ingiustizia, l’oppressione e la violenza: ben lo ha colto la storica e scrittrice Vanessa Roghi nella sua recente pubblicazione Mia patria sono gli oppressi. Don Milani, la scuola, la Guerra, curata da Momo edizioni e illustrata dal fumettista Marco Petrella.

 

Il saggio di Roghi, che sviscera l’essenza del messaggio di Barbiana, poggia su tre concetti fondamentali: (i) il mònito di don Milani ai giovani, affinché si possano affrancare dall’obbedienza incondizionata e soprattutto immotivata; (ii) il desiderio costante del Priore di dare agli ultimi e agli svantaggiati, attraverso l’istruzione, gli strumenti per difendersi dall’ingiustizia e (iii) il fine ultimo della pedagogia di Lorenzo Milani, ovverosìa la costruzione di una scuola equa e democratica, che utilizzi la centralità della parola (e la comprensione della lingua tanto scritta che orale) come strumento di emancipazione.

 

Milani viene accusato a più riprese d’esser anticlericale e antitaliano, perché il suo apostolato prende vita da un preciso intento: evitare che i giovani chinino il capo e obbediscano indiscriminatamente, eseguendo ordini immotivati senza comprenderne il senso; il sostrato di tutte le ingiustizie sociali, infatti, è costituito proprio da questo riflesso condizionato di matrice “pavloviana”: del resto, per obbedire in maniera non meccanica ma meditata, occorre anzitutto capire a cosa si sta obbedendo, per poter esercitare il libero arbitrio e decidere se farlo o meno; comprendere gli ordini – e quindi le leggi – è l’unico modo attraverso cui esercitare una cittadinanza attiva e soprattutto consapevole.

Il Priore di Barbina, tuttavia, va ben oltre: fare il prete per lui ha un solo significato, permettere che tutti abbiano le stesse possibilità di salvarsi utilizzando gli stessi mezzi ed esercitando i medesimi diritti, soprattutto i poveri, gli indigenti e gli svantaggiati; la scuola milaniana cerca di concretizzare, almeno ideologicamente, quell’uguaglianza sostanziale sancita dal terzo articolo della Carta Costituzionale. Ora, per potersi affrancare dall’ignoranza, fonte di ogni discriminazione, è indispensabile partire dalle parole e cambiare il mondo attraverso il loro potere salvifico; l’istruzione emancipa, offre una via di fuga e protegge da ogni tirannia, poiché l’unico modo per riconoscere agli ultimi la dignità è “dar loro la parola”. Comprendere le parole annulla le distanze, rende uguali (è solo la lingua che fa eguali), parifica la società e scongiura ogni sopruso; la parola, scrive don Lorenzo, è come una soglia e, con la stessa veemenza, può unire e creare ponti come edificare muri e barriere, condannando i più deboli.

Tutti, insomma, debbono essere padroni delle parole, devono essere in grado di capire tutto: la vita delle persone, per esempio, può cambiare solo attraverso la conoscenza del significato delle leggi e la comprensione dei testi ne è condizione imprescindibile.

 

La parola crea nessi, costruisce significati, genera connessioni: d’altronde, come già ebbe modo di notare G. Lepschy, la lingua è generativa perché plasma un sistema semantico astratto che aiuta a produrre e a comprendere un numero potenzialmente infinito di frasi ed enunciati; tutto ciò è ben chiaro a don Milani, a tal punto che il fine ultimo del suo messaggio educativo è quello d’intendere gli altri e farsi intendere (L .Rondanini, 2017).

La scuola di Barbiana, infatti, pensata per essere democratica in un Paese democratico, deve educare a prendersi cura del prossimo, a comprendersi, a interagire correttamente, a creare lagàmi e la centralità della parola non può che essere il più potente strumento d’emancipazione.

Ma la scuola immaginata dal Priore è soprattutto quella che sa accogliere, che è capace d’intuire le esigenze di tutti e che ha la sensibilità per cogliere disagi e sofferenze, sopperendovi con azioni efficaci e immediate.

Il traguardo conclusivo dell’istruzione è liberare la gente dai giogi culturali e sociali, per poi condurla verso lo sviluppo d’una coscienza critica utile a far valere sempre quei diritti fondamentali troppo spesso vilipesi e calpestati.

Alla radice di queste idee ci sta un’attitudine a “fare” scuola lontana dalle programmazioni e dalle consuete progettazioni didattiche e focalizzata sul desiderio improcrastinabile di offrire a chiunque – soprattutto se privo di mezzi – un futuro ragionevole.

La scuola m’è cara come un ottavo Sacramento – scriveva don Lorenzo nelle Esperienze pastorali del 1957 – e il saggio di Vanessa Roghi svela il segreto di quest’ottavo Sacramento: tradurre in una serie d’azioni pratiche e concrete un ideale di giustizia ed equità sociale.

 

 

Biblio-sitografia essenziale

V. Roghi – M. Petrella, Mia patria sono gli oppressi – Don Milani, la scuola, la guerra, Momo Edizioni, 2023 (https://www.ibs.it/mia-patria-sono-oppressi-don-libro-vanessa-roghi/e/9791280298300#:~:text=%C2%ABSe%20voi%20avete%20diritto%20di,gli%20altri%20i%20miei%20stranieri%C2%BB.)

D. Scarampi, L’ottavo sacramento, una scuola che accoglie: la lezione di don Milani, Giunti Scuola, 2021 (https://www.giuntiscuola.it/articoli/lottavo-sacramento-una-scuola-che-accoglie-la-lezione-di-don-milani)

L. Rondanini, Don Milani: scrittura e inclusione sociale, Scuola 7, 2017 (https://www.scuola7.it/2017/044/don-milani-scrittura-e-inclusione-sociale/)

G. Lepschy, Grammatica generativa, Enciclopedia Italiana, IV Appendice, 1979 (https://www.treccani.it/enciclopedia/grammatica-generativa_%28Enciclopedia-Italiana%29/)

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I cent’anni di Don Milani e la centralità della parola: una lingua che unisce, forma ed emancipa

 

Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli

da Lettera a una Professoressa, 1967

 

 

Nel lontano 1950 Alan Turing lanciò una sfida, oggi attualissima e conosciuta come test di Turing, ovverosia la ricerca d’un criterio per determinare se una macchina possa essere in grado di mostrare un comportamento intelligente; per macchina intelligente il grande matematico londinese ne immaginava una in grado di pensare, di concatenare le idee e d’esprimerle.

Il test di Turing, tuttavia, non si può risolvere con il solo ausilio di metodi sintattici o statistici: occorre piuttosto comprendere a fondo cosa l’interlocutore stia dicendo; ciò nondimeno, intuire la sterminata galassia dei significati linguistici è operazione tutt’altro che agevole, perché non si tratta soltanto di un problema di decodifica, è necessario anche capire come il significato possa essere reso dal punto di vista formale e pratico.

Un uso consapevole delle parole, infatti, ci aiuta a esprimere i nostri bisogni primari o le nostre esigenze quotidiane, così come un utilizzo adeguato delle stesse può aiutarci a cambiare il mondo, a rammentare il passato e, soprattutto, «a costruire un futuro diverso da quello che sembra già scritto per noi e per gli altri» (T. Baris, 2020).

 

Antesignano della peer education

Ora, l’importanza attribuita all’insegnamento della lingua, anche ai fini dell’emancipazione sociale e personale – tanto nella scuola quanto nella vita – è il leitmotiv della lezione di Barbiana e del suo Priore don Milani, del quale di recente s’è celebrato il centenario della nascita.

«Grave miseria è la mancanza di dominio sulla parola: la conoscenza della propria lingua fa parte delle necessità di vita d’ogni uomo, ammoniva Lorenzo Milani e la sua preoccupazione è ancora di stringente attualità». Le precarie competenze linguistiche costituivano allora e, oggi in modo ancor più veemente, continuano a costituire un elemento decisivo di discriminazione e d’emarginazione, tanto di privazione della libertà personale che d’impoverimento sociale.

La centralità della parola è base e sostrato delle più note battaglie di don Milani in suffragio di una scuola vicina alle esigenze degli emarginati e degli esclusi, della didattica laboratoriale, dell’educazione di bambini e bambine residenti nelle realtà geograficamente e socialmente disagiate; non a caso, come ben ha osservato Luciano Rondanini (<https://www.scuola7.it/2023/335/lingua-e-scrittura-collettiva/>), l’invenzione della scrittura collettiva o l’anticipazione della peer education (ovvero del mutuo insegnamento) sono le principali conquiste educative di Barbiana fondate sulla centralità della parola come strumento di emancipazione; centralità a sua volta prodromica a quella che oggi si potrebbe definire la “scuola del reale” e dei compiti autentici, delle competenze non formali e informali, delle soft skills.

 

La parola in officina

Senza dubbio l’apostolato educativo del Priore – costruito su uno stile comunicativo essenziale e privo di ridondanze – sfocia in una vera e propria missione didascalica vòlta a restituire agli ultimi e agli indigenti la dimensione della propria dignità sociale e dare la parola a costoro, fornendo gli strumenti per comprenderla e per utilizzarla al meglio, non può che essere la via per concretizzare un intento così nobile.

Don Milani mescola una visione educativa basata sull’amore incondizionato per i ragazzi alla conquista da parte loro della parola (L. Rondanini, 2023); perché padroneggiando la lingua si cresce, ci si forma e, soprattutto, ci si emancipa.

Occorre, infatti, essere «specialisti nell’arte del parlare» dal momento che «è solo la lingua che fa eguali» (<https://www.donlorenzomilani.it/lha-detto-don-lorenzo/>).

Il discente, pertanto, attraverso la parola compie un percorso critico e riflessivo nel quale può confrontare le idee: in quest’ottica valoriale, discutendo e approfondendo, si amplia notevolmente l’orizzonte dell’apprendimento e ognuno è stimolato a esprimere quello che ancora non è stato detto e a cercare ciò che non è stato ancora trovato; lavorare con le parole – insomma – è come maneggiare gli attrezzi in officina, la parola va pensata e ri-pensata, da una singola occorrenza ne nascono altre: così il linguaggio cresce e si arricchisce. In questo modo la letto-scrittura diventa un atto “produttore di senso” e di discernimento, indispensabili per affrontare la vita di società (D. Scarampi, 2021).

 

La «pedagogia dell’aderenza»

A Barbiana s’insegna la «pedagogia dell’aderenza», secondo la quale è la vita d’ogni giorno, con i suoi crucci e le sue criticità, che deve spronare i ragazzi ad imparare; fine ultimo della scuola (e, più in generale, di ogni missione educativa) è intendere gli altri e farsi intendere, in modo da potersi formare ed emancipare, in modo da avere gli strumenti necessari per poter affrontare la quotidianità.

Ecco perché l’arte del parlare e dello scrivere diventa pietra d’angolo degli insegnamenti di don Milani: partendo dalle informazioni più importanti, a beneficio dei destinatari dei messaggi tanto orali che scritti, si sviluppano i contenuti in modo asciutto, chiaro ed essenziale; infine s’argomentano i dettagli, in modo da impreziosire il testo con elementi aggiuntivi.

La progettualità didattico-educativa poggia sulle esperienze che ognuno matura nei propri contesti di vita e il “reale” diventa protagonista di ogni elaborato prodotto, cosicché possa costituire una sorta di patrimonio collettivo.

Essere padroni della parola – lo argomenta ancora L. Rondanini, 2023 – significa educare le giovani generazioni all’impegno sociale e civile, finalizzato esclusivamente alla ricerca della verità.

Per arrivare ad avere il completo controllo di un testo bisogna però attrezzarsi con il giusto equipaggiamento, occorre maturare la capacità d’analizzare i contenuti e di creare inferenze o collegamenti tra le parole. Tali attitudini permettono di gerarchizzare le informazioni, di astrarre i concetti e, non in ultimo, di sviluppare utilissime competenze metacognitive e metastrategiche di approccio al testo (E. Lobbia, 2017).

Questi passaggi sono ben noti alla lezione di don Lorenzo e costituiscono la sua più importante eredità a cent’anni dalla nascita: allorché s’incentiva un ragazzo a migliorare l’utilizzo della parola lo si rende libero, adulto e consapevole.

 

 

Biblio-sitografia

T. Baris, Il potere delle parole (e di chi le sa usare). A proposito del saggio di Vera Gheno Il potere alle parole, Treccani.it, “lingua italiana”, 2020

(https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/parole.html)

Fondazione Don Lorenzo Milani, L’ha detto don Lorenzo, 2023 (https://www.donlorenzomilani.it/lha-detto-don-lorenzo/)

L. Rondanini, Lingua e scrittura collettiva: l’insegnamento di don Milani, Scuola 7, 2023 (https://www.scuola7.it/2023/335/lingua-e-scrittura-collettiva/)

L. Rondanini, Don Milani: scrittura e inclusione sociale, Scuola 7, 2023 (https://www.scuola7.it/2017/044/don-milani-scrittura-e-inclusione-sociale/)

Progetto G.I.O.C.O., Don Milani e la scuola di Barbiana: la centralità dell’alunno e della lingua, 2012 (https://www.progettogioco.it/progetto-g-i-o-c-o/il-progetto-g-i-o-co-origine-e-sviluppo-aspetti-epistemologici-e-metodologi/don-milani-e-la-scuola-di-barbiana-centralita-dellalunno-e-della-lingua/)

T. Bertolini, La centralità della lettera e della parola scritta, Rivista Exagere, 2020 (https://www.exagere.it/la-centralita-della-lettura-e-della-parola-scritta/)

E. Lobbia, Comprensione del testo: quanto è importante saper comprendere il significato delle parole, Centro Arché, 2017 (http://www.centroarche.org/comprensione-del-testo-quanto-importante-saper-comprendere-significato-delle-parole/)

D. Scarampi, Il social reading in classe: le possibili nuove vite di Barbiana oggi, Treccani.it, “Lingua italiana”, 2021 (https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/social_reading.html)

G. Vetere, Come parlano I robot? Alla ricerca del “linguaggio naturale”, Agenda Digitale, 2019 (https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/come-parlano-i-robot-gli-ostacoli-sulla-strada-del-linguaggio-naturale/)

 

 

Immagine: Don Lorenzo Milani insieme ai suoi studenti di Barbiana, fotografia di Oliviero Toscani, 1959

 

Crediti immagine: Oliviero Toscani, Public domain, via Wikimedia Commons

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A scuola con ChatGPT

 

Una nuova vita vi attende nelle colonie Extra Mondo. L’occasione per ricominciare in un Eldorado di nuove occasioni e di avventure – c’è un dirigibile che, pigramente, galleggia tra i grattacieli di una città sopraffatta dal folle sogno della Tyrell Corporation e una voce diffonde la promessa di un mondo migliore, ma lo fa in un contesto visivo tetro ed opprimente; Ridley Scott l’aveva raccontato con insolita preveggenza: la relazione tra uomo e tecnologia e, nondimeno, il rapporto tra l’oscurità e la luce della ragione applicata alla scienza.

Proprio questa relazione fitta e sinergica tra sviluppo tecnologico e abilità umane – tanto cognitive e personali che emotive e relazionali – conduce verso il principale interrogativo che i nostri tempi propongono con urgenza: si tratta d’un sogno distopico ovvero di un’opportunità di miglioramento?

 

Quel chatbot così intelligente

Il Metaverso, introdotto ideologicamente nel romanzo Snow Crash dalla fantasia di Neal Stephenson, ci ha condotti – per dirla con Graziano Terenzi di Inglobe Technologies – nel mezzo d’una trasformazione epocale, essendo una copia conforme del mondo reale; la modalità interattiva su cui si poggia, infatti, garantisce un impatto enorme sulla percezione di ciò che ci circonda attraverso le componenti multisensoriali di Realtà aumentata (AR) e Realtà virtuale (VR) che, a loro volta, con la digitalizzazione di ambienti standardizzati e condivisi, consentono l’accesso ad esperienze immersive olistiche d’user experience, quali approcci totalizzanti nelle relazioni tra un persona e un prodotto, un servizio o un sistema.

Ma c’è di più: il Metaverso, consentendo l’interazione simultanea tra milioni di utenti sparsi per il globo, come se ci si potesse teletrasportare in una nuova dimensione virtuale della realtà, potrebbe diventare un’evoluzione sincrona di Internet (in svariati campi, dall’industria alla sanità, dalla finanza all’istruzione) e i confini tra reale e virtuale risulterebbero sempre più labili.

Tra i vari software che sviluppano il Metaverso e, nello specifico, realizzano la Realtà aumentata, Chat Generative Pre-trained Transformer – o, più comunemente, ChatGPT – è sulla cresta del dibattito nazionale (e internazionale) in quanto, essendo un innovativo chatbot basato sull’intelligenza artificiale e sull’apprendimento automatico ottenuto per il tramite dell’OpenAI, costituisce un software mirato all’interazione e alla conversazione tra una macchina e un utente umano.

 

Un’Intelligenza generativa

Diffuso capillarmente a partire dal novembre 2022, ChatGPT ha sin da subito palesato un’estrema accuratezza nelle risposte restituite, frutto di un linguaggio sviluppato con le tecniche dell’apprendimento supervisionato e dell’apprendimento per rinforzo con l’ausilio di istruttori umani; l’ultima avveniristica versione del software, GPT-4, annunciata all’inizio dello scorso mese di marzo (e poi osteggiata dal Garante della privacy, almeno per quel che riguarda il nostro Paese), presenta un modello multimodale che può inglobare input variegati (immagini, video, audio, testi) e restituire output di testo, con una precisione sintattico-contenutistica di poco inferiore al 100%.

Ad ogni buon conto l’Intelligenza Artificiale (AI), espressione coniata al Darthmouth College nel 1956 e cresciuta grazie al lavoro di Alan Turing, sta cambiando radicalmente i nostri stili di vita, le nostre abitudini e, non in ultimo, sta mutando il modo di fare scuola. Le cosiddette AI generative, e ChatGPT è certamente una di esse poiché si fonda sul Natural Processing Language (allo scopo di simulare il linguaggio), hanno sviluppato una specifica tecnologia a supporto del lavoro umano, con impatto dirompente anche nel settore scolastico e, di conseguenza, nel processo d’insegnamento-apprendimento.

Tutti noi infatti – a prescindere da età, estrazione sociale o conoscenze pregresse – siamo immersi in un periodo storico estremamente liquido (l’infosfera, prendendo a prestito l’espressione felicissima resa nota al grande pubblico da Luciano Floridi), nel quale il settore dell’Istruzione è indubbiamente al centro di significativi ed inarrestabili cambiamenti. In questo contesto, e all’interno della più ampia adozione di Tecnologie Digitali asservite alla Didattica, si collocano le risorse che utilizzano processi di Intelligenza Artificiale.

 

Elevare il nostro grado di consapevolezza digitale

Sono cambiati i metodi, i linguaggi, i codici e le tempistiche d’apprendimento dei discenti: di conseguenza anche il ruolo del docente – sempre più facilitatore degli apprendimenti per il tramite d’autorevolezza e competenza – ha necessitato d’un rapido adattamento consolidatosi in tempi recentissimi mediante i modelli d’IA, tra i quali la già citata applicazione online del momento, Chat GPT – parte di un più ampio progetto Open AI nato nel 2015 sulla spinta di Elon Musk e Sam Altman – per la prima volta ha permesso a qualunque utente di sfruttare un potente modello di machine learning e una rete neurale, simulando il dialogo in forma testuale con l’intelligenza artificiale, su molteplici argomenti.

È possibile chiedere a Chat GPT di tratteggiare le fasi più salienti d’un avvenimento storico (la sequenza di testo digitata viene definita prompt), di impostare il contenuto di un messaggio fornendo alcuni parametri di partenza, di generare script in un determinato linguaggio di programmazione o addirittura di ragionare sul funzionamento dell’Intelligenza Artificiale stessa e sulle sue potenzialità o i suoi rischi. Tutto ciò non è il frutto della letteratura cyberpunk, al contrario è reso possibile da una peculiare tecnologia alla base dell’elaborazione del linguaggio naturale, definibile con l’acronimo NLP: essa consente ad una applicazione online come Chat GPT di comprendere i modelli e, soprattutto, le sfumature del modello umano mediante sofisticati algoritmi di apprendimento automatico, continuamente istruiti e implementati. Al momento, in Italia, il servizio ha subito una temporanea battuta di arresto a seguito di un intervento del Garante per la Protezione dei Dati personali, che ha richiesto chiarimenti e garanzie sulla raccolta ed eventuale conservazione massiva dei dati inseriti dagli utenti nonché sul rispetto dell’età minima per l’utilizzo lecito del servizio, giacché – come per i principali social media – non è previsto uno specifico filtro all’accesso. A prescindere pertanto dall’intervento di carattere giuridico del Garante, Chat GPT e simili modelli d’Intelligenza Artificiale Generativa non devono generare pregiudizi o indurre a ritenere che, per esempio, la redazione di un testo narrativo, descrittivo o argomentativo possano esser soppiantati dalla macchina. Piuttosto, ci troviamo di fronte alla concreta possibilità di elevare il nostro grado di consapevolezza digitale, nell’interazione uomo-macchina.

 

Chat GPT e altre app a scuola

Ma c’è di più: in un’attività di debate su un argomento assegnato nella Scuola Secondaria di Primo o Secondo Grado, l’interlocuzione con Chat GPT potrebbe rappresentare l’innesco del debate stesso, l’inizio di un processo di ricerca attiva e di verifica delle fonti e, parimenti, uno strumento compensativo per Bisogni Educativi Speciali cui faranno sempre da supervisione l’empatia e le conoscenze dei docenti e degli educatori.

Ancora, la consultazione e il dialogo con Chat GPT possono dare l’input ad una lezione “capovolta” – la cosiddetta metodologia flipped classroom – in cui l’interazione potrà proseguire tra pari (gruppo classe, piccoli gruppi all’interno della stessa) con l’eventuale fruizione dei libri di testo in formato cartaceo o digitale.

Sempre in ambito scolastico-educativo, a supporto e sostegno di creatività e inclusione, oltre a Chat GPT un’altra applicazione Open AI è stata pensata per migliorare il processo d’insegnamento-apprendimento: si tratta di Dall-E 2, servizio online nel quale, digitando un testo, l’algoritmo genera un’immagine digitale corrispondente con livelli di aderenza alla consegna assai elevati. Dare forma ad un sogno raccontato da un bambino, favorire la riproduzione grafica di un concetto, agevolare alunni ed alunne con difficoltà motorie nella realizzazione di un disegno con strumenti tradizionali: ecco alcuni dei principali obiettivi per il cui raggiungimento Dall-E 2 si propone quale alleato.

Per servirsi poi della figura di un avatar, nota e gradita ai più giovani, ad esempio per sviluppare brevi introduzioni testuali a cura di un presentatore/speaker dalle sembianze umane ma dall’aspetto digitale, basate su una specifica traccia fornita dall’utente, l’app online D-ID può rappresentare una valida alternativa per integrare una ricerca, un elaborato, un progetto.

Se ne evince che empatia, semantica ed intelligenza emotiva non siano a rischio, in quanto caratteristiche umane non pedissequamente riproducibili dalle macchine, e che non si prefiguri una nuova era costituita da docenti o discenti robot: che il tema dello sviluppo delle tecnologie digitali e delle applicazioni possibili dell’intelligenza artificiale sia altrettanto ineluttabile è, però, dato oggettivo. La vera sfida, quella da vincere, è ben espressa da una delle massime più famose di Carl Gustav Jung: «Conosci tutte le teorie. Domina tutte le tecniche. Tuttavia, per toccare un'altra anima umana, devi semplicemente essere un'altra anima umana».

 

Biblio-sitografia di riferimento

1) https://www.tecnicadellascuola.it/chatgpt-piu-rischi-o-opportunita-per-la-scuola

2) https://www.orizzontescuola.it/lintelligenza-artificiale-e-entrata-nelle-scuole-come-integrarla-nella-didattica-ha-ancora-senso-assegnare-i-compiti-tradizionali-intervista-a-lorenzo-redaelli/

3) https://www.altalex.com/documents/news/2023/01/26/metaverso-nuova-frontiera-per-umanita

4) https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2023/03/23/intelligenza-artificiale-manipolazione

5) https://bit.ly/40y5Bjd Cronistoria del termine infosfera, Wikipedia

6) https://bit.ly/41XI24N Definizione ed esempi di Chat Bot, Oracle

7) https://openai.com/ Portale ufficiale del Progetto Open AI

8) https://openai.com/product/dall-e-2 Homepage per accedere all’app DALL-E 2

9) https://bit.ly/41CmH0Q Homepage per accedere all’app D-ID

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Il festival di Sanremo lascia i segni (con la LIS)

 

Quando Rosa Chemical – il moderno Ziggy Stardust al secolo Manuel Rocati – propone alla platea dell’Ariston la sua sfrontata Made in Italy, su Rai Play c’è un talentuoso LIS performer (esperto nella lingua italiana dei segni) che interpreta ogni sfumatura e ogni movenza dell’artista in concorso, a beneficio del pubblico non udente: ne consegue una delle “traduzioni” più apprezzate dai social, perché riesce a replicare perfettamente l’atmosfera sonora del brano per mezzo del solo linguaggio del corpo.

 

I LIS performer, tra parole e ritmo

La kermesse sanremese è oramai l’appuntamento musicale che milioni d’italiani attendono con trepidazione, compresi coloro che non hanno la possibilità d’ascoltare le canzoni in gara; ecco perché la Rai, potenziando lo sforzo degli scorsi anni, ha ingaggiato ben quattordici LIS performer con l’incarico di tradurre nella lingua dei segni i ventotto brani dei big – tanto le parole dei testi quanto la ritmica interpretativa – per poi proporli in versione sottotitolata e audiodescritta nel canale dedicato da Rai Play e in streaming. Del resto i LIS performer, rendendo per il tramite di fisiognomica e gestualità le atmosfere e i contenuti dei testi cantati, garantiscono quell’accessibilità che l’Ente Nazionale Sordi definisce non già una banale questione tecnica, bensì la piena realizzazione dei diritti fondamentali dei non udenti alla partecipazione culturale e all’inclusione.

La Lingua Italiana dei Segni, ovvero LIS, lungi dall’esser una forma abbreviata e mimica di italiano oppure un mero codice alfabetico a supporto dell’espressività orale, può ben considerarsi una lingua a sé, con peculiari regole grammaticali, morfosintattiche e lessicali.

Il suo impianto utilizza sia elementi manuali – quali la posizione e il movimento delle mani – sia elementi non-manuali, come la fisiognomica facciale oppure la postura corporea, che nel tempo si sono arricchite e hanno evidenziato una precisa dinamica evolutiva.

Ovviamente il canale visivo-gestuale costituisce la base portante della LIS e consente al soggetto non udente, soprattutto nella fase infantile di crescita e di maturazione, lo sviluppo di quelle abilità linguistico-intellettive che solitamente precedono l’esercizio della lingua parlata o che permettono di consolidare la consapevolezza della lingua vocale. Il gesto pertanto costituisce una sorta d’interfaccia motorio, mutuato dalla corporeità, e l’apprendimento risulta assai efficace poiché mani e membra si muovono armonicamente mentre si guardano e si “sentono” i grafemi che compongono le parole.

 

I parametri formazionali

La lingua italiana dei segni consta di otto parametri formazionali (PF), suddivisi in manuali e non manuali; ogni PF ha una funzione peculiare perché, al pari dei fonemi di ogni sistema linguistico, consente d’identificare delle coppie minime.

Il cherema – termine introdotto da William Stokoe nel 1960 – è l'unità più piccola in cui può essere scomposto un segno d’una qualunque lingua dei segni e nasce dalle notevoli analogie che si possono ravvisare tra la lingua dei segni (esclusivamente visiva) e la lingua parlata (acustico-fonologica). Infatti, proprio al pari dei fonemi (le unità minime prive di significato che concorrono alla formazione delle parole), i cheremi costituiscono unità minime non dotate di significato in grado di combinarsi fra loro per dar vita ai segni del linguaggio segnico.

Ora, un segno può essere scomposto in base a quattro parametri, ovverosia il luogo (lo spazio dove il segno viene riprodotto), la configurazione (cioè la forma della mano che esegue il segno), il movimento (la postura delle mani che eseguono il segno) e l’orientamento del palmo della mano nel momento in cui i segni s’eseguono.

Ai parametri appena dettagliati vanno sempre aggiunti l'espressione facciale e lo sguardo, che sovente contribuiscono in modo decisivo alla formazione (e alla corretta riproduzione) di ogni singolo segno, nonché la labializzazione e il busto, ovvero le principali componenti non manuali; spesso il tono e l’inflessione della voce vengono sostituiti dalla mimica del viso, che a sua volta prevede una precisa espressione per domande dirette – anche complesse -, per gli ordini (“fermo!”, “ascolta!”) oppure per le frasi relative (“il treno che hai preso”, “il tizio con cui camminavi”).

Come già ricordato, la LIS si può considerare una lingua con una struttura e una sintassi a sé stanti; le forme verbali non si coniugano in base al tempo, ma devono concordare e col soggetto e con l'oggetto dell'azione (come peraltro accade nella lingua basca).

Di più: la concordanza di verbi, aggettivi e nomi non si basa sul genere (come in italiano), ma sulla posizione spaziale in cui il segno viene riprodotto.

Esistono forme differenti per il plurale, nondimeno si può parlare di coppie minime nel caso in cui due segni si discostino soltanto in una delle loro componenti essenziali. Ad ogni modo, con un solo segno comprensivo di più elementi è possibile riprodurre intere frasi, o se non altro parti significative di un periodo; si parla pertanto di segni particolari, come i classificatori, che svolgono più funzioni.

 

Iconicità dinamica

A differenza della lingua italiana parlata, che si regge sull'ordine soggetto-verbo-oggetto (SVO), la LIS evidenzia di frequente l'ordine soggetto-oggetto-verbo (SOV), come per esempio accade in latino o in giapponese, così il verbo è segnato in ultima posizione, sebbene nelle “traduzioni” televisive si tenda a metterlo in seconda posizione (allineandosi al parlato).

Le lingue dei segni, e la LIS in particolare, sono – in conclusione – una forma primaria e ineludibile d’espressione per le comunità non udenti e uno dei mezzi più efficaci per la trasmissione di una cultura basata sulla percezione visiva.

Una volta ancora si evidenzia lo stretto legame tra lingua dei segni e cultura della comunità nella quale la lingua viene utilizzata e trasferita.

La lingua dei segni, oltretutto, evidenzia una straordinaria iconicità perché, diversamente dai suoni, la gestualità sfrutta le molteplici dimensioni dell’universo extra-linguistico al quale si fa riferimento.

Ne consegue che, nella LIS come in altre Lingue dei segni, si ravvisano caratteristiche iconiche non solo nelle strutture grammaticali e lessicali, ma anche nello sviluppo del discorso. Questa iconicità dinamica consente in molte circostanze l’utilizzo di forme neo standard e/o la nascita di veri e propri neologismi; aspetto oltremodo decisivo, come ben ha notato Mottelli (2009), in quanto rende possibile il trasferimento di persone e di situazioni dalla realtà visibile alla loro rappresentazione in segni mediante i classificatori, l’uso particolare dello spazio e l’impersonamento.

Ed è proprio ciò che i LIS performer della Rai hanno reso possibile sul canale tematico dedicato alla “traduzione” dei brani sanremesi della settantatreesima edizione: le canzoni infatti, che per i non udenti sarebbero rimaste soltanto una serie di parole, si sono concretizzate attraverso la gestualità degli esperti nella lingua dei segni; grazie alla mimica e all’interpretazione corporea dei performer le storie raccontate dai cantanti hanno preso vita e si è creata in video una piccola magia.

 

 

Biblio-sitografia di riferimento

La lingua dei segni italiana, su Ens.it

AAVV, Che italiano canta il 73° Festival di Sanremo?, in LamiaLiguria.it

AAVV, Festival di Sanremo: la lingua della canzone tra tradizione e modernità, in Sapere.it

AAVV, L’interprete nella lingua dei segni balla al ritmo di Rosa Chemical, Openonline.it, 2023

V. Volterra, La lingua dei segni italiana: la comunicazione visivo-gestuale dei sordi, Il Mulino, 2004

W. Stokoe (Jr.), Sign Language Structure: An Outline of the Visual Communication Systems of the American Deaf, University of Buffalo, 1960

M. Mottelli, Le lingue dei segni nel mondo, Treccani.it, 2009

B. Marziale, E. Tomasuolo, Nel segno della LIS e dei diritti, Treccani.it, 2022

B. Marziale, Lingua dei segni italiana: il diritto fondamentale di esprimersi, Treccani, 2013

 

 

Immagine: Tratta da https://www.youtube.com/watch?v=DbASO5g7EjY&t=4s

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Giusto, sbagliato, dipende. Le risposte ai tuoi dubbi sulla lingua italiana

 

Accademia della Crusca

Giusto, sbagliato, dipende. Le risposte ai tuoi dubbi sulla lingua italiana

Milano, Mondadori, 2022

 

In memoria di Fiorenzo Toso

 

Tra i due poli giusto/sbagliato si situa una zona grigia, lo aveva segnalato Luca Serianni: in quella terra di frontiera il parlante (e scrivente) può avere dubbi e incertezze, dipendenti dalla sua cultura o dalla sua sensibilità per i fatti linguistici che costituiscono il suo mondo e il suo quotidiano.

La grammatica, sovente, forte dell’autorità della norma, brandisce la spada e si scaglia sull’errore: fonologico, morfosintattico o lessicale, poco importa. L’errore viene individuato (e successivamente sanzionato) quale deviazione dal Sistema della lingua oppure viene percepito come forma linguistica inadatta al contesto comunicativo.

Tuttavia la lingua, lungi dall’esser un insieme ordinato di regole codificate e immutabili, è al contrario un organismo che cambia di continuo, si contorce, s’adatta e si trasforma, muore e poi rinasce; di conseguenza l’errore non può che essere lo sviluppo naturale di quel percorso trasformativo e cangiante che dà vita al linguaggio.

 

Ed ecco che il confine tra giusto e sbagliato è un limes sottile e fragile e in più di una circostanza la norma grammaticale finisce per soccombere sotto il peso della consuetudine e dei mutamenti socio-culturali che incidono nella vita e nel decorso di ogni lingua.

Del resto la grammatica non è un terreno spianato perché la lingua ha, al pari da tutti coloro che quotidianamente la esercitano, un’eccezionale ricchezza che va compresa e utilizzata. L’italiano, in particolare, nato dopo un lungo processo di sedimentazione e di sincretismo linguistico, è un mare magnum, una costellazione vasta e tridimensionale nella quale gli astri del giusto e dello sbagliato non brillano di luce propria, ma dipendono da tutta una serie di circostanze legate alle situazioni dei parlanti (o degli scriventi/digitanti), ai canali e ai codici comunicativi, allo status degli interlocutori, alle tipologie testuali e così via.

 

Tutta questa complessità conduce ad una presa di coscienza che costituisce il trait d’union di ogni studio linguistico: esistono moltissime sfumature e svariate tonalità che si frappongono tra il sì (quello che è giusto dire o scrivere) e il no (quello che è sbagliato), per cui i presupposti che giustificano la regola sono simili o altrettanto validi rispetto a quelli che spiegano l’errore e, sovente, il confine tra l’una l’altro è assai debole.

 

Il linguaggio è come una higway, lunga non meno che tortuosa, percorsa da una miriade di parlanti e di scriventi con realtà, storie, provenienze geografiche ed estrazioni sociali diverse, talora diversissime; pertanto la continua interazione tra elementi così differenti determina l’impossibilità di considerare la lingua come un pacchetto di regole condivise da tutti senza eccezioni: la lingua cambia a seconda dei contesti, dei mezzi utilizzati, dei destinatari che interagiscono oppure delle finalità che parlanti e scriventi si prefiggono; ma c’è di più, perché la lingua corre spinta da un mondo in perpetuo cambiamento, contaminata dalla Rete e dai Social, incalzata da una moltitudine di sfide sociali e culturali, non sempre prevedibili o arginabili.

 

Ora, come ha ben riassunto Paolo D’Achille (2016), la lingua italiana ha da sempre alcuni spazi editoriali codificati, in qualche modo “istituzionali”, ovverosia le grammatiche scientifiche – essenzialmente descrittive e specialistiche – e le grammatiche scolastiche destinate a un pubblico più vasto, corredate da formulari ed esercizi di carattere prescrittivo. Accanto a questa coppia, col tempo si sono diffusi prodotti editoriali di più immediata leggibilità, destinati al grande pubblico e dunque facili da consultare in caso di dubbi grammaticali o incertezze lessicali.

 

I cosiddetti prontuari linguistici, verosimilmente inaugurati dall’Idioma gentile di Edmondo De Amicis (edito nel 1905), hanno sin dapprincipio indicato ai lettori le grafie corrette e quelle sbagliate (accelerare si scrive con una o due “l”?), le forme o le costruzioni considerate opportune e quelle invece da evitare (è corretto dire/scrivere a me mi?) oppure le posizioni ricorrenti nei confronti di neologismi, forestierismi, prestiti o semplicemente termini “alla moda” entrati nell’uso.

Dubbi e incertezze sono sempre stati ricorrenti, quasi endemici, a dimostrazione di quanto sia cementato, in italiano, il conflitto tra la norma e l’uso, tra la regola e l’eccezione; conflitto peraltro giustificato dalla profonda frantumazione politica e parcellizzazione linguistica del nostro Paese nel corso dei secoli, che ha determinato un disallineamento a tratti notevole tra scritto e parlato.

 

Il servizio di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca è nato grazie all’intuizione dello storico presidente Giovanni Nencioni, all’inizio degli anni ’90 del secolo passato, per mezzo del semestrale «La Crusca per voi»; col tempo la consulenza linguistica dell’Accademia (dal lessico all’etimologia, dalla grammatica alla sintassi) si è svolta prevalentemente in Rete e, in forma agile e compendiata, sui profili social: oggi si contano più di undicimila risposte individuali e oltre millecento risposte comparse nella home del sito istituzionale cruscante.

Le domande ricevute dall’Accademia hanno riguardato (e riguardano) tutti i livelli d’analisi linguistica: dalla grafia alla fonetica (e tonetica), dalla morfologia flessiva alla sintassi, anche se negli ultimi anni – sulla scorta delle varie diatribe social concentrate su forestierismi e questioni di genere – le domande e i dubbi di carattere lessicale sono aumentati in via esponenziale.

 

Pertanto l’Accademia della Crusca ha lanciato di recente un prodotto editoriale pratico e pieno di curiosità linguistiche, edito da Mondadori: Giusto, sbagliato, dipende (le risposte ai tuoi dubbi sulla lingua italiana); strumento autorevole e variopinto attraverso il quale accademici ed esperti linguisti segnalano gli errori più comuni e cercano di dare risposte ai dubbi più coriacei e diffusi.

Il volume, di facile consultazione e ricchissimo di box d’approfondimento, propone un ampio compendio delle risposte fornite dall’Accademia come una specie di Vocabolario, che a sua volta organizza le risposte scelte mediante le ventisei lettere dell’alfabeto (A come articoli e ausiliari, P come pronomi e così via); come già rammentato, si privilegiano gli aspetti lessicali, con particolare attenzione al fenomeno del prestito e al tema delle varietà regionali; ampi e articolati focus tematici sono riservati alla vexata quaestio del tema del genere (con riferimento specifico ai nomi di mestieri, cariche e professioni) e a quella dei forestierismi.

 

Tutti i testi presenti nel volume, destinato al grande pubblico, sono stati rivisti e ritoccati: molte risposte sono state abbreviate e rese d’agile consultazione, altre invece sono state approfondite, soprattutto quelle relative ai dibattiti nazionali di maggior interesse. Il materiale, corposo e assai diversificato, è stato attentamente selezionato dalle esperte Matilde Paoli, Raffaella Setti e Stefania Iannizzotto, con la supervisione e il coordinamento di Paolo D’Achille e Marco Biffi.

Lo scopo dell’Accademia è quello di affrontare l’italiano di oggi – in continuo movimento sulla spinta dei social, del web e della globalizzazione – in modo da motivare certe scelte o certi usi e condurre i lettori verso una conoscenza mirata e un uso più consapevole della nostra lingua.

 

Biblio-sitografia di riferimento

Accademia della Crusca, Giusto, sbagliato, dipende. Le risposte ai tuoi dubbi sulla lingua italiana, Mondadori, 2022

 

Accademia della Crusca/Repubblica, L’italiano: conoscere e usare una lingua formidabile (vol. 1 Bada a come scrivi), Gruppo Editoriale L’Espresso, 2016

 

Daniele Scarampi, Un insegnante contro il centurione intransigente, www.treccani.it, 23 novembre 2015

 

Luca Serianni, Prima lezione di grammatica, Laterza, 2006

 

Silverio Novelli, Si dice? Non si dice? Dipende: l’italiano giusto per ogni situazione, Laterza, 2014

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Piero Angela e la scienza come divulgazione olistica

 

«Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. Proprio quando credete di sapere qualcosa, è allora che dovete guardarla da un’altra prospettiva» – così l’indimenticabile professor Keating spronava la sua classe in una delle più iconiche sequenze dell’Attimo fuggente, il film che ha consacrato il poliedrico Robin Williams.

