Lingua Italiana

Luca Serianni

Luca Serianni (Roma 1947 - ivi 2022) è stato professore emerito di Storia della lingua italiana alla Sapienza - Università di Roma. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei, della Crusca e dell'Accademia delle Scienze di Torino, è autore di una grammatica dell’italiano più volte ripubblicata negli ultimi venticinque anni (“Italiano”, ultima edizione Garzanti 2012). Tra i suoi libri più recenti: “La lingua poetica italiana. Grammatica e testi” (Carocci 2009); “Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti” (con G. Benedetti, Carocci 2009); “Prima lezione di grammatica” (Laterza, 2011); “L'ora di italiano. Scuola e materie umanistiche” (Laterza, 2012); “Italiano in prosa” (Franco Cesati Editore 2012); “Leggere, scrivere, argomentare. Prove ragionate di scrittura” (Laterza 2013); “Storia dell'italiano nell'Ottocento” (Il Mulino, 2013); “Prima lezione di storia della lingua italiana” (Laterza, 2015); “Parola” (Il Mulino, 2016), “Storia illustrata della lingua italiana” (con L. Pizzoli, Carocci, 2017), “Per l’italiano di ieri e di oggi” (Il Mulino, 2018), “L'italiano. Parlare, scrivere, digitare” (Treccani Libri, 2022), “Il sentimento della lingua. Conversazione con Giuseppe Antonelli” (Il Mulino, 2019), “Parola di Dante” (Il Mulino, 2022).

Pubblicazioni
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Italiani ed europei, punto a capo

 
 
Esiste una vasta zona in cui la punteggiatura è comunque usata secondo il galateo tradizionale. Uno dei luoghi in cui ciò avviene in modo tipico è il giornale, nel quale sembra di poter dire in generale che la punteggiatura sia adoperata in modo adeguato. Questa premessa consente di fare alcune riflessioni sulla punteggiatura in termini di comunicazione.
 
Babel', il testo all'osso
 
Il libro di Serafini parte da una brillante citazione di Babel', scrittore che è passato alla storia per l'ossessione di ridurre il testo all'osso, ai fini della concentrazione espressiva: «Non c'è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al punto giusto». La punteggiatura, tutto sommato, serve anche a questo, a sottolineare gli aspetti centrali di un enunciato.
 
Il destino del punto e virgola
 
Questo accade anche quando ci si serve del punto a virgola, segno talvolta negletto o, a torto, considerato obsoleto. Mi sento di contestare il fatto che il punto e virgola sia destinato, in una sorta di triste declino, a raffigurare esclusivamente l'espressione ammiccante di una “faccina” elettronica. In realtà, il punto e virgola è ancora utilizzabile e di fatto viene realmente utilizzato, come si dimostra proprio in Questo è il punto. Francesca Serafini, nel suo libro, tratta e adopera il punto e virgola perché, con garbo e precisione, l'autrice lo riconosce come uno strumento fondamentale per regolare il traffico all'interno di un enunciato. Traggo solo un esempio dal testo: «Per alcuni studiosi, infatti, l'interpunzione serve soprattutto a indicare le pause del respiro durante la lettura; per altri è uno strumento logico-sintattico». In questo caso, invece del punto e virgola si sarebbe potuta usare la virgola, confortando chi stimi inevitabile la decrescita inesorabile del punto e virgola. Il punto e virgola, però, dimostra, qui come altrove, la capacità di introdurre un'informazione aggiuntiva, sottolineando lo stacco che porta il lettore a soffermarsi proprio sulla seconda parte di un'argomentazione. Andando avanti nella lettura del testo di Serafini, scopriamo per l'appunto che proprio la funzione logico-sintattica dei segni d'interpunzione è preminente: non si tratta di congegni per scandire l'andamento del respiro, ma di funzionali indicatori degli snodi logico-sintattici, in questo modo messi in rilievo sulla pagina. L'autrice, nella prassi della propria scrittura, ci mostra come la punteggiatura sia un meccanismo che gerarchizza le informazioni.
La libertà che la punteggiatura mantiene rispetto ad altre strutture della lingua più codificate è legata al fatto che chiunque parla o scrive ha la possibilità, per sua fortuna, di gerarchizzare l'argomento secondo direttrici diverse.
 
La punteggiatura non è libera
 
Tale libertà si fonda, naturalmente, sulla possibilità di coltivarne un esercizio consapevole. Come si insegna a usare la punteggiatura a partire dalla scuola dell'obbligo? Per quel che so, la punteggiatura veniva e viene insegnata nelle scuole elementari con il corretto obiettivo di raggiungere, per l'appunto, un dominio dei principi elementari che ne regolano l'uso ("non si deve mettere la virgola tra soggetto e predicato" e simili): invece, veniva e viene trascurata durante le medie inferiori e superiori, perché si dà corso innanzi tutto all'idea che la punteggiatura, andando oltre un drappello di regole elementari, non possa essere insegnata, essendo del tutto libera – cosa senz'altro contestabile –; in secondo luogo, in base a una considerazione pragmatica: di fronte a una prova scritta che fa acqua da tante parti, l'insegnante stabilisce inevitabilmente una gerarchia e dà più importanza ad altri aspetti, che suscitano una maggiore sanzione sociale (per esempio, scrivere raggione con due g) o che, come nel caso del classico “tema” senza capo né coda, compromettono l'intera tenuta ideativa di un componimento. Questo fa sì che la punteggiatura sia alquanto sacrificata, nella scuola di oggi come in quella di ieri.
 
Le prove scritte negli esami di Stato
 
Colgo l'occasione per esprimere l'auspicio che, nell'ambito degli esami di Stato, si cambi l'attuale somministrazione delle prove scritte, disarticolando la prova d'italiano in una serie di prove che servano a mettere in evidenza competenze e abilità varie. Di fatto, il tema o saggio breve, così come viene impartito, non serve a saggiare le reali capacità dei discenti. Vedrei benissimo, invece, una prova di riassunto, in grado di testare abilità fondamentali di focalizzazione, gerarchizzazione e sintesi; e vedrei pure bene, tra le altre possibili, anche una prova di controllo della punteggiatura, pur non dimenticando che si tratta solo di uno dei tanti requisiti (non del più importante, lo riconosco) tra quelli che garantiscono il buon funzionamento di un testo.
 
L'Etna, Bembo, il punto e l'Europa
 
Per chiudere, voglio avanzare un'altra riflessione. La scuola si occupa non solo di prassi, ma anche di teoria. Quanto alla punteggiatura, mi piacerebbe che ci fosse spazio per qualche considerazione storica. Vorrei, per esempio, che se ne sottolineasse l'italianità, il fatto cioè che la punteggiatura moderna nasce (come ricorda Serafini nel suo poliedrico libro) in un resoconto, redatto in latino, scritto dal veneziano Pietro Bembo nel 1496, in cui si dà conto di un'ascensione sull'Etna. Nel raffinato incunabolo, il grande umanista introduce il famoso punto e virgola, l'apostrofo, la virgola di segno moderno e gli accenti. Possiamo forse immaginare oggi, in Francia, in Germania o in Romania, un atto pubblico, un testo letterario, una pagina di diario scritti senza ricorrere a questi segni? Diamo dunque il giusto spessore storico alla punteggiatura all'interno della tradizione scritta occidentale. Anche per questo, noi italiani possiamo dirci europei, mentre l'Europa delle diverse culture può riconoscersi italiana in una parte della matrice culturale comune.
 
 
 
 

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La punteggiatura a scuola – Quando e come correggere gli errori

 

Tra le varie abilità misurate dall’insegnamento scolastico, la corretta interpunzione non è certo quella ritenuta più importante. È innegabile che lesioni testuali (frasi sconnesse o illogiche) o specificamente grammaticali (che io vadi, noi vidimo) e lessicali-semantiche (esimere più del dovuto ‘esigere’) attirino prioritariamente l’attenzione degli insegnanti. Ed è giusto che sia così. Ma perché una virgola sbagliata è generalmente considerata di scarsa o nessuna importanza, a differenza di un po’ in cui l’apostrofo sia sostituito dall’accento?
 
Due motivi per non correggere sempre
 
In entrambi i casi siamo di fronte a convenzioni grafiche (è impossibile sbagliare interpunzioni, apostrofi o accenti parlando); e tutto sommato l’interpunzione, che governa i rapporti tra le parole nella frase e tra le frasi nel periodo, avrebbe buoni motivi per vedersi riconosciuta una dignità maggiore. Se questo non avviene, è a mio vedere per due opinioni prevalenti:
1. un compito in classe non è un campo di battaglia, e l’accumulo di correzioni è poco utile (oltre che molto faticoso per il correttore): meglio dare spicco alle lesioni più rilevanti, confidando che le mende interpuntorie siano sanabili semplicemente con una dose d’attenzione in più da parte dell’alunno;
2. a differenza di altri settori della lingua, l’interpunzione non è codificata rigidamente, ma dipende in buona parte dallo stile o dal gusto individuali.
 