Imparare è sempre un processo dinamico ricco di sfaccettature, mutevole e multifattoriale per natura.

Del resto la dimensione universalistica del sapere, che si sostanzia nella diffusione di conoscenze ed esperienze scientifiche, pedagogiche o culturali, è tutt’altro che un’acquisizione recente, ma attraversa tutta la nostra storia – oltre i confini territoriali o le anguste collocazioni temporali – fino a giungere all’attuale globalizzazione, che, dopo aver riscritto i processi comunicativi, ha promosso lo sviluppo di continue interconnessioni e interdipendenze: questo processo ha dato nel tempo un valore storico all’idea di comunità capace di custodire una sorta di bene comune condiviso e riconosciuto da tutti, utile ad affrontare sfide corali o a sviluppare progetti collettivi.

Purtroppo sovente si tende – Carlo Bordoni docet, 2016 – a navigare a vista, ancorati a iniziative individuali, parcellizzate e senza un obiettivo preciso da perseguire, e si finisce per creare un’evidente emergenza antropologica, miope e restrittiva perché incapace di proiettare il singolo oltre il perimetro circoscritto della propria esistenza. Invece, grazie alla diffusione capillare delle conoscenze, base d’appoggio per una successiva acquisizione di utili competenze, è possibile immaginare il futuro, senza timore e con una nuova consapevolezza.

 

La decodifica

Tutto ciò ha ben compreso e poi magistralmente perseguito Piero Angela nel corso d’una luminosa carriera di giornalista, corrispondente, documentarista di prim’ordine.

Piero Angela ha scelto di rendere un servizio alla collettività, di inoltrarsi in questioni tanto affascinanti quanto impenetrabili e certo lontane dal livello culturale medio dell’Italia di allora come di oggi, di diffondere capillarmente la conoscenza scientifica per il tramite di tutti i media, inventando tra l’altro un genere inesistente nella televisione degli anni Ottanta del secolo passato.

Ma c’è di più: il noto conduttore torinese, giornalista d’inchiesta prima e divulgatore scientifico poi, dal format Destinazione uomo del 1971 a SuperQuark pubblica, diffonde, racconta, scava nel sapere e lo porta nelle case, lo decodifica, lo rende fruibili a tutti.

Ecco che la magia si compie come una rivoluzione copernicana, un cambio di prospettiva: non a caso la scoperta della particella elementare quark era allora la frontiera della ricerca fisica e quel nome viene scelto in ragione della sua intensa valenza semantica; una nuova frontiera è stata valicata, un nuovo modo di fare divulgazione e, più in generale, di fare cultura e scienza è stato trovato, coinvolgendo milioni di italiani.

 

Ricerca scientifica e futuro

Angela non credeva affatto nelle verità assolute e assodate: al contrario sperava nella scienza in quanto strumento di acquisizione e di comprensione, capace di corroborare ipotesi oppure di rimettere in discussione granitiche convinzioni; al contempo confidava nella ricerca scientifica quale garanzia di un futuro migliore, in grado di coniugare la sopravvivenza del genere umano e l’improcrastinabile tutela della natura e degli ecosistemi.

Le conoscenze scientifiche, d’altronde, hanno uno scopo empirico e universale: istruire, sensibilizzare e incidere sulla percezione del mondo e delle sue esigenze, in modo da poter affrontare con efficacia le sfide cruciali del presente e favorire lo sviluppo di un pensiero educato e critico, libero da due atteggiamenti contrastanti e opposti, entrambi deleteri: l’idea ingenua della scienza come fonte inesauribile di mirabilia e, di contro, l’idea della scienza come nemica delle libertà individuali o come sorgente di mali (origine peraltro di ogni negazionismo).

L’ideatore di SuperQuark ha saputo impreziosire la figura del divulgatore, rimasta per anni confinata nel perimetro angusto dell’erudizione e della letteratura specialistica, irreversibilmente lontane dal grande pubblico, dalla gente comune.

 

Informare, comunicare ed educare

Il buon divulgatore – ebbe a dichiarare Piero Angela – per poter smontare le numerose posizioni anti-scientifiche (frutto dell’analfabetismo di ritorno, dovuto al mancato esercizio di ciò che si è imparato, e di quello funzionale, dovuto all’incapacità di comprendere un testo orale e scritto, di valutare o di decidere) deve anzitutto saper ascoltare e osservare; deve poi porsi in modo equilibrato e nondimeno equidistante, diffondendo i traguardi scientifici senza chiedersi a quale visione del mondo essi possano nuocere o portar vantaggio; deve infine abituare la gente a comprendere, indipendentemente dall’età o dal background socio culturale, perché divulgare significa essenzialmente educare e non solamente informare o comunicare.

Tre peculiarità che non possono prescindere dall’utilizzo di un linguaggio semplice e chiaro, ancorché corretto e sorvegliato, capace di rivolgersi a una platea sempre più estesa ed eterogenea; Telmo Pievani, scienziato dell’Ateneo di Padova e volto televisivo, è convinto che narrare la scienza è un atto d’umile intelligenza, perché presuppone la padronanza di codici linguistici precisi e opportuni, indispensabili per spiegare concetti difficili (un tempo relegati in formule oppure in testi specialistici) attraverso esempi attinti da altri campi del sapere, cosicché ognuno possa coglierne il senso con le proprie forze, senza smarrire quello originale.

 

Simmetria tra emittente e destinatario

Piero Angela è stato anche pioniere nell’esercizio di un nuovo linguaggio di divulgazione scientifica e culturale (cultura intesa come l’insieme delle cognizioni intellettuali acquisite attraverso lo studio e l’esperienza) che potremmo definire “olistico”: per dirla con A. Cerasa (2019), Angela ha cristallizzato il ruolo del divulgatore in un sistema cartesiano basato sull’asse orizzontale-allocentrico; ne consegue che chi divulga – ed educa – è in mezzo al pubblico e si crea una perfetta simmetria tra l’emittente e il destinatario, tra chi parla e chi ascolta: non a caso il buon divulgatore utilizza massivamente verbi motori, perché – come c’insegna la neuroscienza – la corteccia sensoriale e quella motoria primaria sono coinvolte in modo decisivo nell’acquisizione delle parole. Sovente, infatti, la comprensione del linguaggio si basa in larga parte su stimoli motori e sensoriali, relativi al significato specifico che il linguaggio stesso porta con sé.

Occorre tener presente che ogni linguaggio è un insieme di segni ordinati in base a specifiche relazioni sintattiche interpretate da un punto di vista semantico.

Nell’interpretare un testo, pertanto, gli stimoli linguistici si traducono in insiemi di comportamenti che costituiscono risposte ai segni via via decodificati.

Ora, il linguaggio della scienza ha una molteplicità di strutture sintattiche, in prevalenza quantitative e riconducibili a modelli matematici; l’interpretazione semantica di tali strutture presuppone diversi livelli d’astrazione, che non sempre possono esser percepiti dal grande pubblico.

 

Le metafore esegetiche

Così, per diffondere un messaggio scientifico in modo ampio ed ecumenico occorre utilizzare un linguaggio che non perda chiarezza e precisione senza indugiare in inutili formalismi e che si concentri su risultati concreti attraverso esempi curiosi e stimolanti.

La scienza ha bisogno di parole puntuali e rigorose, ma esse debbono esser comprensibili a tutti in modo che il singolo possa estrarre un senso compiuto dalla moltitudine dei fenomeni che si presentano all’esperienza.

A una diffusione scientifica elitaria veicolata essenzialmente da un linguaggio forbito e specialistico va sostituita la prospettiva secondo la quale la scienza è un bene prezioso e condiviso e che nessun concetto, per quanto astruso, sia così complesso da non poter essere compreso e diffuso per mezzo di un linguaggio comune e, soprattutto, tramite le cosiddette metafore esegetiche, ossia immagini evocative e stuzzicanti capaci di rendere tangibili concetti astratti, talora molto distanti dal quotidiano.

Piero Angela ha intuito l’essenza di questi passaggi metodologici: il suo modo di far cultura e diffusione scientifica costituisce un’eredità che le generazioni a venire non dovranno smarrire.

 

 

Biblio-sitografia essenziale

M. Dutto, Megatrend e globalizzazione, in Lineamenti della funzione ispettiva, Tecnodid, 2021

C. Bordoni, Immaginare il futuro: la società di domani vista dagli intellettuali di oggi, Mimesis, 2016

G. Di Feo, Piero Angela, nell’ultima puntata di SuperQuark i timori per il clima e la fiducia nella scienza, www.repubblica.it, 20 agosto 2022

Piero Angela: il ritratto del divulgatore da giovane, su www.scienzainrete.it del 14/8/2022

Y. Galletti, L’importanza della divulgazione del pensiero scientifico, su www.semidiscienza.it del 12/6/2020

I. Libera, La lezione di Piero Angela, www.tiscali.net

A. Cerasa, Comunicare o divulgare? Questo è il problema, su www.agi.it dell’1/8/2019

G. Bolacchi, Fondamenti metodologici: strutture linguistiche e linguaggio della scienza, su www.giuliobolachi.it

N, Mugnaini, Il linguaggio scientifico, Laboratorio di perfezionamento dell’Università di Pisa, su www.fox.dm.unipi.it

M.L. Villa, La scienza, la lingua e i futuri possibili, su www.cittadellascienza.it, 2016

G. Gaudino, Il linguaggio scientifico: rappresentazione e creazione della realtà, su www.ilmardeisargassi.it, 2018

 

Immagine: Screenshot dal film Dead Poets Society (1989), regia di P. Weir

 

 

 

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Il ruolo delle emozioni nell’apprendimento linguistico

 

Tu chiamale, se vuoi, emozioni – suggeriva Mogol al crepuscolo degli anni ’70 del secolo scorso, sottintendendone la complessità e, soprattutto, la caratteristica sfuggevolezza.

Le emozioni infatti hanno svariate dimensioni e diverse chiavi di lettura; tanto che, per poterle comprendere a fondo, vanno necessariamente inquadrate sulla base di alcuni parametri irrinunciabili, tra i quali le risposte psicologiche degli individui, quelle comportamentali-espressive e, non in ultimo, quelle cognitive ed esperienziali (A.V. Massaci, 2015).

L’uomo del resto possiede uno sconfinato potenziale innato e le sue risposte emozionali – che peraltro producono effetto solo se vengono innescate – hanno una funzione principalmente adattiva; per dirla con Daniel Goleman (2011), le informazioni che attivano gli elementi emozionali possono partire dagli organi di senso ed esser poi elaborate dalla neocorteccia, oppure – come sovente accade – l’amigdala può ricevere gli input direttamente dagli organi sensoriali e tradurli prima che si registrino nella neocorteccia: ecco perché, attraverso le emozioni, l’individuo è in grado di maturare pensieri inconsci e irrazionali.

 

Empatia e motivazione a scuola

Ne consegue pertanto, in termini glottodidattici, che le performance attuate in contesti stressanti o scarsamente relazionali contribuiranno a creare nel discente non solo ricordi negativi espliciti, ma anche un feedback deleterio implicito, capace di innescarsi in ogni situazione simile, a meno che non si riesca a incanalare le emozioni positive facendo leva sui talenti e sulle motivazioni di chi sta apprendendo; del resto non c’è acquisizione senza motivazione, poiché essa – ovverosia l’insieme dei bisogni consci o inconsci funzionali al raggiungimento di un obiettivo – si configura come un fattore dinamico del comportamento che dirige l’individuo verso una meta: sarà quindi l’empatia emotiva tra docente e discente a innescare la cosiddetta motivazione intrinseca, predisponendo così un contesto d’apprendimento in grado di favorire gli interessi dei discenti. Infatti, attraverso le interazioni positive che mirano a incentivare i talenti, si può accrescere la motivazione e, di conseguenza, l’acquisizione, influenzando lo sviluppo intellettuale a lungo termine.

Di certo, dunque, l’apporto delle emozioni è prodromico all’incremento intellettivo e culturale del singolo perché esso – nell’alveo delle funzioni emotive in àmbito neurofisiologico – stimola i cambiamenti fisici e psicologici dell’individuo, che finiscono per incidere sul pensiero e sul comportamento, in risposta a stimoli sociali e ambientali.

 

Una valenza olistica

Il successo nel processo d’apprendimento, lungi dall’esser determinato soltanto da intelligenza e razionalità, dipende in larga parte dalla dimensione emozionale: emozioni e apprendimento hanno pertanto un legame inscindibile. Uno stato emotivo positivo del docente può attivare a sua volta meccanismi positivi, in una sorta di transfert emotivo che potenzi al massimo la curiosità, il divertimento e il senso di scoperta; lì risiede il potere trasformativo e rigenerativo della didattica, quando è capace di costruire conoscenza e, soprattutto, scenari educativi efficienti ed efficaci.

L’approccio performativo nel processo d’insegnamento/apprendimento, linguistico in particolare, ha ormai riconosciuto alla componente affettivo-emotiva una valenza olistica all’interno della dimensione cognitiva del discente, sovente da preferirsi alla competenza formale e grammaticale; tesi avvalorata da tutti i recenti progressi delle neuroscienze, secondo cui le emozioni non rappresenterebbero soltanto delle variabili “esterne” alle funzioni cognitive, sarebbero piuttosto componenti basilari del nostro modo di essere o d’agire e concorrenti al successo formativo degli individui.

 

Dal mythos al social

Ora, quando è possibile collocare la presa di coscienza del ruolo precipuo delle emozioni all’interno dei processi sociali e culturali (compreso quello didattico d’insegnamento/apprendimento)? Come ha ben ricostruito Paolo Balboni (2013), è con l’avvento incalzante della globalizzazione e dei mass media che si è iniziato a considerare ineludibile la componente emotiva; nell’antichità, invece, il mythos greco aveva divinizzato e cristallizzato le emozioni, spersonalizzandole; così come – più tardi – prima la filosofia classica, poi il Trecento dantesco, l’epica rinascimentale e il teatro elisabettiano avevano anteposto (e preferito) alla dialettica emotiva la ragione e l’autocontrollo.

Il cambio di prospettiva si compie solo – lentamente ma inesorabilmente – dalla speculazione romantica ottocentesca al cinema hollywoodiano, sino all’attuale epoca interattiva e social: s’assiste al trionfo delle emozioni, valorizzate in toto quali risposte adattive della mente alle pressioni, alle contingenze e agli stimoli esterni.

 

L’approccio umanistico-affettivo

Le funzioni cognitive e l’intelligenza emotiva (Goleman docet) costituiscono una amalgama indispensabile per affrontare le sfide culturali della società contemporanea; nella fattispecie, per quel che concerne l’apprendimento linguistico e, in generale, la glottodidattica, tutto ciò che è possibile ottenere nel flusso d’apprendimento dipende da quello che accade nella mente del discente (E. Smolenova, 2019): la dimensione emozionale, infatti, dialoga con quella razionale ed entrambe risultano decisive nell’acquisizione di conoscenze e, soprattutto, nello sviluppo di specifiche competenze. Per poter condurre lo studente al successo, oltre alla preparazione linguistica, il docente deve comprendere i meccanismi che s’innescano nella sua psiche, ché le emozioni sono un propellente, una fonte energetica utile ad analizzare problemi e a prendere decisioni. Lingua e componente emozionale rappresentano così un tutt’uno, in ragione dei processi neuropsicologici e psicofisici che si compiono nella loro interazione.

Se andiamo a considerare i principali approcci alla glottodidattica (M. Lupia, 2018), oltre a quello deduttivo o formalistico (la lingua s’apprende attraverso le regole grammaticali che conducono il discente al suo controllo conscio), a quello induttivo (la lingua si coglie prima nella sua globalità, poi – attraverso fasi induttive – si giunge a comprenderla nei vari contesti situazionali) e a quello strutturalista/comunicativo (la lingua viene appresa in modo nozionistico e funzionale, in modo da raggiungere un determinato obiettivo all’interno di determinate situazioni), un ruolo di prim’ordine sta assumendo l’approccio umanistico-affettivo, secondo il quale l’attenzione agli aspetti psicologici dell’apprendimento (l’atmosfera della classe, l’equilibrio dell’ambiente, il coinvolgimento degli studenti, lo sviluppo delle loro motivazioni e delle loro competenze metacognitive) diventa il valore aggiunto nell’azione didattica.

 

Alfabetizzazione emotiva

A seguito dell’odierna frammentazione dei saperi e dei percorsi didattici, resa profonda da recenti guerre e pandemie ancora in corso, è più che mai opportuno recuperare le dimensioni educativa e affettiva tanto dell’insegnamento quanto dell’apprendimento: la competenza emotiva ha un’influenza decisiva perché completa un processo multicomponenziale costruito sul rapporto sinergico tra la valutazione cognitiva di un evento, l’attivazione fisiologica e la tendenza a compiere determinate azioni (F. Liso, 2018).

Ma occorre andar oltre: le emozioni hanno ormai una funzione sociale, dal momento che modulano le interazioni quotidiane, decodificando continuamente gli stimoli esterni; emozioni e apprendimento – lo ha osservato C. Villani, 2020 – sono vasi comunicanti e sempre più spesso si viene a creare una complementarità tra emozioni e contesto d’apprendimento, base solida della prassi didattica.

Nell’apprendere, lo studente deve abituarsi a riconoscere e a gestire le proprie emozioni, nel tentativo di raggiungere un equilibrio personale utile ad affrontare con successo le continue sfide sociali. Si tratta quindi di incentivare una sorta di alfabetizzazione emotiva che favorisca nei discenti reazioni emotive adeguate e una giusta consapevolezza del sé.

Per concludere con Damasio (1995), senza le emozioni – che sanno dare voce a ciò che si prova – difetta la base d’appoggio attraverso la quale il pensiero opera e intesse le sue trame; ne consegue che, lavorando sulle emozioni di base (quali gioia, tristezza, timore o rabbia) e sulle emozioni secondarie (come l’invidia o l’orgoglio) è possibile veicolare le cosiddette emozioni di fondo, che contribuiscono a determinare il benessere o il malessere degli individui.

Le emozioni pertanto, sostrato d’ogni esperienza quotidiana, non sono soltanto di centrale importanza per ogni persona, ma si possono ben considerare espressione fenomenica della vita.

 

Biblio-sitografia essenziale

A. V. Massaci, L’importanza dell’emozione nell’apprendimento delle LS, www.ledonline.it/linguae, 2015

D. Galuppi, Competenze non cognitive e motivazioni degli studenti, www.tecnicadellascuola.it, 2022

P. E. Balboni, Il ruolo delle emozioni di studenti e insegnanti nel processo d’apprendimento e insegnamento linguistico, EL.LE ISSN 2280-6792, marzo 2013

I. Lagreca, Il ruolo delle emozioni nell’apprendimento, www.edscuola.it, 2017

Poggi/Bartolucci/Violini, Emozioni: un’arma per l’apprendimento, Uni Roma Tre, 2018

E. Smolenova, Le emozioni e l’apprendimento linguistico, www.researchgate.net, 2019

M. Lupia, Sintesi dei principali approcci della glottodidattica e dei metodi corrispondenti, Università di Pisa, Laboratorio Didattica Speciale: codici dell’educazione linguistica, 2015

F. Liso, L’influenza delle emozioni nell’apprendimento in età evolutiva, www.stateofmind.it, 2018

A. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, 1995

D. Scarampi, Piano Scuola Estate 2021: ecco perché investire nelle emozioni, www.orizzontescuola.it, 2021

 

Immagine: Luciano Battisti e Mina, via Wikimedia Commons

 

 

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Una mente educata alla conoscenza

Nel Mondo dei replicanti, film ispirato alla miniserie a fumetti The Surrogates, in un futuro non molto lontano un abile scienziato dà vita a degli androidi – definiti “surrogati” – che, diretti a distanza, sono in grado di sviluppare tutte le percezioni dell’ambiente in cui si muovono, sanno riprodurre situazioni o movimenti e, soprattutto, riescono a inglobare una notevole quantità d’informazioni d’ogni genere.

Immagazzinare informazioni e dati, già: operazione potenzialmente utile e costruttiva, tuttavia Michel Eiquem, signore di Montaigne, ci aveva già ammonito in merito alla prima finalità dell’insegnamento, così come arguito dal grande Edgar Morin (Cortina Editore, 2000): è molto meglio una testa ben fatta che una testa ben piena, perché una testa in cui il sapere è accumulato e ammucchiato senza un criterio resta priva del principio di selezione e organizzazione che gli dia senso; al contrario, una testa ben fatta dispone di un’attitudine generale a trattare e sviscerare i problemi, poiché sa orchestrare i principi organizzatori che permettono di collegare tra loro i saperi, dandovi un senso.

Oltretutto nella società in cui viviamo, sempre più interconnessa e basata sull’interdipendenza tra le varie discipline e i vari campi di studio, teste ben fatte permetterebbero di affrontare con successo le numerose sfide globali, resistendo all’onda d’urto delle pandemie, dei conflitti planetari e delle incipienti (sovente insanabili) tensioni sociali. Diversamente – come ha sottolineato A. Ceroni, 2021 – le teste ben piene finiscono per essere bombardate da informazioni che valgono solo nell’im-mediato e quindi sono incapaci di trattenerle, analizzarle correttamente, collegarle o metterle in relazione, quindi risultano incapaci di esprimere pensieri critici, coerenti e compiuti.

 

Scuola e infodemia

Nella formazione scolastica, e il ciò vale sia per quella erogata a beneficio degli studenti sia per quella prevista per i docenti neoassunti, l’infodemia e l’accumulo acritico delle informazioni conduce all’iperspecializzazione, che frammenta i saperi e li affida quasi unicamente alla memorizzazione, a scapito dello sviluppo di un  pensiero creativo e delle cosiddette attitudini esistenziali. Piuttosto, all’iperspecializzazione andrebbero opposte la rielaborazione, l’intuizione, la capacità di giudizio e la conoscenza pertinente – il credo di Morin è sempre attualissimo – che, a sua volta, permette di collocare le informazioni nel loro contesto, dove potranno essere comprese e assimilate.

Del resto l’organizzazione delle conoscenze viaggia in modo circolare e ricorsivo, per cui i saperi non vanno separati, occorre semmai interconnetterli e unirli: il tutto non può che essere la somma delle parti e il processo d’insegnamento/apprendimento non può prescindere dalla complessità, intesa però nell’accezione originaria del termine: complexus è ciò che è “tessuto insieme”, composto cioè da più parti collegate tra loro e dipendenti (M. Revelli, 2020).

Una mente educata ed efficiente non deve padroneggiare soltanto tecnica e conoscenza, ma, per poter affrontare con equilibrio e raziocinio le sfide globali, ha bisogno di sviluppare l’attitudine a un approccio multidisciplinare, a una dimensione collettiva d’interpretazione della realtà: il sapere non va inculcato o semplicemente trasmesso, va semmai stimolato ed educato nelle menti di chi lo riceve; solo in questo modo può essere costruita una cultura che permetta di “comprendere la realtà e aiutarci a vivere” (ecco l’essenza del nuovo umanesimo di Morin, che pone al centro l’uomo per insegnargli ad affrontare la vita).

Ora, una mente educata ed efficiente non può non far parte oggi della Scuola: in caso contrario, il processo di insegnamento/apprendimento nella Scuola medesima rischia di diventare semplicemente ed esclusivamente un mezzo attraverso il quale i e le docenti s’illudono di perpetuare le loro spesso impressionistiche (e quasi sempre soggettive) passioni (o conoscenze, che dir si voglia).

 

Concorsi, nozioni e quiz

E qui il pensiero non può non andare alla recente prima prova concorsuale per accedere all’insegnamento (e alle conseguenti polemiche). Inevitabilmente ci si domanda: può la misurazione del cumulo (e soprattutto dell’accumulo) di nozioni possedute – l’unica misurazione reale che un test a crocette può effettuare – essere lo strumento più idoneo a selezionare i futuri e le future docenti della cosiddetta Scuola delle competenze, ovvero di quel modello di Scuola che grosso modo tra il 2006 e il 2018 una serie di atti normativi ha disegnato, e che ancora sostanzialmente (e paradossalmente) non ha trovato applicazione?

Nel dibattito nazionale, sovente acceso, i difensori delle nozioni sono pronti a scagliarsi contro tutti coloro che intendono perseguire una Scuola che lega strettamente tra loro, rendendole interdipendenti, conoscenze e competenze: «Tutta colpa di don Milani, tutta colpa di De Mauro, tutta colpa della crisi del liceo classico, tutta colpa della scuola di massa, tutta colpa della mancanza del latino che insegna a ragionare», e via discorrendo coi luoghi comuni che finiscono, magari inconsapevolmente, per avvalorare la vecchia idea della cultura umanistica intesa come accumulo di dati più o meno eruditi senza alcuna consapevolezza teorica.

Ed eccoci alla seconda delle questioni che s’intendono focalizzare: i quiz che sono stati proposti erano (e sono) assurdi non solo perché meramente (e inevitabilmente) nozionistici, ma anche perché presentavano errori talora grossolani d’impostazione (un quesito interrogava sull’articolo 34 della Costituzione, ma le risposte previste vertevano sull’articolo 33) o di formulazione; ciò è avvenuto massimamente per quelli d’area linguistica e quelli d’area letteraria (le conoscenze e le competenze filologiche sono ancora una volta incredibilmente del tutto assenti dalle preoccupazioni del Ministero!), come ha ampiamente argomentato e brillantemente dimostrato, per fare un solo ma significativo esempio, Massimo Arcangeli – linguista e docente dell’Ateneo cagliaritano – sia sui giornali sia attraverso una serie di interventi sui suoi profili social.

 

Le regole, le gambe e il camminare

Per trattare solo delle competenze (meta)linguistiche richieste dai test ai futuri e alle future docenti, leggendo le domande è impossibile non ravvisare un fatale difetto d’impostazione generale: c’è da supporre che chi le ha pensate e formulate, al di là degli errori cui prima si accennava (comunque gravissimi e frutto soprattutto di mancanza di una consapevolezza teorica), non abbia mai compulsato quei documenti normativi in cui spesso si indica alle/agli insegnanti di promuovere in classe «una riflessione sulla lingua orientata ai dinamismi di coesione morfosintattica e coerenza logico-argomentativa del discorso, senza indulgere in minuziose tassonomie e riducendo gli aspetti nomenclatori» [corsivo nostro]; d’altronde, come s’evince da vecchie e purtroppo poco lette tesi, pensare per esempio che lo studio riflesso di una regola grammaticale ne agevoli il rispetto effettivo è, più o meno, come pensare che chi meglio conosce l’anatomia delle gambe sia in grado di correre più velocemente o che chi meglio padroneggia l’ottica riesca a vedere più lontano. Ma c’è di più: la direttiva concorsuale n.3 del 24 aprile 2018, emanata dal Dipartimento della Funzione Pubblica, all’articolo 4 ammoniva, tra l’altro, che la preselezione non deve selezionare in base a un qualsiasi criterio oggettivo, bensì in base a un ragionevole criterio di merito, che privilegi i candidati in base alle loro effettive capacità e alla loro effettiva preparazione: uno dei tanti, troppi ammonimenti risultati vani.

 

Recuperare l’emozione nell’apprendimento

In conclusione è utile osservare che, allo scopo di arginare la profonda frammentazione e parcellizzazione sia dei saperi sia dei percorsi didattici (nei curricoli scolastici) e formativi (nel reclutamento degli insegnanti o dei dirigenti scolastici), siano di vitale importanza due passaggi metodologici: (i) il superamento del paradigma comportamentista e pavloviano nel processo d’insegnamento/apprendimento attraverso quello costruttivista (non bisogna riempire la testa di conoscenze, ma è bene sviluppare le giuste attitudini allo scopo di ricercare e “costruire” le conoscenze, per poi trasferirle in ogni contesto quotidiano) e (ii) il recupero della valenza educativa e della dimensione affettiva nella trasmissione dei saperi, mediante il potenziamento del ruolo centrale delle emozioni nei processi d’apprendimento, poiché l’emozione è un processo multicomponenziale e motivazionale indispensabile nella formazione di menti allenate ad affrontare gli ostacoli della vita o a prendere decisioni efficaci e responsabili.

 

 

Biblio-sitografia di riferimento

1) E. Morin, La testa ben fatta: riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Cortina Editore, 2000;

2) A. Ceroni, I 100 anni di Edgar Morin: una testa ben fatta, non una testa ben piena su www.socialbg.it 2021;

3) M. Revelli, Edgar Morin: una riflessione sulla conoscenza su www.associazionetommaseo.it 2020;

4) F. Liso, L’influenza delle emozioni nell’apprendimento in età evolutiva, su www.stateofmind.it, 2018;

5) S. Cappello, La dimensione emozionale nel processo di insegnamento-apprendimento, su “Formazione e insegnamento”, Libera Università di Bolzano, 2013;

6) Concorso scuola, il linguista Arcangeli: “Domande fuorvianti, va annullato” su www.cagliaripad.it del 4 aprile 2022.

 

Immagine: Screenshot tratto dal film Surrogates 2009 di J. Mostow

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Dita per leggere, corpo e mente nell’apprendimento della lettoscrittura

 

«Opera naturale è ch’uom favella; ma così o così, natura lascia poi fare a voi secondo che v’abbella»

(Dante, Paradiso, canto XXVI, vv.130-132)

 

C’è un momento in cui Liesel, la giovane protagonista della Storia di una ladra di libri – best seller di Markus Zusak – si domanda quando, esattamente, i libri e le parole abbiano iniziato a significare qualcosa per lei; già, perché il suo fraterno amico Max gliel’aveva insegnato: ogni essere vivente è tale in quanto contiene la parola segreta della vita e la parola stessa è vita, poiché, quando viene percepita, svela la realtà, la concretizza e soprattutto la fa comprendere.

Del resto i due versanti del linguaggio, e ben lo ha spiegato P. Boccia (2021), sono la produzione, ovverosia il pensiero che si traduce in suoni e la comprensione, che permette ai suoni di trasformarsi in pensiero. Dopodiché, la natura simbolica, strutturata e generativa del linguaggio permette tanto di concepire e concretizzare ogni cosa quanto di comunicare azioni, eventi, sensazioni e idee.
Il linguaggio, è noto, si struttura in unità fonemiche (i suoni), morfemiche (le parole) o sintattiche (le frasi e i sintagmi) e, dato che la lingua non si acquisisce per via ereditaria, occorre essere in grado di distinguere le singole unità che contraddistinguono le varie sequenze, nel passaggio dai suoni alle parole.

 

I percorsi e la didattica della lettoscrittura

Quando si parla di lettoscrittura s’allude – oramai da qualche decennio – alla sommatoria delle abilità di lettura e di scrittura rispetto alle modalità del loro apprendimento, mediate dall’intervento didattico.

Un tempo, per imparare a scrivere, ai piccoli discenti si facevano vergare svariate pagine colme di segni financo di lettere, maiuscole e minuscole, in un certosino lavoro di copiatura; oggi invece, come ha esaustivamente argomentato Paola Baratter (2019), con la lettoscrittura cambia il paradigma d’approccio all’apprendimento delle abilità letto-scrittorie: se in passato l’alfabetizzazione era considerata esclusivamente un processo di decodifica del linguaggio scritto, ora il processo che conduce il bambino a leggere e a scrivere è perlopiù concettuale, per cui la scrittura non è tanto la rappresentazione grafica delle parole, quanto piuttosto dei suoni dei quali esse si compongono.

Ad ogni buon conto, nell’apprendimento della lettoscrittura, contraddistinto da diversi livelli concettuali motori e grafici, il discente compie una transcodifica dal codice orale a quello scritto, operazione utile allo sviluppo di competenze prima metafonologiche e poi comunicativo-linguistiche. Questo percorso, articolato e complesso, passa attraverso quattro stadi d’apprendimento: (i) quello logografico (le parole, semplici insiemi o giustapposizioni di segni, vanno differenziate dai disegni che rappresentano gli oggetti); (ii) quello alfabetico (la parola scritta diventa la trascrizione di quella orale, attraverso una quantità minima di segni e parole diverse sono il risultato della combinazione di segni diversi); (iii) quello fonetico (il bambino inizia la fonetizzazione della scrittura, per il tramite della conversione fonema-grafema, e prende avvio il riconoscimento sillabico) ed infine (iv) quello lessicale/ortografico (il bambino riconosce le parole e ne comprende il significato: inizia la fase ortografica e la segmentazione del parlato continuo).

Per quanto concerne poi la didattica della lettoscrittura, ovverosia l’impostazione metodologia che guida il processo d’insegnamento e d’apprendimento del sistema di lettura e scrittura, è possibile sintetizzarla in due macro approcci: quello fonologico o sublessicale – che a sua volta fa capo alla capacità di analizzare separatamente i suoni all’interno delle parole, decodificando le singole lettere – e quello semantico-lessicale, che conduce il discente a riconoscere la parola come un nucleo compatto e a darvi un significato in base al contesto. Il primo approccio è quasi interamente costituito dal metodo fonico/sintetico (o fonico/sillabico), il quale, mediante la lettura di lettere e sillabe, prevede la transcodifica dei suoni (fonemi) in segni (grafemi), operazione che ben esemplifica il passaggio chiave dal parlato allo scritto; dal secondo approccio – invece – consegue il metodo globale o analitico, che permette il riconoscimento delle parole o delle frasi nella loro interezza mediante l’identificazione e la comprensione delle sillabe che le compongono (P. Baratter, 2019).

Una buona didattica letto-scrittoria è certo il risultato della commistione dei due approcci appena descritti, perché il metodo fonologico è interamente basato sulla decodifica ripetitiva, mentre quello analitico conduce alla scoperta dei significati delle parole per mezzo di una lettura “intelligente”; è più che mai necessario, infatti, favorire un graduale passaggio da un livello semplice di decifrazione fonetica a un livello complesso di comprensione lessicale, mediante il potenziamento degli automatismi di base: l’abilità fonologica prima e quella grafo-motoria successivamente.

 

Dita per leggere di Caterina Angelotti e Renata Puleo

Ebbene, una lettura intelligente in grado d’intersecare sapientemente il metodo analitico con quello fonologico, è alla base della strategia didattica e pedagogica Dita per Leggere, nata circa vent’anni fa come esperienza d’insegnamento/apprendimento – grazie all’impegno di Caterina Angelotti che l’ha ideata e Renata Puleo che l’ha promossa – e divenuta poi un progetto editoriale edito da Anicia (Dita per Leggere – Tatto, vista, udito: il corpo nell’apprendimento della letto-scrittura, 2021); questo percorso strutturato e ambizioso scaturisce dalla ferma intenzione delle autrici di proporre una buona pratica didattica in classe, partendo dalla Lingua Materna, madre e radice della parola orale e scritta, che a sua volta si basa sul repertorio lessicale che bambine e bambini ereditano dalla madre e utilizzano per conoscere il Mondo e percepire la realtà; una Lingua viva – quella Materna – mutevole e astrattiva, affettiva e sociale, che si fonda sull’ascolto prima e sulla lettura e produzione scritta poi.

Il libro a cura di Angelotti e Puleo presenta due assi portanti: una Parte Prima nella quale le autrici, citando sovente l’esperienza linguistico-pedagogica di giganti quali Piaget e Vygotskij, evidenziano i presupposti ideologici e concettuali della strategia Dita per Leggere e una Parte Seconda in cui il percorso proposto viene dettagliato e sviscerato attraverso dieci passi programmatici detti “stazioni”.

I primi capitoli, dunque, partono dalla centralità della parola nel rapporto tra insegnamento e apprendimento e, soprattutto, dalla presa di coscienza della dimensione cooperativa e sociale della lingua, dal momento che l’interazione sociale e la discussione sono due fattori imprescindibili nell’approccio del bambino con il Mondo. Inoltre, nella Parte Prima s’evidenzia l’importanza dell’esperienza sensibile o pan-sensoriale nella costruzione della competenza linguistica e si indugia sulla dimensione sociale e “pubblica” del parlare e dell’apprendere, quali fondamenti della costruzione di significati comuni e condivisi.

Nella Parte Seconda, invece, Angelotti e Puleo inquadrano le prerogative del loro metodo didattico e le ordinano per punti: la gestualità (soprattutto l’uso delle mani nell’apprendimento dei segni), l’orecchio, quale centro organizzatore di tutti i fenomeni percettivi, e l’occhio, quale organo di controllo dell’intera sequenza fonologico-sintattica.

Il testo scritto e letto in classe viene così sottoposto ad una processazione, nella quale il gesto – unito alle percezioni visive e uditive – assume un’importanza nodale: la novità consiste proprio nel proporre in modo sistematico l’uso delle dita quali produttrici di segni linguistici, anche a bambini che non presentano problemi né di vista né di udito. Il gesto quindi costituisce una sorta d’interfaccia motorio, mutuato dalla corporeità, e l’apprendimento risulta più veloce ed efficace poiché le dita si muovono mentre si guarda e si “sente” un grafema, nel flusso delle parole e delle frasi; questo approccio, in definitiva, consente di attivare la zona prossimale di sviluppo di ogni bambino (Vygotskij docet) per mezzo della creazione di un ambiente linguistico utile alla creazione di conoscenze e specifiche abilità.

Nella pratica didattica quotidiana la strategia Dita per Leggere si traduce in dieci passi, che partono dalla discussione (i bambini ragionano su un fenomeno e l’insegnate li aiuta a sistemare le riflessioni) per poi proseguire con la produzione e la scrittura (i bambini formulano un breve testo e lo dettano all’insegnante, che a sua volta lo scrive sulla lavagna); dopodiché si passa alla rilettura e alla conta corale del numero delle parole, quindi si battono le sillabe e si segnano con le dita le singole lettere (mediante gesti condivisi tra i bambini), infine si rilegge e si riscrive il testo, per poi terminare con un disegno “narrativo” di quanto prodotto.

L’intero impianto didattico e pedagogico della strategia ideata da Caterina Angelotti, proprio perché fondato sulla cooperazione sia tra pari sia tra docenti, conduce verso una valutazione formativa e dinamica, in una parola “longitudinale”, che tiene conto di avanzamenti e regressioni, di sviluppi o di conquiste progressive: un indubbio valore aggiunto.

Ma c’è di più: in un’epoca, la nostra, infodemica e fagocitata dalla comunicazione veloce dei social network, la strategia Dita per Leggere promuove la formazione del pensiero critico perché è in grado di mettere al centro la lettura e la scrittura, quali esperienze irrinunciabili della crescita personale.

 

Bibliografia e sitografia di riferimento

 

C. Angelotti/R. Puleo, Dita per Leggere – Tatto, vista, udito: il corpo nell’apprendimento della letto-scrittura, Edizioni Anicia, 2021

P. Baratter, Che cos’è la lettoscrittura, in www.treccani.it, maggio 2019

P. Boccia, Il bambino dal linguaggio ai fonemi, in www.edscuola.eu, gennaio 2021

M. Calì, Sfide infantili: le prime parole e l’apprendimento del linguaggio, in www.treccani.it, luglio 2019

L. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Giunti, 1992

F. Cimatti, Mente, segno e vita, Carocci, 2004.

 

Immagine: Screenshot dal film Storia di una ladra di libri (2013)

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Facciamo il punto (pensando a Dante)

 

Cosa c’è di più minuscolo di una virgola? Eppure così poco basta per produrre un’eresia

Erasmo da Rotterdam, Novum Testamentum, 1516

 

 

Filippo Tommaso Marinetti s’augurava che – «nella continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé» – prima o poi le soste assurde delle virgole o dei punti fossero eliminate da ogni testo.

Tuttavia, nonostante le speranze futuriste d'inizio '900, l'interpunzione è ancora in ottima salute ed è oggetto di pubblico dibattito, anche di là dalle speculazioni accademiche o dalle esercitazioni scolastiche: cercheremo di séguito di focalizzarne i presupposti e le peculiarità, che di certo vano oltre gli aspetti più squisitamente morfologici.

La punteggiatura è anzitutto inscindibilmente legata alla dimensione scritta e all'elemento visivo, non già all'oralità; di più: non può venire dopo ma contemporaneamente alla costruzione di un qualsiasi testo scritto.

Di solito, poi, si tende a imprigionare la punteggiatura all'interno della sua dimensione prosodica, per cui l'interpunzione non sarebbe che il principale indicatore delle pause del respiro nel parlante, in altre parole il “garante” dell'intonazione.

 

Pause logiche

 

In realtà la principale funzione della punteggiatura è quella di sottolineare le pause logiche e non fisiche all'interno dell'enunciato, della frase o del periodo. Inoltre essa non è un semplice “ricamo”, ovverosia una sorta di orpello visivo, bensì permette di andare in profondità nel testo, creando dei legami sintattici e semantici: il punto fermo separa, i due punti uniscono e, in generale, la valenza performativa della punteggiatura è innegabile.

L'interpunzione, insomma, contribuisce a plasmare la struttura della frase e, proprio per questo, ci dà importanti indicazioni grammaticali, essendo la grammatica la descrizione del funzionamento della lingua.

Ci sono diversi modi di interpungere: stilistico, emotivo, pragmatico; di certo la punteggiatura non è un sistema rigido di regole e il suo utilizzo è strettamente connesso con la tipologia testuale che s’intende utilizzare. Certo, esistono norme codificate, come per esempio l'impossibilità di separare – con la virgola – il soggetto e il verbo oppure il verbo dal suo oggetto diretto; norme uniformemente riconosciute eccezion fatta per alcune licenze letterarie facenti capo alla cosiddetta “virgola tematica”, un peculiare tipo di “virgola informativa” che ha lo scopo di chiudere i costituenti avverbiali che fungono da introduttori del tema (o topic), separando così il gruppo del soggetto da quello del verbo: «Però, di tante belle parole Renzo, non ne credette una», per dirla col Manzoni del quindicesimo capitolo dei Promessi sposi oppure «Il contrario, esiste», per dirla invece col Calvino di Ti con zero (due esempi illustri tra i tanti).

Parimenti, una virgola può distinguere una proposizione relativa predicativa da un’appositiva, con conseguente mutamento del senso della frase; e ancora: una virgola può, come nel caso di alcuni avverbi, cambiare completamente il significato di un termine. Questi precetti per altro non sono che la dimostrazione pratica della funzione logica della punteggiatura, da anteporre sempre a qualsiasi altra implicazione morfologica.

 

Nell’era dell’italiano digitato dei social

 

Dunque l'interpunzione è operazione profonda, che crea pathos e soprattutto soluzioni espressive talora impensabili o altrimenti irraggiungibili. Come ben ha raccontato Giuseppe Antonelli qualche anno addietro nel suo Un italiano vero, l'influsso di emoticon ed emoji, nell'italiano digitato degli sms, delle chat e dei social, ha portato la punteggiatura verso un'autonomia espressiva che sinora si era verificata soltanto nei fumetti. L'interpunzione quindi ha delle implicazioni non più solamente linguistiche, ma soprattutto psicologiche e sensoriali. Non esiste dunque una punteggiatura oggettiva, corretta e universale; al contrario il suo utilizzo oscilla a seconda dei diversi contesti o delle diverse scelte testuali.

Del resto, è noto, nel mondo classico i testi erano quasi sempre scritti senza interporre spazi fra le parole, in virtù della cosiddetta scriptio continua, dal momento che la lettura avveniva prevalentemente ad alta voce - come per gran parte del Medioevo- e la scansione degli intervalli era affidata all’intuito e alla sensibilità del lettore, mentre le pause erano individuate per il tramite della respirazione.

Solo successivamente, nel corso del Medioevo, si è generalizzata l’abitudine di separare le parole con uno spazio e pian piano – da Gutenberg in avanti -  ha preso campo l’uso più ampio della punteggiatura.

 

Prima e dopo Gutenberg

 

Ora, il duemilaventuno è l’anno delle celebrazioni dantesche legate al settecentenario della morte del Sommo Poeta e parecchio è stato scritto al riguardo da specialisti e no, partendo dal peculiare presupposto – come ben ha sottolineato Luca Serianni in Parola di Dante, 2021 – che la Commedia non ha mai cessato di rappresentare un serbatoio linguistico dal quale i letterati (ma anche i semplici parlanti o scriventi) d’ogni tempo hanno attinto.

Nella mole degli scritti di questo proficuo anno dantesco, tuttavia, un argomento meriterebbe d’esser ulteriormente sviscerato e approfondito, ovvero il rapporto tra Dante e l’interpunzione.

Premesso che degli oltre settecento codici manoscritti conosciuti della Commedia nessuno è copia autografa dell’autore, Dante con la punteggiatura ha a che fare relativamente (o, se vogliamo, minimamente): nei manoscritti della sua epoca l’interpunzione è scarsissima e occorre attendere almeno la comparsa della stampa affinché avvenga una standardizzazione della punteggiatura, sotto forma di regole condivise e segni codificati, poi utilizzati con regolarità.

Per esempio, nei testi veneziani curati dal celebre tipografo Aldo Manuzio, e l’edizione del 1496 del De Aetna di Pietro Bembo è citazione adeguata, sono usati per la prima volta i segni tipografici a indicare la virgola, il punto e virgola, l’apostrofo e gli accenti (quantunque detti segni differiscano da quelli d’uso corrente attuale) e alla classica interpretazione della punteggiatura quale indicatore delle pause nella lettura a voce alta s’affianca quella che ne sottolinea l’importanza logica e sintattica (V. Noli, 2018).

Infatti la tradizione che ha preceduto l’invenzione della stampa non ha mai trasmesso, se non marginalmente, né le forme né tanto meno gli aspetti paragrafematici del testo, come segnalato in diverse occasioni da Rosario Coluccia: la punteggiatura pre gutenberghiana non solo è scarsa, sia per varietà di segni sia per frequenza di impiego, ma viene perlopiù utilizzata con criteri diversi da quelli attuali e comunque del tutto insufficienti a permettere un’interpretazione sintattica univoca del testo.

 

Soluzioni editoriali per Dante

 

Nel caso dell’interpunzione dantesca abbiamo giocoforza solo una memoria indiretta, poiché la punteggiatura è stata via via introdotta dagli editori in epoche successive. Così lo studio interpuntivo del testo dantesco è divenuto di per sé uno strumento ecdotico e ha suggerito soluzioni editoriali diversamente orientate a seconda che si sia accettata o negata la possibilità che la punteggiatura potesse risalire o meno direttamente all’originale (Coluccia, 2019).

Come Dante abbia usato di preciso la punteggiatura di fatto non lo sapremo mai, ciò nonostante lo studio dell’interpunzione utilizzata nei codici danteschi è di sicuro interesse, perché può ben esistere una punteggiatura corretta in un insieme di varianti sbagliate (o se non altro non aderenti alle intenzioni originarie dell’autore), proprio in virtù della dimensione soggettiva della punteggiatura stessa.

Nelle epigrafi latine, infatti, le parole s’inseguivano senza soluzione di continuità e l’interpretazione del testo era vincolata per intero all’attenzione, all’intuito e soprattutto alla logica del lettore; anche la scelta di una semplice virgola poteva mutare tutto, stravolgendo il senso, l’impatto, persino il suono di una frase.

Bypassando esempi celeberrimi, come il noto vaticinio oracolare latino ibis, redibis, non morieris in bello, nel quale lo spostamento della virgola prima o dopo il non rovescia l’esito della profezia, e restando sulla Commedia, un conto è leggere “Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia” oppure “Stavvi Minòs, orribilmente, e ringhia”. Cambia sostanzialmente l’effetto drammatico, perché nel primo caso Minosse è orribile in sé, quella è la sua connotazione e, come conseguenza, ringhia. Nel secondo caso, invece, i tratti distintivi del diavolo infernale e il suo rumoreggiare sono posti sullo stesso piano.

L’uso della punteggiatura, in conclusione, non lo si approfondisce che di rado, perlopiù in àmbito specialistico, molto meno a scuola. Si tratta purtroppo di una mancanza considerevole, dal momento che ognuno di noi – di certo - giudicherebbe insensata l’idea di insegnare la musica ignorando il valore delle pause o lasciando libertà all’esecutore di collocarle a casaccio. L’interpunzione è armonia e acquisizione semantica, non è soltanto operazione formale o applicazione di una norma condivisa. E il testo classico antico, al pari di quello dantesco, ne sono fulgidi esempi.

 

 

 

Bibliografia e sitografia essenziali

 

Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto tecnico della cultura futurista, 1912

L. Serianni, Parola di Dante, il Mulino, 2021

V. Noli, Una questione di virgole pensate bene, www.anaso.it 2018

L. Luccone, Questione di virgole, Laterza, 2018

R. Coluccia, La Commedia: testo, edizioni, commenti, www.linceiscuola.it 2019

Giuseppe Antonelli, Un italiano vero, Rizzoli, 2016

Vittorio Coletti, Santa Margherita. Torna il Festival della Punteggiatura, dal quotidiano «La Repubblica» del 21 settembre 2016

La punteggiatura cambia e si adatta, su www.puntoebasta.altervista.org

D. Scarampi, Punto e a capo: in Liguria riparte il Festival della Punteggiatura, Facebook.com/Festival della Punteggiatura, 2016

 

Immagine: Félix Fénéon

 

Crediti immagine: Paul Signac, Public domain, via Wikimedia Commons

 

 

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Sviluppo cognitivo e pensiero critico: due antidoti ai pregiudizi e ai preconcetti del presente

 

Il recente centenario Edgar Morin, uno dei padri della teoria della complessità, in La testa ben fatta (Raffaello Cortina, 2000) auspicava l’affermarsi di un sistema di pensiero libero dai vicoli angusti del locale e del particolare e capace d’intuire o decodificare le continue interazioni e le interconnessioni sociali, utili a favorire il senso della responsabilità – tanto individuale quanto collettiva – e della cittadinanza attiva e consapevole.

Affinché si possa parlare a pieno titolo di sviluppo cognitivo, è necessario infatti che s’inneschino precisi processi organizzativi e interattivi che sappiano transitare da un apprendimento a circuito semplice (single-loop learning) verso un apprendimento a circuito doppio (double-loop learning), il quale, nell’affrontare contesti inattesi o problematici, fa sì che l’individuo sviluppi valori e norme attraverso un’indagine approfondita e meditata (C. Argyris e D. Schon 1996).

Solo così si possono eludere schemi mentali asfittici e chiusi, refrattari al cambiamento e si possono privilegiare modelli aperti e progressivi, critici e ponderati.

Del resto un intelletto statico, ripetitivo, che insiste nell’affrontare le situazioni da un unico punto di vista, non può che condurre verso il circolo vizioso del pensiero verticale, basato su una logica sequenziale condizionata che ingabbia e limita il nostro modo di interpretare la realtà; la soluzione invece risiede nel pensiero laterale – De Bono docet – e divergente, che scardina il grimaldello delle convinzioni granitiche date ormai per scontate, ovvero quelle che impediscono la ricerca di prospettive diverse o semplicemente di soluzioni alternative.

 

Euristica emotiva e bias cognitivi

 

I tempi complessi nei quali viviamo, pensiamo e decidiamo (intrisi di controversie, polemiche, proteste velenose che fomentano le piazze) evidenziano tuttavia insidie ancor più profonde, che si celano nella cosiddetta euristica emotiva e nei connessi bias cognitivi: l’euristica emotiva è una sorta di scorciatoia mentale che incentiva la risoluzione dei problemi senza il supporto di un corredo informativo adeguato; i bias cognitivi, invece, sono “errori di sistema” che portano l’individuo a prestare attenzione a ciò che conferma l’idea sull’argomento, minimizzando tutto il resto (o negandolo); in altre parole i bias sono delle imprecisioni sistematiche del pensiero che influenzano la percezione delle cose e portano a fidarsi ciecamente a priori di credenze - ancorché sbagliate - che influenzeranno le scelte future (S. Garofalo, 2021).

I bias cognitivi, pertanto, sono pregiudizi fondati su percezioni errate o deformate, al di fuori del giudizio critico; utilizzati spesso per prendere decisioni in fretta e senza sforzo, rappresentano di fatto una distorsione inconsapevole e nefasta della realtà.

Se ci s’addentra nelle enormi tensioni di stringente attualità (il dibattito contraddittorio e pungente sui vaccini o quello dilaniante sulle presunte limitazioni delle libertà personali, facente capo alla vexata quaestio del “green pass”, son soltanto due casi macroscopici), ecco che potrebbe tornar utile la conoscenza di due noti bias, ossia l’ancoraggio (anchoring bias) e il bias della scelta (choice-supportive bias): a causa del primo – purtroppo - siamo portati spontaneamente a far affidamento sulle prime informazioni che ci vengono fornite, anche se non si ha il tempo di verificarle; a causa del secondo, invece, tendiamo a razionalizzare le scelte fatte, anche se tali scelte sono state impulsive oppure sono state prese in presenza di gravi lacune informative.

Entrambi i bias hanno come immediata conseguenza il fenomeno conosciuto come “illusione dello schema” (clustering illusion), secondo cui il nostro cervello individua dei degli schemi, i “pattern”, attraverso i quali giunge frettolosamente a sommarie conclusioni. Il guaio è che sovente percepiamo questi schemi anche là dove non esistono.

 

Le dichiarazioni di Fauci sulla carica virale

 

Per esempio, di recente si è creata parecchia confusione a proposito di alcune dichiarazioni rese pubbliche dal noto virologo americano Fauci, il quale – a detta di qualcuno – avrebbe sostenuto che la carica virale di vaccinati e non vaccinati sia sostanzialmente identica. In realtà le sue dichiarazioni sono state interpretate scorrettamente, dal momento che, sebbene i vaccinati possano in rari casi infettare, il focus del concetto di Fauci si è concentrato sulla “potenziale e insolita contagiosità”, che è ben altro dal sostenere (come è stato riportato da diverse testate giornalistiche) che i vaccinati abbiano la stessa carica virale dei non vaccinati. Oltretutto si è chiaramente dibattuto di eccezioni (non già di regole) e la versione originale della controversa intervista di Fauci, in lingua inglese, dipanerebbe ogni dubbio.

Purtroppo non si tratta solo di analfabetismo funzionale (o illetteralismo), a causa del quale, essendo d’ostacolo alla corretta elaborazione delle informazioni provenienti da un testo orale o scritto, non permette agli individui di fare le giuste deduzioni: di fronte a un evento complesso, quindi, molti non sono in grado di rielaborarlo se non in modo del tutto approssimativo, senza costruire analisi articolate e non andando oltre l’orizzonte talora angusto delle proprie esperienze dirette; giocoforza c’è di più e l’euristica emotivo-cognitiva sopra descritta, con gli annessi bias, ha un ruolo prioritario.

 

Le dimensioni della conoscenza

 

Tra gli elementi chiave della società della conoscenza, che da due decenni le politiche europee stanno cercando di incentivare e diffondere in tutti gli Stati membri dell’Unione, si distingue lo sviluppo culturale in genere; esso, tuttavia, necessita di persone in grado di gestire contesti sociali sempre più complessi e mutevoli, attraverso la capacità di cogliere il significato dei messaggi all'interno dei grandi flussi d'informazione, per poi comprenderli, valutarli e infine decidere in modo ponderato.

Esercitare la cittadinanza attiva, infatti, significa saper comprendere testi provenienti da più fonti, nonché decodificare informazioni allo scopo di sviluppare le potenzialità del discernimento e del senso critico, indispensabili per districarsi in contesti sociali mutevoli o messi sotto stress da crisi sanitarie ed economiche.

Occorre rammentare che i principali processi di pensiero, utili a formare una solida coscienza critica, secondo alcuni studi possono esser distribuiti in sei macro categorie: ricordare, comprendere, applicare, analizzare, valutare e creare.

Inoltre tali processi vengono applicati a quattro “dimensioni” di conoscenza: fattuale, procedurale, concettuale e metacognitiva (L.W. Anderson e D.R. Krathwohl, 2001); esse a loro volta si comportano quali indicatori di competenza, soprattutto per quel che concerne la capacità di interpretare correttamente una situazione problematica, riflettere sulle proprie interpretazioni e, soprattutto, modificarle tempestivamente se necessario.

Infatti la conoscenza fattuale comprende gli elementi di base (informazioni, termini, dettagli) per gestire con padronanza e familiarità una situazione problematica.

La conoscenza concettuale, che della precedente è lo sviluppo ideale, si riferisce alla capacità di individuare le relazioni che intercorrono tra gli elementi della conoscenza di base (classificazioni e categorie; modelli e strutture).

La conoscenza procedurale, quindi, individua i modi di operare, i metodi di indagine e i criteri afferenti all’utilizzo di abilità, strumenti, tecniche e metodi; e la conoscenza metacognitiva, infine, che assume un’importanza decisiva nell’approcciarsi in modo equilibrato alla realtà e agli stimoli informativi che essa produce continuamente, comprende l’insieme dei processi cognitivi connessi alla riflessione, alla consapevolezza, all’auto-conoscenza, alla conoscenza strategica.

 

Pensiero critico e misconoscenza

 

Ora, queste “dimensioni” della conoscenza – intersecandosi e interagendo – contribuiscono ad allenare il pensiero critico, che poggia sul discernimento, sull’analisi e sulla valutazione e trae informazioni dall'osservazione o dal ragionamento, superando pregiudizi e preconcetti.

Come ebbe a dire William Graham Sumner diversi decenni fa, il pensiero critico è l'analisi e la valutazione di proposizioni di qualunque tipo, al fine di verificarne la corrispondenza alla realtà. Si tratta di un abito mentale, condizione prima dello sviluppo umano, che costituisce la nostra unica tutela contro l'illusione, l'inganno, la superstizione e la misconoscenza di noi stessi e del mondo a noi circostante.

Oggi, come allora, lo sviluppo di un pensiero autonomo e progettuale, capace di produrre consapevolezza di sé e degli altri e di relazionarsi correttamente con l’esterno secondo mutevoli contesti e situazioni, è l’unico antidoto alle tensioni e alle polemiche che dominano le cronache attuali.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA DI RIFERIMENTO

 

1) R. Trinchero, Educare ai processi e ai linguaggi dell’apprendimento, F. Angeli, 2017

2) Paola Di Natale, Esperienze di integrazione tra formazione e lavoro, Tecnodid, 2021

3) C. Argyris e D. Schon, Apprendimento organizzativo: teoria, metodo e pratiche, Guerrini, 1996

4) Sara Garofalo, Sbagliando non si impara, Il Saggiatore, 2021

5) Pensiero laterale. Che cosa è e come allenarlo?, www.incoaching.it 2018

6) A. Giuliodori, i 23 bias che ti incasinino la vita, www.efficacemente.com, 2020

7) Cosa intendeva Fauci realmente sulla carica virale fra vaccinati e non vaccinati con variante Delta www.bufale.net del 29/7/2021

8) D. Scarampi/A. Cartotto, A scuola di (auto)educazione on line Dall’analfabetismo funzionale a quello informatico in tempo di pandemia, www.treccani.it 2020

9) Definire operativamente la competenza: processi e strutture, www.rizzolieducation.it

10) Anderson/ L. W., Krathwohl, A taxonomy for learning, teaching and assessing,

 Addison Wesley Longman, 2001

11) G. Boda/F. Mosiello, Life Skill: il pensiero critico, Carocci, 2005

12) W.G. Sumner, A Study of the Sociological Importance of Usages, Manners, 1940

 

Immagine: A woman thinking

 

Crediti immagine: ÁWá, CC BY-SA 3.0 <http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/>, attraverso Wikimedia Commons

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Al centro dell’educazione

Anni addietro uno studente interrogò Margaret Mead – aneddoto poco conosciuto ancorché significativo – sul significato più intimo di civiltà all’interno di una qualsiasi cultura. Inaspettatamente la celebre antropologa statunitense rispose che il primo segno di civiltà lo si poteva riconoscere in un femore rotto e poi guarito: poiché è la prova che qualcuno si è preso cura di qualcun altro, mentre nel mondo animale l’accidente prelude sempre alla rovina e alla morte.

Ecco dove inizia una società civile: là dove coloro che ne fanno parte interagiscono e collaborano, allo scopo d’esser di reciproco aiuto nelle difficoltà.

 

I settant’anni del Movimento di Cooperazione Educativa

 

Una reciprocità e un mutuo soccorso che si possono facilmente individuare nella filosofia del Movimento di Cooperazione Educativa o MCE, nato nel 1951 (e quindi giunto al suo settantesimo compleanno) su impulso della pedagogia sociale di Elise e Célestin Freinet ed oggi soggetto formatore qualificato ed Ente di ricerca nazionale e internazionale; oltretutto, essendo oramai alle porte il centenario della nascita di Mario Lodi – che del MCE fu membro autorevole e anima operativa – ed essendo la cosiddetta povertà educativa (ovverosia l'impossibilità per intere fasce di popolazione d’apprendere e sviluppare capacità, talenti o aspirazioni) uno dei mali maggiori della nostra società provata dall’epidemia, l’azione associativa del Movimento assume oggi un significato assai particolare.

 

Pedagogia dell’emancipazione

 

Il MCE, infatti, nato per costruire processi educativi e sociali utili a rafforzare una società libera e aperta al cambiamento, garanzia d’uguaglianza e partecipazione democratica, propone una precisa pedagogia dell’emancipazione, fondata su una base educativa partecipativa e pluralista, prodromica alla didattica della ricerca e al metodo naturale d’apprendimento.

Del resto il mestiere dell’educare (e dell’insegnare) è giocoforza un processo dinamico, che per esser efficace deve intervenire in modo consapevole nella realtà dei discenti, allo scopo di tutelarne i diritti sociali nella selva delle difficoltà quotidiane; in questo contesto la relazione educativa e la didattica attiva, laboratoriale e cooperativa sono leve irrinunciabili per la costruzione di una comunità d’apprendimento.

I fondatori del Movimento cooperativo, infatti, sulla scia della stagione pedagogica che ha teorizzato l’approccio costruttivistico ai saperi (non solo per mezzo degli studi di Freinet, ma anche di Piaget o Brunner), si sono sempre battuti per riaffermare i diritti sociali e lavorativi delle persone e, soprattutto, per imporre l’idea di una scuola “child centered” e costituzionalmente solidale, capace di preparare a una piena autonomia di movimento nella società.

In altre parole il MCE, guidato da personalità di spicco quali Alberto Manzi, Bruno Ciari e Mario Lodi, si è chiesto sin dal suo debutto che cosa la scuola dovesse fare in concreto per esser davvero inclusiva e votata all’emancipazione di bambini e ragazzi, per renderli futuri cittadini attivi e consapevoli.

 

De Mauro e la costitutività del fare

 

Interrogativo cruciale con una pluralità di risposte, anche piuttosto diverse l’una dall’altra; tuttavia lo si può soddisfare attraverso due strade maestre, entrambe segnate illo tempore da Tullio De Mauro, che in questi giorni avrebbe contato ottantanove primavere: più pragmatismo e meno concettosità (o ripetitivo verbalismo) nella didattica e maggior impegno dei docenti nello stimolare una coscienza critica agli studenti, utile a decodificare la realtà quotidiana.

La prima via verso una scuola più empirica e meno astratta De Mauro l’argomenta nella Cultura degli italiani (2010), edizioni Laterza; secondo il grande linguista il compito precipuo dell’istruzione scolastica è quello di preparare i discenti a operare corrette scelte di vita, mediante la conquista di linguaggi antichi e nuovi, tecniche operative e soprattutto saperi critici.

Per ottenere tutto ciò, e quindi per sviluppare capacità intellettuali complesse, gli studenti debbono costruire significati in contesti laboratoriali, onde allenare una sorta di “costitutività del fare” che, in luogo di una prolissità concettuale, punti a sviluppare la relazione con la materialità del mondo. Nei diari di Mario Lodi citati da De Mauro, ad esempio, si parla di “restituire le mani” ai “bambini senza mani”: come dire, lo sviluppo intellettuale non può che essere integrato da quello fisico e manuale, per cui all’astrazione e alla cognitività occorre sovente aggiungere la conoscenza empirica e situata, che bypassa la teoria e conduce al saper fare.

 

Una didattica della selezione e della qualità

 

La seconda via (che De Mauro tratteggia in Minima scholaria), nei nostri tempi pandemici e infodemici ancor più urgente, coinvolge direttamente la responsabilità degli insegnanti, poiché è indispensabile che la scuola funga da bussola nell’oceano informativo che ci avvolge e veicoli solo ciò che è veramente necessario. Permettere alla società dell’informazione di dilatare in modo smisurato l’accesso ai saperi significa vincolare lo studente alla superficialità, rendendolo incapace di proporre un approfondimento critico; per arginare la dilatazione informativa indotta dalla miriade di stimoli esterni, De Mauro suggerisce una didattica della qualità, che selezioni le informazioni e agisca in profondità, fornendo così gli strumenti adeguati per destreggiarsi consapevolmente all’interno di flussi informativi incontrollati.   

Questa senza dubbio rappresenta una sfida decisiva, perché un approccio didattico collaborativo, laboratoriale ed esperienziale ha un riverbero diretto sulla formazione della personalità dello studente e, di conseguenza, sulla sua attitudine ad affrontare in modo efficace le difficoltà.

 

Empiria ed esperienza

 

Non è un caso che Célestin Freinet abbia poggiato la sua pedagogia sull’esigenza di educare i ragazzi tramite un percorso spontaneo, a “tentoni” (in francese tâtonnement), che presupponeva un apprendimento realizzato con l’esperienza e il confronto, in cui quando si cadeva nell’errore si cercava di emendarlo con l’aiuto reciproco; il docente quindi non era che un orientatore, una sorta di facilitatore pronto a stimolare una continua revisione collettiva degli errori (B. Dematteis, 2017).

Il discente non può che essere un soggetto attivo nell’apprendimento, pertanto l’insegnamento deve collegarsi alla vita, alla quotidianità.

Del resto – la pratica didattica di Mario Lodi lo dimostra con chiarezza – il bambino raccoglie i dati della realtà, poi con la mente riflette, confronta, seleziona, decodifica e infine rielabora, ricava ipotesi; e questo continuo lavorìo fa sì che molte sensazioni vengano immagazzinate nella memoria, che le conserva per tutta la vita.

Ecco perché a un insegnamento fondato sulla memorizzazione o sulla ripetizione di formule sarebbe opportuno anteporre un metodo empirico, basato su quelle che Galileo Galilei definiva le sensate esperienze e sulle conseguenti riflessioni, frutto dell’interazione tra studente e docente.

Quest’impostazione metodologica dovrebbe valere sempre, ben oltre il primo approccio scolastico del bambino, ma anche negli anni a venire; poiché una scuola veramente proiettata nel futuro è quella fatta da chi sa sostituire il ripetere con una ricerca sempre nuova.

 

 

Bibliografia e sitografia di riferimento

Tullio De Mauro ricorda Mario Lodi: “addio al maestro che giocava”, in www.repubblica.it, 2014

www.mce-fimem.it

Memorie Magistrali: il Movimento di Cooperazione Educativa, in www.indire.it

T. De Mauro, La cultura degli italiani, Laterza, 2010

T. De Mauro, Minima scholaria, Laterza, 2001

T. De Mauro, Il linguaggio tra natura e storia, Mondadori Universitaria, 2008

31 marzo 2021: parole di Tullio, parole per Tullio, in www.giscel.it

C. Barone, La povertà educativa: definizione, misurazione e un metodo per contrastarla, su www.confinionline.it . 2017

B. Dematteis, Freinet: metodo, pedagogia e libri, in www.studenti.it

 

Immagine: La Impremta Freinet a l'escola. Escuela Experimental Freinet, San Andrés Tuxtla, Veracruz México, 2013

 

Crediti immagine: Sergi Bernal, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, attraverso Wikimedia Commons

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Il social reading in classe: le possibili nuove vite di Barbiana oggi

 

Per ogni parola che non capirete oggi ci sarà

una pedata nel culo domani.

(Don Lorenzo Milani)

 

In accordo con la teoria della relatività ristretta, proposta da Albert Einstein nel celebre articolo Zur Elektrodynamik bewegter Körper del giugno 1905, viene demolito il concetto di spazio e tempo assoluti e separati l’un l’altro e prende corpo la suggestione dello spaziotempo, all’interno del quale per ogni evento le coordinate spaziali e temporali sono connesse tra loro in funzione dello spostamento relativo dell’osservatore: ne consegue che lo spazio si contrae e il tempo si dilata.

 

Uno sguardo alle dinamiche dei social network

 

Esperienza dilatata e amplificata proprio come quella che si produce nell’odierno social reading, pratica di letto-scrittura condivisa tra studenti e docenti, all’interno di un ecosistema educativo digitale protetto e tecnologicamente strutturato (A. Fundarò, 2021); oltre gli spazi angusti di classi e aule e i tempi prestabiliti della didattica tradizionale, il social reading costituisce una notevole opportunità: la via maestra verso nuovi orizzonti d’insegnamento informali ed efficaci, in cui i discenti si sentano liberi di misurarsi e di scambiarsi pareri o esperienze per mezzo della lettura e della scrittura partecipate, che molto ammiccano alle dinamiche ormai diffuse dei social network.

Del resto oggi – e lo sperimentiamo di continuo – i metodi comunicativi e i contenuti che vengono comunicati sono cambiati e tendono a mutare con una velocità in passato sconosciuta: la comunicazione veloce, ovverosia il parlar spedito (per dirla con Elena Pistolesi, 2013) è leggera, immediata e multitasking; così lo scambio di informazioni e di conoscenze rimbalza, si propaga e s’estende in varie direzioni, simultaneamente.

 

Don Milani e la scrittura collettiva

 

Tuttavia, prima di capire la struttura e il funzionamento del social reading occorre inevitabilmente fare un passo indietro, per incontrare quella scrittura collettiva che è eredità culturale della scuola di Barbiana e del suo priore don Lorenzo Milani.

Semplice e naturale nel proprio sviluppo, la scrittura collettiva è artefice del processo di costruzione del pensiero individuale e collettivo: l’insegnante-regista e i discenti-attori diventano così protagonisti di un processo d’apprendimento e di condivisione dei saperi (E. Martinelli, 2019); nel leggere e nello scrivere insieme si cerca una parola, ovvero un concetto, e – mentre si discute – emergono nuove parole e nuovi nessi, finché si giunge a uno o più significati condivisi. La scrittura si fa veicolo di ricerca e sintesi, attraverso un processo educativo improntato sulla sperimentazione: il discente compie dunque un percorso critico e riflessivo nel quale poter confrontare idee e punti di vista. In questa prospettiva valoriale, discutendo e approfondendo, si amplia assai l’orizzonte dell’apprendimento e il tempo scuola si fa tempo retroattivo alla motivazione, che completa e semplifica, in modo da esprimere quello che ancora non si è detto e cercare ciò che ancora non si è trovato (C.Lodi/F. Tonucci, 2018).

 

La tecnica umile

 

Don Milani di fatto plasma un nuovo approccio didattico, utilizzando i mezzi umili ed essenziali del contesto socio-culturale in cui opera; infatti, ritenuta da molti non solo una tecnica per imparare a scrivere ma un profondo esercizio mentale, la scrittura collettiva si prefigge di giungere alla stesura di un testo compiuto partendo solo da idee di base, ancorché parziali e confuse, che sappiano stimolare il pensiero critico e consapevole dei discenti attraverso la discussione e l’approfondimento.

Ad ogni modo ciò che contraddistingue la pedagogia di don Milani è la capacità di stimolare la metacognizione e, dunque, l’auto-correzione: il docente è un facilitatore che favorisce la discussione e lo scambio, innescando negli studenti una riflessione collettiva. L’arte dello scrivere, che il priore di Barbiana definisce tecnica umile, prevede anzitutto un esercizio semantico che svisceri bene il senso di ogni termine: lavorare con le parole è come lavorare in officina con gli attrezzi, la parola va pensata e ri-pensata, da una singola occorrenza ne nascono altre, così il linguaggio cresce e si arricchisce.

In questo modo la letto-scrittura diventa un atto “produttore di senso” e di discernimento, indispensabili per affrontare la vita di società. La scuola pertanto, nella quale s’impara a leggere e a scrivere, diventa una scuola d’arte che favorisce il risveglio delle coscienze (F. Ceseri) e si fa assai attenta agli umili, ovvero tutti coloro che non hanno avuto alcuna possibilità di apprendere, di ricevere cultura.

 

Dalla costruzione del testo alla lettura pubblica

 

Il metodo di don Lorenzo prevedeva otto fasi a partire dalla scelta del tema, che necessariamente doveva esser significativo, esser definito e avere un valore.

Dopodiché i partecipanti passavano alla raccolta delle idee (affermazioni, brevi episodi, opinioni), che venivano annotate su foglietti da leggere in modo autonomo.

Quindi i foglietti, letti uno ad uno, venivano raggruppati in capitoli e paragrafi d’argomento affine e, successivamente, le idee grezze andavano a formare un testo armonico, attraverso un riordino logico, l’eliminazione delle ripetizioni inutili oppure l’aggiunta di congiunzioni o connettivi testuali.

Nella quinta, sesta e settima fase, invece, veniva redatto un testo completo, coerente e coeso, destinato poi a esser revisionato e perfezionato. L’ultima fase, l’ottava, era determinante perché restituiva ai partecipanti il feedback decisivo: il testo definitivo veniva letto pubblicamente e sottoposto al vaglio di molte persone, che a loro volta erano pregate di segnalare ogni sensazione provata nel corso della lettura.

 

La presa di coscienza di sé e di ciò che si sta vivendo

 

Ora, la didattica di Barbiana rivive oggi attraverso il social reading, approccio didattico in linea con le esigenze di una scuola che necessita di metodologie nuove e di strumenti adeguati, resi ancor più urgenti dalla situazione emergenziale.

I progetti di letto-scrittura, strategici e trasversali, coinvolgono una o più discipline e sono pensati in modo da costruire conoscenze peculiari e, parallelamente, innescare dinamiche di contaminazione tra discipline e utenti (A. Fundarò).

I testi utilizzati, accessibili da smartphone mediante specifica app, possono esser di diversi tipi, dal testo narrativo-descrittivo a quello espositivo, tenendo conto anche di quelli argomentativi e regolativi; la lettura, invece, è strutturata su due livelli: uno tradizionale/“verticale”, pressoché individuale, e uno digitale/“orizzontale” nel quale l’interazione tra i lettori si fa condivisa e collaborativa; in questo modo il libro diventa terreno di scambio e di dialogo, fucina di idee e di arricchimenti, indispensabili a corroborare le cosiddette soft skill o competenze trasversali, tra cui il pensiero critico, l’intelligenza emotiva e la cittadinanza attiva e consapevole.

Gli obiettivi, tanto allora sulla scia di don Milani quanto oggi nel contesto mutevole di una scuola chiamata a ripensare sé stessa, sono l’inclusione e la cooperazione, ma soprattutto la relazione, il confronto e la presa di coscienza di ciò che si è e di ciò che si sta vivendo, in un’epoca di limitazioni pandemiche (didattiche, sociali, relazionali) che lasceranno uno strascico prolungato.

 

 

Bibliografia e sitografia di riferimento

A. Einstein, Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, Annus Mirabilis Papers, 1905.

A. Fundarò, Il social reading entra in classe, www.orizzontescuola.it, 2021.

F. Ceseri, Scrittura collettiva: pratica educativa e rivoluzionaria, www.uidu.org, 2018.

E. Martinelli, Lo sviluppo del pensiero critico attraverso la scrittura collettiva: l’eredità della scuola di Barbiana, corso presso l’IC “Lanfranchi” di Sorisole, febbraio-marzo 2019.

C. Lodi - F. Tonucci (a cura di), L’arte dello scrivere: incontro tra Mario Lodi e don Lorenzo Milani, Edizioni Casa delle Arti e del Gioco, 2017.

E. Pistolesi, Il parlar spedito, Esedra, 2013.

 

Immagine: Don Milani in aula con i suoi allievi

 

Crediti immagine: Unknown photographer, Public domain, via Wikimedia Commons

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Le persone intorno alle parole

 

«Le parole non muoiono allorché vengono pronunciate – scrisse un tempo Victor Hugo – ma possono vivere molto a lungo, perché tanto hanno da raccontare».

Del resto ogni lingua elabora diacronicamente le proprie strategie per descrivere la realtà con dovizia di particolari e le parole spesso interpretano o svelano il mondo in cui viviamo, influendo sui nostri schemi mentali (G. Antonelli, 2020).

Le parole infatti, nell’incessante andirivieni comunicativo che caratterizza i nostri giorni, agiscono direttamente sui comportamenti delle persone e li influenzano, a volte in modo decisivo o peculiare.

Attraverso le parole è possibile capire più a fondo la realtà che ci circonda, pertanto esse sono l’architrave delle relazioni sociali che abbiamo e delle interazioni di cui abbiamo bisogno per crescere: dànno forma al pensiero, trasmettono significati, aiutano a cooperare; grazie al loro enorme potere etico mettono in risalto i comportamenti umani e non sono mai neutre o inermi, piuttosto generano il dialogo e incentivano il confronto tra le persone.

 

Lessico povero, pensiero critico inadeguato

 

Quindi, se le parole possono racchiudere il nostro modo di vedere le cose o di comportarci, allora diventano fondamentali nel percorso di crescita di ciascun individuo: consentono di comunicare i sentimenti e, al contempo, di comprendere le ragioni degli altri, poiché creano relazioni autentiche e intrise di significati, capaci di lasciare tracce profonde che plasmano il vissuto personale, giustapponendo le nostre esperienze passate con quelle presenti e con quelle – possibili – future.

Di contro, l’impoverimento lessicale – qualitativo, ma anche quantitativo – significa giocoforza meno occasioni per esprimere le emozioni, meno opportunità di imbastire ragionamenti adeguati e, soprattutto (lo notava Christophe Clavé in un fortunato articolo del 2019), meno predisposizione ad un pensiero critico adeguato ai diversi contesti comunicativi.

 

Isolamento straniante

 

Ora, per contrastare gli effetti della pandemia in corso, che tende irrimediabilmente ad allontanare le persone, a frammentare le interazioni e a ostacolare i contatti, le parole dovrebbero costituire un ponte, un collante o se non altro un mezzo con cui colmare l’effetto straniante dell’isolamento. Soprattutto attraverso la scuola. La scuola infatti comunica, educa e istruisce più con le parole (e con il linguaggio non verbale e paraverbale) che mediante le discipline di studio: a scuola la parola insegna, coinvolge emotivamente, esorta e orienta, con una forza propulsiva unica sui discenti (V. Venuti, 2020).

 

La formazione socio-affettiva

 

Durante i vari lockdown (passati e presenti), dominati dalla didattica a distanza (ora DDI, didattica digitale integrata), la potenza della parola si è affievolita e il linguaggio ha perso in molte circostanze la sua indispensabile centralità, soprattutto se riferita alla relazione educativa nel rapporto sinergico tra docente e discente. La parola – come rammenta V. Venuti – è un enorme contenitore che ingloba tanto la cultura quanto le emozioni, è parte integrante del processo di crescita del bambino (poi adolescente e infine adulto) e non può prescindere dalla relazione; la consapevolezza linguistica d'altronde favorisce la formazione cognitiva, incentiva la flessibilità mentale nonché la capacità di analisi e d’astrazione, ma, soprattutto, facilita la formazione socio-affettiva, che si concretizza nella capacità di rapportarsi agli altri. A sua volta, la relazione irrobustisce la sfera emotiva dei discenti e le emozioni influiscono in modo decisivo nel processo d’apprendimento, perché agiscono come guida nella capacità decisionale degli individui e nella formulazione di idee e punti di vista.

Ne consegue che i contatti o le interazioni giocano attraverso le emozioni un ruolo fondamentale nella didattica e incentivano l’apprendimento significativo, ossia quello che trasforma le conoscenze in competenze, integrando nuove informazioni a quelle che già si posseggono.

L’apprendimento significativo a sua volta è sempre un “apprendimento sociale”, dal momento che l’esperienza del singolo – se comparata a quelle degli altri – diventa un processo all’interno del quale l’intero gruppo impara: l’apprendimento, insomma, avviene sempre in società (A. Bandura, 2000). Non si può imparare prescindendo dal processo d’interazione con altri, che genera il dialogo costruttivo.

 

Il linguaggio si fa precettore

 

Pertanto, al di là dei pregi e dei difetti della didattica a distanza – nel confronto spesso polemico con quella in presenza – e a prescindere dall’annosa diatriba sulla necessità che l’una debba prevalere sull’altra per il bene degli studenti, l’importanza della scuola vissuta attraverso l’interazione sta proprio nella possibilità che ha la parola di disseminare il suo potentissimo effetto.

Ecco l’essenza del sostrato etico e sociale delle parole, che solo la scuola in presenza garantisce, ovverosia l’interdipendenza di scopo; essa si crea quando gli studenti comprendono di condividere degli obiettivi comuni e si confrontano per raggiungere un fine, finendo per creare una “comunità d’apprendimento”, coesa e affiatata, simile a quella che Etienne Wenger definiva comunità di pratica, formata da gruppi di persone dagli interessi comuni.