Due motivi per correggere sempre
 
Ma nessuno dei due argomenti appare davvero convincente. Se il fine da raggiungere è quello di una scrittura chiara ed efficace (diciamo quella di un cronista, cioè di chi ha un rapporto professionale con la pagina scritta, anche se non certo creativa), occorre mettere in campo tutti i mezzi che appaiono idonei allo scopo. E un articolo di giornale è impeccabile dal punto di vista dell’interpunzione: mai una virgola fuori posto, e spesso − più spesso di quel che si creda − ricorso anche a un segno d’interpunzione intermedia, che è diventato sconosciuto per gli studenti di ogni ordine e grado: il punto e virgola.
Né è vero che l’interpunzione sia il dominio della libera soggettività: alcune regole sono ben codificate, alcune dalle elementari (niente virgola tra soggetto e predicato), altre nell’attività dei revisori editoriali (sempre uno spazio dopo il segno interpuntivo, mai un segno interpuntivo prima di una parentesi).
 
La virgola tuttofare
 
Altre volte non c’è una tradizione teorica, ma la prassi degli scriventi esperti è consolidata. Leggiamo il brano di un riassunto (di studente universitario; fonte: L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 128):
 
La donna confidò ad un’amica la sua relazione con l’angelo Gabriele, questa fingendo di crederle raccontò la novella ad alcune donne ecc.
 
La virgola prima di questa è sbagliata: sarebbe stato necessario un segno d’interpunzione più forte (un punto e virgola o un punto fermo), per segnalare il cambio tematico nella progressione del racconto, evidente anche per il mutamento dei soggetti.
 
L’accapo, un super-punto
 
Può rientrare latamente nell’interpunzione anche l’accapo. Lo potremmo definire un super-punto, che marca il passaggio a un altro ordine d’idee. Questa volta la scelta di andare a capo è effettivamente elastica, ma è importante mantenere una gerarchia tra i vari capoversi: un ottimo esercizio è quello consistente nel proporre un brano in cui gli accapo sono stati soppressi (ancora una volta si presterebbe bene l’editoriale di un quotidiano), indicando solo il numero di quelli presenti nel testo originale e chiedendo all’alunno di ripristinarli. Non è detto che si debba esattamente ricalcare l’assetto originario, ma in ogni modo l’esercizio è un’ottima occasione per prendere coscienza del problema; in ultima analisi, per riflettere alle varie operazioni da mettere in atto per arrivare a un risultato testualmente soddisfacente.
 
 

 

 

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Giovanni Paolo I, l'«io» umile

 

Quello di Albino Luciani è stato uno dei più brevi pontificati nella storia del papato: appena 33 giorni, dal 26 agosto al 28 settembre 1978. Eppure le novità introdotte col suo stile comunicativo sono state nette: e ciò spicca ancor di più da un lato, se lo paragoniamo al suo immediato predecessore, Paolo VI, con la sua raffinata caratura intellettuale e la solennità dell'eloquio pubblico; dall'altro, se pensiamo alle prese di posizione in materia ideologica e dottrinale del vescovo e poi patriarca di Venezia Luciani, segnate invece da un indubbio tradizionalismo.
 
Tradizione sovvertita
 
Un'innovazione, seppure estrinseca, è rappresentata dalla stessa scelta del nome: un nome doppio, come mai era avvenuto in precedenza. Più sostanziali le novità linguistiche. Papa Luciani appena eletto non osò interrompere la tradizione, che limitava alla benedizione il primo contatto con i fedeli riuniti in piazza San Pietro (come farà invece papa Woytiƚa, seguito dai suoi successori). Ma nell'Angelus del giorno dopo esordiva così:
 
«Ieri mattina io sono andato alla Sistina per votare tranquillamente. Mai avrei immaginato quello che stava per succedere. Appena è cominciato il pericolo per me i due colleghi che mi erano vicini mi hanno sussurrato parole di coraggio [...]. Spero che mi aiuterete con le vostre preghiere».
 
Il tradizionale linguaggio dei pontefici per un'occasione così solenne (era la prima volta che si rivolgeva ai fedeli come papa) è del tutto sovvertito; e tale ci appare anche confrontandolo con le parole pronunciate nella stessa circostanza da Giovanni Paolo II (1978) e da Benedetto XVI (2005). Giovanni Paolo dice io, accantonando il plurale maiestatis (con una scelta che diventerà irreversibile); non si limita a confessare la propria inadeguatezza, sottolineando però la fiducia in Dio («ho avuto paura di ricevere questa nomina, ma ho fatto nel [sic] spirito dell'ubbidienza» Woytiƚa; «un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore» Ratzinger), ma fa emergere soprattutto l'umana sorpresa e lo sgomento per tanta responsabilità («Mai avrei immaginato...»); menziona i suoi elettori non come gli «eminentissimi cardinali» (Woytiƚa), «i signori cardinali» (Ratzinger), «i miei fratelli cardinali» (Bergoglio), bensì come i «colleghi»; richiede a sua volta le preghiere dei fedeli, mettendosi sullo stesso piano dei destinatari («Spero che mi aiuterete...»).
 
Richiesta di preghiere
 
Colpiscono le affinità con lo stile comunicativo di papa Francesco, nel discorso omologo del 13 marzo 2013: approccio fortemente colloquiale nelle formule di apertura e di chiusura («Fratelli e sorelle, buonasera!» e «Ci vediamo presto [...] Buona notte e buon riposo»), estrema affabilità («Vi ringrazio dell'accoglienza», «Grazie») e soprattutto richiesta di preghiere: nel caso di papa Francesco questo diventerà un momento centrale del suo discorso, sottolineato da alcuni momenti di silenzio: «Vi chiedo un favore [...]; vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica».
 
«Questo povero Cristo»
 
Se le espressioni sono inedite (almeno per il contesto in cui vengono pronunciate), il valore che papa Luciani introduce espressamente nel suo linguaggio è un valore fondante del Cristianesimo: l'umiltà (non a caso il suo motto episcopale era Humilitas, lo stesso di san Carlo Borromeo). Un'umiltà che consiste in primo luogo nel porre in evidenza la propria individualità, e dunque la fratellanza con gli altri esseri umani, senza che questo metta in discussione il primato petrino. Ciò emerge con singolare evidenza nell'allocuzione al Collegio cardinalizio del 30 agosto, in una sezione improvvisata oralmente, assente dal testo scritto: «Spero che i miei confratelli cardinali aiuteranno questo povero Cristo, Vicario di Cristo, a portare la croce con la loro collaborazione di cui io sento tanto il bisogno». L'espressione familiare povero Cristo, in audace poliptoto con il tradizionale Vicario di Cristo, potrebbe persino sembrare irriguardosa a un osservatore non credente (o "laico", come si dice oggi); nasce invece dalla naturale confidenza che il popolo dei fedeli ha con la divinità senza avere paura delle parole. L'iconografia del Cristo sofferente, rappresentata in tutte le chiese attraverso la riproduzione delle stazioni della Via Crucis, ha evocato l'immagine del 'poveraccio', ben viva anche nei dialetti: stare come Cristo in croce 'stare malissimo'; veron. essar o star in Criste 'in cattive condizioni', bergam. parì un Crest detto di uomo provato dalla fame (i tre esempi da G.L. Beccaria, Sicuterat, Milano, Garzanti, 1999, p. 208). Ma, appunto, stiamo parlando delle abitudini linguistiche del comune parlante di un Paese di tradizione cristiana, non del papa che in un discorso pubblico si rivolge al collegio cardinalizio.
 
L'apologo della benzina
 
Lo stesso atteggiamento che ha sconcertato gli osservatori dell'epoca, a partire dagli editorialisti dei grandi giornali stranieri, si ritrova anche negli aneddoti morali che traggono spunti e figure dall'ambiente circostante. Nella prima udienza generale (6 settembre), a proposito della necessità di osservare i comandamenti divini, papa Luciani fa un raccontino (ma dovremmo dire forse, mutatis mutandis, "racconta una parabola") di intonazione volutamente pedestre, sia nell'inventio sia nella struttura sintattica e narrativa:
 
«Uno, una volta, è andato a comperare un'automobile dal concessionario. Questi gli ha fatto un discorso: guardi che la macchina ha buone prestazioni, la tratti bene, sa? Benzina superiore nel serbatoio, e, per i giunti, olio di quello fino. L'altro invece: Oh, no, per sua norma, io neanche l'odore della benzina posso sopportare, e neanche l'olio; nel serbatoio metterò soprattutto spumante, che mi piace tanto, e i giunti li ungerò con la marmellata. Faccia come crede; però non venga a lamentarsi se finirà in un fosso, con la sua macchina!».
 