Solo così, come detto sopra, il linguaggio si fa precettore: istruisce, educa e contribuisce a creare una coscienza critica e pensante, che aiuta a prendere consapevolezza di sé e degli altri.

 

Bibliografia e sitografia di riferimento

G. Antonelli, Il mondo visto dalle parole, Solferino, 2020

V. Venuti, Dalla parola alla cura del linguaggio e al linguaggio della cura, in “Dirigere la scuola” (novembre 2020), Euroedizioni.

C. Spadaro, Le conseguenze delle parole, www.altreconomia.it del 20/2/2019

A. Polselli, L’influenza delle parole, www.news-24.it del 9/10/2020

G. Vecchiato, Relazione e cominicazione? Il potere delle parole, www.ferpi.it del 5/2/2016

M. Caratù, Il reciprocal teaching: da alunno a docente, nei lavori d’apprendimento reciproco, www.orizzontescuola.it del 22/11/2020

Christophe Clavé, Baisse diu QI, appauvrissement du language et ruine de la pensée,www.agefi.com del 17/11/2019

L. Vygotsky, Pensiero e linguaggio, Laterza, 1990

A. Bandura, Autoefficacia: teoria e applicazioni, Erikson, 2000

I. Lagreca, Il ruolo delle emozioni nell’apprendimento, www.edscuola.eu del 1/5/2017

 

Immagine: National representatives from Family Place Libraries visit KPL to celebrate the library's official designation as a Family Place Library

 

Crediti immagine: Kalamazoo Public Library, No restrictions, attraverso Wikimedia Commons

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A scuola di (auto)educazione on line

 

Nel film di fantascienza Bis as Ende der Welt (“Fino alla fine del mondo”, 1991), una delle opere più visionarie di Wim Wenders, vengono arguite alcune previsioni (a tratti distopiche) circa le future tecnologie della comunicazione, oggi capillarmente diffuse in ogni settore, tanto pubblico quanto privato.

Nell’intuizione cinematografica del cineasta di Düsseldorf, infatti, un piccolo apparecchio emula la funzionalità di un moderno smartphone – attraverso un micromonitor a colori e un GPS – e alcune potenzialità che suggerisce, come per esempio la videochiamata, segnano la via verso l’odierna comunicazione massiva multicanale, in grado di raggiungere simultaneamente persone diverse e molto distanti tra loro. Ma c’è di più: il film di Wenders, oltre a precorrere i tempi, allude chiaramente ai pericoli dell’impatto nefasto di una produzione continua e massificata di stimoli audio-visivi sulla psiche umana, tra i quali il cosiddetto effetto conversione, secondo cui i messaggi - soprattutto quelli veicolati dai Media - provocano un cambiamento d’opinione nel ricevente, spesso secondo le finalità dell’emittente. Sic stantibus rebus, la comunicazione massiva può portare a credere a messaggi futili e inopportuni, che influenzano negativamente la percezione della realtà attraverso modelli e concetti non privi di importanti riflessi nella vita quotidiana o nella personalità degli individui.

 

Gli illetteralismi

 

Oltretutto, a prescindere dall’origine sociale o culturale di tale incapacità di comprensione di stimoli e messaggi, i dati OCSE P.I.S.A. 2018 e P.I.A.A.C. 2019 (che suffragano i precedenti del 2016 nonché quelli ISTAT del gennaio 2017) attestano che la decodifica dei messaggi – orali e scritti – è operazione complicata per almeno il 28% della popolazione italiana: molte persone, anche mediamente scolarizzate, finiscono per rapportarsi in modo stentato e approssimativo con testi, informazioni di varia natura o qualsiasi altra forma culturale e artistica.

Ma veniamo al focus del problema: se l’analfabeta strumentale (o primario) non ha mai imparato a leggere e a scrivere e l’analfabeta “di ritorno”, senza l’esercizio delle proprie competenze alfanumeriche, regredisce perdendo la capacità di formulare messaggi, oggi è l’analfabeta funzionale il più diffuso; costui infatti sa decifrare uno scritto o far di calcolo, ma è incapace di utilizzare in modo efficiente le proprie abilità di lettura e scrittura nelle comuni situazioni di vita quotidiana; di fronte a un evento complesso, infatti, non è capace di rielaborarlo se non in modo elementare o approssimativo, senza costruire analisi articolate e non andando oltre l’orizzonte talora ristretto delle proprie esperienze dirette.

In altre parole, l’analfabetismo funzionale (o illetteralismo) impedisce agli individui di elaborare correttamente le informazioni provenienti da un testo e, di conseguenza, non permette loro di fare le giuste deduzioni: l’analfabeta funzionale trova dunque difficoltà non solo nella lettura di testi in prosa (articoli, libri di narrativa), ma anche nella decodifica di semplici documenti (grafici, tabelle, report) o nell’esecuzione di ordinari problemi di calcolo (illetteratismo quantitativo).

 

L’incrocio con il mondo digitale

 

Ora, sempre più di frequente l’analfabetismo funzionale s’incrocia col mondo digitale, dato che quest’ultimo pervade il nostro quotidiano continuamente e lo ha fatto in modo ancor più massiccio a seguito del lockdown, effetto collaterale dell’emergenza sanitaria tuttora in corso.

Ci aspettavamo, forse, che l’evento pandemico migliorasse, equilibrasse o ricomponesse alcuni aspetti della nostra vorticosa quotidianità; abbiamo scoperto, invece, che tale processo orientato verso un apprezzabile progresso sociale e comunicativo è ancora lontano dal potersi definire compiuto.

Ci siamo comunque confrontati con un’indubbia evoluzione della comunicazione: in tempo di crisi, infatti, anche il registro comunicativo necessita di un’accurata scelta delle parole, del loro accostamento a stati d’animo e circostanze, della scelta degli strumenti più idonei a veicolarle. La risposta, in tal senso, è giunta dalle tecnologie digitali, quelle che, soprattutto nei contesti educativi, definiamo con l’abbreviazione T.I.C.1 (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione); e, alla prova dei fatti, abbiamo preso coscienza che le italiche competenze nell’uso consapevole degli strumenti digitali risultano essere difformi e lontane dalle aspettative. Il Covid-19 ha favorito l’accesso nel nostro ordinario registro linguistico di alcuni acronimi, primo tra tutti D.A.D. (Didattica a Distanza, di recente sostituito dal più aulico D.D.I, ovverosia Didattica Digitale Integrata) e ha consolidato l’utilizzo di anglicismi quali smart working (solo con un certo timore lo si definisce lavoro agile), ma una larga parte della cittadinanza e degli addetti ai lavori si è trovata a fare i conti con un grado di educazione all’uso del digitale assolutamente inadeguato.

In questo articolato contesto, sono balzati agli onori della cronaca il mondo del Lavoro e quello dell’Istruzione, e proprio nel contesto scolastico-educativo è stato scoperchiato un vero e proprio vaso di pandora2, contenente virtù (poche) e vizi (molti).

 

Quanti internauti a rischio

 

L’Istat, in una ricerca pubblicata al termine del 20193, segnalava l’aumento esponenziale dell’utilizzo di Internet da parte della popolazione italiana, ma evidenziava al contempo come il 41,6 % degli internauti – il variegato popolo della Rete – palesasse competenze digitali basse. Ecco come il Web, proprio per la sua natura democratica e partecipativa (anche in assenza di specifiche competenze), presta il fianco con facilità alla pubblicazione e diffusione di contenuti fallaci e ingannevoli da parte di utenti scaltri, in mala fede o – ancor peggio – inconsapevoli di quanto una certa superficialità nell’utilizzo del digitale possa risultare nociva: siamo dinanzi all’imperversare di notizie e fonti dalle quali occorre tenersi alla larga, le fake news.

 

Vedere che cosa c’è dentro (e dietro) il motore di ricerca

 

Ci siamo mai chiesti, davvero, come elabori i dati un motore di ricerca? Cosa accade quando effettuiamo una comune ricerca su Google, citando il motore di ricerca più blasonato eppure non unico attore del web? Ebbene, Google riceve da parte dell’utente parole chiave, termini neutri a cui un sistema informatico non può attribuire un giudizio di valore. Li digerisce in pochissimi secondi, cerca e sceglie all’interno dei suoi indici (costruiti ed arricchiti ogni giorno dal suo algoritmo) e restituisce all’utente quello che ritiene sia il risultato più pertinente. Pertanto viene seguito un algoritmo piuttosto che un processo logico, che invece dovrebbe sempre condurre l’utente nell’effettuare una ricerca. Il motore restituisce risultati classificati di fatto per popolarità e non per reale pertinenza: un insegnamento che occorrerebbe trasmettere quotidianamente e capillarmente, in ogni aula scolastica del nostro paese.

Come possiamo, dunque, fornire il nostro contributo individuale alla collettività – soprattutto in un tempo di crisi come quello in cui ci troviamo – orientando comunicazione e comportamenti al fine di bonificare la rete internet ed i processi di circolazione dell’informazione e del sapere, con ricadute importanti anche sul mondo del Lavoro e dell’Istruzione, oltre che sulla società nella sua interezza?

 

Duck Duck Go e QWant

 

Intanto leggiamo con cura e attenzione, ad ogni ricerca nel web: titolo, sottotitolo, denominazione esatta del link individuato ed eventualmente la breve descrizione del sito a cui stiamo per accedere. Poi, se desiderassimo una maggiore oggettività e un maggior equilibrio, impariamo a servirci anche di motori di ricerca indipendenti, che non profilino le nostre abitudini di consumo in rete quali Duck Duck Go4 o QWant5. Educhiamoci infine ad affiancare a programmi informatici proprietari (sviluppati e commercializzati da aziende, a pagamento, con licenza d’uso da parte dell’utente) il software libero: un insieme, cioè, di programmi informatici o applicazioni direttamente sul web, che rispondono de facto a criteri di inclusività, gratuità e qualità del prodotto finale. Basti pensare, tra gli altri, alla suite LibreOffice6, impiegabile nel contesto domestico, in un contesto professionale o in contesti scolastici di ogni ordine e grado.

 

 

Note al testo

1 https://www.treccani.it/enciclopedia/tic_%28Enciclopedia-della-Matematica%29/

2 https://www.vanillamagazine.it/il-vaso-di-pandora-il-mito-greco-dietro-una-delle-metafore-piu-famose/

3 https://www.istat.it/it/files//2019/12/Cittadini-e-ICT-2019.pdf

4 www.duckduckgo.com

5 www.qwant.com

6 Download gratuito della suite LibreOffice da it.libreoffice.org

 

 

Bibliografia/sitografia di riferimento

 

Analfabetismo funzionale: famiglia e scuola sono le possibili soluzioni, in “L’Orientamento”, in www.asnor.it

 

Elisa Murgese, Analfabeti funzionali, il dramma italiano, in www.espresso.repubblica.it, 7 marzo 2017

 

Beatrice Eleuteri, Analfabetismo funzionale: perché ci serve ancora saper leggere e scrivere?, in www.aibstudi.aib.it, V. 59, N. 1-2 (2019)

 

Luca Serafini, Che cos’è l’analfabetismo funzionale e perché riguarda la metà degli italiani, in www.tpi.it, 20 febbraio 2019

 

Daniele Scarampi e Andrea Cartotto, Il cittadino alfabetizzato e le bufale in Rete, in Treccani.it (Lingua italiana), Istituto della Enciclopedia Italiana, 23 settembre 2017

 

https://www.istat.it/it/files//2019/12/Cittadini-e-ICT-2019.pdf

 

www.duckduckgo.com

 

www.qwant.com

 

https://www.treccani.it/enciclopedia/tic_%28Enciclopedia-della-Matematica%29/

 

 

Immagine: Screenshot dal film Fino alla fine del mondo di Wim Wenders (1991)

 

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Siglario portatile della scuola abbreviata, firmato DS

 

Sigle_meme

La plurisecolare arte della concisione, la brevitas tanto cara ai latini, pare ormai essersi affermata capillarmente (Valerio Magrelli, 2013).

In molte delle nostre modalità espressive, che sostanziano la società della comunicazione nella quale viviamo, parliamo, scriviamo e digitiamo, la brevità e le cosiddette forme brevi rappresentano il primo requisito dell'efficacia comunicativa.

 

Venne il tempo dell’inizialismo

 

Slogan, frasi caustiche, abbreviazioni e, soprattutto, sigle e conseguenti acronimi: distillati di parole, insomma, ponderati allo scopo d’agire direttamente sul nostro inconscio; nella notte dei tempi ci furono “INRI” e “SPQR”, ora ci sono “CEO” e “FIOM”, ma l’intento non è mutato granché: nel labirinto inestricabile delle sigle, la brevità e la rapidità sono condicio sine qua non per non perdere tempo e tenere alta l'attenzione, affinché nessuno si distragga, ma anche per ottimizzare lo spazio o per velocizzare la scrittura, esprimendo concetti in modo rapido ed economico.

Come notava Enrico Franceschini («La Repubblica», 2010) già un decennio addietro, parliamo e scriviamo sempre di più per sigle e acronimi (oggi il fenomeno è irreversibile): cioè utilizziamo quelle piccole parole, solitamente composte da tre o quattro lettere e scritte in caratteri maiuscoli, formate con le lettere o le sillabe iniziali di determinate frasi, periodi o definizioni. La sigla è, infatti, una nuova parola composta da una o più iniziali di altre parole che, insieme, formano una denominazione o una frase; l’acronimo (dal gr. ákron «estremità» + ónοma «nome») è invece il vocabolo che risulta dalla pronuncia di una sigla (Patota, citato in Demartini, 2011). Un peculiare tipo di sigla, ad esempio, è l’acrostico, parola composta dalle iniziali delle singole parole che la compongono (ALFA, Anonima Lombarda Fabbrica Automobili); ma va altresì considerato un ulteriore e curioso tipo d’acronimo, che nasce dal cosiddetto “inizialismo”, ovvero l’abitudine – più che consolidata – di esprimere concetti utilizzando unicamente le iniziali, per economizzare sulle parole o addirittura sulle lettere: nella vasta letteratura legata al fenomeno, si va dal celeberrimo LOL (ovvero Laugh out Loud, fatti una risata) sino al cervellotico Cul8r, che in inglese va letto “See you later”, ci vediamo più tardi.

 

Sovrapposizioni, sostituzioni, ambiguità

 

Ora, acronimi e acrostici hanno ormai da tempo invaso l'economia e la finanza (ICI, IMU, BCE, CUD), così come il sindacalismo (CGIL, CISL), le forze armate (EI), i servizi di sicurezza (SISDE, CIA), il mondo accademico (ANVUR), lo sport (CT), i media (TV), la politica (PD, IV, UDC), la normativa (DPCM, DL) o lo spettacolo (SIAE), tanto per citare d’emblée gli esempi più conosciuti.

Tuttavia all’interno della Pubblica Amministrazione (a proposito, PA) e – in particolare – del mondo della scuola, la sigla e l’acronimo trovano ormai da alcuni anni enorme spazio, tanto che la loro diffusione risulta oggi incontrastata. Abbreviazioni e sigle nascono continuamente, sovente in ottemperanza di normative e disposizioni governative o ministeriali, e s’affastellano nella vasta schiera delle sigle già in uso, talora sovrapponendosi (CM è la circolare ministeriale, ma è pure il codice meccanografico di ogni scuola), altrove facendo cadere in disuso la sigla utilizzata in precedenza (ad esempio quando ci riferisce al PEI non si richiama più il Progetto educativo d’Istituto – ormai rimpiazzato dal Piano triennale dell’Offerta Formativa – bensì il Piano educativo individualizzato, nell’àmbito della disabilità certificata) oppure creando un problema di disambiguazione, poiché fino a poco più di un anno fa parlando di PDF (Profilo Dinamico Funzionale, da poco sostituito dal Profilo di Funzionamento della persona) si poteva certo alludere anche al Portable Document Format.

 

Che cosa succede a distanza

 

Di recente, a séguito dell’emergenza epidemiologica ancora in atto, alcuni acronimi sono saliti alla ribalta, stimolando un enorme e sovente spinoso dibattito nazionale: primi tra tutti DAD (ovverosia Didattica a distanza, peraltro non totalmente sconosciuta all’universo scolastico e in qualche modo collegata, almeno ideologicamente, alla FAD, la Formazione a distanza) e il logico erede VAD (Valutazione a distanza), ma non sono i soli. In attuazione del Decreto Legge 22/2020 (e delle Ordinanze ad esso collegate), altri due temibili acronimi sono ora ben noti non solo agli addetti ai lavori, PAI e PIA, cioè il Piano d’apprendimento individualizzato e il Piano d’integrazione degli apprendimenti, due documenti obbligatori e relativi al recupero didattico e alla pianificazione operativa per il prossimo anno scolastico. L’ultimo acronimo nato (intorno alla seconda metà dello scorso mese di maggio), peraltro d’intenso impatto semantico, è LEAD, c’est-à-dire, Legami educativi a distanza, ossia veri e propri orientamenti pedagogici a distanza destinati ai bimbi del nido e della scuola dell’Infanzia.

 

Dalla A di ATA alla C di CTS

 

Comunque sia, a prescindere dalle novità appena descritte, il corpus degli acronimi scolastici è monumentale e stratificato e si è alimentato costantemente senza soluzione di continuità, lievitando quasi a dismisura. Senza la sterile pretesa d’esaustività, ecco un piccolo resoconto delle principali sigle utilizzate in àmbito scolastico, proposte in ordine alfabetico e non semantico: la scuola include il personale ATA (Amministrativo, Tecnico e Ausiliario), all’interno del quale c’è l’AA (Assistente Amministrativo) così come l’AT (Assistente Tecnico); ormai figura cardine di ogni scuola è l’AD (Animatore Digitale) e, a supporto della didattica, son di un certo rilievo le AE (Avanguardie Educative); a coordinare i progetti operativi nazionali c’è l’AdG (Autorità di Gestione), mentre il motore della tecnologicizzazione amministrativa è l’AGID (Agenzia per l’Italia Digitale); un importante ruolo di vigilanza lo ha l’ANAC (Autorità Nazionale AntiCorruzione) e, nella contrattazione, la PA non può prescindere dall’ARAN (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni); i docenti possono chiedere l’AP (Assegnazione Provvisoria) e, ugualmente, possono domandare l’APE (Anticipo Pensionistico); la didattica deve far fronte a molti BES (Bisogni Educativi Speciali), tra i quali si annoverano i DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento); ampio è il ventaglio delle sigle nella contrattualistica: CCNL (Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro), CCNI (Contratto Collettivo Nazionale Integrativo) o CCNQ (Contratto Collettivo Nazionale Quadro); il dirigente scolastico (pardon, DS, quale è chi ha scritto questo articolo) presiede il CdD (Collegio dei Docenti) ed è membro di diritto del CdI (Consiglio d’Istituto); per assegnare il bonus premiale è basilare l’apporto del CDV (Comitato di Valutazione), così come per gli aspiranti docenti è ormai d’obbligo acquisire i CFU (Crediti Formativi Universitari); nell’attività negoziale scolastica non si può prescindere dal CIG (Codice Identificativo di Gara) e neppure dalla CONSIP (Concessionaria Servizi Informativi Pubblici); sovente il Ministero dell’Istruzione (MI) chiede il parere del CSPI (Consiglio Superiore Pubblica Istruzione), mentre una nota metodologia didattica è il CLIL (Content and Language Integrated Learning); ormai diffusi sono i CPIA (Centri Provinciali Istruzione Adulti) e, sempre nell’ambito della disabilità certificata, grande visibilità hanno i CTS (Centri Territoriali di Supporto).

 

Dalla D di DOP alla I di ISCED

 

Quanto alla lettera d la faccenda si fa ancor più intricata: la scuola si deve far carico degli studenti con DOP (Disturbi Oppositivi della Personalità) o, più di frequente, con DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento); i lavoratori non possono, per ragioni di sicurezza, prescindere dai DPI (Dispositivi di Protezione Individuale); a vegliare sulla privacy ogni scuola ha un DPO (Data Protector Officer, ovverosia il RPD, Responsabile Protezione Dati); per mappare ogni situazione di pericolo occorre redigere un DVR (Documento di Valutazione dei Rischi) e, nel caso ci fossero dei lavori di ristrutturazione o di installazione in orario didattico, va predisposto un DUVRI (Documento Unico per la Valutazione dei Rischi da Interferenza), mentre nelle attività negoziali occorre richiedere un DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva).

Per superare la didattica trasmissiva sono utilissimi gli EAS (Episodi d’Apprendimento Situati), per conseguire la patente europea del computer va conseguita l’ECDL (European Computer Driving Licence), nella formazione degli adulti è stata attivata l’EPALE (Electronic Platform for Adult Learning); c’è un sistema che permette di confrontare le qualifiche professionali dei cittadini europei, ossia l’EQF (European Qualifications Framework), così come alcuni licei offrono l’opportunità di conseguire un doppio diploma, italo-francese, l’ESABAC (acronimo che nasce dal tamponamento tra Esame di Stato e Baccalauréat).

I fondi strutturali europei più utilizzati sono il FSE (Fondo Sociale Europeo) e il FESR (Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale), però le scuole poggiano ancora saldamente sul Fis (Fondo d’Istituto), ormai confluito nel MOF (fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa) e lo stipendio dei dirigenti scolastici conta sul FUN (Fondo Unico Nazionale); l’accesso civico generalizzato ai documenti amministrativi è garantito dal FOIA (Freedom of Information Act), mentre croce e delizia per i docenti sono le GAE (Graduatorie a Esaurimento), le GM (Graduatorie di Merito) e le GMRE (Graduatorie di Merito Regionali a Esaurimento); tra le piattaforme interattive per la didattica ormai va per la maggiore la GSFE (Google Suite For Education), il nuovo codice privacy è il GDPR (General Data Protector Officer), nell’àmbito dei gruppi per l’inclusione scolastica ci sono il GLI (Gruppo di lavoro per l’Inclusione), il GLHO (Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione), il GIT (Gruppo per l’Inclusione Territoriale) e il GLIR (Gruppo Lavoro Inclusione Regionale); e ancora: la classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute è disposta dall’ICF (International Classification of Functioning), che, di fatto, ha soppiantato l’ICDH (International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps); gli ITP (Istituti Tecnici Superiori) hanno preso il posto degli IFTS (Istruzione e Formazione Tecnica Superiore) e, al pari dei percorsi didattici offerti dagli IP (Istituti Professionali), ci sono quelli legati agli IeFP (Istruzione e formazione professionale); noti a tutti sono l’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo d’Istruzione e Formazione) e l’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione e Ricerca Educativa), meno conosciuti invece sono gli acronimi ITP (Insegnanti Tecnico-Pratici) e ISCED (International Standard Classification of Education).

 

Dalla L di LIM alla S di STEM

 

Anche chi è digiuno di scuola ormai conosce la LIM (Lavagna Interattiva Multimediale), mentre sovente gli aspiranti docenti ricorrono alla MAD (Messa a Disposizione); gli insegnanti italiani all’estero dipendono dal MAECI (Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale), così come nell’attività negoziale le Pubbliche Amministrazioni sovente ricorrono al MEPA (Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione); utile per districarsi nei PON (Programmi Operativi Nazionali) è il MOG (Manuale Operativo di Gestione), invece il NEV (Nucleo Esterno di Valutazione) è una delle principali componenti del SNV (Sistema Nazionale di Valutazione) e il NIV (Nucleo Interno di Valutazione) dà spesso un grosso aiuto al dirigente nella pianificazione del miglioramento del sistema scuola.

Ma non è finita: per gli studenti con disabilità certificata si redige un PEI (Piano Educativo Individualizzato), per quelli con disturbi specifici o non specifici dell’apprendimento s’appronta invece un PDP (Piano Didattico Personalizzato); il PdM (Piano di Miglioramento) scolastico segue sempre il RAV (Rapporto di Autovalutazione); la scuola si uniforma sempre al PNF (Piano Nazionale di Formazione), ma deve altresì tener conto del PNA (Piano Nazionale Anticorruzione) o del PNPV (Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale); se il PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa) è l’evoluzione del POF (Piano dell’Offerta Formativa), il PSC è il Piano di Sicurezza e Coordinamento, mentre il PTCP è il Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione; un tempo c’era l’ASL (Alternanza scuola-lavoro), ora ci sono i PTCO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento); la sicurezza scolastica non potrebbe mai fare a meno del RSPP (Responsabile Servizio di Prevenzione e Protezione) e i lavoratori possono contare sul RLS (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza); il procedimento amministrativo abbisogna di un responsabile unico (RUP) e il baluardo sindacale per i docenti sono le RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie).

Si potrebbe continuare a lungo, ma basti ancora rammentare che il motore dell’azione amministrativa della scuola è il portale SIDI (Sistema Informativo dell’Istruzione), che nelle procedure afferenti alle pubbliche gare d’appalto un ruolo importante ha certo il SIMOG (Sistema Informativo Monitoraggio Gare), che ogni docente ha la possibilità di opzionare una vasta gamma di corsi di formazione tramite la piattaforma SOFIA (Sistema Operativo per la Formazione e le Iniziative d’Aggiornamento dei docenti) oppure che un efficace paradigma educativo basato su applicazioni reali e autentiche passa per le discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Math).

 

Siglare per semplificare o per complicare?

 

Dunque un’ondata di sigle e d’acronimi, talora curiosi, che il mondo della scuola (e, più in generale della Pubblica Amministrazione) produce e poi stratifica: sigle nuove nascono continuamente, si giustappongono, a volte soppiantano quelle precedenti, altre si affiancano alle vecchie, altre ancora si scindono creando nuovi significati, nuove locuzioni, perfino nuove espressioni idiomatiche (magari circoscritte al mondo scolastico).

Come sottolineato in precedenza, lo scopo principale della sigla è indubbiamente quello di alleggerire il testo, ottimizzandone la comprensione e, parimenti, di fare economia sulla scrittura e conservare intatta l’attenzione del lettore.

Tuttavia in molte circostanze l’abuso delle sigle finisce per ottenere l’esito opposto, rendendo ancor più circoscritti ed esclusivi linguaggi già di per sé settoriali, con la conseguenza di limitare o precludere la comprensione ai non addetti ai lavori, a partire dai primi destinatari dell’attività e della vita scolastica: discenti e famiglie.

 

 

Bibliografia e sitografia di riferimento

 

Valerio Magrelli, Elogio alla brevitas, da «La repubblica» del 10 ottobre 2013

 

Enrico Franceschini, La lingua moderna si riduce alle iniziali, da «La repubblica» del 6 settembre 2010

 

Silvia Demartini, Sigle, in Treccani “Enciclopedia dell’Italiano”, 2011

 

http://www.snalsbrindisi.it/acronimi_scuola.htm

 

https://dimascuola.blogspot.com/2019/03/glossario-termini-scolastici-e-acronimi.html

 

https://www.comprensivocesari.edu.it/sito/downloadAllegatiSito.php?idFile=6228

 

Immagine: Die Dorfschule

 

Crediti immagine: Johann Peter Hasenclever / Public domain

 

 

 

 

 

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Si appalesa opportuno per la presente Pubblica Amministrazione favorire le operazioni comunicative

 

«Parlare oscuramente lo sa fare ognuno – profetava Galileo Galilei – ma chiaro, pochissimi», concludeva.

Astri a parte, aveva visto lontano il grande scienziato secentesco; e lo dimostra il fatto che, qualche secolo più tardi (diciamo all’inizio degli anni Duemila), un qualsiasi cartello comunale, posto all’inizio del percorso naturalistico delle Cinqueterre liguri, ammoniva così gli escursionisti: «Tenuto conto della ridotta sezione, in tali circostanze si appalesa opportuno accostarsi lato monte e favorire le operazioni di transitabilità». Negli anni (purtroppo) questa modalità comunicativa, tipica della cosiddetta antilingua burocratica, non solo non si è stemperata, semmai si è diffusa, soprattutto nella Pubblica Amministrazione. Ma cerchiamo di capirne i motivi e di ricercarne alcuni potenziali antidoti.

In un’epoca, la nostra, falcidiata dalla laconicità dei messaggini whatsapp, dalla stringatezza di sigle e acrostici, dall’essenzialità concettuale delle emoticon o dalla compendiosità degli anglicismi, le circonlocuzioni del burocratese suscitano quasi una simpatia spontanea; tuttavia la lingua «vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione» (Italo Calvino, 1965), pertanto il “terrore semantico” – che porta a scartare ogni vocabolo che abbia di per sé stesso un significato compiuto, quasi fosse sconveniente, e a utilizzare un termine più sofisticato – finisce per scardinare il legame profondo che intercorre tra la realtà e il linguaggio.

 

Il concepimento artefatto

 

Il linguaggio ha la funzione di esprimere e comunicare il mondo, per poi rivelarlo; ma c’è di più: il possesso delle parole (e il loro corretto utilizzo) è sinonimo di possesso delle coscienze e della realtà. Per esempio, se il nascituro diventa soltanto il “prodotto del concepimento”, risulterà arduo difendere i suoi diritti, poiché un “prodotto” diritti non ne ha. Oppure, ancor peggio, se al posto del termine “deportazione” si utilizza “emigrazione controllata” (lo fece Adolf Eichmann durante il celebre processo di Gerusalemme), diverrà impossibile giudicare i fatti con equidistanza. Sovente, è noto, sostituendo un termine con un altro, le parole s’allontanano dalla realtà o finiscono per occultarla in un «mondo linguistico astratto e artefatto» (Tommaso Scandoglio, 2016).

Le parole producono precisi effetti su chi le riceve. Lo spiegava perfettamente John Austin, a proposito dell’articolazione dell’atto linguistico (How to do things with words, 1962): quando si dice o si scrive qualcosa si compie ipso facto un’azione (atto illocutivo), ma – soprattutto – quando si dice o si scrive qualcosa si produce un effetto sui sentimenti e sulle azioni del destinatario (atto perlocutivo). Non a caso, il principio di cooperazione linguistica di Grice ci rammenta che il contributo informativo in una conversazione dev’essere sempre ponderato e mai oltre il necessario; in particolare, affinché il messaggio risulti utile o rilevante per acquisire conoscenze, occorre evitare ogni oscurità d’espressione e, giocoforza, ogni ambiguità.

 

Essere chiari al tempo della Pubblica Amministrazione

 

In tempi molto recenti, precisamente il 13 gennaio del 2020, l’Ufficio Scolastico Regionale per la Basilicata ha diramato una circolare esplicativa a proposito del linguaggio della Pubblica Amministrazione, con l’intento di fornire “Linee guida per la comunicazione con l’utenza e con gli interlocutori esterni”.

La circolare dell’USR, Ambito Territoriale di Potenza, richiama sia la Legge 150/2000 sia la Direttiva del Ministero della Funzione Pubblica del dicembre 2001, poi confluita nel documento “Sulla semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi”, edito dal medesimo dicastero l’8 maggio del 2002. Questi interventi normativi nascono dal presupposto che le Pubbliche Amministrazioni, al servizio del cittadino, hanno l’obbligo di comunicare con veridicità e trasparenza, parlando e scrivendo con chiarezza. Del resto, i numerosi atti amministrativi emanati dalla P.A., che producono effetti giuridici diretti sui destinatari, devono essere progettati pensando a chi li deve recepire: infatti, oltre legittimi ed efficaci dal punto di vista giuridico, devono esser comprensibili dal punto di vista comunicativo. Il dialogo con i cittadini, e in generale con tutti i portatori d’interesse interni ed esterni all’Amministrazione, richiede una particolare cura, nello stile e nella mentalità.

 

Cinque caratteristiche

 

Ora, le P.A. si esprimono in più modi, ma fondamentalmente mediante atti amministrativi oppure documenti informativi. In entrambi i casi, valgono alcune regole essenziali e preliminari. Anzitutto l’evidenza delle finalità e dei contenuti, perché chi scrive deve avere ben chiara la finalità del testo che propone, altrimenti non potrebbe risultare interpretabile da chi lo riceve. Quindi l’identificazione dei destinatari, perché un testo amministrativo non viene mai elaborato in astratto, piuttosto va architettato in relazione ai destinatari, siano essi addetti ai lavori (interni) o cittadini (esterni). Poi la concatenazione logica delle informazioni presenti nel testo (le informazioni generali prima di quelle particolari, i casi generali prima delle eccezioni, i fatti antecedenti prima di quelli successivi) e, di rimando, la correttezza e la semplicità della struttura giuridica delle informazioni presenti, ottenibile attraverso la completezza e la sinteticità dei messaggi elaborati. Tuttavia, di là da questi accorgimenti indispensabili, sta nella leggibilità e nella comprensibilità la chiave di volta per l’elaborazione di un testo amministrativo fruibile da tutti.

 

Leggibilità e comprensibilità

 

La leggibilità, sottolinea il Ministero della Funzione pubblica, si fonda sul lessico e sulla sintassi. Quanto al lessico, è opportuno utilizzare le parole del vocabolario di base (che il De Mauro tripartì in fondamentale, ad alto uso e ad alta disponibilità), limitare il ricorso alle sigle (che comunque vanno sempre scritte per intero, tranne quelle entrate ormai nell’uso comune come IVA o ISTAT), ridurre i termini tecnico-specialistici (è preferibile avanzare una “richiesta” piuttosto che “un’istanza” oppure fare un “pagamento” e non “un’oblazione”), evitare perifrasi ridondanti (perché un semplice “sfratto” dev’essere un “provvedimento esecutivo di rilascio”?), astenersi da inutili forestierismi (sarà forse meno efficace organizzare una “riunione” invece che un “meeting”?) o da arcaismi ormai desueti (“allo scopo” è di gran lunga più diretto di “all’uopo”). In merito alla sintassi, è necessario comporre frasi brevi formate da meno di 15 parole o, comunque, escludere quelle che eccedano le 40 parole; anteporre la coordinazione rispetto alla subordinazione (non è più semplice comunicare che “l’Amministrazione non accoglie la richiesta” invece di scrivere “l’Amministrazione valuta, sulla base delle leggi vigenti, che non ci sono condizioni per valutare la richiesta”?); ricorrere preferibilmente al modo indicativo o alla forma attiva dei verbi e limitare l’uso della costruzione impersonale (“Alleghiamo il programma del corso” al posto di “Si allega il programma del corso”).

La comprensibilità di un testo, invece, poggia su un impianto logico lineare e sull’assenza di continui riferimenti impliciti. A tal proposito, è bene impostare sempre una chiara sequenza di argomenti, sottolineare precisamente le informazioni principali rispetto a quelle secondarie e, magari, evidenziarle; privilegiare le evidenze generali rispetto alle singole eccezioni, non alludere a fatti o riferimenti che il testo non esplicita (e, di rimando, non citare concetti o nominativi poco noti ai più), utilizzare se necessario note esplicative di chiarimento.

 

Dalla parte del destinatario

 

Va poi tenuto conto del fatto che i principali tipi di testo che una P.A. produce, atti amministrativi e documenti informativi, devono osservare canoni ben precisi: l’atto, si diceva, produce un effetto giuridico, pertanto – oltre a essere leggibile – non può mancare dell’esplicitazione del soggetto che lo produce, dell’oggetto, della decisione assunta e, soprattutto, delle motivazioni, pena la violazione dei principi di legittimità; il documento informativo, di contro, sia quando è rivolto verso l’interno (ed è destinato a organizzare il funzionamento della struttura amministrativa) sia quando si traduce in comunicazione esterna, rivolta alla cittadinanza, richiede sempre efficacia comunicativa e chiarezza espositiva (preamboli essenziali, messaggi poco contorti, concetti ben formulati), nondimeno una grafica adeguata, perché essa è in grado di valorizzare il nucleo essenziale del messaggio, evidenziare le informazioni ineludibili e spiegare i riferimenti impliciti (attraverso, ad esempio, link, tabelle o glossari, note ipertestuali): il destinatario sarà così in grado di focalizzare il contenuto principale, per poi integrarlo con altri riferimenti o altre informazioni.

In conclusione, mutuando i suggerimenti di Michele Cortelazzo e Federica Pellegrino (“30 regole per scrivere testi amministrativi chiari”), è bene precisare che scrivere un testo (amministrativo nella fattispecie) è un’operazione di per sé complessa, che pone di volta in volta problemi differenti e può dar luogo a soluzioni diverse. Occorre pertanto scegliere quelle migliori o più adatte al caso specifico. Del resto, e nel caso della P.A. si tratta di un’evidenza lampante, una comunicazione corretta e trasparente è elemento indispensabile per garantire la qualità dell’azione amministrativa.

 

Biblio/sitografia essenziale

Italo Calvino, L’antilingua, 1965

G. Zoli, Il terrore semantico, in «Internazionale», 5 luglio 2012

G. Giunta, Una forbita lingua da pattumiera in 24ilmagazine.ilsole24ore.com del 18 gennaio 2017

L’appalesarsi dell’antilingua, in «La repubblica», 2 luglio 2004

T. Scandoglio, L’antilingua modifica il modo di pensare, in bastabugie.it, 7 dicembre 2016

F. Franceschini, Elementi di teoria della comunicazione, pragmatica, linguistica testuale, in Manuale di scrittura amministrativa, in www.unipa.it

Ufficio Scolastico Regionale per la Basilicata, Il linguaggio della pubblica amministrazione – Linee guida per la comunicazione con l’utenza e con gli interlocutori esterni, 13 gennaio 2020

La comunicazione pubblica: come scrivere testi efficaci, in www.orizzontescuola.it, 28 gennaio 2020

Dipartimento della Funzione Pubblica, Direttiva sulla semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi, 8 maggio 2002

Cortelazzo e F. Pellegrino, 30 regole per scrivere testi amministrativi chiari in www.maldura.unipd.it

 

Crediti immagine: Willem van de Poll [CC0]

 

 

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Lingua, nuovo sentimento antico. A proposito di Il sentimento della lingua. Conversazione di Luca Serianni con Giuseppe Antonelli

 

Es un sentimiento nuevo, cantava la voce di Franco Battiato, il padrone del più raffinato pop nostrano della prima metà degli anni Ottanta.

Ed era un sentimento passionale, un bellissimo incantesimo, simile a quel legame affettivo ed empatico che lega ogni parlante al proprio idioma: non a caso il “sentimento della lingua” diventa sovente un trait d’union tra la parlata dei singoli individui e l’insieme delle regole della lingua, intesa come prodotto culturale di una comunità storico-sociale. Un sentimento antico, che si rinnova continuamente (es nuevo) ad ogni interazione comunicativa, ad ogni espressione di emozioni, elaborazione di idee, racconto di sogni e di realtà.

La radicale socialità di ogni lingua è dato inconfutabile; come suggeriva Tullio De Mauro nella prefazione al celebre Cours de linguistique générale di Saussure, “l’uso che una società fa della propria lingua è la condizione per cui la lingua è viable, ossia capace di vita”.

La lingua pertanto è legata alla società che l’utilizza e, con essa, muta nel tempo, quale riflesso dei cambiamenti sociali. Ne consegue che la lingua, per ogni popolo, è una fucina di formazione dei singoli e della collettività, è un libro che racconta come ognuno di noi vede e vive la vita, è un sagace demiurgo che plasma la realtà: insomma, è la carta d’identità di tutti noi.

Ecco perché – e la bella intervista a Luca Serianni, professore emerito di Storia della lingua italiana, da cui è nato il testo che di séguito andremo a commentare, lo sottolinea a più riprese – padroneggiare una lingua e la sua storia significa esercitare un certo impegno civile, nel senso di rafforzare il senso d’appartenenza a una comunità.

La funzione civile di ogni lingua è indiscutibile: adoperare con coscienza la lingua ci porta a riflettere sui presupposti del nostro rapporto col mondo, che hanno la comunicazione come pietra d’angolo; comunicare è alla base dei rapporti sociali e può influire sull’interazione che ciascuno di noi crea con il prossimo: la lingua così si fa generatrice di coscienza civica, maestra di cittadinanza attiva e consapevole. E la scuola, mediante lo studio, dovrebbe incentivare la corretta comunicazione, proprio perché  – oggi più di ieri, se teniamo a mente le tante violenze verbali e scritte che tendono a saturare la mediasfera – le materie scolastiche andrebbero affrontate in relazione al loro potenziale formativo e pedagogico.