L'apologo, tarato sull'orizzonte di ascoltatori semplici o ancor meglio di un pubblico infantile, si chiude con la moralisatio: «Il Signore ha fatto qualcosa di simile con noi: ci ha dato questo corpo, animato da un'anima intelligente, una buona volontà. Ha detto: questa macchina vale, ma trattala bene».
 
Al centro i parvuli
 
Quanti sono i sacerdoti o i catechisti che nell'attività religiosa quotidiana ricorrono a uno stile comunicativo del genere? Moltissimi. Ma qui, lo ripetiamo, siamo in presenza di un papa, e in occasione di una delle sue prime uscite pubbliche. Un papa il quale ha interiorizzato a tal punto la massima evangelica che pone al centro del messaggio i parvuli 'i piccoli, i semplici' (Mtt 11,25), da non temere di turbare le aspettative degli osservatori emunctae naris.
                                                                                                                                                       
Letture
 
I riferimenti ai discorsi papali sono stati desunti dalla rete o, per gli interventi scritti di papa Luciani, dal volumetto Gli insegnamenti di Giovanni Paolo I 26 agosto - 29 settembre 1978, Leumann (Torino), Elle, Di Ci, s. d. [ma 1979].
 
 
 

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Vittorio Emanuele II: il soldato acculturato

 

Tra i canonici “padri della patria”, la figura di Vittorio Emanuele II è spesso assente, o trascurata, non dagli studiosi accademici ma dalla vulgata storiografica. Sintomatico, tenendo conto del ritualismo proprio delle emissioni filateliche, il fatto che nel 1978 si omise di realizzare un francobollo commemorativo in occasione del centenario della morte del “Re galantuomo”. Alla sottovalutazione storica si accompagna spesso una rappresentazione riduttiva, se non caricaturale, del suo tratto umano: che sarebbe quello di un soldato rozzo, interessato soprattutto alle avventure amorose e alle battute di caccia, dalle ricorrenti tentazioni autoritarie.
 
Dai passerotti al cavallo
 
Ma per quel che è delle sue conoscenze di lingua italiana, il bilancio è tutt’altro che negativo. Com’è noto, il francese era la lingua abitualmente parlata alla corte dei Savoia, in alternanza col piemontese della comunicazione informale. Ciò non toglie che al principe Vittorio Emanuele adolescente fosse impartita un’istruzione bilingue nelle varie discipline; per esempio, nella religione, le «dimostrazioni evangeliche» erano in italiano e la parte generale era in francese. L’epistolario privato, un insieme delle testimonianze scritte sicuramente riconducibili allo scrivente, presenta, fin dagli anni giovanili, una discreta quota di lettere in italiano − accanto a quelle in francese, che restano predominanti − e una certa sicurezza espressiva.
Se una lettera del 1834 del principe quattordicenne al padre sembra scritta per semplice esercizio scolastico di nomenclatura ornitologica («Abbiamo preso nidi di ghiandai, di gazze, di rossignoli, di passerotti, di stornelli, di cabornie buffanere»), colpisce il dominio del registro brillante già in una lettera dell’anno successivo in cui Vittorio e il fratello Ferdinando rivolgono al Re una perorazione scherzosa in favore di un cavallo («La Maestà Vostra possiede nelle sue Reali scuderie un quadrupede che non ebbe mai l’alto onore di portare sul suo dorso il suo Augustissimo sovrano»).
 
«Mi scusi se lo secco»
 
In missive più tarde spicca la confidenza con i modi propri del discorso colloquiale: «mi scusi se lo secco», «Mi scusi se forse l’ho disturbato a quest’ora» (entrambe a D’Azeglio, 1849); la disinvoltura di una conversazione tramata non di rado su toni aulicamente scherzosi: «Io aspettando gli eventi che del futuro mi squarceranno il velame, mi occupo di piscicoltura» (a Cavour, 1858), «il tuo povero diavolo di padre da un mese e mezzo non è mosso dalla taurina gente» (a Clotilde, 1859).
 
Piccole mende
 
Il complessivo dominio linguistico dell’italiano scritto non è compromesso dai francesismi, che pure eccedono la quota presente nella borghesia italiana contemporanea: «il battaglione fra pochi giorni sarà ben bello» (1834, al padre; franc. bien beau), «se ho detto mia maniera di pensare» (1847, a Francesco V; senza l’articolo davanti al possessivo), «vado parlarne un momento» (1861, a Cialdini; senza la preposizione a) ecc. Né da una frequente menda microsintattica, comune anche all’italiano di Cavour: la confusione tra pronomi personali e allocutivi, come il già citato «Mi scusi se lo secco» invece di ‘la’, o «dopo avergli spedito, caro Papà» ‘averle’, nel 1836.
 
 

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La scuola, i ragazzi e la lingua adulta

 

Luca Serianni, grande linguista e grande didatta, modello di civismo e di senso dello Stato, avvertiva come compito decisivo quello di consegnare alle nuove generazioni gli strumenti per conoscere e padroneggiare la lingua italiana, materna o acquisita, nella più vasta, differenziata e stratificata varietà dei suoi usi.

«Limitarsi alle 2000 parole del lessico fondamentale permette di sopravvivere nell'uso quotidiano, ma è troppo poco per accedere a un qualsiasi sapere avanzato: proprio quello su cui, in diversa misura e con diversi obiettivi, puntano le scuole superiori, nessuna esclusa». Così Serianni concludeva qualche anno fa (2016) uno dei suoi numerosi interventi pubblicati in Lingua italiana-Treccani.it, che qui scegliamo di riproporre in sua memoria perché ci sembra che riconfermi con nitidezza il profilo del linguista come grande italiano maestro di civiltà e di pedagogia, colto nell’atto di illustrare con sintesi stringente la centralità dell’educazione linguistica a scuola come momento fondativo di educazione e addestramento alla cittadinanza adulta.

 

Chi abbia a che fare, direttamente o indirettamente, con adolescenti scolarizzati avrà notato come il lessico che esula da quello comunemente usato nella lingua parlata stia regredendo in modo preoccupante.

Qualche giorno fa un'insegnante di lettere in un liceo classico mi ha raccontato un aneddoto istruttivo. Questa mia amica ha l'ottima abitudine di assegnare versioni di latino in classe senza vocabolario, naturalmente con la possibilità che l'alunno chieda lumi su forme meno comuni. Un ragazzo (primo anno) le ha chiesto che cosa volesse dire cingebant. «Ragionaci un po' su: che cosa ti dice l'uscita in -ebant?». «Che è un imperfetto». «Giusto! Prova a immaginare quale sia il presente». «Forse cingo?». «Certo!». Ma l'alunno, che mi si dice essere bravo, continuava a restare perplesso: il problema non era il latino, ma l'italiano; per lui cingere era un verbo misterioso. Un anno fa in un esame di Stato un candidato aveva presentato come "tesina" un lavoro su Senilità di Italo Svevo. «Che cosa vuol dire senilità?». Si badi: non si chiedeva perché abbia questo titolo un romanzo in cui di veri e propri "vecchi" non ce ne sono (il protagonista, Emilio Brentani, ha 35 anni), né altri dati che presuppongono almeno la lettura del testo. No: semplicemente che cosa vuol dire in italiano una parola non esattamente libresca come senilità: scena muta.

Che cosa si può capire, partendo da un bagaglio lessicale così lacunoso, di un editoriale, ma anche di un libro di testo delle superiori o, passando all'università, di un manuale di diritto? Possiamo davvero pensare che un diciottenne che non sappia raccapezzarsi nella sua madrelingua appena si affrontino argomenti di gittata non quotidiana o si ricorra a un lessico meno comune possa davvero essere considerato un cittadino maturo? A diciotto anni, ricordiamolo, si vota, si può conseguire la patente di guida, si è pienamente responsabili dal punto di vista penale, anche se si continua, e si continuerà per un pezzo, a essere designati come ragazzi.

Le eccezioni non mancano, naturalmente. Nelle scuole con una robusta componente letterario-filosofica, in particolare nei licei classici e scientifici, una certa osmosi tra i testi studiati in classe e la padronanza linguistica che se ne acquisisce normalmente si produce (a parte il quindicenne che non sapeva cosa vuol dire cingere). Ma dobbiamo pensare soprattutto agli istituti tecnici e professionali (e aggiungerei: ai licei delle scienze sociali), che rappresentano il nerbo dell'istruzione superiore, interessando la metà degli alunni totali della secondaria superiore.

Quali i rimedi? Esortare alla lettura disinteressata non basta e, guardando all'appiattimento sul parlato proprio di tanta narrativa contemporanea (legittima scelta espressiva, si capisce), forse neppure gioverebbe.

Occorre riorientare l'ora d'italiano, deprimendo la grammatica, o più precisamente il grammaticalismo fine a sé stesso, a vantaggio del lessico. Qualsiasi attività didattica si fonda su una scelta, su una gerarchia di cose da insegnare (o, se si vuole, di competenze da raggiungere). È davvero così importante distinguere tra preposizioni proprie e improprie, tra avverbi di modo, di quantità, di giudizio, o perdersi nella selva di complementi indiretti del tutto secondari (di pena, di stima, ma anche di denominazione, di causa efficiente, di limitazione)? Non è forse più produttivo approfondire lessico e semantica?

Mi pare più produttivo assicurarsi che siano chiari i diversi presupposti linguistici e ideologici che ci portano a distinguere tra stipendio, salario e onorario; o le combinazioni lessicali (le "collocazioni" come si dice con un termine non molto felice) che ci permettono di usare in modo appropriato sequenze di verbo + nome (si celebra un processo in senso proprio, si fa un processo alle intenzioni in senso estensivo) o di aggettivo + nome (una persona misurata o moderata nel bere è solo da apprezzare, ma se diciamo che qualcuno è morigerato lo presentiamo con una sfumatura ironica o almeno di distacco).

E ancora: bisognerebbe che ogni adolescente sapesse muoversi nelle serie che presentano suppletivismo, ossia ricorrono a radici diverse tra parola base e aggettivo di relazione: cavallo/equino (cavallino è di uso semanticamente ristretto: un viso cavallino, stretto e allungato), acqua/idrico (una minestra può essere acquosa, il vapore è acqueo, ma le risorse di un territorio non sono né acquose né acquee bensì idriche), fegato/epatico (fegatoso, raro, si direbbe solo di qualcuno rancoroso, collerico, astioso). Oppure tra famiglie di corradicali, dominandone i diversi significati: flettere vuol dire 'piegare' ed è di uso elettivo in àmbito tecnico (medicina, scienze motorie: si flette un arto); deflettere vuol dire 'piegare rispetto a una precedente direzione' ed è formato col prefisso de-, che indica allontanamento, separazione, movimento dall'alto in basso (come in porre/deporre, congestionare/decongestionare, fluire/defluire); riflettere vuol dire 'rimandare indietro' la luce o un'immagine o, figuratamente, 'concentrarsi, quasi piegarsi su di sé per meditare' (rifletteva sull'accaduto).

In questi due ultimi casi lo studio del latino (e del greco), certamente aiuta, però non è affatto indispensabile: tutti, ma davvero tutti, gli adolescenti scolarizzati dovrebbero raggiungere sicurezza in questa zona della lingua. Limitarsi alle 2000 parole del lessico fondamentale permette di sopravvivere nell'uso quotidiano, ma è troppo poco per accedere a un qualsiasi sapere avanzato: proprio quello su cui, in diversa misura e con diversi obiettivi, puntano le scuole superiori, nessuna esclusa.

 

 

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La fortuna dell'italiano nel mondo

Intervista a Luca Serianni

 

È ormai quasi un luogo comune ricordare che l’italiano vive una rinnovata stagione di grande fortuna al di fuori dei suoi confini nazionali. Qualcuno ha anche provato a quantificare il numero di studenti di italiano all’estero, ipotizzando che l’italiano sia attualmente addirittura la quarta o quinta lingua più studiata al mondo.

Tenendo conto di questo quadro, la redazione di “Lingua italiana” del Portale Treccani si è rivolta a Luca Serianni, docente di Storia della Lingua italiana nell’Università degli studi di Roma “Sapienza”. Serianni dirige una ricerca sulla diffusione dell’italiano nel mondo (coadiuvato da Lucilla Pizzoli e Leonardo Rossi), da giudicare quanto mai opportuna, anche in considerazione della fortuna secolare della lingua italiana in tanti importanti settori della cultura occidentale.

 

In che cosa consiste questo studio? Quali risultati sta dando?

 

Lo studio, che ha coinvolto molte decine di studiosi italiani e stranieri, intende sondare la presenza della lingua e della cultura italiane nel mondo attraverso un certo numero di saggi panoramici e un vero e proprio dizionario di italianismi. I saggi si muovono lungo due direttrici principali: le grandi aree storico-geografiche (dalla Francia all’Australia all’Estremo Oriente) e i principali settori terminologici (dalla musica alla gastronomia allo sport). I dati che stanno emergendo sono molto interessanti. Qualche esempio. Si conferma l’importanza della musica: gli italianismi musicali mancano solo dove la musica occidentale non ha attecchito (come nel giavanese); ed è interessante che i termini possano aumentare anche quando l’influsso musicale declina, come avviene nella Germania dal XVII secolo. Appare stretto il legame tra italiano e cattolicesimo: col tramonto del latino, l’italiano ha assunto il ruolo di lingua veicolare della Chiesa, persino a preferenza di inglese e francese. Nello zulu iLoma ‘membro della chiesa cattolica’ altro non è che il nome di Roma, mediato attraverso l’inglese; e in Finlandia l’italiano circola tra i sacerdoti cattolici colà operanti, quasi tutti provenienti dall’estero (Polonia, Vietnam, oltre che Italia). Ma sono molti altresì i dati inattesi: dall’emersione di italianismi anche in lingue che non hanno avuto contatti con la cultura italiana (in hausa, una lingua parlata da alcuni milioni di persone in Nigeria e Niger, sono italianismi mediati dall’arabo sā̀bulū̀ ‘sapone’ e bā̀bur − è l’it. vapore − ‘motocicletta’) alla presenza di italianismi anche in settori in cui l’apporto italiano sembrerebbe marginale. Lo zero è una novità della matematica araba, diffusa in Italia nel XIII secolo dal pisano Leonardo Fibonacci: e gran parte delle lingue europee si servono dell’arabismo italiano zero (francese, inglese) o della sua traduzione italiana antica nulla (così il tedesco, il russo, lo slovacco, il neogreco).

 

Perché, secondo lei, l’italiano gode di tanto successo in questo momento?

 

Per evitare indebiti trionfalismi, andrà forse precisato che, se anche l’italiano è la quinta lingua più studiata del mondo, ciò comporta cifre assolute relativamente modeste; e soprattutto che il borsino delle lingue è estremamente mobile, proprio come avviene per la finanza. Lingue gloriose possono essere meno richieste (come il francese) e lingue “nuove” possono suscitare largo interesse (come il cinese in America, Oceania e nella stessa Europa). Ciò premesso, giocano a favore dell’italiano alcune percezioni tradizionalmente positive legate all’Italia: non solo alla sue bellezze artistiche e naturali, ma anche al tradizionale prestigio in certi settori (moda, design, calcio...). Né va dimenticato che nel mondo ispanico (la richiesta di italiano è tradizionalmente forte nell’America meridionale, specialmente in Argentina) la forte affinità tra italiano e spagnolo spinge molti verso lo studio della nostra lingua. Per i paesi mediterranei (Malta, Albania ecc.) è, o è stato fondamentale, il ruolo della televisione, almeno fin quando la ricezione era libera, non soggetta ad abbonamento.

 

Molte istituzioni si preoccupano oggi di promuovere lo studio dell’italiano all’estero. Ha senso ipotizzare un’azione di politica linguistica in questa direzione? E quali sarebbero le strategie più adatte?

 

Oltre a un’auspicabile interazione tra i vari centri di insegnamento dell’italiano all’estero, sarebbe importante promuovere la diffusione del libro italiano a prezzi di favore, specie in aree di forte richiesta (oltre all’America meridionale, l’Europa orientale), e incrementare le borse di studio con soggiorni in Italia per studenti meritevoli.

 

Come dovrebbero porsi gli insegnanti di italiano (come lingua straniera o lingua seconda) di fronte alla varietà del repertorio italiano? Quale modello di italiano dovrebbero proporre al pubblico degli studenti stranieri?