 

Il mentore e la sua scuola

 

È da poco in libreria, dunque, edito dal Mulino, Il sentimento della lingua; un saggio-intervista dal taglio agile e amichevole, nel quale Giuseppe Antonelli, ordinario di Storia della lingua italiana presso l’Ateneo di Pavia, conversa con uno dei suoi mentori, Luca Serianni, tra i più nobili e influenti linguisti d’Italia, guida per generazioni di allievi, maestro di una vera e propria “scuola” di accademici di rilievo, a partire da Giuseppe Patota, studioso e conferenziere di prim’ordine; Serianni, infatti, è stato per svariati decenni formatore di molte personalità di spicco non solo d’estrazione universitaria, ma anche giornalistica o letteraria e la sua celebre lezione di congedo dall’insegnamento, non a caso, si è rivelata un evento senza precedenti, per partecipazione e calore (link); ciò a suffragio del fatto che il magistero di Serianni, nel tempo, è andato ben oltre l’àmbito universitario: precettore tout court per i suoi numerosi allievi, esempio di civiltà, cittadinanza e senso dello Stato, “buon maestro” con atteggiamento sempre empatico e paterno (proprio come Quintiliano arguiva: sumat magister ante omnia parentis erga discipulos suos animum), il celebre linguista romano, allievo di Arrigo Castellani, viene percepito e considerato come un modello di civitas e urbanitas per studiosi, ricercatori, intellettuali.

 

Parole e significati

 

Frutto di alcune conversazioni private, Il Sentimento della lingua torna sulle direttrici principali dell’attività di Serianni, insigne grammatico e storico della lingua, tra le quali il rapporto tra norma e l’uso, l’italiano della poesia e del melodramma, l’insegnamento scolastico e universitario.

Intanto, un concetto chiave: la lingua trasmette, oltre alla grammatica, l’idea che dietro ad ogni parola c’è una storia di significati, una stratificazione semantica fatta di arricchimenti e mutazioni. Pertanto, accanto al rinnovato studio delle categorie grammaticali e della sintassi, il lessico e la semantica (più in generale la linguistica testuale) andrebbero praticati ed esperiti con maggior continuità, in tutte le scuole d’ogni ordine e grado.

La comprensione del testo, scritto e orale, la sua scansione in sequenze concettuali o l’analisi del lessico e dei principali connettivi sono operazioni attorno alle quali andrebbe pianificata la didattica della lingua italiana.

Del resto, utilizzare correttamente un idioma non è un’operazione astratta; al contrario, bisognerebbe sempre far capire che una lingua storico-naturale va ponderata nello spessore dei suoi usi, multiformi e cangianti, per nulla ancorati a un reticolato di regole rigide presuntivamente immodificabili. L’uso che i parlanti – prima ancora che gli scriventi – fanno della lingua poco s’attaglia alla regola, anzi, sovente la reinterpreta, la riformula, la trascende.

 

Riassumere e costruire testi

 

Luca Serianni, nel Sentimento della lingua, insiste su un secondo concetto chiave: è necessario educare i ragazzi a costruire un testo, a giocarci un po’ su: ecco perché abituarsi a riassumere è una pratica didattica di gran rilievo; il riassunto infatti, soprattutto quando è vincolato, verifica simultaneamente diverse competenze, anche diverse tra di loro: comprensione del testo, capacità di gerarchizzazione delle informazioni, capacità d’espressione nella forma adeguata.

Il linguaggio è una struttura profonda e l’italiano, oggi, mostra un dinamismo evolutivo molto marcato; segno di grande vitalità, perché finalmente le distanze tra scritto e parlato si sono accorciate e nessuno potrebbe più dubitare dell’importanza nodale della comunicazione orale. Ne consegue che, per far familiarizzare i discenti con i tanti usi dell’italiano, la scuola è chiamata a una sfida decisiva, che non può prescindere dal proporre testi reali su cui esercitarsi, non frutto di invenzioni arbitrarie o costruiti per l’occasione, bensì legati ai vissuti e alla quotidianità.

 

Tra le sue braccia

 

Per concludere, la densa e ricca conversazione tra Luca Serianni e Giuseppe Antonelli ci propone un terzo concetto chiave, che Serianni sviluppa in varie direzioni, suggerendo come potrebbe essere l’italiano di domani: una lingua sollevata dalla comunità dei parlanti oltre il registro colloquiale; arricchita nel lessico al di sopra del livello di garanzia costituito dalla dotazione fondamentale; a disposizione dei “nuovi italiani” e insieme proiettata verso l’estero, in una dinamica interno/esterno che ridefinisca la vocazione di grande lingua di cultura internazionale.

Una lingua così allarga gli orizzonti stringendo a sé chi la fa sua; viceversa, chi la adopera per costruire la propria identità individuale e sociale libera la lingua nel mondo. Parafrasando il grande poeta ermetico Mario Luzi, la lingua, organismo vivo, è dentro di noi e tutti siamo tra le sue braccia.

 

Bibliografia essenziale

Luca Serianni, Il sentimento della lingua, conversazione con Giuseppe Antonelli, Bologna, il Mulino, 2019.

 

Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, con introduzione, traduzione e commento di Tullio De Mauro, Bari, Laterza, 1983.

 

Mario Luzi, Pensieri casuali sulla lingua, Edizioni Accademia della Crusca, 2003.

 

 

Immagine: L'Italia in una mappa del 1853

 

Crediti immagine: http://maps.bpl.org [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]

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Il dio della velocità: a proposito del saggio Una lingua travolgente e incendiaria. Studi sul futurismo di Stefania Stefanelli

“Nostro Signore del sangue, che corre nel buio delle vene,
reggi il mio braccio sul volante, regola la forza dei miei piedi.
E fa che niente mi accada…”

 

Il piede che preme e dà gas, un’altra curva s’avvicina.

Quell’ebbrezza totale che solo il rischio regala e che finisce per proiettarti di là da ogni ostacolo, oltre il limite.

Perché la vita è una corsa che macina l’asfalto, una scommessa che fa fischiare le gomme e ruggire il motore e Giulia – giovane pilota del film Veloce come il vento – sa che per vincerla, guidando sempre al massimo, occorre affidarsi al dio della Velocità.

Difficile non scorgere in questa sequenza cinematografica di Matteo Rovere, regista pluripremiato per il Primo Re, i tratti distintivi del Futurismo, poliedrico movimento artistico e letterario del primo Novecento, capace di influenzare quasi tutte le avanguardie europee e di svilupparsi fino alle Americhe, grazie ad un abile sincretismo culturale nutrito di ogni forma d’espressione, dalla poesia al teatro, dalla musica all’architettura e alla danza, financo al cinema o persino alla gastronomia.

 

Un universo in espansione

 

Il Futurismo fu un universo in espansione, in grado di far «saltare la sistematicità del cosmo» (Piero Bigongiari, 1970); un infinito di stimoli e di simboli capace di librarsi oltre i limiti talvolta angusti della cultura dei suoi anni; fu altresì un movimento eccentrico, dinamico e propulsivo, una sintesi dinamica d’emotività immediata e di pura velocità, caratteristiche peraltro peculiari di ogni forma artistica, come ebbe a dire Umberto Boccioni.

Una vera e propria rivoluzione, quella futurista, capeggiata dall’estro visionario di Filippo Tommaso Marinetti, che l’iniziò attraverso due tappe successive: il Manifesto del Futurismo (1909), apparso su «Le Figaro», primo vademecum spirituale e concettuale del movimento, e il Manifesto tecnico della letteratura futurista, dato alle stampe tre anni più tardi; quest’ultimo proclama contiene uno degli snodi chiave proposto dai letterati e dagli artisti futuristi, ossia il sovvertimento totale delle regole linguistiche, fissato in due celebri slogan: “immaginazione senza fili” e “parole in libertà”.

Slogan utilizzati per frantumare le più comuni regole grammaticali e lessicali, così da improntare il linguaggio alle sensazioni visive e auditive dello scrittore, preoccupato unicamente di ostentare il proprio io e di farsi beffe degli schemi comunicativi precostituiti.

 

I nuovi orizzonti della scienza

 

Certo, questo sconvolgimento formale e concettuale va senz’altro contestualizzato: nelle prime due, tre decadi del '900 la percezione della realtà muta radicalmente, così la scienza e la tecnica (con le quali la produzione letteraria fa il paio) cercano un modo alternativo di osservare il mondo, la materia in esso custodita e lo spazio che gli sta d’intorno (la relatività einsteiniana e le teorie quantistiche di Max Planck ne sono illustri esempi); parimenti l’uomo inizia a guardare dentro di sé e a modificare, di rimando, anche lo sguardo fuori di sé: sono anni intrisi dell’esistenzialismo di Nietzsche e dell’introspezione freudiana, ma anche dell’esplorazione dell’ignoto tanto cara alla cultura simbolista o del concetto di cultura come espressione di libertà totale e assoluta, proposto dal dadaismo.

Ed è proprio in questo fermento intellettuale, ribollente e infuocato, che il Futurismo irrompe e fa breccia, coadiuvato dai miti nazionalisti e centripeti che si vanno diffondendo a macchia d’olio in tutta Europa.

Ora, tra le numerosissime pubblicazioni che si possono annoverare sull’ideologia futurista, e sulla portata delle novità che essa ha disseminato in vari campi del sapere, di particolare interesse sono gli studi di Stefania Stefanelli, attiva presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e assidua collaboratrice dell’Accademia della Crusca (utile ricordare, per lo meno, Manifesti futuristi. Arte e lessico, del 2001 e Primo Dizionario aereo futurista, del 2015).

 

Lingua o antilingua?

 

Di recente l’Editrice Clinamen di Firenze ha pubblicato Una lingua “travolgente e incendiaria” - Studi sul Futurismo (link), un saggio nel quale Stefanelli ripercorre le tappe salienti della Weltanschauung futurista, dal linguaggio alla politica, dal teatro alla cucina.

Di séguito le idee guida. Anzitutto, la lingua futurista, o meglio l’antilingua, caleidoscopica e inconsueta, capace di investire il panorama culturale coevo (sia quello storico sia quello artistico e letterario) attraverso una sorta di controcultura e di scagliarsi come un’onda anomala sulla società convenzionale ed erudita del primo '900.

Rivoluzione lessicale, ma anche testuale e comunicativa, perché il dinamismo dirompente delle cosiddette parole in libertà si beffa d’ogni regola grammaticale, morfo-sintattica o paragrafematica.

E la dimensione inconsueta della parola futurista, parola quasi demiurgica, configura nuove forme e nuove forze e si fa “materia”: ecco che, di rimando, nascono anche oniriche visioni pittoriche (come quelle di Boccioni o di Carrà), insolite linee scultoree e arditi arrangiamenti musicali.

La nuova prospettiva futurista, insomma, rompe con le logiche tradizionali e lo fa assumendo il paradosso e lo sberleffo quali vie maestre; ogni certezza del passato si vorrebbe sgretolata, ma c’è di più, perché il grimaldello ideologico della corrente fondata da Marinetti s’insinua nella cultura novecentesca e cerca di scassinarla, predicando un rinnovamento totale.

Un cambiamento che si riverbererebbe sull’intera società e in capo al quale c’è un uomo che fa di sé un personaggio, guerrafondaio, sfrontato e incosciente, spesso cultore dell’azzardo; amante delle luci del proscenio, della velocità – quale parametro estetico della modernità – e del volo, pronto a vivere una vita sempre in picchiata.

Dunque una battaglia, quella futurista, perennemente enfatica o declamatoria, conclude Stefanelli: non solamente in netta opposizione col contesto socio-culturale di quegli anni, ma basata su una sorta di dialogismo nel quale le prospettive della comunicazione antepongono e, in fondo, oppongono un “noi” preminente (ovvero i nuovi intellettuali futuristi) ad un “tu” usato come singolare collettivo in posizione subordinata (ossia tutti i destinatari del messaggio futurista); etica dell’uomo che sorvola ogni limite, tanto cara a Marinetti e ai suoi seguaci.

 

Bibliografia di riferimento

Stefania Stefanelli, Una lingua “travolgente e incendiaria”. Studi sul futurismo, Firenze, Clinamen, 2019.

Stefania Stefanelli, Manifesto tecnico della Letteratura Futurista di F.T. Marinetti (1912), in «La Crusca per voi», 2012.

Piero Bigongiari, Carrà, dal futurismo alla metafisica e al realismo mitico, Rizzoli, 1970.

Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del Futurismo, Parigi, «Le Figaro», 20 febbraio 1909.

Guglielmo Jannelli, Vocale-ambiente in libertà, in “La Balza futurista”, Messina, 10 aprile 1915.

 

Immagine: Dinamismo di un corpo umano, 1913

 

Crediti immagine: Umberto Boccioni [Public domain]

 

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A proposito di un dibattito sulla “lingua dell’odio”

 

In una celebre sequenza del film La vita è bella, vincitore di tre premi Oscar, lo sfortunato protagonista Guido Orefice (Roberto Benigni, anche regista) propone una gustosissima mistranslation, con la quale traduce al figlioletto Giosuè – e ai compagni di prigionia del lager – le urla del caporale nazista che stanno rigurgitando ordini e regolamenti di lavoro.

Si tratta di una sorta di metatraduzione subliminale che, di fatto, disinnesca la violenza verbale del soldato-carceriere, attraverso la metafora del “grande gioco collettivo” usata per spiegare l’orrore del campo di sterminio; cosicché l’arroganza degli adulti “cattivi cattivi” s’annacqua sino a scomparire, annullata dall’ironia pungente e dalla sagacia reinterpretativa del povero Guido, il cui unico scopo è quello di trasmutare per l’innocenza di Giosuè parole e intenzioni di incomprensibile disumanità.

 

Persuasione e coercizione

 

Il potere della parola è noto: essa crea e definisce la realtà, portando con sé significati e valori, unisce e cementa le umane interazioni; al tempo stesso, tuttavia, la parola può ferire e allontanare; o, ancor peggio, è capace di discriminare, stereotipizzare e produrre pregiudizi.

Tra i linguaggi settoriali, i più strutturati e “duri” (quelli di àmbito scientifico, in primo luogo) mirano al conseguimento di scopi specifici, adottano una terminologia rigida e tendenzialmente univoca e, attraverso un’organizzazione testuale e un carattere pragmatico peculiari (Giovanardi, 1993), poggiano sulla forza dei vocaboli per focalizzare il messaggio in una direzione certa – di solito destinata a gruppi di pari ristretto e non a un più vasto insieme di destinatari.

Tra i settoriali meno strutturati e più “morbidi”, il linguaggio politico (del quale il lagersprache monotono, ripetitivo e violento dell’ideologia nazista è solo uno dei numerosi esempi), fin dai tempi più remoti, si è sempre avvalso di elaborate strategie volte a ottenere ciò che i latini definivano fidem facere et animos impellere, ossia convincere e persuadere puntando sull’emotività. Perché il linguaggio politico, come più in generale il linguaggio del potere, è un artificio di persuasione, un’abile negoziazione verbale, un’«interazione di natura contrattuale dove può determinarsi cooperazione oppure competizione» (Alice Berti, 2018).

Ora, il limite tra l’intento persuasivo della comunicazione come manifestazione di libertà d’espressione e il cosiddetto “linguaggio dell’odio” può diventare sottilissimo, soprattutto in un’era – la nostra – immersa nell’interattività e nella connettività che azzera le intermediazione e i filtri. Non a caso la presenza in Rete di atteggiamenti offensivi, prevaricatori e violenti (riassunti nel concetto di hate speech, ovvero incitamento all’odio e al pregiudizio) sta conducendo verso una deriva comunicativa di preoccupanti dimensioni.

 

L’odio on line

 

Secondo Stefano Pasta (Razzismi 2.0, 2018), l’odio online fa saltare la barriera tra razzismo esplicito e latente; accade infatti che la cultura convergente del popolo interattivo, spesso becera e beffarda, diffonda suo malgrado la banalizzazione e normalizzazione di contenuti che un tempo sarebbero stati percepiti da tutti come fuorvianti e ostili.

Purtroppo il lato più subdolo di questo processo generalizzato sta nella sua apparente spontaneità e inconsapevolezza; le etichette denigratorie e gli atteggiamenti deumanizzanti attivano stereotipi spesso incontrollabili, che a loro volta producono effetti affettivi e cognitivi deleteri sulle dinamiche relazionali dei gruppi sociali. Oltrettutto, oltre alle etichette denigratorie manifeste, esistono molti  altri meccanismi più sottili che hanno effetti macroscopici nel produrre distanze sociali (Andrea Pierotti, 2017): è stato dimostrato a più riprese che utilizzare parole mirate (o cambiare il tipo di termini) per descrivere comportamenti ordinari può avere un influsso profondo nell’alimentare pregiudizi insensati.

I nostri tempi sono permeati, è noto, di visioni discriminatorie e di atteggiamenti antisociali che, attraverso le casse di risonanza mediatiche, creano e alimentano una spirale d’arroganza e di violenza unidirezionale.

 

Il Memoriale della Shoah di Milano

 

In occasione dell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali in Italia, il Memoriale della Shoah di Milano ha ospitato – a partire dallo scorso anno – la rassegna “Premesso che non sono razzista - come nasce il pregiudizio e come combatterlo”, nata per analizzare e affrontare le apoplessie del pensiero che irrorano di emorragie velenose la convivenza civile.

La rassegna milanese ha visto (e vede) coinvolti personaggi di prim’ordine, provenienti da svariati àmbiti culturali: voci del teatro, della letteratura, del diritto, dell’arte, della psicologia, della linguistica e della storiografia stimolano idee e riflessioni sull’origine del pregiudizio (che soggiace a ogni razzismo), in modo da ponderare le strategie adeguate per contrastarlo.

Tutti gli interventi, insomma, affrontano e sviluppano i temi della rassegna da una diversa angolazione, con l’intento di fornire spunti sempre nuovi e significativi.

Lo scorso 15 aprile il Memoriale ha ospitato un interessante intervento a due voci, dal titolo “La lingua dell’odio”, sapientemente argomentato da Giuseppe Antonelli, linguista di pregio, accademico e volto televisivo, in coppia con Carlo Greppi, storiografo assiduo collaboratore di Rai Storia, e scrittore.

Nello specifico, la lectio del Memoriale ha sezionato quattro parole che trasudano disprezzo, che suggeriscono gerarchia e dominio e che rimandano concettualmente a un odio diffuso, sovente convogliato in un corpus di misure discriminatorie e persecutorie riscritto sul corpo dei deboli, degli stranieri, degli avversari politici: insomma, sugli “altri” (Carlo Greppi, La lingua dell’odio, 2019).

 

Quattro parole (o locuzioni)

 

Eccole: razza, che (come è biologicamente noto) è una sola, eppure ha sedimentato nel tempo barriere alienanti e impenetrabili; pacchia, vocabolo da sempre associato all’opportunismo e al parassitismo; buonista, lemma che richiama il suo illustre avo degli anni ‘40, “pietista” e divenuto oggi uno degli insulti mediatici più utilizzati per additare ogni comportamento accogliente e aperto; e, infine, l’espressione – già motto fascista – me ne frego, naturale emblema e summa della lingua dell’odio, perché avvicinabile al concetto di sprezzante rigetto a priori delle idee altrui.

Le parole contano, si diceva in uno noto spot dell’Enciclopedia Italiana, qualche tempo fa. E Giuseppe Antonelli, all’interno dell’intervento a due voci, ci ha ricordato che per tornare a incidere sulla realtà occorre trovare (e ponderare) le parole giuste. Per farsi ascoltare, per far breccia nel muro dell’odio o semplicemente per suscitare passioni positive e costruttive. A costo di esser sbeffeggiati come buonisti.

 

 

 

Riferimenti biblio-sitografici essenziali

 

1) Flavia Lovisola, Roberto Benigni: giocoliere della parola in La vita è bella, Italica, Volume 84, 2007

2) Stefano Pasta, Razzismi 2.0: analisi socio-educativa dell’odio online, Scholé-Morcelliana, 2018

3) Alice Berti, Il linguaggio del potere: discorso politico e strategie, compassunibo,wordpress.com

4) Andrea Cranaghi, Parole e categorie, Cortina Editore, 2015

5) Andrea Pierotti, Linguaggio e stereotipi: il rapporto tra parole e atteggiamenti tra i gruppi, Università Milano Biccocca.

6) Claudio Giovanardi, I linguaggi settoriali, in Enciclopedia Italiana, V Appendice, 1993

7) Carlo Greppi, L’età dei muri: breve storia del nostro tempo, Feltrinelli, 2019

8) Carlo Greppi, Giuseppe Antonelli, La lingua dell’odio, 2019; dibattito presso il Memoriale della Shoah di Milano

9) www.memorialeshoah.it

 

 

Immagine: La vita è bella (1997), regia di Roberto Benigni

 

 

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Il primo re e il protolatino, padre della lingua madre

Trifària diva, tu mèeter frughiferens; “o triplice dea, tu madre fruttifera...” Un giovane invoca con lo sguardo verso il cielo, le mani che scandagliano il fertile terriccio; dopodiché porta a termine la sua accorata preghiera.

S’apre con questa eufonica giaculatoria Il primo re, ambiziosa produzione cinematografica italiana che ci riporta alla genesi della città di Roma nell’VIII secolo a.C., attraverso il mito di Romolo e Remo.

Parole intense che richiamano la greca Gaia, potenza della Natura, esperita come la buona madre; ma anche parole mistiche e votive, che si ricollegano all’antichissima tradizione delle leges arae, ossia  le iscrizioni preletterarie connesse all’attività rituale e alle prassi cultuali; infine parole vibranti e musicali, che in qualche modo ben s’attagliano – nella grafia e nella morfosintassi – alla coeva e controversa Fibula prenestina, spilla aurea che racconta della sua forgia e del suo proprietario, in caratteri greci: Manios med fhefhaked Nvmasioi, ossia Manivus me fecit Nvmerio, ‘Manio mi fece per Numerio’.

 

La lingua è un modo di guardare il mondo

 

Ma facciamo un passo indietro, per scandagliare l’origine dell’orazione proposta in apertura. In principio era il Verbo, il λόγος, la parola: vero motore dello sviluppo del cervello, il linguaggio verbale è infatti alle scaturigini del pensiero e non viceversa. Come ha scritto il neuroscienziato Lamberto Maffei, Sapiens è l’unica specie capace di produrre una «stringa di parole che la ragione infila nella collana della storia» (Elogio della parola, Bologna, il Mulino, 2018). E, di conseguenza, è l’istinto umano di raccontare e condividere esperienze mediante la parola – prima orale e poi scritta – che ha consentito lo sviluppo della civiltà e delle relazioni.

La parola spiega il mondo e cerca di interpretarlo, costruisce la vita e rivela  l’universo cangiante che in esso è implicitamente contenuto.

Il verbo, insomma, è potenza creatrice e intelligenza ordinatrice; detiene un potere demiurgico e in ogni suo segno, o in ogni sua manifestazione, rivive l’intero cammino dell’uomo, con tutti i suoi mutamenti, le sue conquiste successive e le sue innovazioni.

Ora, ciò che è reale per la psiche, lo asseriva Jung, diventa reale di fatto: il che è a dire che gli oggetti coi quali ci misuriamo nella realtà “esterna” sono un prodotto ideale del nostro processo sensoriale e del nostro apparato di pensiero.

Del resto, l’interdipendenza fra pensiero e linguaggio rende chiaro che le lingue non sono tanto un mezzo per esprimere una verità che è stata già stabilita, quanto un mezzo per scoprire una verità che era in precedenza sconosciuta. La loro diversità non è  tanto una diversità di suono e di segni, quanto di modi di guardare il mondo ed esso si manifesta in un flusso di impressioni che devono essere organizzate dalla mente. Per farlo noi tagliamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti e le attribuiamo significati che finiscono per codificarsi negli schemi della nostra lingua (Karl Kerenyi, 1976; Benjamin Whorf, 1956).

 

L’attività prassico-poietica

 

E l’idioma protolatino ricostruito dagli sceneggiatori del film Il primo re – grazie all’ausilio di un pool di semiologi dell’Università La Sapienza di Roma – scaturisce  proprio da un mondo intriso di forze archetipiche e primigenie, che influiscono realmente sulle persone e sui loro destini.

Ogni dialogo dunque, sovente scarno e meditato, facoltizza la parola a mostrare tutta la sua attività prassico-poietica, che plasma le azioni quotidiane e le rende interpretabili, in un mondo (siamo sette secoli prima di Cristo) oscuro e involuto.

Atmosfere rudi sulla falsariga di Games of Thrones e primigenie come nella Guerra del fuoco, quelle meticolosamente ricreate dal regista Matteo Rovere, nelle quali l’adozione della lingua originale sottotitolata – già utilizzata da Mel Gibson con l’aramaico (e il latino) di The Passion o con lo yucateco di Apocalypto – dà ritmo e verosimiglianza alla ricostruzione storiografica, marcando di un significato evocativo ogni sequenza.

 

Lingua centum

 

I dialoghi del Primo re presentano un ordine sintattico in configurazione SOV (soggetto-oggetto-verbo), con il verbo sempre in posizione finale; la desinenza arcaica -ai per il locativo è marcata, così come ricorrono le consonanti nelle desinenze finali delle parole; i dittonghi “ai”, “ei”, “oi” sono inalterati; il lessico è arcaico e ricco di termini di chiara provenienza indoeuropea; ugualmente è arcaica la coniugazione di alcuni tempi e modi verbali; la pronunzia, infine, propone la “c” e la “g” sempre velari rese col suono velare “duro” “k” e “gh”, secondo la natura del latino arcaico come appartenente al gruppo delle lingue centum («Le lingue indoeuropee che continuano con velari le palatali dell’indoeuropeo comune; quindi latino centum, greco ἑκατόν, gotico hund da *km̥tóm», Treccani.it), mentre il nesso “gn” è scandito nei due fonemi separati di velare e nasale come in Wagner, e non rappresenta mai il suono nasale palatale presente in ragno.

 

Gli idiomi del Latium vetus

 

Ma qual era la lingua di Romolo e Remo? Quale idioma si era diffuso nel Latium vetus preletterario e ampiamente precristiano? Di certo era un caleidoscopio di idiomi, una sorta di babele che ben rispecchiava il sinecismo di popolazioni che abitavano il Lazio: dai pre-indoeuropei Etruschi agli indoeuropei Volsci (d’etnia osco-umbra), Equi, Ernici, Latini e Capenati. È verosimile, pertanto, che le contaminazioni fossero diffuse e che le differenti parlate permettessero comunque un sufficiente grado di comprensione comune tra i popoli della zona. Comunque sia la lingua proto-italica, scaturita da quella indoeuropea e antenata delle lingue italiche (come il latino), non essendo pressoché attestata per iscritto è stata oggetto di ampie ricostruzioni comparative, basate su fonti documentarie indirette o derivate. Questo perché, essendo all’epoca la trasmissione della cultura un’acquisizione prevalentemente orale, la scrittura era limitata a usi pratici e non letterari.

Da ultimo, sulla scorta delle analisi proposte in precedenza, si può ben concludere che Il primo re, ambiziosa produzione cinematografica italiana (con oltre otto milioni di euro di budget, fuori da ogni target perseguito nel Bel Paese), concretizzi – tra l’altro – un concetto molto affascinante: il linguaggio è una forma di azione; attraverso la composizione di parole e proposizioni noi formuliamo espressioni dotate di un senso che, in forma diretta o indiretta, modificano qualcosa nella percezione della realtà che ci circonda.

Le parole diventano così “segni tangibili delle idee”, creati volontariamente dall’uomo allo scopo di condividere con i propri simili i pensieri comuni e quelli dissimili.

 

Bibliografia e sitografia di riferimento

1) Lamberto Maffei, L’elogio della parola, Il Mulino, 2018

2) Karl Kereny, Dyonisus, 1976

3) Benjamin Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, 1956

4) Anna Guglielmi, Il linguaggio segreto del linguaggio. Cosa si nasconde dietro le parole, Pickwick, 2011

5) Claudia Mizzotti, La scuola della parola, in www.laricerca.loescher.it

6) Mario Testa, L’evoluzione delle lingue, in www.larassegnadiischia.it

7) Sergio Barbara, Il linguaggio come azione, in www.academia.edu

8) Andrea Cauti, Che lingua parlavano Romolo e Remo?, in www.agi.it

9) www.portalefilosofico.com

10) www.mardeisargassi.it

11) www.docsity.com

12) www.lascimmiapensa.com

13) wikipedia.org/wiki/lingua protoitalica

14) Daniele F. Maras, Le più antiche iscrizioni votive latine, in www.lettere.uniroma1.it

 

Immagine: Il primo re (2019), regia di Matteo Rovere

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Una creusa tra le parole della Liguria. A proposito del Piccolo Dizionario Etimologico Ligure di Fiorenzo Toso

 

Un popolo raramente si smentisce: la sua lingua rispecchia la sua storia, la sua cultura, talora il suo temperamento o la sua inclinazione.

Dei liguri, ad esempio, che nell’antichità Eschilo definiva intrepidi, ormai è risaputa la pragmatica essenzialità – a tratti quasi sgarbata, secondo alcuni un poco altezzosa –, ben sintetizzabile nell’episodio che ebbe come protagonista il ser.mo doge della Repubblica di Genova, Francesco Maria Lercari; in séguito al bombardamento francese della Superba, correva il 1684, fu costretto suo malgrado a recarsi in quel di Versailles, per render omaggio al Re Sole; ma quando gli fu chiesto, tra le mirabolanti meraviglie della reggia, quale l’avesse davvero colpito, il Lercari sentenziò: “mi chì”, ossia “vedermi qui” (o, più semplicemente, “io qui”): laconico moto d’insofferenza nei confronti del bellicoso sovrano transalpino.

Tuttavia tale laconicità, per molti sinonimo di rudezza, nei liguri non s’oppone a una indiscutibile grazia fonica che, a metà del Seicento, il noto poeta genovese Gian Giacomo Cavalli stigmatizzava nel distico seguente: “Questa è particolâ feliçitæ (questo è un dono particolare) / a ri Zeneixi dæta da ro Cê (dato dal Cielo ai genovesi) / d’aveì parolle in bocca con l’amê (d’aver sempre in bocca parole dolci come il miele) / de proferire tûtte insûccaræ (da proferire tutte inzuccherate)”.

 

Oriente, Occidente e Oltregiogo

 

Il ligure, dunque. Lingua romanza da alcuni associata al ceppo gallo-italico (col piemontese, il lombardo, l’emiliano e il romagnolo), ancorché da questo indipendente per una serie di caratteristiche distintive che la rendono, insieme al veneto, una delle parlate più peculiari e variegate del settentrione italico. Si attestano infatti il ligure orientale, parlato dai confini lunigiani sino a Levanto, il ligure genovese (il più conosciuto, l’Illustre) parlato da Bonassola a Capo Noli e il ligure centro-occidentale, individuato da Finale Ligure a Taggia, in cui a sua volta confluisce quello occidentale, di cui fan parte di diritto l’intemelio e il monegasco; ma anche il ligure alpino, detto “roiasco”, che si dipana nelle zone d’altura della fascia occidentale e il ligure dell’Oltregiogo, che copre l’entroterra al di sopra dello spartiacque appenninico, presentando marcati tratti sincretici col piemontese (si pensi alla Val Bormida, al sassellese o all’orbasco), col lombardo (si consideri la parlata dell’Oltregiogo centrale, nella zona di Novi Ligure) e con l’emiliano (zona compresa tra la Val Staffora e la Val Trebbia); da ricordare infine il cosiddetto ligure coloniale, singolare evoluzione sia dei dialetti liguri orientali sia del genovese “rustico” e urbano, come per esempio il tabarchino e il bonifacino.

 

Ottocento anni, quattrocento lemmi

 

Ora, Fiorenzo Toso, noto accademico in linguistica generale presso l’Ateneo di Sassari, dialettologo di fama internazionale e, soprattutto, arguto lessicografo, tra i suoi numerosi studi specialistici ed etimologici – anche di respiro letterario e sociolinguistico – ha raccolto nel Piccolo Dizionario Etimologico Ligure quattrocento parole variamente rappresentative del lessico ligure, approfondendone l’etimo, la storia, il significato e l’originalità culturale e linguistica.

La scelta delle parole, giocoforza non esaustiva eppur mirata e coscienziosa, è stata impostata in modo da affrontare curiosità lessicali o termini semanticamente ambigui, occorrenze tipiche e rappresentative di una comune idea di “genovesità” o “liguricità”, termini presenti nel ligure Illustre (il genovese) ma anche nella maggior parte degli altri dialetti della Regione oppure parole che potessero dar conto della composizione e delle diverse provenienze del lessico ligure.

Le quattrocento schede lessicografiche che compongono il Piccolo Dizionario, tra l’altro, oltre a poggiarsi su una documentazione storica desunta da oltre ottocento anni di tradizione scritta, fissano per ogni voce l’etimologia accertata, l’evoluzione fonetica e semantica e il processo storico che è intervenuto nel tempo sulla parola in questione, con particolare attenzione ai riferimenti letterari.

Perdipiù, all’interno di ciascuna scheda trovano spazio anche tutte le parole derivate da quella originale (come abellinou [sciocco] > bellin, tanto per citare un grande classico che ha varcato le soglie della Regione Liguria) e, in alcuni frangenti, si discutono eventuali ipotesi etimologiche alternative.

 

Dal latino

 

Entrando invece nel merito della raccolta curata dall’accademico di Arenzano, il Piccolo Dizionario contiene soprattutto voci di derivazione latina, perché la maggior parte delle parole liguri (soprattutto del lessico genovese, che ha esercitato sempre un ruolo apicale per intuibili ragioni politiche e culturali) derivano dal latino popolare, diffusosi tra il volgo dopo la conquista romana. I dialetti liguri, pur conservando molti tratti comuni con le parlate dell’Italia settentrionale, si sono poi differenziati da quelli limitrofi; tra i numerosi punti di contatto o di differenziazione, nell’evoluzione dal latino vogare, si possono ben rimarcare le seguenti evidenze: la lenizione delle consonanti sorde, sino alla loro completa sparizione ( Digitum > [ˈdi:u], dito); l’evoluzione di CT (Factum > [ˈfԑ:tu], fatto), la palatalizzazione di CL e di GL (Clamare > [tſaˈma:], chiamare) e, al contrario, la conservazione delle vocali atone (come in menestra, ossia minestra, rispetto al piemontese mnestra).

Tuttavia la derivazione dei termini liguri dal latino si è verificata mediante mutamenti fonetici e morfologici che Toso definisce “seriali”: dove il latino aveva FL- all’inizio di parola, i dialetti liguri hanno sempre sc(i) (Flamma > sciamma, fiamma; Flore > sciua, fiore); parimenti il latino PL- in ligure passa di regola a c(i) (Plus > ciù, più) e spesso, nel passaggio dal latino al ligure, si verifica una metatesi (arretramento di suoni); così dal latino capra si passa a crava, anziché il più regolare cavra).

 

Dalle altre lingue

 

Quanto alle voci di provenienza non latina, occorre distinguere preliminarmente le parole giunte ai dialetti liguri attraverso il latino stesso da quelle che vi sono arrivate in un secondo momento: nel primo caso si tratta di fenomeni di sostrato (una lingua lascia tracce in un’altra, rispetto a cui è in posizione subalterna), come per le voci d’origine celtica o per quelle di reminiscenza greca (ad esempio mandillo, fazzoletto); nel secondo caso, invece, si parla di fenomeni di superstrato (una lingua si sovrappone a un’altra, senza tuttavia sostituirla), come accadde con le parole d’origine germanica penetrate nelle parlate liguri nel corso delle invasioni barbariche.

Si parla invece di prestiti nel caso di termini approdati nei dialetti di Liguria in tempi più recenti, grazie a traffici commerciali o influenze culturali: questi elementi lessicali sono ricchi e diversificati e interessano molti idiomi: l’arabo, per esempio, come nel caso di camallo (facchino); ma anche il portoghese (pirron, bicchiere dal lungo becco) o il turco (sciorbetto).

Nel complesso, pertanto, il Dizionario è un tesoretto lessicografico ed etnologico, in cui l’approfondimento linguistico – sempre curato e approfondito – si integra con lo studio delle parole nella loro evoluzione storica e culturale. Ne consegue che, sovente, vi si possa trovare l’etimologia inusuale accanto alla curiosità arguta, così come la digressione storiografica insieme alla boutade letteraria; una ricchezza in linea con lo stile dell’autore, apprezzato professionista nella linguistica nonché, al contempo, brillante novellatore e storico di pregio.

Tuttavia nel Piccolo Dizionario Etimologico Ligure non c’è traccia di seriosità erudita; dalle sue pagine emerge  piuttosto il lungo cammino di un popolo coriaceo e testardo, che è riuscito a mescolarsi con culture lontane senza smarrire la propria identità e il proprio brio.

Fiorenzo Toso conduce il lettore in un viaggio che sembra dipanarsi lungo il tragitto d’una creusa, ovvero la viuzza stretta tra i muri che, in Liguria, s’arrampica su per le colline, alle spalle delle città o dei borghi marinareschi: in esso si possono carpire i colori e i sapori del paesaggio, le abitudini della gente e i momenti che scandiscono la vita d’ogni giorno, sospesa tra l’aspro entroterra e il mare increspato dalla tramontana.

 

Bibliografia essenziale

Fiorenzo Toso, Piccolo Dizionario Etimologico Ligure, Editrice Zona, 2015.

Fiorenzo Toso, La letteratura ligure in genovese e nei dialetti locali, Le Mani, 2012. Fiorenzo Toso, Dialetti liguri, in Enciclopedia dell’italiano (Treccani), diretta da Raffaele Simone.

 

Immagine: Davide Papalini [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], from Wikimedia Commons

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Il riassunto, per decodificare e rielaborare

 

Nel finale di Incontri ravvicinati del terzo tipo (Spielberg, 1977), l’équipe del professor Lacombe – un indimenticabile François Truffaut – comunica con gli extraterrestri attraverso un radiosegnale formato da una sequenza numerica di cinque impulsi, ovvero cinque note musicali: la celebre sol – la – fa – fa – do, con un salto di ottava (inferiore) tra i due fa.

Attraverso le elaborazioni della sequenza, frutto di numerosi incastri e numerosi tentativi, Lacombe riesce a decodificare i messaggi alieni e trova un punto d’incontro tra linguaggi lontani anni luce, del tutto estranei l’un l’altro.

La comprensione di un testo, infatti,  tanto scritto quanto orale, è il risultato della combinazione tra molteplici fattori (tra cui attenzione, motivazione o competenze lessicali) e altrettanti processi attivi, come la lettura, la concettualizzazione e l’integrazione delle informazioni con le conoscenze pregresse, sino alla conservazione nella memoria dei dati appresi.

 

La comprensione del testo

 

Ora, è ben noto che la comprensione del testo è una delle capacità principali da acquisire per potersi dedicare, con solide basi, alla risoluzione di problemi semplici e complessi che accompagnano la vita d’ogni giorno e per poter sviluppare ogni altra competenza in grado di impreziosire il capitale intellettuale di ognuno di noi.

Purtroppo i dati OCSE-PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), resi noti alla fine del 2016 e riguardanti le abilità cognitive fondamentali della popolazione adulta europea (compresa tra i sedici e i sessantacinque anni), sono impietosi: il 28% dei partecipanti ai test somministrati può essere considerato analfabeta funzionale; cioè è in grado di leggere e scrivere, ma non è in grado di utilizzare queste attitudini nella vita quotidiana, non comprende i linguaggi specifici o non riesce a risalire a un’informazione presente in un testo.

Limiti peraltro importanti, perché ostacolano l’emancipazione della persona e il suo pieno sviluppo: comprendere correttamente un testo fornisce infatti strumenti decisivi per sviluppare le capacità critiche, vivere scambi e relazioni, agire sulla percezione del mondo e su ciò che in esso accade (parametri sintetizzati compiutamente in vari documenti programmatici europei, dalla Dichiarazione di Persepoli del 1975 alla recente Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile del 2015).

 

L’analfabetismo funzionale e il riassunto

 

Come ha notato Mariangela Vaglio per L’Espresso (2017), l’analfabeta funzionale è un indifeso nei confronti della vita. Magari ha un titolo di studio o una significativa esperienza lavorativa, ma non è in grado di rielaborare un’informazione e di contestualizzarla regolarmente, per poterne poi fruire in contesti formali o informali. Per quale motivo? Eccoci al punto: secondo molti, Vaglio compresa, perché non ha mai imparato a fare un riassunto.

Un riassunto non è un puzzle di testo, ricucito, ridotto o riadattato attraverso la tecnica del copia-incolla; non è neppure una mera parafrasi o una sostituzione sinonimica di parole; è piuttosto un’accurata elaborazione delle informazioni, una gerarchizzazione di notizie, una sintesi corretta e coesa di uno o più messaggi.

Riassumere implica comprendere, pensare e pianificare, perché il sunto è il risultato operativo d’una attenta lettura e di un’analisi intelligente, che rivelano la profonda comprensione di ciò che si sta trattando. Il riassunto richiede la ricostruzione mentale di quanto letto e la capacità di individuare le macrostrutture semantiche, ossia le informazioni più importanti (Ugo Cardinale, 2017).

Insomma, lo scriveva anche Umberto Eco: il riassunto è un atto critico e un artefatto creativo, perché implica la sottile ricerca dell’essenziale attraverso pregnanza concreta ed estro intuitivo.