 

Il modello da insegnare dovrebbe essere soprattutto quello rappresentato dall’italiano effettivamente parlato "in situazione", cioè nei concreti contesti comunicativi. Per esempio, il passato remoto, che ormai non si usa più in gran parte d’Italia, può essere insegnato a livello avanzato, ma potrebbe essere tranquillamente ignorato a livello elementare (a differenza degli altri tempi storici dell’indicativo: imperfetto e passato prossimo). E lo stesso si dica per i pronomi personali soggetto egli e soprattutto ella, che può far comodo conoscere per la lettura, ma che non sono una priorità per parlare e capire il parlato. È bene non dimenticare che le modalità didattiche cambiano radicalmente a seconda che i discenti siano studenti madrelingua (o stranieri comunque stabilmente inseriti in un contesto italofono, come avviene per gli immigrati) oppure no.

 

Quali testi rappresentano al meglio questo modello?

 

Direi l’italiano dei giornali, in particolare quello degli articoli di fondo, scritti da giornalisti o da intellettuali abituati a usare un italiano lessicalmente ricco e preciso, ma anche sintatticamente chiaro e fluente. I romanzi contemporanei vanno scelti con cautela: l’esplosione della prosa che è stata chiamata "ipermedia" (G. Antonelli), con la sua deviazione rispetto allo standard, consiglia di orientarsi verso romanzi di lingua e di struttura più tradizionali. Del resto, non mancano certo esempi adatti, anche cercando tra i grandi successi degli ultimi anni: da Ammaniti (Io non ho paura), alla Mazzantini (Non ti muovere) a Giordano (La solitudine dei numeri primi).

 

 

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Rifletti e usa: per una nuova grammatica a scuola

 

Non si può dire che la scuola italiana non dia spazio allo studio della grammatica. Ma, se l’obiettivo da raggiungere dev’essere, com’è ovvio, quello di assicurare agli alunni una buona padronanza linguistica e un’adeguata capacità di riflettere sui meccanismi che governano la lingua, lo sforzo non sembrerebbe adeguato ai risultati.
 
Repetita non iuvant
 
Partiamo dai libri di testo. Non si capisce per quale ragioni le grammatiche in uso nella secondaria inferiore (la vecchia scuola media) siano sostanzialmente sovrapponibili a quelle del biennio. Qual è l’utilità di ripercorrere due volte a breve distanza le stesse tappe (fonologia, morfologia, sintassi; oltre a testo, comunicazione e gli altri usuali corredi che accompagnano il volume)? Non sarebbe meglio assicurare un pieno possesso dell’ortografia fin dalla scuola elementare, senza dover indugiare nelle medie e persino nel biennio con esercizi tediosi − ma inevitabili, se le relative regole non sono state interiorizzate a suo tempo – sull’uso dei segni diacritici («Inserisci, quando necessario, nella seguente serie di parole la lettera c o la q»)? E non sarebbe più saggio, nella scuola primaria, partire dalle strutture sintattiche fondamentali, per esempio la distinzione tra reggente e subordinate, riservando poi al segmento scolastico successivo l’illustrazione dei vari tipi di subordinata, con i connessi problemi di conversione da esplicita a implicita e di consecutio? Verrebbe da pensare che la spinta a ripetere gli stessi argomenti in due segmenti scolastici contigui nasca dalla sfiducia che l’alunno abbia davvero appreso qualcosa nella scuola media: ma se è così, non vale certo il frusto adagio del repetita iuvant. Iterare un percorso didattico che non ha funzionato due o tre anni prima significa solo ingenerare noia e frustrazione.
 
Tassonomie di dubbia utilità
 
Il fatto è che la grammatica proposta a scuola è tuttora un apparato teorico in gran parte pensato per lo studio del latino e poco funzionale per l’italiano. Non solo: gli esercizi previsti tendono troppo spesso a verificare il possesso fine a sé stesso di griglie tassonomiche di dubbia utilità nella produzione di testi («Nelle seguenti frasi sottolinea una volta gli avverbi di tempo, due volte quelli di luogo, cerchia una volta quelli di quantità e due volte quelli di modo») e poco fondate anche come occasione di riflessione metalinguistica («Indica se il significato delle seguenti parole ha come referente una realtà materiale, una realtà astratta o una creazione fantastica»). Ancora: qual è l’utilità di distinguere tra congiunzioni semplici, composte (due o più parole si fondono in una sola: nondimeno) e locuzioni congiuntive (costituite da due o più parole: dato che)? Il confine tra le ultime due categorie può essere valicato in un senso e nell’altro in casi come dopo che, di modo che (locuzioni congiuntive) e dopoché, dimodoché (congiunzioni composte). Non sarebbe meglio limitarsi a definire che cos’è la congiunzione − nozione non del tutto pacifica − e osservare che può essere composta di una sola parola o di più parole, le quali in certi casi possono essere univerbate oppure no?
 
Meglio i bermuda o i completi con giacca e cravatta?
 
Ridurre il tempo dedicato alle tassonomie autoreferenziali significa dedicarsi a operazioni più proficue e anche più stimolanti. Per quanto riguarda l’uso effettivo, per esempio, è essenziale abituare l’alunno a dominare, attraverso un’adeguata batteria di esercizi, l’impiego dei connettivi, veri e propri mattoni che servono per costruire un testo argomentativo: che differenza c’è tra quindi e tuttavia? e tra bensì e però? Oppure ad analizzare le diverse sfumature d’uso: perché, anche se il verbo reggente è nei due casi un condizionale presente, «Direi che a quest’ora possiamo cominciare» è corretto, ma «Vorrei che tu cominci a impegnarti» non lo è? O a cogliere i condizionamenti del contesto, grazie ai quali due possibilità concorrenti sono entrambe plausibili. Come non avrebbe senso chiedersi se siano meglio i bermuda o i completi con giacca e cravatta (tutto dipende dall’ambiente e dalle persone con cui ci troviamo), allo stesso modo gli dico e dico loro sono due opzioni del tutto legittime: la prima è quella normale nel parlato familiare e nello scritto che ne riprende le movenze (la massima parte della narrativa contemporanea, ad esempio, o anche un tema vertente sul vissuto personale dell’alunno); la seconda è quella propria della prosa più sostenuta, tipicamente quella argomentativa (saggistica; temi scolastici di argomento storico o letterario).
 
L’esempio dell’imperativo
 
E la riflessione metalinguistica sarebbe utilmente sollecitata dal lessico e sulla semantica, troppo sacrificate rispetto a morfologia e sintassi: perché non posso dire *un edificio anziano?; qual è l’unica scelta appropriata in una frase come «la crisi dell’XXX nel settore manifatturiero»: indotto, edotto o indulto?
Riflettere sulla lingua significa anche valorizzarne la storicità, magari partendo dai classici letterari che si studiano a scuola. Un solo esempio. Oggi l’imperativo affermativo prevede la posposizione obbligatoria del pronome (dimmi!, prendilo!); invece, nell’imperativo negativo, questo vincolo viene meno: non mi dire o non dirmi, non lo prendere o non prenderlo. Come mai? Si tratta di una sopravvivenza di una norma attiva nell’italiano antico (la legge Tobler-Mussafia la chiamano i linguisti), secondo la quale ad inizio di frase l’enclisi era obbligatoria: per questa ragione Dante non poteva scrivere se non «Stavvi Minòs orribilmente e ringhia». A parte esili sopravvivenze come Affittasi, Vendesi, il doppio regime dell’imperativo rappresenta un riflesso di quell’antica norma: l’imperativo affermativo apre una frase, o comunque si pronuncia sempre dopo una pausa; quello negativo, per definizione, è preceduto dall’avverbio negativo non, dunque l’enclisi non è più obbligatoria.
 
 

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I ragazzi e la lingua adulta

 

Chi abbia a che fare, direttamente o indirettamente, con adolescenti scolarizzati avrà notato come il lessico che esula da quello comunemente usato nella lingua parlata stia regredendo in modo preoccupante.

 

Cingere, verbo misterioso

 

Qualche giorno fa un'insegnante di lettere in un liceo classico mi ha raccontato un aneddoto istruttivo. Questa mia amica ha l'ottima abitudine di assegnare versioni di latino in classe senza vocabolario, naturalmente con la possibilità che l'alunno chieda lumi su forme meno comuni. Un ragazzo (primo anno) le ha chiesto che cosa volesse dire cingebant. «Ragionaci un po' su: che cosa ti dice l'uscita in -ebant?». «Che è un imperfetto». «Giusto! Prova a immaginare quale sia il presente». «Forse cingo?». «Certo!». Ma l'alunno, che mi si dice essere bravo, continuava a restare perplesso: il problema non era il latino, ma l'italiano; per lui cingere era un verbo misterioso. Un anno fa in un esame di Stato un candidato aveva presentato come "tesina" un lavoro su Senilità di Italo Svevo. «Che cosa vuol dire senilità?». Si badi: non si chiedeva perché abbia questo titolo un romanzo in cui di veri e propri "vecchi" non ce ne sono (il protagonista, Emilio Brentani, ha 35 anni), né altri dati che presuppongono almeno la lettura del testo. No: semplicemente che cosa vuol dire in italiano una parola non esattamente libresca come senilità: scena muta.

 

Non raccappezzarsi

 

Che cosa si può capire, partendo da un bagaglio lessicale così lacunoso, di un editoriale, ma anche di un libro di testo delle superiori o, passando all'università, di un manuale di diritto? Possiamo davvero pensare che un diciottenne che non sappia raccapezzarsi nella sua madrelingua appena si affrontino argomenti di gittata non quotidiana o si ricorra a un lessico meno comune possa davvero essere considerato un cittadino maturo? A diciotto anni, ricordiamolo, si vota, si può conseguire la patente di guida, si è pienamente responsabili dal punto di vista penale, anche se si continua, e si continuerà per un pezzo, a essere designati come ragazzi.

 

Il nerbo dell'istruzione superiore

 

Le eccezioni non mancano, naturalmente. Nelle scuole con una robusta componente letterario-filosofica, in particolare nei licei classici e scientifici, una certa osmosi tra i testi studiati in classe e la padronanza linguistica che se ne acquisisce normalmente si produce (a parte il quindicenne che non sapeva cosa vuol dire cingere). Ma dobbiamo pensare soprattutto agli istituti tecnici e professionali (e aggiungerei: ai licei delle scienze sociali), che rappresentano il nerbo dell'istruzione superiore, interessando la metà degli alunni totali della secondaria superiore.

 

Deprimere il grammaticalismo

 

Quali i rimedi? Esortare alla lettura disinteressata non basta e, guardando all'appiattimento sul parlato proprio di tanta narrativa contemporanea (legittima scelta espressiva, si capisce), forse neppure gioverebbe.

Occorre riorientare l'ora d'italiano, deprimendo la grammatica, o più precisamente il grammaticalismo fine a sé stesso, a vantaggio del lessico. Qualsiasi attività didattica si fonda su una scelta, su una gerarchia di cose da insegnare (o, se si vuole, di competenze da raggiungere). È davvero così importante distinguere tra preposizioni proprie e improprie, tra avverbi di modo, di quantità, di giudizio, o perdersi nella selva di complementi indiretti del tutto secondari (di pena, di stima, ma anche di denominazione, di causa efficiente, di limitazione)? Non è forse più produttivo approfondire lessico e semantica?

 

A scuola di lessico

 

Mi pare più produttivo assicurarsi che siano chiari i diversi presupposti linguistici e ideologici che ci portano a distinguere tra stipendio, salario e onorario; o le combinazioni lessicali (le "collocazioni" come si dice con un termine non molto felice) che ci permettono di usare in modo appropriato sequenze di verbo + nome (si celebra un processo in senso proprio, si fa un processo alle intenzioni in senso estensivo) o di aggettivo + nome (una persona misurata o moderata nel bere è solo da apprezzare, ma se diciamo che qualcuno è morigerato lo presentiamo con una sfumatura ironica o almeno di distacco).

 

Imparare a muoversi

 

E ancora: bisognerebbe che ogni adolescente sapesse muoversi nelle serie che presentano suppletivismo, ossia ricorrono a radici diverse tra parola base e aggettivo di relazione: cavallo/equino (cavallino è di uso semanticamente ristretto: un viso cavallino, stretto e allungato), acqua/idrico (una minestra può essere acquosa, il vapore è acqueo, ma le risorse di un territorio non sono né acquose né acquee bensì idriche), fegato/epatico (fegatoso, raro, si direbbe solo di qualcuno rancoroso, collerico, astioso). Oppure tra famiglie di corradicali, dominandone i diversi significati: flettere vuol dire 'piegare' ed è di uso elettivo in àmbito tecnico (medicina, scienze motorie: si flette un arto); deflettere vuol dire 'piegare rispetto a una precedente direzione' ed è formato col prefisso de-, che indica allontanamento, separazione, movimento dall'alto in basso (come in porre/deporre, congestionare/decongestionare, fluire/defluire); riflettere vuol dire 'rimandare indietro' la luce o un'immagine o, figuratamente, 'concentrarsi, quasi piegarsi su di sé per meditare' (rifletteva sull'accaduto).

 

Per accedere a un sapere avanzato

 

In questi due ultimi casi lo studio del latino (e del greco), certamente aiuta, però non è affatto indispensabile: tutti, ma davvero tutti, gli adolescenti scolarizzati dovrebbero raggiungere sicurezza in questa zona della lingua. Limitarsi alle 2000 parole del lessico fondamentale permette di sopravvivere nell'uso quotidiano, ma è troppo poco per accedere a un qualsiasi sapere avanzato: proprio quello su cui, in diversa misura e con diversi obiettivi, puntano le scuole superiori, nessuna esclusa.

 

 

Immagine: La maestrina e gli alunni di Ettore Tito (1859-1941)

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Wilma, Rosa e Olindo: la lingua della cronaca, ieri e oggi

 

 
Anni Cinquanta: il “caso Montesi”
 
Per valutare i cambiamenti linguistici il quotidiano rappresenta un osservatorio privilegiato. E l’articolo di cronaca è il luogo in cui si avverte di più il passaggio da una scrittura ingessata, stereotipica, portatrice di una letterarietà inerziale di origine scolastica a una scrittura brillante, ricca nel lessico e saldamente incardinata sull’esperienza linguistica reale. Vediamo due campioni a confronto. Il primo, di Arnaldo Geraldini (dal «Corriere della Sera» del 19 settembre 1954) è estratto da un articolo dedicato al “caso Montesi”, un delitto che all’epoca ebbe grande risonanza anche per il coinvolgimento di persone molto in vista.
 
Gli indiziati per la morte di Wilma
diverrebbero imputati entro la prossima settimana
 
Domani o dopo il Procuratore generale Giocoli comunicherà a Sepe se, secondo il suo parere, i prevenuti dovranno essere interrogati con mandato di comparizione o di cattura – Altre indagini non farebbero subire interruzioni all’istruttoria.
 
Roma, 18 settembre, notte
[1] Giampiero Piccioni, il principe Maurizio d’Assia, l’ex-questore di Roma Polito e Ugo Montagna, ai quali furono ritirati i passaporti, si trasformerebbero nella prossima settimana da testimoni in imputati; la cosiddetta «ipotesi del pediluvio», secondo la quale Wilma Montesi sarebbe morta in seguito ad una disgrazia, deve considerarsi definitivamente caduta; lunedì o martedì al massimo, la Procura generale della Corte d’appello comunicherà al presidente della Sezione istruttoria, Sepe, il suo parere sulla forma con cui i prevenuti debbono essere interrogati: mandato di cattura o di comparizione. Queste le notizie che circolano negli ambienti giudiziari di Roma.
[2] In quasi sei mesi, attraverso innumerevoli interrogatori, perizie e ricognizioni, il presidente della Sezione istruttoria sarebbe infatti riuscito a demolire l’ipotesi della disgrazia che la polizia formulò e la Procura della Repubblica fece sua; dalla prossima settimana, il magistrato dovrà iniziare la seconda tappa della sua difficile strada.
 [...]
[3] Il magistrato D’Aniello, interpellato in proposito, non ha avuto difficoltà a far conoscere il proprio punto di vista. «È completamente indifferente – ha detto – che sia io o un altro a far parte dell’organo che dovrà prendere decisioni sul “caso Montesi”. Ogni magistrato è all’altezza del proprio compito ed è in grado di decidere in assoluta serenità di giudizio. Quanto a me, nel luglio scorso vinsi il concorso per la nomina a consigliere di Cassazione; la promozione farà sì ch’io debba lasciare il mio posto nella sezione istruttoria. Non so se il decreto del Capo dello Stato è stato firmato, né conosco la data approssimativa del mio spostamento. Per ora continuo ad essere un consigliere di Corte d’appello».
[4] Questa sera l’«Informazione italiana» afferma che il presidente Sepe avrebbe accertato l’identità di un individuo il quale, fino dal maggio dello scorso anno, avrebbe avvicinato la madre di Wilma Montesi offrendole «una grossa somma di danaro per comprare il suo silenzio e indirizzare precisazioni e testimonianze dei familiari della morte di Tor Vaianica in direzioni favorevoli alla tesi del decesso per malore». [5] Non è possibile stabilire la fondatezza della «voce» riportata dall’agenzia, poiché le risultanze di accertamenti del genere non possono non costituire un geloso segreto istruttorio. Altro geloso segreto sono le dichiarazioni rese ai carabinieri, fin da sabato dell’altra settimana, dalla giovane Nunziatina Ciolli, la domestica di casa Montesi, le cui sconcertanti rivelazioni hanno contribuito in modo non indifferente a configurare sotto una luce diversa la personalità di Wilma Montesi.
 