 

L’esame di fine primo ciclo d’istruzione

 

In ottemperanza del Decreto Legislativo 13 aprile 2017 n°62 (e successive modificazioni e integrazioni), sia l’esame di fine primo ciclo d’istruzione sia il vecchio esame di Maturità sono stati recentemente riveduti e riformati, e nella logistica organizzativa e nell’impostazione contenutistica.

Per quel che riguarda ad esempio la prova d’italiano nell’esame di fine primo ciclo, la terza tipologia testuale proposta è la comprensione e sintesi di un testo letterario, divulgativo o scientifico (tipologia C), che affianca la traccia narrativo-descrittiva (tipologia A) e quella argomentativa (tipologia B).

Saper riassumere è fondamentale per poter correttamente affrontare la succitata terza tipologia; il gruppo di lavoro ministeriale, autore del Documento di orientamento per la redazione della prova scritta d’italiano nell’esame conclusivo del primo ciclo, ha suggerito - a proposito - un’attenta lettura del testo, quale preludio alla consapevole gerarchizzazione delle informazioni (anche mediante la scansione in macrosequenze), all’individuazione dello scopo dei messaggi e alla pratica della riformulazione dei contenuti, variabile a seconda delle specificità testuali.

In fase di rielaborazione delle informazioni , poi, è possibile operare una riscrittura parafrastica (per “allargamento” testuale), una riscrittura riassuntiva per “riduzione”, una riscrittura selettiva (attraverso accurata cernita delle informazioni) oppure una riscrittura plurima per sintesi sempre più stringenti. La riscrittura, oltretutto, è attività marcatamente formativa ed è funzionale all’affinamento dei tanti approcci alla produzione scritta, coi quali ogni studente è chiamato a misurarsi.

 

L’esame di fine secondo ciclo d’istruzione

 

Quanto invece alla modifica dell’esame nel secondo ciclo d’istruzione, la Nota ministeriale 3050 del 4 ottobre 2018 ripercorre gli obiettivi irrinunciabili della prova di italiano nel quinto anno; essi, a loro volta, riflettono una duplice esigenza: padroneggiare il patrimonio grammaticale, lessicale ed espressivo della lingua italiana (secondo le esigenze comunicative dei vari contesti) e costruire un testo coerente e coeso, attraverso una corretta articolazione sintattica, una completa comprensione semantica e una ponderata capacità di interpretare o di “far parlare” il testo, di là dal suo significato letterale. Anche in questo caso le capacità di sintesi, di decodificazione delle informazioni e di rielaborazione risultano decisive perché i testi prodotti vanno sempre messi in relazione con l’esperienza diretta dello studente e con un panorama storico-culturale d’ampio respiro, attraverso un lessico preciso e mirato, capace di trascendere l’informalità dell’oralità.

Pertanto, in conclusione, sembra che per gli studenti d’oggi la pratica del riassunto sia la miglior strada da seguire, per potersi destreggiare nelle tortuose insidie del testo, non sempre comprensibile né interiorizzabile o fruibile con disinvoltura.

Quando si riassume, il nemico numero uno sovente è la cosiddetta “libera espressione”: bisogna saper soppesare le parole, sceglierle, diversificarle a seconda del contesto; occorre altresì focalizzare a fondo quello che davvero rappresenta il messaggio più importante, tralasciando i dettagli superflui e, al tempo stesso, curando quelli che possono risultare decisivi. Inoltre è necessario vincolare la scrittura, rendendola pragmatica, precisa e funzionale: come se le parole andassero disegnate nella mente, per poterle inserire in una lucida architettura concettuale.

 

 

 

Bibliografia e sitografia di riferimento

 

Normativa: D.lgs 13 aprile 2017 n° 62 – D.M. 3 ottobre 2017 n°741 – Nota ministeriale n° 1865/2107 e Nota ministeriale n° 3050/2018 – D.M. 499/2017

 

Ugo Cardinale, L’arte di riassumere, Il Mulino, 2015

Umberto Eco, L’elogio del riassunto, L’Espresso, 1982

Carlotta De Leo, L’importanza dl riassunto al tempo delle piattaforme online, www.corriere.it

Nadia Ferrigo, Italiano a scuola, si cambia: più riassunti e articoli di giornale, La Stampa, 31 marzo 2018

www.cicap.org

www.isfol.it

www.trainingcognitivo.it

www.vivalascuola.studenti.it

www.agi.it

nonvolevofarelaprof.blogautore.espresso.repubblica.it

 

Immagine: Close encounters of the third kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977), regia di S. Spielberg

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L’italiano perduto, l’italiano ritrovato. Un incontro con Vittorio Coletti

 

Il sardonico Darth Sidious, tiranno della Galassia nella trilogia originale di Star Wars, diceva che il lato oscuro della Forza, ancorché ritenuto potere innaturale, è la via per dimostrare molte capacità.

Proprio come “il lato in ombra dell’italiano”, propulsore di quell’evoluzione diacronica indispensabile al processo di rinnovamento linguistico.

Infatti l’italiano che oggi noi tutti parliamo, scriviamo e digitiamo ha radici lontane e ammicca alle sue origini, benché una sua parte consistente sia andata perduta, soppressa o sostituita, “per ragioni sociali, culturali, di costume o di prestigio”.

Vittorio Coletti, a lungo ordinario di storia della lingua italiana presso l’Ateneo genovese e membro di spicco dell’Accademia della Crusca, ci racconta con garbata erudizione la reattività della lingua, mutevole e funzionale, nel suo L’italiano scomparso. Grammatica della lingua che non c’è più (Bologna, Il Mulino, 2018).

Il testo è un viaggio lungo e meditato, generoso d’esempi, curiosità e termini desueti all’interno dei vari mutamenti che, nel tempo, hanno cambiato i connotati all’italiano; la lingua, è noto, racconta la sua storia tanto attraverso le novità e gli acquisti quanto – nella medesima misura – tramite le perdite e gli abbandoni, come in un continuo saliscendi che imbarca il nuovo ed espelle il vecchio.

Abbiamo chiesto a Vittorio Coletti di tratteggiare le linee guida del suo studio: quanto segue è l’esito di una chiacchierata ad ampio raggio sullo stato di salute della lingua del sì.

 

Lo scriveva anche il De Sanctis, che la lingua è un organismo vivo, sempre avido di nutrizione o d’assimilazione; di certo essa è tutt’altro che immutabile, crederlo sarebbe un abbaglio. Ora, in questo suo camaleontico movimento, la lingua sa dimostrarsi concreta e pragmatica, come il naufrago che lotta per la sopravvivenza. Professor Coletti, che cosa è rimasto dell’idioma d’un tempo nel DNA dell’italiano contemporaneo?

 

Moltissimo, sia come parole sia e soprattutto come motore, cioè parole che svolgono funzioni di raccordo e costruzione (articoli, preposizioni ecc.). Non di meno, non è poco neppure quello che col tempo si è perduto o si è modificato: sono scomparsi il giustacuore, l’articolo el e la congiunzione conciossiacosaché, il gerundio con preposizione, tanto per fare qualche esempio.

 

La chimera di una lingua perfetta, tanto nei costrutti morfo-sintattici quanto nelle scelte lessicali (lo scriveva con acume Umberto Eco), da sempre ha ossessionato ogni cultura; del resto ipotizzare l’esistenza di “universali linguistici”, ossia regole granitiche e soggiacenti alla formazione di ogni lingua naturale, è operazione affascinante, ma poco ancorata alla realtà, dal momento che occorre sempre fare i conti con il magmatico cambiamento che ogni idioma palesa nel corso della sua storia. Pensiamo per esempio al lessico, che continuamente acquista nuove occorrenze e ne elimina altre. Parole, espressioni idiomatiche, costrutti: continuamente appaiono e scompaiono. Secondo uno schema prestabilito?

 

No, non c’è uno schema prestabilito, ma ci sono due forze che agiscono a seconda dei casi: 1) la cultura, che fa cadere una parola perché è caduta la cosa (i trabocchi, una specie di catapulta…), o si è modificato il suo significato (ragione aveva e oggi non ha più anche il significato di ‘conto’, visibile però ancora in ragioniere) o la sua forma (dimanda/ domanda); 2) il sistema, che agisce secondo regole di funzionalità, economia, regolarità ecc. (“io ero” che sostituisce “io era” per analogia con l’uscita in -o della prima persona del presente; la potatura dei troppi sinonimi corradicali, tipo: accusa accusazione accusamento) e risente della codificazione grammaticale imposta dall’uso scritto e colto (scompare la paraipotassi, cioè la costruzione contemporaneamente subordinativa e coordinativa di due frasi: “se io parto e tu torni”).

 

La parola è storia, fervida testimonianza di fatti sociali e culturali. L’evoluzione linguistica non può che esser messa in rapporto con la parallela evoluzione della società, dei suoi usi e dei suoi costumi. Ben lo ha spiegato Cesare Beccaria. Professor Coletti, è vero dunque che l’italiano scomparso ci ricorda che, di là da certi ambiti d’uso, la lingua si riassetta e si riconverte?

 

Non c’è dubbio. I cambiamenti sociali sono o diventano anche cambiamenti linguistici, soprattutto nel lessico (si pensi ai nomi delle parti o dei componenti di un’automobile, nomi antichi che assumono significati nuovi come frizione o volante o baule…, o nomi nuovi per oggetti nuovi: cruscotto, tergicristallo, tachimetro…). La lingua si risistema continuamente, sia nel vocabolario (maggioranza oggi vale superiorità numerica, non morale) sia nella grammatica (in passato si diceva “lo ti dico” poi è prevalso “te lo dico”, anteponendo il tratto più differenziale, che è quello della persona).

 

Parliamo ora di grammatica, termine certo polisemico, ma riconducibile al funzionamento della lingua o, se vogliamo, alla riflessione che si fa sugli usi della lingua. Quali sono pertanto il ruolo e la portata della grammatica esplicita all’interno dell’evoluzione diacronica d’ogni sistema linguistico?

 

La grammatica non si limita a descrivere la lingua, ne condiziona col tempo anche il funzionamento, sia conservando istituti che l’uso accantonerebbe volentieri (l’opposizione gli/le) sia innovandone altri in precedenza implicitamente ammessi (il gerundio preposizionale è stato emarginato dalla grammatica nel Rinascimento) sia rallentando evoluzioni funzionali (la riduzione del congiuntivo dopo verbi di opinione).

 

Ogni storia linguistica, è noto, viaggia su due dimensioni: quella scritta e quella parlata. L’italiano, nel tempo, a partire dal fiorentino, ha mostrato una certa stabilità nello scritto e, di contro, un’oscillazione marcata nel parlato, complici le variopinte variabilità regionali. Ora, la polimorfia, che la nostra lingua ha evidenziato sin da subito, è da considerarsi una ricchezza o piuttosto rappresenta un limite?

 

La polimorfia è propria delle lingue allo stato aurorale specie prima della loro fissazione grammaticale. La grammatica riduce la polimorfia, potando i doppioni e i triploni: se accetta devo e debbo non accetta più diedono accanto a diedero, sarebbono accanto a sarebbero, avessino accanto ad avessero.

 

Professore, Le propongo il seguente passo, tratto dallo Zibaldone: “Per rimetter in piedi la lingua bisogna rimetter in piedi l’Italia e gl’italiani, rifare le teste e gl’ingegni loro”. L’italiano attuale, rispetto a quello che ormai non c’è più, è davvero lo specchio di una società in decadenza? Qual è la corrispondenza tra l’evoluzione sociale e culturale di un popolo e quella del suo linguaggio?

 

Una lingua perde continuamente pezzi perché in essa il ricambio è fisiologico, come nelle cellule di un corpo. Purtroppo ci sono anche perdite patologiche, quando una lingua perde un intero àmbito d’uso (come rischia l’italiano con la scienza più avanzata) o addirittura scompare dalla società che prima la usava (si pensi a certi dialetti, che hanno avuto una sorte che ci auguriamo non tocchi anche all’italiano).

 

Per giungere al capolinea e tirar le somme: che cos’è l’italiano scomparso, la bella lingua di una volta?

 

No, nessuna rivisitazione nostalgica del passato dell’italiano. L’italiano scomparso è quella quota di lingua che nel corso del tempo esce dall’uso, in una sorta di fisiologico, incessante metabolismo. Io ho cercato di ricostruire le linee lungo le quali avviene questo processo di dismissione e ricambio, nel lessico, nella morfologia e nella sintassi e di capirne le cause. Dietro la lingua che usiamo c’è una zona d’ombra di parole, forme e costrutti perduti, a volte da secoli, a volte da pochi decenni o anni. Non è un cimitero, però, sia perché a volte quello che era scomparso ritorna (specie nel lessico), sia perché quello che si è affermato è anche frutto delle spinte di ciò che è scomparso (si pensi alla morfologia dei verbi).

Purtroppo c’è anche un italiano scomparso a causa di varie patologie, sia quelle sociali, come l’analfabetismo di ritorno o quelle fisiche, come le malattie mentali, che colpiscono i singoli individui, sia quelle linguistiche che colpiscono il sistema, quando questo perde competenze in dati àmbiti (ad esempio, l’italiano è a rischio in quello scientifico più avanzato).

 

In conclusione: cosa ci dice sulla storia dell’italiano l’attenzione a quello scomparso?

 

Intanto ci ricorda un tratto da ultimo troppo dimenticato, e cioè la forte radice fiorentina della nostra lingua e il progressivo allontanamento da essa. Moltissime forme cadute sono innovazioni fiorentine, che hanno circolato per un po’ nella lingua ma che poi non sono state accolte (neppure i venghi, venghino di fantozziana memoria, già vivi nel fiorentino del ’500). Poi ci mostra i meccanismi di selezione del materiale linguistico, in genere all’insegna dell’economia e dell’efficienza (scomparsa di doppioni lessicali, riduzioni di varianti morfologiche della stessa parola). Infine, il peso sulla lingua della grammatica esplicita, che ha favorito regole nuove nella sintassi, dovute alla sua attenzione privilegiata alla lingua scritta (ad esempio la scomparsa del che congiunzione ripetuto dopo inciso, tratto che nell’orale è plausibile ma nello scritto inutile).

 

In conclusione, come ben ha focalizzato Matteo Motolese per Il Sole 24 ore, Vittorio Coletti non allestisce un panegirico dell’italiano che fu, né commenta con toni nostalgici o accusatori i mutamenti descritti; al contrario, l’accademico cruscante disserta sulla lingua sottolineando con vigore la sua forte valenza sociale e umana, che sottolinea la portata multiforme delle parole. Esse infatti, quali testimonianze attive di periodi, epoche, idee o modi di essere, rappresentano quel vivo processo d’innovazione che è motore pulsante d’ogni lingua in movimento.

 

 

 

 

 

Riferimenti biblio-sitografici

Vittorio Coletti, L’italiano scomparso. Grammatica della lingua che non c’è più (Bologna, Il Mulino, 2018)

Matteo Motolese, Parole e idee dell’italiano scomparso, ilsole24ore.com, 18 luglio 2018

Ludovica Maconi, L’italiano scomparso. Grammatica della lingua che non c’è più, www.treccani.it

Silvana Mazzocchi, L’italiano scomparso. Grammatica della lingua che non c’è più, www.repubblica.it

L’italiano scomparso. Grammatica della lingua che non c’è più di Vittorio Coletti, intervista comparsa in letture.org

 

Immagine: Guerre stellari - Il ritorno dello Jedi (1983), regia di R. Marquand

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Dallo stagno al lago: l’italiano scritto alla prova del nuovo esame di Stato

 

Secondo la cosiddetta sindrome dello stagno, proposta dal giornalista e scrittore Roy Peter Clark allo scopo di porre l’attenzione sui deficit dello scrivente d’ogni età, quando leggiamo possiamo nuotare all’interno di un vocabolario vasto come un lago; ma esso si restringe all’improvviso, quando scriviamo, sino a diventare uno stagno.

Non a caso Cesare Segre, accademico della Crusca, lamentava – a proposito della lingua degli studenti e della classe politica – un’endemica povertà lessicale, unita all’incapacità cronica di costruire frasi complesse in grado di riassumere, raccontare o riferire di un evento. Limiti non certo trascurabili, perché ostacolo alla presa di coscienza del mondo e della realtà: come dire, chi mal si esprime è incapace tanto di giudicare quanto di proporre ragionamenti di un certo pregio.

 

Il gruppo di lavoro coordinato da Serianni

 

E ancora: Tullio De Mauro, sulla falsariga dell’invettiva di Segre, ricordava che, per combattere l’analfabetismo funzionale e formare cittadini consapevoli, occorre dare a tutti la possibilità di ragionare su dati di fatto o documentare le proprie scelte, allenando la comprensione e il senso critico degli scriventi, a partire dall’età scolare.

Ora, di recente il Gruppo di lavoro coordinato dal linguista Luca Serianni e nominato presso il MIUR, con il compito di fornire indicazioni operative sulle prove scritte al termine della scuola secondaria di primo grado (e suggerire modalità di verifica delle competenze di italiano), ha elaborato il Documento di orientamento per la redazione della prova scritta di italiano.

Vademecum di indubbio interesse, presentato dalla Ministra Fedeli lo scorso gennaio e redatto sulla base del combinato disposto delle più recenti novità legislative, legate alla valutazione di apprendimenti e competenze (D.Lgs 62/2017) e alla riforma dell’esame conclusivo del primo ciclo d’istruzione, di cui al D.M. 741/2017.

 

Il riassunto!

 

Il Documento di orientamento, va specificato, costituisce solo una traccia per le Commissioni d’esame, libere poi di definire le prove tenendo conto delle Indicazioni Nazionali e della presenza dei vari bisogni educativi speciali (BES) nei singoli istituti scolastici.

Inoltre, come Luca Serianni ha avuto modo di precisare a più riprese, indipendentemente dalle prove d’esame il Documento rimarca l’opportunità – come preciseremo in séguito – di esercitare la pratica didattica del riassunto, attività basilare per la riformulazione o la gerarchizzazione dei contenuti e passaggio irrinunciabile per la verifica della comprensione di un testo.

 

Tre prove

 

In sintesi, il vademecum d’orientamento – che anzitutto sconsiglia il cosiddetto tema libero – ha una precisa ratio, riconducibile a precisi dettami metodologici, i quali consigliano (a scelta) il ricorso a più prove:

- la prima: un testo narrativo, che tragga spunto da un input letterario, una frase chiave o un’immagine (accompagnati da precise indicazioni in merito al contesto, all’argomento, allo scopo e al destinatario) o un testo descrittivo, che sviluppi e affini l’osservazione e l’immaginazione;

- la seconda: uno scritto che induca gli alunni ad argomentare, magari chiedendo loro di costruire un dialogo tra due interlocutori su un tema dato oppure lo sviluppo di una tesi rispetto alla quale si chiede di contro-argomentare;

- la terza: prove di comprensione di un testo letterario, divulgativo o scientifico, anche attraverso precise richieste di riformulazione, riscrittura, riduzione o sintesi parafrastica.

Dunque tre modelli ad ampio spettro, volti a saggiare più capacità, tra cui la comprensione e la sintesi del testo e non soltanto la libera creatività.

Ora, la buona comprensione o rielaborazione di un testo scritto non è competenza afferente soltanto al mondo della scuola: piuttosto è requisito di cittadinanza attiva e consapevole – puntualizza Serianni – che coinvolge la società nel suo insieme.

 

L’analfabetismo funzionale

 

Non è bene cedere al disfattismo, nonostante i dati provenienti dalle indagini OCSE attestino intorno al 70% la percentuale degli analfabeti funzionali nel Bel Paese; tuttavia l’impianto teorico e didattico su cui poggia l’insegnamento dell’italiano andrebbe riveduto. Ma perché? Intanto per un motivo pratico e immediato: i contenuti teorici grammaticali e lessicali, proposti dagli insegnanti, sono scarsamente funzionali per la padronanza della lingua scritta e sovente si riducono a esercizi compilativi, i quali richiedono di applicare diafane regolette piuttosto che stimolare una seria riflessione sul funzionamento della lingua o sull’architettura del testo (non a caso è la linguistica testuale, che indaga su coerenza e coesione, a indicar la via, non già la salmodiante ripetizione delle regole codificate dall’uso).

Muoversi correttamente tra le insidie della lingua presuppone, come condicio sine qua non, un’attitudine alla riflessione metalinguistica e ciò non riguarda solo la grammatica, bensì anche il lessico e la semantica. Inoltre occorre che vengano impartite le necessarie procedure per impostare un ragionamento, organizzare logicamente i dati a disposizione – ancora una volta Luca Serianni docet –, sviluppare deduzioni o spiegare efficacemente facendo ricorso a risorse retoriche e argomentative. Del resto, il presupposto di fondo di un buon testo, argomentativo in particolare, è il rispetto della coerenza testuale e a questa si arriva attraverso lo smontaggio dei nuclei informativi e il riassunto, come ricordavo in apertura.

Il riassunto, mediante la gerarchizzazione dei dati significativi, educa alla sintesi, limita l’inutile verbosità e verifica puntualmente la padronanza linguistica.

 

Il pensiero critico

 

Peraltro – per concludere – le indicazioni e i consigli del Gruppo di lavoro ministeriale, coordinato da Serianni, non hanno mai messo in discussione il tema (come qualche arguto commentatore, perlopiù nel Web, aveva paventato: ennesima dimostrazione che l’universo social non è che una barbara fucina di pareri fai-da-te); piuttosto, attraverso il Documento, si è cercato anzitutto di fornire utili consigli agli addetti ai lavori, allo scopo di diversificare le metodologie didattiche e renderle più efficaci.

Inoltre si è cercato di palesare la consapevolezza che l’esame di italiano, tanto nel testo scritto quanto in quello orale, non è una mera chiacchierata sulla lingua; al contrario, gli alunni devono ricorrere al pensiero critico, allo scopo di formulare un discorso coerente e coeso, costruito mediante scelte espressive adeguate.

 

 

 

 

Bibliografia essenziale

1. Roy Peter Clark, Writing Tools: 50 essential strategies for every writer, Little, Brown&Company, 2008

2. Cesare Segre, Opera critica, Milano, Mondadori, 2014

3. Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, Bari, Laterza, 2004

4. Documento di orientamento per la redazione della prova scritta d’italiano nell’Esame di Stato conclusivo del primo ciclo, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2017

5. Luca Serianni, Per l’italiano di ieri e di oggi, Bologna, Il Mulino, 2017.

 

 

Immagine: By Tobi 87 [GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], from Wikimedia Commons

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Ciao cantautore ciao: Luigi Tenco, parole con tormento

«Signori benpensanti – scriveva Fabrizio De André nella sua struggente Preghiera in gennaio –, spero non vi dispiaccia se Dio, nelle sue braccia, soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte, che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte».

Con questo epitaffio laconico, Faber salutò l’amico e collega Luigi Tenco, che aveva deciso di farla finita proprio nel cuore del Festival di Sanremo del 1967; gesto di estremo, tragico sberleffo nei confronti del pubblico e della giuria, capaci di sancire l’eliminazione della sua Ciao amore ciao. Tenco avrebbe compiuto 80 anni, in questi giorni.

Parole dolci ma aspre e sfidanti, quelle di De André, in linea con i temi della cosiddetta scuola genovese (Paoli, Bindi, Sentieri, Lauzi e, va da sé, Tenco), capace di rompere con la precedente tradizione musicale italiana in forza di una passionalità rivoluzionaria (in cui l’amore, sovente perduto, deflagra e scuote la coscienza), esprimendo un profondo disagio intellettuale e impegnandosi, esplicitamente o sotto traccia, in una continua denunzia politica e sociale.

I cantautori “genovesi”, di nascita o d’adozione (Luigi Tenco era d’origini piemontesi), ispirati dal jazz, dallo swing e dal folk d’oltreoceano, nonché dalla filosofia esistenzialista transalpina, inseriscono nella canzone italiana nuove sfumature ideologiche, letterarie e politiche; avviano così – mediante l’uso poliedrico e simbolico della parola – nuove sperimentazioni, col fine di denunziare l’ipocrisia della classe borghese dell’epoca, e si fanno voce dell’emarginazione delle classi meno abbienti. Scelte contenutistiche, pertanto, ma anche linguistiche caratterizzano i testi delle loro canzoni: le parole dei cantautori “genovesi”, mai stereotipate, puntano a far poesia e al contempo tentano di sfogliare il grande libro del mondo, a partire da una quotidianità vista, vissuta, ricreata in modo non convenzionale. Si scardinano i temi melodici, sovente zuccherosi e obsoleti, della tradizione canora dei primi decenni del Novecento, ancorata perlopiù al poetismo convenzionale condito di assonanze, troncamenti e rime baciate facili e rassicuranti. Si abbandona così l’omogeneità stilistica delle “canzonette”, per approdare in una dimensione sospesa tra l’aulico, magari riletto in chiave ironica o aggressiva, e il popolaresco.

 

Ora, Luigi Tenco, rappresentante di spicco dei nuovi cantautori della seconda metà degli anni Sessanta, entrò ben presto nella leggenda della musica leggera italiana, perché un colpo di pistola  ne spezzò anzitempo l’estro vivo e tormentato.

Ma chi era Luigi Tenco, nato nella provincia di Alessandria nel marzo del 1938 e divenuto, con gli anni, un’icona per i cantautori a lui succeduti, compresi quelli attuali? In che modo contribuì a rovesciare le abitudini melodiche del suo tempo?

Proveremo a delineare un breve ritratto dell’autore di Ciao amore ciao attraverso alcuni passaggi contenutistici, linguistici e stilistico-musicali.

 

Uno: la voce della tradizione popolare

 

«La musica popolare resta il modo migliore per esprimere i sentimenti in modo schietto; nella nostra musica folk c’è una vera ricchezza, che bisognerebbe inserire nel sound moderno, proprio come i neri han fatto col rhythm and blues» – così Tenco esponeva il proprio credo in un’intervista datata 4 gennaio del 1967, una sorta di summa del suo pensiero e testamento ideologico, a pochi giorni dal clamoroso suicidio. Il cantautore piemontese, infatti, mirava a sfruttare – quale base della propria arte – il patrimonio musical-popolare italiano (dal Trallallero alla Tarantella), imbevuto di un melting pot culturale di risonanze arabe, celtiche, africane e slave. A partire da una base tradizionale, poi, Tenco sperimentava con uno slancio innovativo adeguato ai fermenti del suo tempo, palesando una vena crepuscolare e inquieta.

 

Due: temi non convenzionali e reminiscenze letterarie

 

Come i colleghi “genovesi”, nei suoi testi Tenco spazia in territori non convenzionali, se rapportati con le scelte contenutistiche dei cantanti che lo hanno preceduto; sovente lo slancio amoroso si infrange nell’incomunicabilità (come in Un giorno dopo l’altro) o sfocia nella frustrazione di una vita che non decolla (Lontano lontano ne è un esempio); parimenti, il tormento amoroso lascia spazio a un’aspra denunzia sociale, politica o anticlericale (basti pensare al brano Cara maestra, che gli costò l’allontanamento dalla RAI per un biennio).

Ma c’è di più. Tenco puntava a ripristinare una canzone popolare che recuperasse un’identità tradizionale e nazionale: in questo aspetto si avvertono, ad esempio, le influenze di Cesare Pavese. Amore e tragedia, il tema del tempo come memoria storica e come consapevolezza esistenziale e, soprattutto, quello del sogno: dimensione onirica che, peraltro, avvicina la produzione tenchiana ai Canti orfici di Dino Campana, una sorta di fatale “zibaldone” dei sentimenti.

 

Tre: scelte linguistiche e variopinte strategie musicali

 

Penna raffinata e affilata, quella di Tenco, che si può ben avvicinare, per certi aspetti, all'ispirazione anarchica dell’amico Fabrizio De André; i sentimenti struggenti, raccontati col cipiglio di certi estremismi stilnovistici, sono autentici e diretti soprattutto nel lessico: vengono epurati i sofismi della tradizione melodica “sanremese” e viene inserita la dimensione colloquiale nel testo scritto, capace così di raggiungere un pubblico sempre più vasto.

Il registro colloquiale e popolare, attraversato spesso da un’intensa vis polemica o da un nichilismo dei sentimenti, è ben maneggiato da Tenco. In Angela c’è un rovesciamento della donna idealizzatae («Angela, Angela, quando t’ho detto che voglio andarmene volevo solo farti piangere»); nella Ballata della moda il lessico si fa familiare e onomatopeico («Antonio tra sé rideva, ahahah-ahaha, diceva me ne infischio della moda, io bevo solo quello che mi va»); in Ciao amore ciao il cantautore diventa un Don Chisciotte errante e senza speranza («non saper far niente in un mondo che sa tutto e non avere un soldo nemmeno per tornare»); nella Ballata dell’amore c’è un’introversione quasi crepuscolare («parlano di te anche troppo sovente, io per una volta non dirò niente»); il pessimismo cosmico raggiunge  vette notevoli rispettivamente in Un giorno dopo l’altrola vita se ne va e la speranza ormai è un’abitudine») e in Com’è difficilecom’è difficile veder finire tutti i miei sogni in un bicchier d’acqua»).

Lo slancio polemico, che sfocia a tratti nell'invettiva verbale, trova sfogo in altre canzoni; si fa denunzia politica dai toni aspri e beffardi in Cara maestraEgregio signor Sindaco, vorrei sapere come mai vinto non hai eppure non sei morto, ma al posto tuo è morta tanta gente»), empito rivoluzionario militante in Il mio regnoun regno con un soldato che cercava le streghe e voleva cacciarle a sassate»), oppure attacco all’ignoranza e al pressapochismo in Io sono unoIo sono un uomo che parla poco, ma nel mondo c’è tanta gente che pretende di farsi sentire e non ha niente da dire»).

Nelle scelte musicali, poi, si nota in Tenco una vocazione alla sperimentazione, che lo porta ad alternare generi tra loro molto diversi: sia sufficiente ricordare il folk strumentale francese, sospeso tra le melodie occitane e la black music, di Un giorno dopo l’altro; il rock scoppiettante di Vorrei sapere perché; il gospel di No, non è vero; il jazz di Triste sera oppure gli archi malinconici e soavi di Lontano lontano.

In conclusione, a ottant’anni dalla nascita, Luigi Tenco rappresenta ancora un punto di riferimento per la canzone d’autore, nonché una leggenda popolare avvolta nel mistero; artista schivo e imperscrutabile, che pur ha solcato il proscenio musicale italiano con grande ardore, lasciando ai colleghi che hanno preso il suo posto un’eredità notevole.

 

Daniele Scarampi

(Insegnante di lettere, esperto di didattica e di didattica dell'italiano)

 

Biblio-sitografia essenziale

1) Daniele Scarampi, Cattedrali di luce nel cuore: le canzoni dei cantautori genovesi, tra aulico e popolaresco, su www.treccani.it/ scritto e parlato

2) Pierfranco Bruni, Luigi Tenco e Cesare Pavese: tra linguaggio poetico e linguaggi delle canzoni d’autore, da cinquewnews.blogspot.it

3) AA.VV, Tenco, il ragazzo che non credeva nella morte, da www.lacapannadelsilenzio.it

4) Gianni Candellari, Luigi Tenco, da www.ondarock.it

5) Paolo Talanca, Luigi Tenco, che ci insegnò ad amare senza retorica, da www.ilfattoquotidiano.it

6) Alberto Vincenzoni, Luigi Tenco – Dino Campana: poeti allo specchio, Logus, 2013

7) Lorenzo Coveri, Per una storia linguistica della canzone italiana, Novara, Interlinea, 1996

8) Gianni Borgna, Storia della canzone italiana, Bari, Laterza, 1992

9) Giuseppe Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, Bologna, Il Mulino, 2010.

 

Immagine: Di Mjchael (Opera propria) [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], attraverso Wikimedia Commons

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Il congiuntivo a Sanremo: parlando con Lorenzo Baglioni, che lo ha cantato

 

Quando il Molleggiato, correva l’anno 1968, interpretò Una carezza in un pugno, finì per affidare alla storia due macroscopiche evidenze, che avrebbero fatto discutere incessantemente i posteri, vale a dire il tema del dubbio amoroso (per altro un evergreen sin dai tempi della poesia trobadorica) e la vexata quaestio del signor Congiuntivo (in questo caso omesso e non errato): «Ma non vorrei che tu, a mezzanotte e tre, *stai già pensando a un altro uomo».

 

Da Totò a Caparezza

 

Il congiuntivo è un tema di strettissima attualità (fior di linguisti, tra cui Serianni, Patota, Della Valle, e Antonelli lo hanno ben dimostrato, a più riprese), nei media come nella carta stampata, tra la gente colta e quella mediamente colta; il suo stato di salute ha da sempre destato (e continua a destare) preoccupazione e sulla sua sorte c’è un’attenzione fortissima, che sovente sfocia in una evidente censura sociale di fronte agli errori nell’utilizzo.

Quando si parla di congiuntivi sbagliati, ci si riferisce anzitutto all’errore morfologico, come ad esempio nel caso dei congiuntivi maccheronici (spesso ironici e voluti) in stile Totò («Ma mi facci il piacere!») o Caparezza («Venghino signori che qui c’è il vino buono»), nati dall’erronea uscita in -i di verbi della seconda e della terza coniugazione, i quali nelle prime tre persone del congiuntivo presente normalmente escono in -a; ma ci si può riferire anche all’errore sintattico, che sovente si risolve nell’omissione del congiuntivo (obbligatorio) a favore dell’indicativo, sia nelle subordinate completive («Basta che vi *decidete») sia in quelle circostanziali («Benché *piove, siamo usciti lo stesso»). Il congiuntivo errato, purtroppo, soprattutto quello di matrice fantozziana (*vadi, *venghi, *eschi), scatena sempre quello che Patota e Della Valle definiscono «il comune senso dell’errore»; scivolare su un congiuntivo, infatti, per la comunità dei parlanti equivale a violare un «dato non negoziabile» (per dirla con Michele Prandi), ossia quello che non ci lascia alcuna possibilità di scelta, pena appunto una forte censura sociale.

 

A scuola di fumetto e pop

 

Ora, nel tempo, strafalcioni e mancato uso (da parte di calciatori, politici e altri personaggi pubblici, ma anche gente comune) hanno contribuito al costante necrologio del congiuntivo, un de profundis che non conosce sosta. Verità incontestabile, anche se, tenendo ben presenti gli studi di linguisti e addetti ai lavori, non si può parlare di una morte certa e definitiva: la sensibile flessione del suo utilizzo e gli impropri morfo-sintattici sono perlopiù da addebitare alla pressione esercitata dall’indicativo, dovuta soprattutto all’italiano parlato e digitato. Inoltre, è noto, l’errore grammaticale sovente non è che il risultato di un movimento diacronico della lingua: quest’ultima, per sua natura, è mutevole e mobile («Benché tu *vadi» non lo scriveva il ragionier Ugo Fantozzi, bensì un certo Giacomo Leopardi nelle Operette morali) e, muovendosi, altera la percezione che si ha di determinate forme, che possono diventare sbagliate pur non essendolo di per sé.

Comunque sia, i problemi maggiori del congiuntivo si riscontrano nell’oralità e, per quel che concerne l’italiano scritto, in Rete. Tutt’altra storia, ad esempio, si registra nel fumetto d’autore (Tex Willer, Diabolik e addirittura Homer Simpson raramente ne sbagliano uno, come ha notato Giuseppe Antonelli), nella tivvù per bambini o nelle telecronache sportive e, soprattutto, nelle canzoni di successo, dallo Zecchino d’oro («Si dice mangi troppo, non metta mai il cappotto», Il coccodrillo come fa?) al classico pop («Lascia che io sia il tuo brivido più grande», Nek, Lascia che io sia).

 

La parola al congiuntivo cantato e cantante

 

Recentemente, un poliedrico cantautore fiorentino, Lorenzo Baglioni, protagonista tra le giovani proposte del Festival di Sanremo, si è occupato del congiuntivo; il video del suo Il congiuntivo ha superato le sei milioni di visualizzazioni online e ha sfiorato i centomila like su Facebook, segno tangibile di un ecumenico apprezzamento da parte del pubblico, giovane e meno giovane. E sul palco la sua esibizione è stata accolta con molto divertimento.

Lo abbiamo contattato, provando a capire l’origine di un così limpido successo.

Lorenzo, con cortesia, brio e chiarezza d’idee ci ha fornito la sua ricetta per un “pop didattico”, che possa insegnare divertendo.

 

Lorenzo Baglioni: didatta, artista istrionico, cantautore; abile a proporre un nuovo modo di far musica e a portare alla ribalta la grammatica, croce e delizia non solo tra i banchi di scuola. Si è parlato sovente di “pop didattico”, ma c’è di più; si tratta di una vera e propria sfida lanciata alla didattica, o meglio, ai modi tradizionali (e forse superati) di far didattica. Giusto?

 

«Assolutamente sì. È proprio così. Forse il messaggio primario di questo progetto è “una didattica alternativa è possibile”. Non voglio dire che quella proposta da me sia la migliore, voglio solo un po’ punzecchiare chi si occupa di didattica, sperando di invogliarlo a ricercare la propria via, il proprio modo di raccontare e fare didattica».

 

Il congiuntivo, un brano semplice e geniale e di immediato enorme successo: annose questioni quali la morfologia verbale o la consecutio approdano d’incanto nelle cuffiette o sul display di migliaia di persone. Pensi di aver dato voce ecumenica ad un nuovo “purismo” linguistico, che da fenomeno di nicchia riesce finalmente a raggiungere le masse?

 

«Sarebbe cosa meravigliosa, ma in realtà credo solo di aver cavalcato un sentimento di malcontento che già era fortemente presente. La nostra lingua è tanto bella, quanto alle volte può essere insidiosa. Io sono il primo a rendermene conto, dico infatti sempre che la canzone che ho scritto è in realtà autobiografica, quel ragazzo che sbaglia i congiuntivi sono io. E allora mi son detto: «Basta! Voglio cercare una volta per tutte di capire come funziona questo benedetto congiuntivo!». La bellissima accoglienza della canzone mi ha fatto capire che forse non ero il solo ad averne bisogno».

 

Veniamo alla kermesse sanremese. Dalla scimmia danzante che dava «lezioni di Nirvana» la specie si è evoluta, nella postura e soprattutto nel linguaggio: nella città dei fiori, proscenio della musica nazionalpopolare, con te approda la “grammatica della canzone”. Ne usciremo tutti più ricchi (o evoluti)?

 

«Una canzone deve sempre arricchirti. Non serve parlare di grammatica per arricchire chi ci ascolta. Lo si può fare anche solo intrattenendo e generando divertimento. Certo, con questa canzone mi piacerebbe lasciare un messaggio preciso, che è quello che ti ho espresso prima, e magari anche qualche sorriso».

 

Lorenzo Baglioni, va da sé, sei ormai inscindibilmente legato alla canzone che fa didattica e il titolo del tuo nuovo album, Bella prof, uscito il 16 febbraio 2018, avvalora questo legame. Tuttavia ti sei recentemente occupato anche di discriminazione e, soprattutto, di netiquette, con particolare attenzione alla lotta contro le bufale online. In che modo pensi che il tuo simpaticissimo Web simulator, vero e proprio videogioco-canzone, possa incidere?

 

«Intanto grazie per aver citato una canzone/video a cui sono davvero molto legato. Spero che la canzone Web Simulator possa divertire facendoci porre l’attenzione su una problematica vera, reale, e molto attuale. Poi serve altro, ovviamente, per imparare davvero ad adottare un uso consapevole a sano del web, e a mio parere, questo andrebbe fatto a scuola».

 

                                                                                                       *    *    *

In conclusione, credo si possano fare due considerazioni.

La prima. Il congiuntivo, in genere malmenato o ignorato soprattutto nella dimensione orale della lingua (e in quella interattiva e digitata), gode invece di buona salute nello scritto, benché si debba sempre mantener vivo l’esercizio e l’utilizzo corretto, non solo sui banchi di scuola.

La seconda. Lorenzo Baglioni ha avuto il grande merito, attraverso la sua canzone (semplice nella melodia ma attenta ed efficace nell’aspetto didascalico), di diffondere una nuova e sana attenzione per la lingua.

Comunque sia, la kermesse sanremese di quest’anno ha anche regalato – in modo brillante e divertente – una ventata di inventività linguistica, capace di conciliare le regole grammaticali (il Sistema) con la lingua viva del parlato (il Testo) e di dare dignità all’abbassamento del tono retorico e alla preferenza per un lessico aderente alla quotidianità, seguendo e approfondendo un percorso tracciato già con Modugno nei primi anni Sessanta.