Agli occhi di un lettore abituato ai giornali di oggi spicca l’assoluta rinuncia a drammatizzare la vicenda e a gerarchizzare le informazioni, attraverso un qualsiasi montaggio narrativo. Il cronista si limita a riportare le voci raccolte, sottolineandone continuamente il carattere ipotetico con esplicite prese di distanza (Queste le notizie 1, Non è possibile stabilire 5) e condizionali di dissociazione (diverrebbero, farebbero titolo; trasformerebbero, sarebbe morta 1 ecc.). Il titolo è puramente informativo e si limita a riassumere il contenuto dell’articolo.
Nessuno sforzo di mediare le notizie d’agenzia per il pubblico. I tecnicismi giuridici sono riproposti così come si presentavano nella fonte; non solo i tecnicismi specifici inevitabili (mandato di comparizione e di cattura e prevenuti ‘imputati’, tutti nell’area del titolo), ma anche la massa dei tecnicismi collaterali desunti dai verbali di polizia o dei cancellieri (risultanze, rese ‘fatte’, configurare 5). Anche la dichiarazione del magistrato (3) non presenta nessun tentativo di mimesi dell’oralità (come avverrebbe oggi, attraverso un sapiente maquillage del giornalista): D’Aniello si esprime non come un parlante reale, per quanto cólto e qui interpellato nella sua veste professionale, ma come il classico libro stampato.
La patina linguistica è sostenuta e compassata: domina il passato remoto (furono ritirati 1, formulò e fece 2 ecc.; anche nella dichiarazione del magistrato: vinsi 3). Molto tradizionale anche la struttura sintattica: mancano frasi nominali, sono frequenti le subordinate, implicite ed esplicite.
 
2008: il processo per la “strage di Erba”
 
Ecco ora parte di un articolo che Natalia Aspesi («la Repubblica», 30.1.2008) dedica a una vicenda processuale che ha avuto altrettanta risonanza nell’opinione pubblica: la strage di una famigliola compiuta da due insospettabili vicini di casa:
 
La strage di Erba
Folla al processo, Rosa e Olindo mano nella mano
Nella gabbia amore e orrore
 
Como
[1] Nello spazio angusto della gabbia assurdamente dorata dentro l’aula della Corte d’Assise, la tragica coppia di Erba accusata di aver sterminato tre donne e un piccino e quasi ucciso un uomo, in assoluta, demente futilità mette in scena con spavalda noncuranza i gesti leziosi e stanchi dell’affetto imperituro.
[2] Non si aspettava altro da Rosa Bazzi e Olindo Romano, e le televisioni, e i fotografi, cui la Corte ha concesso pochi minuti di riprese, e i cronisti con i loro taccuini hanno finalmente una storia di quelle che piacciono adesso: con tanto sangue, molta efferatezza ma anche possibili brandelli d’amore o di sesso.
[3] Così, che siano colpevoli della strage degli innocenti vicini, come avevano confessato quasi con orgoglio subito dopo essere stati fermati nel gennaio 2007, o non colpevoli, come si sono dichiarati all’udienza preliminare del novembre scorso, il piccolo e grosso spazzino e la piccolissima e robusta donna a ore si amano, nel bene e nel male; si sono amati stando insieme nel loro lindo camper e vivendo separati nelle rispettive celle; si amavano mentre, secondo l’accusa, l’uno prendeva a randellate Raffaella Castagna e l’altra sgozzava il piccolo Youssef e in nove minuti ammazzavano a bastonate e coltellate la madre di Raffaella, Paola Galli e la vicina Valeria Cherubini, non riuscendo a finire il di lei marito Mario Frigerio; si vezzeggiavano mentre festeggiavano insieme in un fast food la liberazione da quell’ingombro umano che era stata quella insopportabile strana e felice famigliola, e se la ridevano complici mentre assaporavano i giorni in cui non c’era più un bambino a far disordine nel cortile e le notti si erano fatte finalmente silenziose e placide senza quella ragazza brianzola che era diventata musulmana per amore di un extracomunitario ed amava la musica africana.
[4] Separati in carcere se non per un’ora la settimana, il processo che dovrà decidere il loro comunque funesto destino li rimette vicino, davanti a un eccesso di giornalisti, a un pubblico silenzioso e composto, soprattutto maschile e in età, non così vasto come temevano i moralisti dei tempi bui, a una folla di avvocati dalle toghe perfettamente stirate, a una moltitudine di guardie carcerarie dal berretto azzurro, a una ressa di carabinieri anche di alto grado, a una Corte d’Assise composta da signore e un solo uomo e presieduta dal magistrato Alessandro Bianchi; che decidendo con grande saggezza di limitare le riprese televisive a una sola trasmissione (Un giorno in pretura) da mandare in onda a fine processo, lascia con un palmo di naso i signori dei talk show più sanguinolenti: che essendo però indomabili, troveranno altre strade per saziare la loro fame di massacro horror. [5] E già si prevede il tentativo più che azzardato di schierare colpevolisti contro innocentisti, detective a caccia di misteriosi altri serial killer contro esperti della Sacra Sindone capaci di decifrare le visioni dello scampato testimone Frigerio o contro studiosi lombrosiani di coppie criminali.
[6] Carlo Castagna, l’uomo a cui hanno straziato moglie, figlia, e nipotino, è in aula tra i primi assieme ai figli Giuseppe e Pietro che si sono costituiti parte civile. I due fratelli di Raffaella hanno l’aria sperduta, sofferente, il padre sembra sereno, dignitosamente presente. Lo ripete gentilmente: «Ho perdonato, ma voglio lo stesso giustizia». [7] Quando arriva Azouz Marzouk, genero non dei più esemplari, gli stringe la mano, nella condivisione della perdita immensa e del dolore irrimediabile. Azouz arriva dal carcere di Vigevano dove è rinchiuso con l’accusa di spaccio, gli levano le manette e gli consentono di sedersi, circondato da guardie, accanto agli avvocati di parte civile. È pallido e intimidito, la corta barba arabeggiante che gli arrotonda il viso giovane, forse Lele Mora l’ha già dimenticato ma qui nel pubblico una signora torinese gli fa sapere che ci sono sempre battesimi e cresime dove necessitano vip, se in seguito, una volta fuori dal carcere, vorrà favorire.
[8] Né lui né Castagna guardano alla loro sinistra, verso quelle due ombre ingabbiate che si bisbigliano, che si sfiorano, che si intrecciano, che si palpano, che si sorridono. Olindo è intabarrato nel grigiore del solito grosso maglione e giaccone, gonfio e immobile, lo sguardo assente e a tratti feroce, accarezza la coscia fasciata di Rosa, con un gesto che appare sconveniente, offensivo per chi li guarda. Rosa, golfone bianco, un po’ di rossetto sulle labbra, gli rassetta il giaccone, lo imbocca con un pezzo di pane, gli liscia i polsi quando gli tolgono le manette, gli appoggia le ginocchia contro le sue, ha le guance arrossate da una specie di funebre civetteria, esibisce accudimento, disinvoltura, persino seduzione.
[...]
 