In altre parole, alcuni brani sanremesi hanno giocato a scardinare la vecchia tradizione linguistica festivaliera che, come spiegò tra i primi e meglio di altri Lorenzo Coveri, linguista dell’ateneo genovese, a lungo è stata imprigionata negli stilemi (e negli stereotipi) del linguaggio poetico più tradizionale – quello delle assonanze, dei troncamenti o delle rime baciate –: oggi, invece, con canzoni come Il congiuntivo di Lorenzo Baglioni, Il mago di Mudimbi e Vita in vacanza del gruppo Lo Stato Sociale, vero e proprio regesto pop di lessico d’attualità (baby pensione, poliziotto di quartiere, rottamatore, esodato, blogger, influencer, motivatore, cuoco stellato, analista di calcio mercato, bioagricoltore, risorsa umana), si respira aria nuova.

 

 

 

 

 

Bibliografia essenziale

 

1) G. Patota-V. Della Valle, Viva il congiuntivo!, Sperling&Kupfer, 2009

2) G. Antonelli, Comunque anche Leopardi diceva le parolacce, Mondadori, 2014

3) C. De Santis-M.Prandi, Le regole e le scelte. Manuale di linguistica e grammatica italiana, Utet, 2010

4) Lorenzo Coveri, Parole in musica, Feltrinelli, 2002

/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_82.html

Per Giovanni Nencioni


 

 

Gualberto Alvino, Luca Serianni, Salvatore Claudio Sgroi, Pietro Trifone

Per Giovanni Nencioni

(a cura di) Gualberto Alvino; con 35 lettere inedite al curatore

Roma, Fermenti editrice, 2017

 

Nel 1974 Philippe Petit, funambolo parigino, tese un filo d’acciaio tra le Twin Towers newyorkesi e coronò il suo sogno: restare in equilibrio sull’immensità di Manhattan, tra cielo e terra, dove nessuno aveva mai osato affacciarsi.

La vita, si sa, è un gioco d’equilibrio, proprio come quando si va in bicicletta; occorre sempre evitare di perderlo, procedendo alla giusta velocità. Questo confidò Giovanni Nencioni, storico presidente dell’Accademia della Crusca, a Luca Serianni, all’inizio degli anni ‘80, per giustificargli la vivacità del proprio spirito e la propria sicurezza nell’incedere nonostante le primavere ormai avanzate.

Nencioni, del resto, glottologo e lessicografo di fama internazionale, professore emerito della Scuola Superiore Normale di Pisa, perseguì per tutta la sua carriera – con equilibrio e straordinaria vivacità intellettuale – lo studio della realtà linguistica, che circonda l’uomo con determinatezza e obiettività, costituendo la base della glottologia quale pura scienza del linguaggio.

Questa realtà ricercata da Nencioni, questo “mondo” della lingua, non alberga tuttavia né nelle grammatiche né nei vocabolari, bensì nel grande mercato dei parlanti: fatti linguistici e fatti culturali van di pari passo e c’è uno stretto legame – quasi inscindibile – tra lingua, cultura e popolo, proprio come aveva già intuito il grande psicologo Lev Vygotskij, per il quale il linguaggio non è che una rappresentazione culturale che deriva dall’ambiente sociale, sempre pronto a influenzare tutti gli strumenti che l’uomo via via acquisisce.

Nencioni, pertanto, impostò sempre le sue infaticabili ricerche di studioso e saggista sul linguaggio inteso come “istituzione”, come rete di relazioni culturali e sociali (per dirla con Saussure) che viene gettata all’interno di un variopinto e magmatico continuum di significati (e di significanti), che in questo modo si definiscono.

 

All’opera nencioniana, ma anche alla personalità del celebre studioso fiorentino, è stata recentemente dedicata una raccolta di contributi, Per Giovanni Nencioni, curata con dovizia di dettagli da Gualberto Alvino, filologo e critico letterario di consolidata esperienza, sulla base di un carteggio che lo stesso Alvino e Nencioni ebbero tra il 1993 e il 2003.

La raccolta è divisa in quattro sezioni, contenenti un Ricordo di Luca Serianni, alcune Spigolature nencioniane di Salvatore Claudio Sgroi, i Lasciti di un maestro individuati e assemblati da Pietro Trifone e il corpus costituito dalle 35 missive inedite, a cura di Alvino; alle quattro parti appena ricordate fa séguito un ampio repertorio bio-bibliografico di Giovanni Nencioni, che chiude l’opera scritta a più mani.

Nel Ricordo d’apertura, Luca Serianni tratteggia lo spirito lucido e vivacissimo dello storico presidente della Crusca, il suo impareggiabile acume d’esegeta della lingua letteraria e, soprattutto, la sua lungimiranza di studioso sempre attento allo sviluppo delle tendenze – grammaticali, lessicali e stilistiche – della lingua in movimento.

Nelle Spigolature, invece, Sgroi mette a fuoco la poliedricità del Nencioni linguista: glottologo, storico del pensiero linguistico e instancabile promotore di studi sulla lingua italiana, incardinati su un concetto centrale: lungi dall’esser un codice univoco, la lingua è una realtà in divenire, eterogenea nella diacronia, dinamica e mobilissima nella sincronia.

Quindi Trifone, nei Lasciti, elenca e spiega esaustivamente le numerose formule critiche coniate da Giovanni Nencioni e poi ri-utilizzate da molti, quali - per esempio - le agnizioni di lettura (ovverosia i rapporti tra lingua e stile di autori diversi), il parlato-parlato, il parlato-scritto e il parlato-recitato (in merito ai complessi rapporti tra la lingua parlata, nelle sue varietà, e quella scritta) e l’autodiacronia linguistica (tra l’altro titolo d’un saggio tra i più celebri dello studioso), nella quale parole e stili d’ogni epoca si stratificano e sincretizzano con pari urgenza e dignità.

Tuttavia, come già ricordato, il cuore della raccolta sono le lettere tra Gualberto Alvino e Nencioni, che raccontano di un’amicizia professionale e al contempo pretta e profonda, talora graffiante nel confronto intellettuale e altrettanto feconda nei propositi operativi. Nell’introdurre le 35 missive, Alvino ce la racconta con la misura di un lessico estremamente sorvegliato, quasi chirurgico nel ritagliare con precisione gli argomenti di studio comuni, ma amabile come una carezza nel ricordo delle feconde stagioni condivise.

A partire dal 1996 Alvino s'impegnò in un’ostinata cura dei carteggi tra Antonio Pizzuto (scrittore, storico e letterato poliglotta siciliano), il celebre filologo Gianfranco Contini, la studiosa tedesca Margaret Piller Contini e lo stesso Nencioni: carteggi utilissimi, non in ultimo, all’esegesi dell'opera pizzutiana.

Ora, molte delle lettere del carteggio Alvino-Nencioni, presenti nella raccolta che stiamo commentando, propongono proprio la genesi e la cronistoria di vari altri carteggi, in particolare del rapporto epistolare tra Nencioni e Pizzuto, durato dal 1966 e il 1976 (Caro Testatore, carissimo Padrino, come lo definì il presidente della Crusca) e dello scambio di missive tra Pizzuto e Contini, che il curatore Alvino ebbe modo di chiamare Coup de foudre.

Dunque ricordi pizzutiani, perlopiù, ma non solo: le 35 lettere di Per Giovanni Nencioni sezionano altresì la “lingua dei linguisti” - tema caro a Gualberto Alvino -, nonché gli “strafalcioni” dei letterati universitari, sovente imbrigliati in una sorta di sublingua ridondante e ricca di tante, troppe acrobazie concettuali.

Insomma, quattro studiosi di calibro ci raccontano con efficacia la figura di Nencioni, unica nel panorama degli studi linguistici nostrani e lo fanno con ardore, tecnica, professionalità e una buona dose d’affetto: ne consegue un’opera che celebra senza declinare nel panegirico e rende il profilo di un uomo coltissimo, arguto, infaticabile e raffinato, sia nei modi sia nelle parole.

 

 

BIBLIOGRAFIA RAGIONATA

1) G. Nencioni, Appunti di glottologia, Bari, Adriatica Editrice, 1951

2) P. Polidoro, Corso di semiotica per la comunicazione, Uni Teramo, A.A. 2007/2008

3) F.Saussure, Cours de linguistique générale, Paris, Payot, 1922

4) L. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Firenze, Giunti, 1954

5) P.M. Bertinotto, La linguistica ‘dialogica’ di Giovanni Nencioni, Scuola Superiore Normale di Pisa, 2009

 

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Storia illustrata della lingua italiana

 

 

Luca Serianni e Lucilla Pizzoli

Storia illustrata della lingua italiana

Roma, Carocci, 2017

 

«Semplicità e armonia – lo scriveva il grande architetto statunitense Frank Lloyd Wright – sono le qualità che misurano l’autentico valore d’ogni opera d’arte».

La prima, infatti, a giudizio di chi scrive, è capace di raggiungere un pubblico vastissimo, rendendo accessibili concetti impegnativi; la seconda – invece – sovente sa equilibrare argomenti di per sé difficili da sintetizzare o da compattare.

E proprio con semplicità e armonia Luca Serianni, uno dei maestri della linguistica storica italiana, e Lucilla Pizzoli, docente di Linguistica italiana all’Università per gli studi internazionali di Roma (UNINT), nella loro Storia illustrata della lingua italiana ci raccontano di un’avventura meravigliosa, balda e ardita quanto una vera e propria love story, ma anche ricca di riferimenti puntuali, riflessioni letterarie, curiosità culturali: la cronistoria della lingua italiana, tra genesi, sviluppo e maturità; e, con estrema attenzione, ci descrivono i suoi stadi evolutivi, che han dapprima fissato le regole nello scritto e poi, pian piano, non senza mutamenti di rilievo, codificato gli usi nel parlato; sino a condurre all’attuale sincretismo tra i due grandi assi della lingua viva, l’oralità e la scrittura, ben evidente nell'era della tecnologicizzazione dei media  e dall’avvento della comunicazione (di massa) mediata dal computer.

 

Tuttavia è nella veste grafica che la Storia illustrata riassume i suoi punti di forza; l’immagine – è noto – ha un impatto potente e immediato, che stimola nel destinatario di un messaggio suggestioni in grado di andare oltre il già di per sé prezioso contributo di informazione co-testuale, considerata la struttura particolare di un libro di alta divulgazione in cui testo e apparato iconografico si relazionano, integrano e riconnotano reciprocamente. Attraverso un ricco campionario di rimandi visivi puntuali e pertinenti (che include poche e azzeccatissime infografiche), gli autori son riusciti con risultati efficaci a stimolare il meccanismo inconscio d’elaborazione del lettore.

Quanto invece alla struttura e all’aspetto contenutistico, la  Storia illustrata si configura come un agile compendio enciclopedico, un po’ manuale un po’ saggio; la materia trattata – notevole per la mole d’informazioni e per il dedalo di rapporti di causa/effetto innescati – è affrontata con gradevole sobrietà, che mai declina nella seriosità specialistica.

 

Ne consegue una lettura accattivante, adatta tanto al pubblico colto quanto a quello digiuno di letture specifiche nel settore: anche la citazione non ovvia, per esempio, ha sempre un taglio brillante ed è funzionale al contesto didascalico; oppure il passaggio che commenta vuoi un raro in-folio letterario vuoi un’illustre testimonianza artistica, non risulta mai di nicchia, perché viene sempre alleggerito da una boutade o da un aneddoto curioso.

Ora, l’itinerario culturale attraverso cui la Storia illustrata ci conduce si compone di quattro tappe, che ricompongono spazi e tempi della nostra plurisecolare storia linguistica.

 

Il viaggio parte con il racconto della lunga marcia dal latino all’italiano, percorso che peraltro ha contribuito alla genesi di tutte le lingue romanze moderne: dal Placito capuano alle “tre Corone”, dalla codificazione bembiana all’aspra questione della lingua, che porta sino alla riforma viva e vera di Manzoni e alla laboriosa ricerca di una lingua ponte tra la dimensione letteraria e la concreta quotidianità, tipica degli autori del Novecento.

La seconda tappa del viaggio, invece, accompagna nella ricerca di un italiano nazionale e unitario, non solo espressione della lingua scritta, ma anche solerte testimonianza dell’enorme varietà di quella parlata; ricerca di una lingua di tutti e per tutti (seppur marchiata dalla profonda impronta regionalistica e vernacolare), filtrata nel secondo dopoguerra dalla scuola attraverso l'istruzione di massa e rimodellata e universalizzata dai mass-media.

La terza tappa concerne l’inferenza delle lingue straniere e il loro diretto (o indiretto) contributo allo sviluppo dell’italiano, a partire dai molteplici traffici, scambi culturali o dominazioni militari del passato.

Dai gallicismi dei primi secoli al franco-provenzale di stampo letterario, dagli ispanismi cinque e secenteschi alle francesizzazioni d’epoca illuministica e napoleonica, per giungere infine – dopo l’età del purismo linguistico ottocentesco – alla sovraestensione globale della lingua inglese, una sorta di manto gettato sulla viva operosità di tutte le lingue del mondo, italiano incluso (tema di dibattito ormai da più di qualche anno).

La quarta e conclusiva tappa, infine, esplicita il diretto apporto dell’italiano alle altre lingue, manifestatosi a partire dal Medioevo in relazione alle imprese marinaresche, commerciali, finanziarie e reso capillare, nei secoli successivi, dall’opera immortale di poeti, letterati, storici, musici e viaggiatori.

 

In conclusione, la Storia illustrata firmata Serianni e Pizzoli offre una panoramica completa sulla storia della lingua italiana nel mondo, lingua che tuttora anima le parole e i pensieri di milioni di persone e si manifesta sia nella sua dimensione scritta, professionale o specialistica, sia nel suo colorato abito orale, pratico, immediato e colloquiale.

L’italiano, insomma, è cuore pulsante di una Nazione; ma ovunque può ancora suscitare interesse in tutte le persone «attratte dalla letteratura e dalla cultura che questa lingua veicola e rappresenta»: ed è un buon segno, ad oggi, l'indubbio «interesse che lo studio della lingua italiana suscita nell'Europa occidentale e orientale» e «nei discendenti di terza o quarta generazione nei paesi tradizionalmente interessati dai flussi migratori come gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia, l'Argentina o il Brasile» (p. 148).

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Il cittadino alfabetizzato e le bufale in Rete

 

«Una lettera – lo arguiva la nota scrittrice americana Cathleen Shine alla fine dei '90 – nel momento in cui la si imbuca cambia completamente. Finisce d'esser mia e diventa tua: quello che volevo dire è sparito, resta solo ciò che capisci tu».

E questo è il punto. Ormai, anche se il referente è chiaro e il contesto comunicativo noto, la decodifica di un messaggio (tanto orale quanto scritto) non è operazione né agevole né scontata, come in realtà parrebbe.

Istruzioni travisate, continui fraintendimenti, messaggi o testi incompresi. Ecco la frontiera del (relativamente) nuovo analfabetismo, conosciuto come funzionale.

L'Italia, chiosava qualcuno, è diventata la Repubblica degli asini. Ebbene: secondo l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), organismo internazionale di indiscutibile prestigio, il 47% degli italiani ha una mera capacità di analisi elementare; il che significa che stenta nel rapportarsi con la complessità dei fenomeni culturali, sociali, politici e civili, avendo di essi una comprensione soltanto approssimativa. L'analfabetismo funzionale infatti, sentenzia l'OCSE, impedisce a una persona di leggere, scrivere e far calcolo in maniera elementare e ordinaria: ne consegue che l'analfabeta funzionale non è in grado di intervenire attivamente nella società o di sviluppare correttamente le proprie conoscenze; perché, di là da ciò che concerne i bisogni suggeriti dagli impulsi primari, costui non riesce a capire un articolo di giornale, riassumere un testo e men che meno ad appassionarsi a qualsivoglia forma culturale e artistica.

 

Atrofizzazione del sapere

 

Dati OCSE alla mano (ottobre 2016), in Italia solo il 3,3% degli adulti raggiunge livelli di competenza linguistica 4 o 5 - i più elevati - contro l'11,8% della media dei Paesi dell'Unione Europea e il 22,6% del Giappone, il Paese al vertice dell'indagine. Di contro, il 27,7% degli adulti italiani possiede unicamente competenze linguistiche di livello 1 (o inferiore), contro il 15,5% della media dei Paesi presi in esame. Un quadro avvilente e preoccupante, destinato purtroppo a peggiorare; come sovente confermato dal compianto Tullio De Mauro, secondo cui sarebbe in atto già da tempo un «processo di atrofizzazione del sapere costante e lievitante».

Preoccupazioni più che giustificate: sebbene infatti l'analfabetismo strutturale (ossia l'incapacità di apprendere qualsiasi lettera o cifra) si sia ormai attestato al 5% della popolazione italiana complessiva, la diffusione capillare dell'analfabetismo funzionale è altrettanto pericolosa, perché relega chi ne è affetto in un'area che sta al di sotto del livello minimo di comprensione orale e scritta, con enormi disagi nella vita quotidiana. L'analfabeta funzionale (condizione che per altro tutti possono sfiorare) non sa seguire istruzioni elementari, non sa scrivere una mail, non riesce a trovare le parole per esprimersi coi propri simili, non riesce a decifrare il bugiardino di un medicinale, non riesce a intendere una notifica, un avviso, un suggerimento. Ora, ricercare le cause di questo progressivo e inesorabile impoverimento culturale e sociale non è semplice, tuttavia i recenti dati ISTAT (gennaio 2017) potrebbero dare una valida indicazione: il 18,5% degli italiani, cioè quasi uno su cinque, lo scorso anno non ha mai aperto un libro o un quotidiano e ha vissuto utilizzando la televisione come unico strumento informativo di riferimento.

Eppure uno degli obiettivi della politica comunitaria in materia d'istruzione e di formazione, sin dagli albori dell'Unione Europea, è stato la creazione di una società della conoscenza (intellettuale e pratica), luogo ideale in cui coltivare imprescindibili prerogative quali l'inclusione sociale e la cittadinanza attiva.

 

Scarsa cultura digitale

 

Ora, tra gli elementi chiave della società della conoscenza spicca lo sviluppo culturale in genere; esso, a sua volta, necessita di individui in grado di gestire contesti sociali sempre più complessi e mutevoli, attraverso la capacità di cogliere il significato delle cose all'interno dei grandi flussi d'informazione, per poi comprendere, valutare e (soprattutto) decidere.

Essere cittadino attivo, infatti, significa anzitutto saper comprendere testi o immagini provenienti da più fonti, nonché decodificare informazioni allo scopo di sviluppare i poteri del discernimento e del senso critico, indispensabili per districarsi in una società in continua evoluzione.

Sfortunatamente, la piaga dell'analfabetismo funzionale sta sabotando gli obiettivi comunitari, esponendo la cittadinanza a importanti insidie.

Una di queste, forse la più pericolosa, è la diffusione capillare delle bufale online, ovvero notizie mistificate e tendenziose (non verificate, prive di fondamento e dai toni sensazionalistici) sovente travisate e accettate come autentiche da una parte consistente del popolo del web.

L’accesso ad Internet - la Rete telematica che ha una portata dirompente nelle nostre vite -  è ormai divenuto sinonimo di facilità di accesso alla conoscenza, di arricchimento culturale e di servizio universale (pur con i limiti geografici e infrastrutturali che ancora, in alcune zone del mondo, creano il cosiddetto digital divide), ma non può prescindere da uno strumento formidabile in nostro possesso e, purtroppo, non sempre esercitato: il buon senso.

Se poi mescoliamo l’assenza di buon senso alla non ancora adeguata cultura digitale in Italia e, soprattutto, all'incapacità dilagante di comprendere ed elaborare testi orali e scritti, ecco spiegato il proliferare, proprio sul web, delle bufale. Esse, di per sé più o meno innocue, hanno assoluta rilevanza all’interno della Rete e, per questo, debbono essere monitorate e portate alla conoscenza del grande pubblico: pensiamo, infatti, alla velocità di propagazione di una notizia fasulla e potenzialmente dannosa per il protagonista della notizia stessa, grazie ad applicazioni di messaggistica immediata come Whatsapp e ai social media come Facebook, Twitter e altre note piattaforme; oltretutto, occorre evitare di credere che Internet sia uno spazio virtuale in cui i nostri comportamenti, i nostri scritti e le nostre azioni possano avere ripercussioni più lievi rispetto a ciò che accade nella vita quotidiana. Chiarire che la Rete è un esempio assoluto di vita reale, seppur digitale per via degli strumenti che utilizziamo, ci consentirà certamente di essere sentinelle attente e fruitori più consapevoli.

 

Quattro suggerimenti anti-bufala

 

Ora, quali tipi di bufale possiamo impegnarci  a contrastare?

Anzitutto, dovrebbe essere buona abitudine di ogni cybernauta una semplice e per nulla scontata verifica delle fonti mediante il motore di ricerca Google, attraverso l'inserimento delle parole chiave del titolo (o sottotitolo) di una notizia che s'intende approfondire.

Evitiamo, quindi, di condividere una notizia presente sui social media senza averla prima letta e atteniamoci ad alcune semplici regole, riassunte graficamente anche sul Portale Valigia Blu:

 

1) Controllare che titolo, immagini e didascalie di una notizia, corredata magari da immagini, siano tra loro coerenti: queste sono le tipiche azioni che i giovani, con fatica, mettono in pratica. Il rischio che la rete divenga un “oracolo” infallibile è per loro tendenzialmente più alto;

2) Diffidare dai titoli sensazionalistici e verificare che non si tratti di fake già noti o manipolati: per questo, possiamo comodamente e gratuitamente consultare il sito Bufalopedia, che cerca di racchiudere un catalogo, anche simpatico, delle notizie fasulle circolanti in digitale;

3) Distinguere la notizia falsa dalla satira: portali web come “Lercio”, che chiaramente non vogliono neppure provare a emulare un’agenzia di stampa come l’Ansa, sono ormai entrati a far parte di una consuetudine satirica e possono strappare anche più di un sorriso;

4) Rinunciare ad accodarsi alla massa, in particolare su un social network famoso ed utilizzato come Facebook: avere i nostri contatti in punta  di dita, mediante uno smartphone o un tablet, ci può indurre ad un facile dibattito ma – ce lo insegna l’ingegneria sociale – rischiamo con troppa facilità di farci fuorviare dalla pubblicazione del commento precedente al nostro, da quello precedente ancora e così via, al punto di perdere poi di vista la notizia che intendevamo commentare.

 

Internet ha un forte potere aggregativo e rappresenta una meravigliosa opportunità di informazione e di conoscenza; ciò nondimeno l'utilizzo dello spazio online deve essere razionale e consapevole, propositi seriamente minacciati dalle conseguenze dell'analfabetismo funzionale.

Conseguenze che, per altro, incidono seriamente - a prescindere dalla dimensione digitale -  sulla nostra percezione della realtà, sui nostri vissuti o nei vari momenti quotidiani: a scuola, sul lavoro, all'interno delle relazioni sociali, di qualunque tipo e grado.

 

Bibliografia e sitografia di riferimento

  1. Cathleen Shine, La lettera d'amore, Adelphi, 1999
  2. http://www.cittadellascienza.it/centrostudi/2016/01/la-societa-della-conoscenza/)
  3. http://nuovoeutile.it/istruzione-tullio-de-mauro-se-un-mattino-di-primavera-un-governante/
  4. http://www.ilconservatore.com/attualita/indagine-ocse-lanalfabetismo-funzionale-colpisce-quasi-meta-degli-italiani/
  5. http://www.prismomag.com/analfabetismo-funzionale/)
  6. http://www.lastampa.it/2017/01/10/blogs/il-villaggio-quasi-globale/il-per-cento-degli-italiani-analfabeta-legge-guarda-ascolta-ma-non-capisce-MDZVIPwxMmX7V4LOUuAEUO/pagina.html
  7. bufalopedia.blogspot.com
  8. http://www.valigiablu.it/

 

 

 

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La grammatica nei test INVALSI: storia, finalità e problemi

 

A don Lorenzo Milani, celebre educatore e insegnante, stava davvero a cuore sottolinearlo: non c'è nulla di più ingiusto che far parti uguali tra disuguali; del resto già Albert Einstein ci aveva messo in guardia dall'insidia rappresentata da quelle “parti uguali: «ognuno di noi – scriveva il grande fisico – è un genio, ma se si giudica un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi sugli alberi, lui trascorrerà la vita a credersi stupido».

 

Le conoscenze acquisite

 

In tempi più recenti il dibattito educativo ha sentenziato, analogamente ma meno filosoficamente, che le prove di verifica strutturate e uguali per tutti (come le INVALSI) sono utili a stabilire le conoscenze acquisite, ma non lo son certo per certificare le competenze, didattiche e trasversali, essendo entrambe attitudini ben più complesse, per altro basilari nel monitoraggio della crescita intellettuale dei ragazzi.

Eppure nell'ultimo decennio le prove INVALSI sono state – e verosimilmente saranno, salvo modificazioni legislative – il più importante strumento ministeriale destinato al monitoraggio del livello d'apprendimento degli studenti italiani, soprattutto per quel che riguarda il primo ciclo d'istruzione. Cerchiamo pertanto di ricostruirne genesi e impostazione.

L'INVALSI è una prova scritta, di italiano e di matematica, che ha lo scopo di valutare l'apprendimento dei discenti delle scuole Primaria e Secondaria; il test bipartito, i cui contenuti sono assemblati dall'Istituto per la Valutazione del Sistema d'Istruzione, è stato introdotto dalla Legge n°176 del 25 ottobre 2007 e, dopo esser stato somministrato a scopo puramente statistico nel corso dell'esame di Stato 2008, dall'anno successivo partecipa alla valutazione finale del primo ciclo d'istruzione. La struttura della prova d'italiano, perfettamente in linea con le Indicazioni nazionali 2012, è costituita da due parti, una di comprensione del testo (proposto in forma continua, ossia con più frasi raggruppate in paragrafi e capitoli, o in forma non continua, ossia con elementi non verbali, come grafici e tabelle) e una di riflessione sulla lingua. Per ciò che concerne il formato dei quesiti, essi sono a loro volta di due tipi, a risposta chiusa e a risposta aperta: i primi possono presentarsi in forma semplice (ossia con una sola domanda e quattro alternative di risposta), in forma complessa (con più domande e due o più alternative di risposta), di tipo cloze (con l'inserimento di una parola in una lacuna di un testo) o di tipo matching (in cui mettere in relazione gli elementi di una lista con quelli di un'altra); i secondi, invece, possono essere a risposta univoca, con una sola possibile risposta corretta breve oppure a risposta articolata, con una risposta più argomentata e diverse possibilità.

 

Le tre competenze

 

Ai fini della valutazione degli studenti, il Quadro di riferimento di italiano delle INVALSI distingue tre livelli: la competenza pragmatico-testuale, la competenza grammaticale e infine quella lessicale. Il primo livello si riferisce alla capacità di cogliere l'organizzazione del testo scritto, attraverso il riconoscimento dei fenomeni di coesione e di coerenza testuale, gli aspetti pragmatici del linguaggio e le inferenze utili a desumere eventuali contenuti impliciti. Il secondo livello, invece, concerne la capacità di individuare le strutture ortografiche e morfosintattiche della frase semplice e complessa (fonologia, interpunzione, flessione, categorie lessicali, sintassi), in funzione della loro pertinenza testuale; il terzo livello – infine – mira a sviluppare la capacità di ricostruire il significato di un vocabolo o le relazioni di significato tra i vocaboli, nei vari contesti (formazione delle parole, polisemia, campi semantici, ecc.).

Ora, occorre anzitutto domandarsi quale finalità abbiano i test INVALSI, ovverosia se essi puntino sulla valutazione del singolo studente o se piuttosto abbiano una portata “sistemica” vòlta a chiarire il livello generale della scuola, allo scopo di decidere – attraverso l'intervento ministeriale – quali interventi migliorativi effettuare e dove effettuarli. Evidentemente il legislatore ha puntato sul secondo obiettivo, in modo da rendere accessibili informazioni sintetiche sugli aspetti chiave del sistema didattico nazionale e palesare lo stato di salute dell'istruzione.

Il problema è, va da sé, conciliare una prospettiva ampia e “sistemica” con l'operato delle singole istituzioni scolastiche: infatti i test INVALSI non possono sostituire le valutazioni sui singoli studenti, né gli interventi ad hoc dei singoli docenti o dirigenti; tuttavia le prove nazionali sono state concepite per confrontarsi con i livelli europei d'istruzione e, a detta dei sostenitori dell'Istituto per la Valutazione del Sistema d'Istruzione, esse non sostituiscono le singole valutazioni, ma risultano di fondamentale importanza per poter apportare i correttivi necessari a pareggiare il sistema d'istruzione nazionale con quello degli altri Stati europei.

 

La presunta “valutazione inaffidabile”

 

Ciò nonostante, nel corso dell'ultimo decennio molte critiche sono state avanzate nei confronti della presunta “valutazione inaffidabile” delle INVALSI o della loro reale efficacia nel determinare il grado d'apprendimento degli alunni, essendo quest'ultimo l'insieme di più fattori didattici e metodologici difficili da “misurare”.

Per cui, riassumendo le posizioni dei detrattori delle prove nazionali, alcuni hanno sostenuto che esse costruiscano classifiche e gerarchie piuttosto che testare il sistema d'istruzione; altri hanno supposto che esse contribuiscano a creare scuole di serie A e scuole di serie B, piegando la didattica – universo complesso – alla soluzione di un test strutturato; altri ancora, infine, hanno ipotizzato che le prove nazionali  non solo non rimuovano gli ostacoli che limitano gli alunni in difficoltà per motivi intellettivi, economici, sociali o relazionali, ma che al contrario cristallizzino le differenze tra gli studenti, facendo diventare un “peso morto” i discenti svantaggiati.

Di più: recentemente anche il mondo universitario europeo, non solo italiano, ha iniziato a nutrire un marcato scetticismo in merito alla validità pedagogica e conoscitiva dei test strutturati come quelli INVALSI, ma anche come quelli, molto simili, elaborati dal programma P.I.S.A. (Programme for International Student Assessment) dell'OSCE (l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), promosso con cadenza triennale per accertare le competenze degli adolescenti scolarizzati in Europa. Al riguardo, diversi studi accademici hanno messo in dubbio la solidità dei test a stimolo chiuso e risposta chiusa e la loro inadeguatezza nella certificazione delle competenze, didattiche e trasversali.

 

Risultati scadenti nel 2009 e 2010

 

A questo punto però, di là dai pro e dai contro circa l'utilità oggettiva delle prove INVALSI, occorre domandarsi quale sia stato (e sia) il loro impatto sugli alunni del primo ciclo d'istruzione. Prenderemo come riferimento la scuola secondaria di I grado, nella quale i test costituiscono un comparto consistente delle prove scritte nell'esame di Stato, e limiteremo l'indagine alla sola riflessione sulla lingua, ossia alla somministrazione dei quesiti di interesse grammaticale e lessicale.

I test 2009 e 2010 hanno registrato, a livello nazionale, un drammatico abbassamento del livello dei risultati ottenuti dagli studenti, presumibilmente per varie concause, tra le quali la difficoltà dei quesiti proposti e la presenza tra di essi di argomenti di studio poco affrontati nel corso dell'anno, come per esempio quelli fonologici e ortografici. Poi, dopo alcuni anni con risultati relativamente confortanti, la prova INVALSI d'italiano 2016 ha nuovamente evidenziato marcate difficoltà: non a caso è ricomparsa l'ortografia. Allo scopo di trovare una o più motivazioni a questi risultati uniformemente negativi, credo sia utile operare una sorta di confronto sinottico tra le prove proposte, dal 2008 al 2016, nell'esame conclusivo del primo ciclo d'istruzione.

 

Secondaria di I grado, dal 2008 a oggi

 

Nel test 2008, l'unico con valore puramente statistico, la sezione grammaticale prevedeva nove quesiti, cinque sulla sintassi della frase semplice e complessa (ad esempio “Quali delle seguenti frasi contiene una subordinata consecutiva?” oppure “Quale di queste frasi contiene un complemento di modo?”) e quattro d'interesse morfologico (ad esempio “Unisci le seguenti frasi inserendo il pronome relativo nella forma corretta” oppure “In quale delle seguenti frasi è presente un verbo riflessivo?”). La grammatica della prova INVALSI 2009, una di quelle con i risultati più scadenti, proponeva invece quattro quesiti di sintassi (ad esempio “Quale dei seguenti periodi è formato da una frase principale e una subordinata?”), due di morfologia (ad esempio “In quale delle seguenti frasi è presente un verbo passivo?”), due di carattere morfo-sintattico (ad esempio “Come potresti sostituire 'visto che' nel seguente periodo?”) e uno ortografico (“Quale segno di punteggiature è sbagliato nel seguente periodo?”). Il test 2010, forse quello dagli esiti più preoccupanti, presentava cinque quesiti sintattici (ad esempio “In quale dei seguenti periodi c'è una frase subordinata oggettiva?”), quattro morfo-sintattici (ad esempio “Scegli la congiunzione che connette in modo appropriato le seguenti frasi”) e uno ortografico (“Nella frase 'un'autostoppista mi chiese un passaggio', l'autostoppista è uomo o donna?”).

La prova 2011 evidenziava nel complesso un'analoga distribuzione dei quesiti: quattro sintattici (tipo “Indica la frase in cui c'è un predicato nominale”), quattro morfologici (ad esempio “Nella frase 'Laura e Davide sono stati i migliori della scuola', c'è un aggettivo di quale grado?”); compariva però anche la competenza lessicale e testuale, in due quesiti (“Per ognuno dei seguenti nomi indica se si tratta di una parola di base o di una parola derivata” e “Per ogni espressione della prima colonna indica la spiegazione logica tra quelle proposte”).

Nel test successivo, quello 2012, ecco che il rapporto tra quesiti morfo-sintattici e quesiti lessicali e testuali si pareggiava, senza tralasciare l'ortografia: erano infatti presenti quattro quesiti sintattici (“Individua il soggetto nelle seguenti frasi”) o morfo-sintattici (“In quale delle seguenti frasi 'lungo' è usato come aggettivo?”), due di carattere lessicale (“Quale tra i seguenti termini è un nome derivato?”), tre di semantica testuale (ad esempio “metti in relazione le frasi della colonna di sinistra con le affermazioni della colonna di destra”) e uno specificamente ortografico (“Nella seguenti frasi scegli la forma corretta tra 'te l'ha-te là-tel'ha'”).

Dei dieci quesiti totali della prova 2013, la metà erano d'interesse morfologico o morfo-sintattico ( come, per esempio, “Nel testo seguente sottolinea tutti gli articoli” oppure “Indica quale tipo di proposizione introduce il 'che' in ognuna delle frasi elencate”); due, invece, riguardavano la sintassi della frase semplice (tipo “Nella frase 'secondo l'allenatore di Stefano sciare è lo sport migliore' qual è il soggetto?”), uno era di carattere lessicale, àmbito formazione delle parole (“In quale delle seguenti parole il prefisso 'auto' non significa 'da sé'?) e i due rimanenti riguardavano l'area della semantica testuale (ad esempio “Nella frase 'è un uomo grossolano e irascibile' compaiono due aggettivi qualificativi. Trova per ciscuno un sinonimo e un contrario”). Nel test 2014 tornavano a prevalere i (quattro) quesiti sintattici (come “Nel periodo 'Luca mi ha chiesto quando arriverà l'aereo', che tipo di subordinata è 'quando arriverà l'aereo'?); tre, invece, erano morfologici (tipo “In quale delle seguenti frasi c'è un'unità polirematica?”) e due lessicali, àmbito formazione delle parole (“Indica in quali dei seguenti aggettivi -in è un prefisso con valore negativo”).

Con il test 2015 si è assistito a una netta inversione di tendenza: i quesiti sintattici (tre, come per esempio “Individua il soggetto nelle seguenti frasi”) e quelli morfologici (uno solo, “Cerchia tutti i nomi nella frase seguente”) sono stati rimpiazzati dalle più numerose domande afferenti la testualità (ad esempio “Indica il significato dell'espressione idiomatica 'arrampicarsi sugli specchi', presente nel seguente testo”). Infine, nella prova 2016, parte dell'esame dello scorso anno scolastico, è tornata l'ortografia (“Quale delle seguenti parole contiene un dittongo”); accanto ad essa l'immancabile sintassi (“Individua nelle seguenti frasi il predicativo del soggetto e il predicativo dell'oggetto”) e la morfologia (“In quale delle seguenti frasi 'vicino' ha la funzione di aggettivo?”), ma anche il lessico (“In quale delle seguenti parole bi- è un prefisso che significa 'doppio'?”) e la semantica testuale (“Per ogni espressione della prima colonna, scegli la spiegazione corretta tra le due proposte”).

 

Ortografia, fonologia e morfologia di base

 

Riassumendo, degli ottanta quesiti relativi alla riflessione sulla lingua somministrati sinora dall'INVALSI nelle prove conclusive del primo ciclo d'istruzione, ben trentadue hanno riguardato la sintassi della frase semplice e complessa, venti la morfologia (e l'ortografia), nove la morfo-sintassi, dodici l'area della testualità e sette il lessico, àmbito formazione delle parole.

In generale la sezione grammaticale della prova d'esame ha sempre creato disagi e grattacapi tra gli studenti; però, percentualmente, lo ha fatto soprattutto nei test con domande d'ortografia, fonologia o morfologia di base, argomenti che – solitamente – nel corso dell'ultimo anno della Secondaria di I° grado non si riaffrontano o si ripassano molto sommariamente, per ovvie questioni di tempi e di programmazioni.

Pertanto, in conclusione, credo che per elevare il livello dei risultati studenteschi e limare i disagi di una prova certo discutibile ma sempre presente (attualmente il legislatore sta ponderando l'inserimento dell'INVALSI nella nuova maturità, senza oneri sul voto finale, e l'aggiunta dell'inglese in quella per la Secondaria di I° grado), sarebbe necessario il ripasso sistematico delle programmazioni grammaticali dell'intero percorso scolastico, indugiando anche su argomenti sovente dati (erroneamente) per acquisiti o ripresi soltanto in modo superficiale.

 

 

 

Bibliografia di riferimento

G. Dolcini, Guida alle esercitazioni per le prove INVALSI di italiano, Gruppo Editoriale Raffaello, 2012.

A. Pellizzi, Italiano, prove nazionali per la Scuola Secondaria di primo grado, Edizioni La Spiga, 2013.

R. Zordan, Prove INVALSI di italiano, quaderno operativo, Fabbri Editori, 2011.

Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria editrice Fiorentina, 1967.

 

Sitografia di riferimento

www.INVALSI.it (area prove e area precedenti rilevazioni)

www.edscuola.eu

www.studenti.it

www.ilsussidiario.net

www.forumscuole.it

www.galileonet.it

www.roars.it

www.tuttoscuola.it

www.italians.corriere.it

 

Immagine: Stemma ufficiale INVALSI

 

Crediti immagine: Paolomazzoli [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_112.html

Concorsone al cardiopalma e senza lingua italiana

Un countdown al cardiopalma e un'impietosa lotta contro il tempo: difficile dimenticare quegli attimi di tensione dipinti sul volto di Sean Connery nel finale di Missione Goldfinger; a sette secondi dalla detonazione fatale, Bond disinnesca l'ordigno e solo allora il tempo impazzito sembra congelarsi di schianto.

 

Un software beffardo

 

Non c'erano agenti segreti a sostenere, lo scorso mese di maggio, le prove scritte del temutissimo Concorso previsto dalla legge 107/2015 per l'assunzione di personale docente, ma soltanto insegnanti abilitati, con alle spalle una considerevole e pluriennale esperienza nella scuola.

Inoltre non era prevista una bomba radioattiva da disinnescare, ma un software beffardo, nel quale destreggiarsi per poter rispondere esaustivamente a otto domande, sei delle quali semistrutturate a risposta aperta e le due restanti in lingua straniera, livello B2.

Prova impari, sia nella logistica sia nella tempistica, come ben ha intuito e descritto Claudio Giunta, accademico medievista dell'Università di Trento, nel suo recente articolo I cento metri di italiano: domande troppo vaghe e complesse per poter essere ben argomentate in tempi assurdamente ristretti e consegne evanescenti, formulate talora in modo inesatto o incoerente.

 

Fermato il 55,2% dei partecipanti

 

Cerchiamo tuttavia di ricostruire le dinamiche di una prova scritta che, a livello nazionale, come un castigo divino, ha fermato il 55,2% degli oltre 71 mila partecipanti, facendo registrare - dalle Alpi alle isole - il record di bocciature, sia nelle materie scientifiche sia in quelle letterarie.

Chi scrive è stato testimone oculare dei fatti, pur riuscendo alla fine a superare la prova e ad andare sino in fondo. I quesiti d'area letteraria, per esempio, prevedevano la pianificazione di una singola lezione, di un'intera unità didattica o di un curriculum di letture su argomenti quali la lirica petrarchesca, il tema della memoria dal Romanticismo all'Ermetismo, il tema del diverso e dello straniero in letteratura, la demografia europea, la Costituzione: insomma, dai classici letterari alla geografia umana, dall'antologia all'educazione civica. Nello spazio di un click. A questo punto, attraverso quattro passaggi, proviamo a individuare le principali criticità che hanno reso per molti la prova d'italiano una trappola senza scampo, un labirinto senza uscita congegnato in modo perfetto e letale.

 

Capitolo primo. Il timer

 

Credo, senza tema di smentita, che l'aspetto psicologico sia uno degli elementi chiave in ogni prova d'esame, come per altro in ogni gara sportiva. Ebbene: non solo il tempo assegnato dal Ministero per argomentare in modo articolato otto domandoni zeppi di contenuti, ovvero 150 minuti, è stato vergognosamente breve (di fatto, 18 minuti a quesito, utili a mala pena per impostare un primo brainstorming), ma il software caricato sui pc faceva comparire sullo schermo, in alto a destra, un timer luccicante, verde smeraldo. Con il primo click, che dava accesso al quesito d'apertura, l'orologio iniziava la sua corsa a ritroso, diventando spada di Damocle sul capo dei candidati, costretti a scrivere di getto e sotto stress, senza alcuna possibilità di riflettere su quanto digitato alla bell'e meglio. Nell'aula in cui eravamo stipati, così piccola che il sincrono ticchettio delle tastiere sembrava una raffica di mitragliatore, ho visto una collega piangere silenziosamente e un'altra abbandonare anzitempo la sua postazione e il sogno di una cattedra a tempo indeterminato.

 

Capitolo secondo. Il meccanico incompetente

 

Per comprendere appieno la difficoltà dello scritto, occorre tuttavia chiarire un aspetto decisivo: in un tempo, come detto, insufficiente, ogni candidato era chiamato non solo ad attingere alle proprie conoscenze disciplinari, ma anche a inserire argomenti, dati e considerazioni in una cornice progettuale ben strutturata. Una progettazione didattica è composta da metodologie (somma di vari tipi di lezione: ricettiva, euristica, a scoperta guidata, ecc.), tecniche (cooperative, operative, simulative), interventi per l'inclusione di alunni con bisogni educativi speciali e competenze digitali. Tutti questi elementi sono a loro volta composti da termini specifici, che non si possono né improvvisare né tanto meno confondere, per non alterare la dinamica progettuale nel suo insieme. In altre parole, i contenuti disciplinari erano fondamentali, va da sé, ma non sufficienti per impostare correttamente i quesiti d'esame. Occorreva precisare la parte progettuale, forse ancor più complessa, se improvvisata. Sia sufficiente il seguente esempio: è come se ci si rivolgesse a un buon meccanico, gli si presentassero in officina otto automobili differenti e gli si chiedesse di smontare e rimontare i motori in qualche ora, senza poter consultare un libretto d'istruzioni e senza possibilità di ricontrollare il lavoro. E, dulcis in fundo, lo si tacciasse d'incompetenza qualora il risultato fosse insoddisfacente.

 

Capitolo terzo. Buio in sala

 

Ora, a un quadro tutt'altro che confortante, occorre infine aggiungere i non trascurabili guai e disservizi che, con puntualità, si sono verificati su e giù per lo Stivale durante lo svolgimento delle prove scritte in modalità computer based. In diverse aule, sovente inadeguate, soffocanti e poco attrezzate, molti pc si sono spenti improvvisamente causa sovraccarico elettrico; molte tastiere, consumate dall'uso, sono risultate mal funzionanti durante la lunga digitazione e in alcuni casi, il mio per esempio, anche l'illuminazione della sala è risultata precaria. Insomma, ulteriori ostacoli per i già tartassati aspiranti: più che una prova concorsuale, in alcuni casi è stata una vera propria lotta per la sopravvivenza, un percorso insidioso degno dell'iniziazione dei giovani spartani all'epoca di Leonida.

 

Capitolo finale. Perché?

 

In conclusione, mi pare sensato porsi una serie di interrogativi e provare a ipotizzare una risposta, magari esaustiva per tutti.

Anzitutto una prima drammatica incoerenza: perché mettere alla prova le qualità didattiche di un docente attraverso una simulazione fittizia e poco pratica, una sorta di sofisma, quando è noto che una progettazione diventa efficace solo se adattata, nel corso del tempo, a una classe reale?

E ancora: perché valutare le abilità e insieme le competenze di un insegnante unicamente attraverso una valutazione docimologico-certificativa, senza tener conto della valutazione formativa e metacognitiva, resa invece obbligatoria per gli studenti?

Di più: perché, nel caso della prova di italiano, non riscontrare (in nessun quesito) la conoscenza della lingua italiana e delle sue strutture da parte del candidato, come per altro lamentato sia dall'Accademia della Crusca sia dall'Asli (Associazione per la storia della lingua italiana)?

Perché, dunque, e siamo al punto dolente, architettare una prova scritta così ostica, penalizzante e avvilente?

La risposta, purtroppo, non è scritta nel vento, come cantava il Menestrello del Minnesota, ma la si può riassumere attraverso le parole del celebre giornalista del «Corriere» Ernesto Galli della Loggia: «Più che un esame un tentativo di decimazione». Ecco. Si è voluto selezionare, giustamente. Ma è stato fatto in modo sconsiderato.

 

Immagine: Una stanza d’esame in una scuola superiore

 

Crediti immagine: Wing045 [CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)]

 

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In principio era il verbo: la grammatica valenziale

 

L'Universo racchiuso in un cerchio, come dire: il màndala per eccellenza. Intuizione seducente quella di Pablo Carlos Budassi, diffusa di recente dal web. L'artista argentino, sovrapponendo le complesse mappe logaritmiche dell'Università di Princeton alle spettacolari immagini dei telescopi NASA, ha infatti elaborato una rappresentazione dell'Universo conosciuto – con la nostra galassia come perno centrale – non in scala lineare, bensì in forma circolare, con i vari elementi del cosmo collegati tra loro.

 

Una struttura radiale

 

Metafora perfetta della grammatica valenziale, ossia la struttura argomentale del verbo (Palermo, pag.84), comunemente rappresentata attraverso schemi grafici a struttura radiale, che simulano l'organizzazione degli elementi della frase attorno al verbo.

Il verbo, lupus in fabula. Nervo e catena della nostra lingua, come già sentenziato da Niccolò Machiavelli in pieno Rinascimento. Ma cerchiamo di capire il modello sintattico valenziale con ordine, ricostruendone la genesi e i passaggi fondamentali.

 

Tesnière: un nuovo punto di vista

 

Negli anni Sessanta del secolo scorso, l'opera postuma del grammatico francese Lucien Tesnière è tesa a capovolgere il punto di vista della sintassi tradizionale e paragona il cuore della frase (definito nodo verbale) ad un piccolo dramma che comporta un processo, con attori in scena operanti in circostanze ben precise.

Il verbo, secondo Tesnière, esprime il processo, gli attori legati al verbo (detti attanti)  partecipano al processo e gli elementi periferici al verbo e ai suoi attanti esprimono le varie circostanze nelle quali il processo si svolge.

 

Sabatini: la frase e l'approccio semantico

 

Tra il 1984 e il 2000, Francesco Sabatini, linguista di prim'ordine e storico presidente dell'Accademia della Crusca, rielabora e arricchisce le tesi di Tesnière descrivendo (per la prima volta in Italia) la frase non attraverso la sintassi tradizionale, ma con l'ausilio di un approccio semantico. L'obiettivo è fornire agli studenti un metodo di analisi della frase dinamico, intuitivo e facilmente applicabile, che possa anche incentivare una riflessione metalinguistica (Camodeca, 2011).

Il presupposto fondamentale è il seguente: il verbo è l'elemento attorno al quale si organizza la frase, è il propulsore che mette in moto i vari rapporti sintattici perché porta in sé il significato, coglie l'essenza dell'evento che la frase descrive e ha pluralità e duttilità di forme. Ora, aggiungendo al verbo i suoi argomenti (gli attanti di Tesnière), ossia gli elementi necessari a completare il suo significato, si forma il nucleo: la frase minima di senso compiuto.

 

Argomenti, valenza, circostanti ed espansioni

 

Ogni verbo individua da zero a quattro argomenti, diretti o indiretti (ad esempio l'argomento soggetto, l'argomento oggetto diretto e altri indiretti), e li attira a sé attraverso una sua specifica proprietà, detta valenza, proprio come in chimica o in fisica l'atomo ha la capacità di legarsi e combinarsi con altri atomi.

Nelle immediate vicinanze del nucleo, procedendo verso l'esterno mediante uno schema radiale che ricorda i cieli dell'Universo dantesco, si trovano i circostanti, ovvero gli elementi della frase che non sono indispensabili alla sua completezza, ma che l'arricchiscono di alcune informazioni. I circostanti, necessari quelli che si legano direttamente al verbo e accessori quelli che si legano a uno dei quattro argomenti, possono essere avverbi, locuzioni avverbiali, aggettivi, participi, espressioni preposizionali o intere frasi relative.

In un cerchio ancor più periferico rispetto al nucleo della frase, oltre i circostanti, si trovano infine le espansioni, ovvero una serie di elementi che ampliano le informazioni fornite dal nucleo aggiungendo notizie (il tempo, il fine, il modo, la causa, il luogo, ecc.) all'evento raccontato dal verbo.

 

Quali i confini del predicato?

 

Questa, in estrema sintesi, la struttura del modello sintattico valenziale, certo valida alternativa alla sintassi scolastica solitamente insegnata.

Del resto, siamo al cospetto di due diverse impostazioni nello studio della frase semplice e complessa. La prassi usuale prevede l'immediata ricerca del soggetto; di contro il modello valenziale s'interessa anzitutto al verbo.

La sintassi scolastica standard, infatti, individua nel soggetto il “personaggio” principale della frase, perché fa qualcosa oppure la subisce. Individuato il soggetto di solito si procede alla ricerca del verbo per capire ciò che si dice o si “predica” a proposito del soggetto; dunque si vanno a individuare i vari elementi (i complementi) che completano o specificano l'azione del soggetto.

Secondo Sabatini (e i sostenitori della valenziale) l'analisi logica classica non permette tuttavia di cogliere l'essenza della frase, perché ne ricostruisce solo in parte i meccanismi interni. Intanto dà per scontato che la lingua rispecchi una serie di avvenimenti materiali e osservabili, ossia le azioni del soggetto, trascurando il fatto che ogni lingua non è che la rappresentazione nella nostra mente di ciò che avviene nella realtà. Inoltre l'approccio classico alla sintassi non riesce a determinare esaustivamente i confini del predicato, e lo fa coincidere soltanto col verbo o con la “copula+aggettivo o nome” (Sabatini, pag. 123); tuttavia, se il predicato è ciò che si vuol dire del soggetto, occorre che le informazioni siano estese, altrimenti la semantica della frase ne risulta compromessa. Nella frase “Mario è abile nella lettura”, il predicato non può ridursi alla parte nominale, perché se non specifichiamo che l'abilità consiste nella lettura non abbiamo “predicato” nulla di concreto dell'azione del soggetto.

 

Comprendere la frase nel suo complesso

 

Infine l'analisi logica scolastica studiata sui banchi mette in fila tutti i complementi, specie quelli indiretti, e li colloca erroneamente sullo stesso piano (Palermo, pag.86); essi risultano introdotti da determinate preposizioni semplici e articolate, in realtà dai valori differenti. In questo modo si tralascia il fatto che, sovente, la stessa preposizione possa introdurre complementi diversi (nelle frasi “vado a casa” e “sono a casa”, la preposizione indica rispettivamente un moto a luogo e uno stato in luogo).

Il modello valenziale, invece, cercando d'individuare subito il verbo contribuisce a comprendere la frase nel suo complesso e, con precisione, la grande quantità di informazioni ad essa collegate. Individuata l'architettura interna della frase è possibile chiarire il concetto di “predicato”, ossia tutto ciò che è presente nel nucleo (e non solo il verbo), nonché ordinare le informazioni accessorie con economia e coerenza.

 

Sì, ma scuola?

 

Dunque due metodi a confronto. L'uno, quello classico, ben saldo nelle programmazioni scolastiche d'ogni ordine e grado; l'altro, quello valenziale, nonostante tutti i vantaggi teorici e pratici appena elencati, emerso sinora con fatica, solo in alcuni contesti e dopo sperimentazioni settoriali peraltro ancora in corso.

Certo il considerevole lavoro svolto dal professor Sabatini ha contribuito a diffondere le idee di Tesnière, superando (almeno in parte) lo scetticismo ad esse collegato.

 

Difficoltà a modificare il curriculum implicito

 

Ciononostante, nell'àmbito degli Istituti d'istruzione secondaria sono pochi i docenti che hanno stabilmente adottato la valenziale, o che hanno provato a sperimentarla didatticamente; ogni tentativo, inoltre, ha perlopiù attecchito negli Istituti di II grado, mentre in quelli di I grado quasi non ve n'è traccia. Perché?

Dubito che le ragioni si possano ricondurre soltanto alla cronica diffidenza verso il nuovo, per quanto questo preconcetto goda di radicato favore tra gli insegnanti, sovente riluttanti a modificare il proprio curriculum implicito, ovvero la propria idea d'insegnamento.

In base alla mia esperienza sul campo e a vari confronti sull'argomento con colleghi di diverso grado, credo di poter affermare che la grammatica valenziale non abbia ancora avuto il successo che probabilmente merita per due ragioni.

 

Difficoltà nell'adeguarsi a una nuova terminologia

 

Intanto l'insegnamento di un nuovo approccio didattico presuppone che i docenti s'adeguino a un lessico diverso, rispetto a quello utilizzato magari per decenni; ciò determina a sua volta una rimappatura del vocabolario sintattico standard (ad esempio, nel metodo sabatiniano, il complemento oggetto è detto argomento oggetto diretto), considerata da molti insegnanti fonte di confusione e di fraintendimenti per gli alunni.

 

Rivendicazione delle “basi” tradizionali

 

Inoltre l'adozione di un procedimento agile e intuitivo, ma pur sempre basato sulla semantica e sull'astrazione concettuale (rispetto alla meccanicità della vecchia analisi logica, in cui i complementi “rispondono a una domanda” o si riconoscono grazie alle solite immutabili preposizioni), è a detta di parecchi docenti vincolato ai prerequisiti morfosintattici maturati dai ragazzi durante le fasi iniziali del loro percorso scolastico (e mi riferisco in particolare alla scuola primaria); prerequisiti considerati indispensabili per potersi accostare con successo a un metodo sintattico nuovo e troppe volte non adeguati nei discenti.

 

Nel testo si invera la grammatica

 

Comunque sia, in conclusione, ritengo che la grammatica della valenza sia un approccio valido e sottovalutato. Infatti, per dirla ancora con Francesco Sabatini e anche con Vittorio Coletti (che ben ha scritto e detto al riguardo), essa costituisce il punto d'incontro tra il Sistema della lingua - ossia la grammatica - e il testo, che della lingua è la dimensione pragmatica e comunicativa.

In altre parole, è l'intima sinergia tra sintassi e testo a dare un senso a quello che diciamo, sentiamo o  scriviamo, creando così il presupposto base della comunicazione.

 

Bibliografia essenziale e sitografia di riferimento:

 

F. Sabatini, C. Camodeca, C. DeSantis, Sistema e testo: dalla grammatica valenziale all'esperienza dei testi, Torino, Loecher, 2011

 

F. Sabatini, V. Coletti, Dizionario italiano, Firenze, Sansoni, 2008

 

M. Palermo, Linguistica italiana, Bologna, Il Mulino manuali, 2015

 

G. Proverbio, A. Cerrina (a cura di), Lucien Tesnière: elementi di sintassi strutturale, Torino, Rosenberg&Sellier, 2001

 

C. Camodeca, La grammatica valenziale nella didattica dell'italiano L2: una sperimentazione, all'interno di Grammatica a scuola, a cura di L. Canà e W. Paschetto, Milano, Franco Angeli, 2011

 

N. Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua, 1524 o 1525

 

F. Sabatini, Lettera sul ritorno alla grammatica: obiettivi-contenuti, metodi e mezzi, tratto da www.notarbartolo.it

 

F. Sabatini, Grammatica dell'italiano secondo il modello valenziale, tratto da www.ipdepace.com

 

F. Sabatini, Lezioni milanesi 2008, tratte da www.studiamoinrete.it

 

G. Proverbio, Oltre Tesnière: funzioni sintattiche e funzioni semantiche, tratto da www.bmanuel.org

 

 

Immagine: Illustrazione dell’universo con il sistema solare al centro

 

Crediti immagine: Pablo Carlos Budassi [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)]

 

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A scuola è l'ora della grammatica variopinta

 

Quando il compianto Keith Emerson, tastierista dei leggendari Emerson, Lake&Palmer, metteva mano al modular moog, sembrava che i sintetizzatori sonori tramutassero le sue note in un caleidoscopico girotondo d'immagini.

Il moog infatti, attraverso un complesso sistema di riproduzione ritmica, può simulare variazioni sonore quasi illimitate, di più: il suono manipolato assume una variazione cromatica paragonabile alla miscela dei colori su una tavolozza, con notevole impatto sugli ascoltatori.

Così l'efficacia di un buon manuale scolastico è direttamente proporzionale alla sua capacità di mescolare e sincretizzare spunti, approcci e metodi didattici differenti, cogliendo non solo le varie sfaccettature della teoria trattata, ma anche la complessità della trasmissione dei saperi, che solo in determinate circostanze si concretizza in apprendimento.

 

Puzzle di diversi colori

 

Di certo, con la recente pubblicazione per Einaudi Scuola di L'italiano, gli italiani: norme, usi, strategie testuali, Giuseppe Antonelli (docente di Linguistica italiana all'Università degli studi di Cassino) ed Emiliano Picchiorri (docente di Linguistica italiana e Storia della Lingua italiana all'Università “G. D'Annunzio” di Chieti e Pescara) hanno vinto la loro sfida: redìgere un ottimo manuale di grammatica italiana, ricco e diversificato, da destinare al primo biennio della scuola Secondaria di II grado. L'opera dei due linguisti, peculiarmente progettata per insegnare al meglio la capacità di esprimersi in ogni contesto comunicativo, poggia su alcuni pilastri che la rendono efficiente e soprattutto efficace.

Intanto prevede un esaustivo impianto teorico, reso didatticamente funzionale da un'esposizione grafica che s'avvale di schemi, mappe e puzzle di diversi colori, utilissimi alla comprensione e alla memorizzazione dei concetti.

 

Un amplissimo eserciziario

 

Inoltre la grammatica di Antonelli e Picchiorri vanta un amplissimo eserciziario, modulato su livelli crescenti di difficoltà, comprendente esercizi di ripasso, potenziamento e recupero, sia di prima applicazione che di livello intermedio o di carattere sommativo. E ancora: il manuale è impreziosito da numerose rubriche, proposte in due sezioni, La norma e gli usi e Per sapere di più, che da un lato approfondiscono le regole dell'italiano nei vari contesti comunicativi (scritto o parlato, formale e informale, letterario o digitato), dall'altro soddisfano la curiosità del lettore in merito alla storia e allo sviluppo diacronico della nostra lingua.

 

Per il bisogno educativo speciale

 

Ma c'è di più: il piano dell'opera prevede anche un volume aggiuntivo, Comunicazione e testi, con un'esposizione aggiornata delle principali tipologie testuali, oltre a un percorso mirato, denominato Fare testo, comprensivo di esercizi graduati per imparare a scrivere e varie simulazioni di didattica inclusiva, per ogni tipo di bisogno educativo speciale (BES). Infine il manuale dà l'opportunità di accedere a contenuti digitali, tra i quali lezioni multimediali per lo studente e verifiche interattive modificabili per il docente.

 

La centralità della persona

 

Ora, la validità di un sussidio didattico non può non essere valutata in relazione agli obiettivi programmatici contenuti nelle Indicazioni nazionali e nelle Linee guida ministeriali, parametri vincolanti già dalla primavera del 2012.

Le Indicazioni prescrivono, a chi lavora nella scuola o a chi scrive e progetta per la scuola, di privilegiare sempre la centralità della persona, attraverso la valorizzazione della singolarità culturale e sociale di ogni individuo, dello spirito cooperativo e dell'inclusione di tutti i BES, siano essi legati alla disabilità, ai disturbi specifici d'apprendimento (DSA) o ad altri bisogni educativi transitori. Inoltre, le Linee guida vincolano allo sviluppo di una didattica per competenze, disciplinari o trasversali.

 

La grammatica, la riflessione, la pratica

 

Nella fattispecie, la competenza linguistica - grammaticale, testuale o lessicale - è giustamente ritenuta fondamentale nel processo di crescita di ogni discente; a questo punto, per ottenere la completa acquisizione delle competenze linguistiche, occorre centrare determinati traguardi, che il manuale di Antonelli e Picchiorri cerca di perseguire con pragmatismo e lungimiranza: lo studio della grammatica esplicita -  ossia delle strutture fonetiche, morfologiche e sintattiche -, la riflessione sulla lingua - ossia la capacità di analizzare le informazioni apprese connettendole tra loro - e l'acquisizione di un lessico ricettivo e produttivo - ovvero l'attitudine a comprendere il significato delle parole, per diversificarle e adeguarle ai vari contesti comunicativi -.

 

Meccanismi linguistici inconsci

 

Concludendo: un'opera completa e certamente in linea con le direttive didattiche nazionali, quella di Antonelli e Picchiorri, come del resto anche altre grammatiche che circolano negli Istituti d'istruzione Secondaria. Tuttavia, in base alla mia pluriennale esperienza scolastica, nella quale ho avuto modo di utilizzare molti manuali, credo che L'italiano, gli italiani sia da apprezzare per un motivo di fondo: attraverso spiegazioni esaustive, multimediali e iconograficamente varie e pertinenti, si ottiene il risultato di far capire i meccanismi linguistici inconsci inducendo una profonda riflessione metacognitiva, tutt'altro che immediata. Infatti, la regola grammaticale più difficile da insegnare è proprio quella che diamo per scontata, quando parliamo o scriviamo.

 

 

 

 

Testi di riferimento

M. Sensini, Le parole, la lingua e il testo, Milano, Mondadori, 2011.

Annali della Pubblica Istruzione, Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell'infanzia e del primo ciclo d'istruzione, Firenze, Le Monnier, 2012.

L. Peruzzi, G. Martini, A. Bolle, Parole in azione (copia insegnante), Firenze, Le Monnier Scuola, 2014.

A. Degani, A. Mandelli, P. Viberti, Dilla giusta!, Torino, S.E.I., 2015.

 

Immagine: Matite colorate

 

Crediti immagine: MichaelMaggs [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)]

 

 

 

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Cl@sse 3.0: luci e (molte) ombre della scuola che è e che verrà

 

Eppure Elise Freinet, moglie del fondatore della pedagogia popolare Célestin, lo aveva ben notato quarant'anni fa: l'avvenire del fanciullo, scriveva, determina l'accrescersi della «massa di artigiani dediti all'opera educativa», ovvero impegnati nel bel mestiere dell'insegnamento.

 

Il bel mestiere dell'insegnante

 

Perfetto, eccoci al dunque: il bel mestiere. Certo intrapreso da maestri e professori di vario grado, ma gestito e rivendicato, nel tempo, anche da altre figure professionali, come educatori e formatori. C'è davvero da chiedersi oggigiorno cosa significhi essere insegnanti e quale sia la missione culturale della nuova (ometto volutamente l'aggettivo buona) scuola. Io per esempio, docente con alle spalle una significativa esperienza nel ramo educativo, comincio a nutrire qualche ragionevole dubbio.

 

Conoscenze o life skills?

 

Ma facciamo ordine tra i punti dolenti dei principali dibattiti sul tema della scuola: anzitutto, scolarizzare significa trasmettere conoscenze oppure addestrare al conseguimento delle cosiddette life skill, ossia le competenze per l'avvenire? La scuola, poi, deve perseguire l'aspetto educativo o deve piuttosto veicolare dei saperi? E ancora: meglio affidarsi al vecchio e per molti desueto approccio analogico ai saperi, mediante la carta stampata per intenderci, oppure a quello multimediale e digitale riconducibile all'avanzata didattica high-tech e al virtualissimo cloud teaching? Verrebbe da suggerire che in medio stat virtus. Impossibile. Ormai le posizioni si sono arroccate entro le rispettive ideologie, dunque occorre giocoforza scegliere da che parte stare.

 

La prevalenza dell'addestramento

 

L'esperienza sul campo mi ha suggerito un'idea ben precisa e la introduco attraverso le parole di Vittorio Coletti, eminente linguista e Accademico della Crusca, che meglio di chiunque altro ha focalizzato l'essenza del dibattito sulle pagine del quotidiano «La Repubblica» (25 ottobre 2015): «Se l'obiettivo è la competenza - arguisce Coletti - il centro dell'attenzione a scuola non sono più i contenuti disciplinari, ma le tecniche d'addestramento»; «la scuola, incalza l'Accademico, troppo spesso dimentica il sapere e si preoccupa solamente del fare: pertanto si teme ciò che della scuola è proprio e specifico, ovvero abituare a pensare e a trasmettere saperi, e si insegue ciò che alla scuola non appartiene perché c'è orrore per la conoscenza non applicata» («La Repubblica», 29 novembre 2015).

 

La svalutazione dei contenuti

 

Esattamente. Ma facciamo il punto: la certificazione delle competenze, soprattutto quelle digitali (le e-skill), è considerata il futuro della didattica; essere competenti significa mobilizzare le proprie conoscenze in funzione della risoluzione di una situazione-problema complessa. Ora, se imparo a orchestrare i miei saperi adattandoli ai vari contesti (pratici o teorici) e se imparo a imparare le tecniche che conducono all'affinamento del problem solving, il dado è tratto: potrò esser competente in qualsiasi ambito, non solo scolastico. Intendiamoci, il ragionamento non fa una piega. Tuttavia la falla nel sistema sta nel fatto che, soprattutto nel primo ciclo della scuola dell'obbligo, si va verso una terribile svalutazione dei contenuti, spesso relegati in secondo piano rispetto ai metodi per acquisirli. Quindi il percorso educativo e metodologico ha la meglio sulla trasmissione delle conoscenze; nella scuola Media, per esempio, ciò avviene sempre e comunque. Del resto, in una società - la nostra - sempre più avanzata, si assiste per contrappasso all'endemico imbarbarimento del sostrato sociale, non solo nelle grandi città. Di conseguenza la scuola dell'obbligo è divenuta prima di tutto servizio assistenziale, mediatrice culturale, nursering, culla e prontosoccorso. Tutto, insomma, meno che veicolo costante di saperi.

 

La macchina dell'inclusione

 

Col tempo, schiere di pedagoghi, formatori e psicologi hanno costruito la macchina perfetta dell'inclusione: nobilissimo proposito, sia chiaro, ma pian piano l'integrazione giusta e capillare degli alunni svantaggiati è confluita in una sorta di didattica popolare e conciliante, che ha livellato gli obiettivi e ha appiattito il curriculum anche di coloro che non erano realmente svantaggiati.

 

Semplificazioni

 

Oggi (e non mi riferisco agli studenti problematici, bensì ai normodotati) si tende ad affrancare il somaro e a svalutare il meritevole, piuttosto che incentivarne le attitudini. Tutti debbono avere le medesime opportunità, ovvio; tuttavia la frenetica ricerca di un piano didattico-educativo (talora pluriennale) che anteponga le competenze individuali ai saperi acquisiti (come avviene, che so, in Finlandia), purtroppo semplifica solo illusoriamente il percorso scolastico successivo alla secondaria di primo grado: per superare le scuole superiori, i test d'ingresso e i vari cicli di studi universitari o qualsiasi prova concorsuale post accademica, si esigono quei contenuti e quei saperi in precedenza semplificati (o eliminati) in nome dell'inclusione.

 

L'esaltata digitalizzazione

 

Ma c'è dell'altro. Com'è noto, tra le competenze basilari richieste dall'Europa allo studente, futuro cosmopolita, accanto alla capacità di cooperazione in gruppi eterogenei e all'autonomia decisionale c'è la tanto esaltata digitalizzazione. Si va verso la multimedialità interattiva, almeno a parole (quanto ai fatti, lo so per esperienza diretta, non ne sarei così sicuro) e la necessità di informatizzare tanto le strutture scolastiche quanto la didattica applicata si è diffusa in modo tentacolare. Tutti gli insegnanti sono stati indotti ad aggiornarsi tecnologicamente per poter comprendere i nuovi linguaggi degli studenti, ormai nativi digitali, e comunicare con loro efficacemente dentro (e fuori) la classe. Nobile intuizione, anche questa, per carità.

 

L'aula Eraclito

 

Però il processo di cambiamento ha subìto, negli ultimi anni, una brusca accelerata: didattica connessa interattivamente in cloud, flipped lesson (ossia lezione rovesciata, in cui l'insegnante diventa facilitatore del processo d'apprendimento e la centralità appartiene allo studente) e curriculum mapping, ovvero una sorta di piattaforma multimediale e pluridisciplinare che, di fatto, elimina le programmazioni di materia per poter perseguire il raggiungimento di competenze trasversali.

Siamo proiettati nella cl@sse 3.0 (cito soltanto l'aula Eraclito dell'Istituto Comprensivo 9 di Bologna: stampanti in 3D, banco esagonale interattivo a sconvolgere anche il setting della classe, LIM con proiettore retroilluminato, ecc.), che a mio modo di vedere finirà per pensionare una volta per tutte il fruscio della carta stampata; e quando le pagine del libro saranno in via d'estinzione definitiva, allora inizieremo a sognare a occhi aperti il finale del film cult Fahrenheit 451, facendoci noi stessi libri da “sfogliare”.

 

Avveniristico e accattivante

 

Beninteso: non ho intenzione di rifugiarmi dietro ingenue idee retrograde. Usufruisco quotidianamente della tecnologia, non solo a scuola, e non ho certo intenzione di negare i vantaggi delle ITC o l'efficacia di quelle che il MIUR definisce “avanguardie educative”.

Di contro, è innegabile che un agguerrito esercito di formatori, nati dalla costola di Célestin Freinet, ha come unica preoccupazione la creazione di modelli scolastici sempre più avveniristici, capaci di rendere la didattica accattivante e coinvolgente.

In questo modo, costoro affermano, si incentiverebbero i più deboli (in realtà troppa multimedialità è utopicamente inclusiva, perché una pluralità di stimoli disorienta chi non è in grado di distinguere un verbo da un sostantivo oppure un'area da un perimetro) e si coinvolgerebbero i normodotati, altrimenti apatici e svogliati.

 

Una ridotta attitudine al sacrificio

 

Ammettiamolo: la tecnologia ha enormemente migliorato la nostra vita quotidiana, ma al tempo stesso sta riducendo la nostra attitudine al sacrificio. Un tempo per lo studente medio (e ancor oggi in molte realtà non europee) la scuola rappresentava un'opportunità esclusiva, un privilegio e un veicolo d'emancipazione sociale.

Ora invece la prospettiva si è capovolta: i discenti vanno convinti a restar sui banchi con ogni mezzo e se i risultati non arrivano allora il primo imputato è l'insegnante, perché magari non ha saputo diversificare la propria idea d'insegnamento (il curriculum implicito, per essere precisi) o non è stato in grado di mettersi al passo coi tempi.

 

Asimov e la didattica

 

Il futuro dev'essere una conquista molto graduale, nella didattica a maggior ragione, altrimenti si corre il rischio che la scuola somigli sempre più a quella immaginata dal grande Isaac Asimov in un distopico racconto del 1951, Chissà come si divertivano!, in cui la trasmissione del sapere, ormai robotizzata e svuotata della sua intima missione intellettuale, appariva come un bene prezioso irrimediabilmente perduto.

 

Bibliografia e sitografia di riferimento

1. Elise Freinet, Nascita di una pedagogia popolare, Roma, Editori Riuniti, 1976

2. AA.VV, a cura di Maria Pia Bucchioni, Docenti oggi: competenze culturali e professionali per insegnare, Firenze, Giunti, 2012

3. AA.VV, a cura di Davide Parmigiani, L'aula scolastica: come si insegna, come si impara, Milano, Franco Angeli, 2015

4. M. Castoldi, Progettare per competenze: percorsi e strumenti, Roma , Carrocci, 2011

5. D. Maccario, A scuola di competenze, verso un nuovo modello didattico, Torino, SEI, 2012

6. M. Pellerey, Le competenze individuali e il portfolio, Milano, ETAS, 2004

7. Isaac Asimov, Come si divertivano!, in Il meglio di Asimov, Milano, Oscar Mondadori, 1973

8. Vittorio Coletti, Se la scuola si dimentica il sapere e si preoccupa solamente del fare, in La Repubblica del 29/11/2015 e Se le competenze contano più dei saperi, in La Repubblica del 25/10/2015

www.edscuola.eu                                                

www.designdidattico.com

www.profdigitale.com                                       

www.Mobile.ilsole24ore.com

www.profduepuntozero.it                                    

www.ischool.startupitalia.com

www.tuttoscuola.com                                            

www.istruzione.it

 

 

Immagine: Studenti a un Workshop Wikidata

 

Crediti immagine: Ambadyanands [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/centurione.html

Un insegnante contro il centurione intransigente

 

 

Chi ama l'ironia irriverente dei Monty Python certo ricorderà la sequenza in cui Brian di Nazareth, protagonista dell'omonimo film cult storico-grottesco, per dar prova di coraggio deve scrivere Romani andate a casa! all'interno del palazzo del governatore. Pizzicato in flagranza di reato da un centurione intransigente, il nazareno subisce una gustosissima (e invero maccheronica) lezione di grammatica. Brian infatti, poco incline alla lingua latina, sta dipingendo un improbabile *Romanes eunt domus! e il suo severo correttore, a gladio sguainato, gli intima pene corporali per gli svarioni commessi; così il povero Brian s'affretta a mutare Romanes in vocativo (nella declinazione corretta), l'indicativo eunt nell'imperativo ite e, dulcis in fundo, prova a esprimere correttamente il moto a luogo sostituendo il nominativo domus con l'accusativo locativo domum.

 

Rodari e l'aridità della norma

 

Insomma, la Regola fa vibrare la spada; la Grammatica, forte dell'autorità e dei muscoli della Legge, emenda ogni errore.

L'errore, già. Fonologico, morfo-sintattico (grammaticale) o lessicale, secondo la classica ripartizione della linguistica. Se ne dibatte ormai da anni, all'interno dell'annosa polemica tra i sostenitori della valutazione scolastica docimologica e quelli della valutazione formativa. Gianni Rodari, negli anni '70, descrive l'errore quale fuga creativa dall'aridità della norma e nei decenni successivi esso viene talora motivato come deviazione dal Sistema della lingua, talora come forma linguistica non adeguata al contesto comunicativo.

 

Il limes tra giusto e sbagliato

 

La lingua tuttavia è tutt'altro che una nomenclatura composta da regole granitiche e immutabili; è piuttosto un organismo in continuo movimento, che si contrae e si rivitalizza continuamente: in questo contesto; dunque, l'errore non è che un passaggio naturale e necessario nel processo di trasformazione e di acquisizione di qualsiasi linguaggio. Il limes tra giusto e sbagliato (ben lo hanno dimostrato, tra gli altri, Giuseppe Antonelli e Luca Serianni) è un confine molto meno marcato di quanto si possa supporre e la norma grammaticale spesso finisce per cedere sotto il peso della consuetudine, che muta completamente la percezione dell'errore.

 

L'oralità a scuola

 

Un tempo, per dirla con De Mauro, tra la “lingua della vita”, rappresentata dalla straordinaria varietà vernacolare e la “lingua della scuola”, codificata in formule standard sovente di stampo letterario, il divario era enorme. L'italiano sui banchi di scuola presentava un tale registro formale che la differenza con il parlato risultava evidente. Negli ultimi decenni, invece, si sta assistendo a un fenomeno sincretico innegabile e la lingua dell'oralità ha invaso la scrittura, vincolandola.

Forse la lamentata povertà lessicale e la “crisi” generale del linguaggio studentesco vanno addebitate, perlopiù, all'influsso del parlato. Se infatti dovessimo mappare (io l'ho fatto di recente occupandomi di un Istituto Comprensivo ligure) gli errori o le improprietà lessicali più frequenti negli elaborati scritti della scuola secondaria di primo e di secondo grado, dati INVALSI alla mano, noteremmo diverse mende dovute all'oralità, sia nell'ambito sintattico-testuale che in quello morfologico e ortografico.

Quanto alla sintassi, tipiche sono improprietà come l'indicativo in luogo del congiuntivo nelle completive (Credo che la zia è arrivata”) o, ancor peggio, nelle subordinate concessive (“Nonostante piove, esco lo stesso”) e finali (“La donna usa il velo affinché le copre il viso”); l'uso dominante del che polivalente tuttofare (“In ogni angolo che mi giravo vedevo la stessa cosa”) e svariati pasticci nella consecutio temporum (“Finalmente finisco il compito e decisi di portarlo alla prof”).

 

La mancata interiorizzazione della regola

 

Ma anche sotto l'aspetto ortografico e morfologico molti sono gli errori dovuti al parlato, come la confusione tra articolo determinativo e pronome personale atono (gli/li), lo scambio tra pronome personale maschile e femminile (gli/le) e il pleonasmo pronominale o avverbiale.

Ovviamente sarebbe riduttivo supporre che la causa degli errori sia soltanto l'oralità: ci sono certo altri motivi, tra i quali i disagi sociali che influiscono sul rendimento scolastico, la disattenzione e la superficialità degli studenti, lo scarso impegno nello studio e nell'interiorizzazione della norma.

Tuttavia, se provassimo a rovesciare la prospettiva (sulle orme di Luca Serianni e Giuseppe Benedetti) concentrandoci sul lecito emerso negli elaborati censiti nella scuola pubblica italiana (che spesso è notevole: magari lo studente sbaglia la morfologia del passato remoto, e scrive *distrussimo, *vidimo e *femmo, però azzecca volteggiò e stette; oppure scrive *muchio e *inteligenti, ma anche sottoporre e ammassare), riusciremmo non solo a valorizzare gli scriventi, ma anche a capire meglio la natura degli errori.

In conclusione, viene da domandarsi dove finisca l'errore o l'improprietà inconsapevole e dove inizi la mancata interiorizzazione della regola, e viceversa.

 

Cogliere il più bel fior

 

L'errore nasce da varie implicazioni e comunque è un concetto sempre relativo, frutto del dinamico divenire della lingua nel tempo.

Ritengo che ci abituassimo a cogliere il più bel fior delle produzioni scritte dei nostri alunni, attraverso la valorizzazione del corretto piuttosto che la condanna dell'improprio (nei limiti del possibile, s'intende), ne gioverebbe l'aspetto relazionale della didattica e la progettazione mirata alla prevenzione dell'errore.

Oltre la grammatica emendativa e sanzionatoria esiste una grammatica formativa e incoraggiante, rispettosa della norma ma non di essa schiava, capace di non ridursi alla fredda acquisizione di precetti, bensì fondata sul metodo induttivo e sull'esperienza, in linea peraltro con le indicazioni scolastiche nazionali.

 

Testi citati o soggiacenti

G. Rodari, Grammatica della fantasia, Torino, Einaudi, 1973

A. Cattana, M. T. Nesci, Analisi e correzione degli errori, Torino, Paravia, 1999

M. Beretta, Guida all'insegnamento dell'italiano, Torino, Einaudi, 1977

S. Gensini, Manuale della comunicazione, Roma, Carocci editore, 1989

G. Antonelli, Comunque anche Leopardi diceva le parolacce, Milano, Mondadori, 2014

G. Antonelli, L'italiano nella società della comunicazione, Bologna, Il Mulino, 2007

L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Bari-Roma, Laterza, 2006

S. Novelli, Si dice? Non si dice? Dipende, Bari, Laterza, 2014

T. De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Bari, Laterza, 1963

L. Serianni, G. Benedetti, Scritti sui banchi. L'italiano a scuola tra alunni e insegnanti, Roma, Carocci editore, 2009

Annali della Pubblica Istruzione, Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell'infanzia e del primo ciclo d'istruzione, Firenze, Le Monnier, 2012

Daniele Scarampi, Indagine sugli errori di italiano scritto in un campione di alunni degli Istituti Secondari di I grado di Urbe e Mioglia (Sv), 2015 (tesina di abilitazione)

 

 

 

Immagine: Ricostruzione moderna di una lorica segmentata ad opera della LEGIO XXX ULPIA TRAIANA VICTRIX ONLUS

 

Crediti immagine: Marten253 [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)]