Il titolo è fortemente impressivo, apparentemente «non informativo»: la struttura è quella di un campo lungo (la «folla») e di un primo piano, la «mano nella mano» dei due coniugi. Sembrano elementi secondari rispetto al merito del dibattito processuale, ma in realtà il titolista vuole fare emergere la risonanza della vicenda presso la pubblica opinione (anche se poi Aspesi ridimensionerà questo aspetto) e il rapporto quasi morboso tra i due (e questo tema avrà invece ampio riscontro nel testo: 8).
A differenza di Geraldini, Aspesi sottolinea immediatamente la sua presenza critica, a partire dalla presa di distanza rispetto allo sfruttamento mediatico del truce fatto di sangue (una storia di quelle che piacciono adesso 2). Si tratta del resoconto di una seduta processuale e i dati informativi sono tutti presenti; ma i mezzi espressivi sono piuttosto quelli di un’abile rielaborazione narrativa. In primo piano, già nel titolo, è un particolare (mano nella mano), quasi uno zoom della macchina da presa con effetto straniante rispetto all’omicidio di cui la coppia è accusata. Il distacco comporta l’esercizio di un’amara ironia, che accosta l’omicidio a precedenti biblici (strage degli innocenti vicini 3), gli imputati a due sposi nell’atto di promettersi assistenza reciproca (nel bene e nel male 3 ricalca la formula abitualmente pronunciata dal celebrante nel rito nuziale: nella buona e nella cattiva sorte), la batteria di avvocati e periti alle dispute sulla Sacra Sindone 5.
Dal punto di vista linguistico, l’esperta scrittura di Aspesi oscilla continuamente tra due poli: l’effetto di presa diretta sulla realtà quotidiana e la rielaborazione letteraria. Al primo àmbito rimandano la sintassi, che procede per accumulo più che per subordinazione, con una serie di frasi separate da punto e virgola o da virgola (si vedano 3 e 4), isolando anche proposizioni relative, precedute da un segno di pausa medio-forte (che decidendo ... lascia, che essendo però indomabili, troveranno). E così il lessico, punteggiato di forestierismi appartenenti all’orizzonte della quotidianità, specie televisiva (camper, fast food 3, talk show, horror 4, detective, serial killer 5, vip 7). Al secondo, le apposizioni descrittive dei protagonisti, trattati come personaggi di un racconto o di un dramma (la corta barba arabeggiante 7, lo sguardo assente e golfone bianco 8); l’uso ironico di strutture linguistiche desuete (il di lei marito 3) o di uso ristretto (il retorico imperituro 1, l’affettato lindo 3); il forte dispiegamento iniziale di aggettivi, al punto che in 1 solo angusto ha valore referenziale; gli altri aggettivi implicano esclusivamente la percezione critica di chi scrive.
                                                                                  
 

 

 

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Ignazio Baldelli cento anni dopo

Ignazio Baldelli (1922 – 2008) ha rappresentato una presenza molto significativa nello sviluppo della Storia della lingua italiana: una disciplina che, quand’egli diventò professore ordinario a Roma, nella Facoltà di Magistero (1962), era ancora insegnata solo in alcune sedi, peraltro da studiosi di fama, come Bruno Migliorini (Firenze), Gianfranco Folena (Padova), Maurizio Vitale (Milano) e Alfredo Schiaffini (Roma, Lettere).

 

La vocazione del medievista

Di Baldelli colpisce la grande versatilità e la capacità di dominare le tre componenti costitutive della disciplina: la filologia, la vera e propria linguistica, la stilistica. Quest’ultimo filone, frutto dei giovanili contatti con Gianfranco Contini, trovò realizzazione in un originale volumetto del 1965, Varianti di prosatori contemporanei. Palazzeschi, Cecchi, Bassani, Cassola, Testori (più tardi Baldelli si sarebbe occupato anche di D’Arrigo e della sua letterarietà visionaria). La principale vocazione di Baldelli era però quella del medievista. Dall’esplorazione di archivi e biblioteche scaturiscono scoperte importanti: un frammento di conto navale pisano, che è il più antico testo toscano finora noto (pisano, ovviamente, dato il tema), risalente ai primi decenni del XII secolo; o le glosse in volgare cassinese, apposte a un testo del poeta tardolatino Sedulio, risalenti alla metà del XIII secolo. Ai glossari Baldelli ha dedicato molta attenzione: in effetti sono testi di grande interesse linguistico, che nascono dal confronto tra lingue diverse: o per spiegare in volgare parole di una lingua altra, come il latino; oppure con l’idea di promuovere la parlata locale, affiancandola alla lingua dotta per definizione, come nel caso dell’umanista reatino Cantalicio (hoc cocleare, -ris - la cucchiara); o ancora per la curiosità di chi visiti una città diversa dalla propria, come nel glossario di un anonimo viaggiatore secentesco, che mette a confronto fiorentino e romanesco (pesche – perziche, grembiule – zinale).

 

Da Francesco d’Assisi a Dante

Legatissimo alla sua regione, l’Umbria (era nato a Civitella d’Arno, nel territorio perugino), Baldelli ha dedicato molte cure all’umbro più illustre del XIII secolo, san Francesco.

Ma l’ultimo trentennio della sua vita è stato occupato interamente dallo studio di Dante. Decisiva è stata in proposito l’esperienza di un’opera pubblicata dall’Istituto della Enciclopedia italiana negli anni Settanta, l’Enciclopedia dantesca. Baldelli, che era uno dei tre condirettori, ha compilato non solo le voci metriche, ma anche un ampio campitolo sulla lingua e sullo stile del poeta, che è forse il suo capolavoro. L’anno anniversario appena trascorso ha mostrato, nel proliferare vivace e talvolta incontrollato degli studi, quanto questo lavoro sia ancora attuale. L’amore per Dante ha portato Baldelli ad andare oltre gli aspetti linguistici e stilistici, per affrontare veri e propri temi esegetici. Pensiamo al saggio sulla pena degli indovini, consistente nel silenzio, a differenza della maggior parte dei dannati, anche quando non parlano ma urlano il loro dolore, a quello su Realtà personale e corporale di Beatrice o a un altro cui si indaga l’amore di Catone, di Casella, di Carlo Martello in relazione alle canzoni di Convivio, II e III. Al personaggio che, più di ogni altro, incarna l’immagine stessa dell’amore, Francesca da Rimini, Baldelli dedicò un volumetto, Dante e Francesca, che è tra i lavori dell’ultima parte della sua vita (sarebbe scomparso nel 2008) uno di quelli a cui più teneva. Lo studioso cede il passo al lettore fine e appassionato, nel rivendicare il valore di Francesca, rigettando (senza nominarle) le interpretazioni riduttive di gran parte della critica dantesca: il canto quinto dell’Inferno è «il testo poeticamente più alto in cui Dante identifichi il suo sentimento verso la passione amorosa con l’amore di Francesca e di Paolo: la passione amorosa, per cui si può essere uccisi, si può uccidere, ci si può uccidere».

 

Opere di Ignazio Baldelli

Varianti di prosatori contemporanei, Firenze, Le Monnier, 1965

Medioevo volgare da Montecassino all’Umbria, Bari, Adriatica Editrice, 1971

Conti, glosse e riscritture, Napoli, Morano, 1988

Dante e Francesca, Firenze, Olschki, 1999

Non dica Ascesi, ché direbbe corto. Studi linguistici su Francesco e il francescanesimo, Assisi, Edizioni Porziuncola, 2007

Studi danteschi, a cura di L. Serianni e U. Vignuzzi, Spoleto, Centro italiano di Studi sull’alto Medioevo, 2015.

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La Commedia, polifonia della lingua italiana


 
È difficile negare che, nell’immaginario collettivo, Dante stia alla letteratura italiana come Shakespeare a quella inglese, Goethe a quella tedesca, Cervantes a quella spagnola. Sia cioè un’icona simbolica, percepita come tale tanto in Italia quanto all’estero: tra gli autori italiani studiati nel mondo, Dante è immancabilmente anche oggi quello che suscita più interesse.
 
Un’esperienza strettamente personale
 
Si dirà che l’eccellenza artistica e il respiro universale di un poema «al quale ha posto mano e cielo e terra» non conoscono confini né di tempo né di spazio. È certamente così. Ma quel che colpisce è che questo orizzonte si dispieghi, nella Commedia, partendo da un’esperienza strettamente personale e ben definita nella storia.
La Commedia muove da una prospettiva estremamente concreta e circoscritta, quella della Firenze e dell’Italia dei suoi tempi. Gran parte dei personaggi che Dante incontra nelle prime due cantiche – in episodi che sono quelli più impressi nella memoria dei lettori -- sono fiorentini (Ciacco, Farinata degli Uberti: Inf., VI e X) o toscani (il pistoiese Vanni Fucci Inf. XXIV, il pisano Ugolino, Inf. XXXIII, la senese Sapia Purg. XIII). Molti sono legati a lui da rapporti di amicizia e affetto: il venerato maestro Brunetto Latini (Inf. XV), l’amico Forese Donati (Purg. XXIII) o l’a noi ignoto Belacqua (Purg. IV), che sconta la sua negligenza nell’Antipurgatorio: Dante lo riconosce per «gli atti suoi pigri e le corte parole», lasciandosi andare a un sorriso ironico senza riscontri nel poema. Per altri (Filippo Argenti, Bocca degli Abati: Inf. VIII e XXXII) Dante non nasconde la sua personale avversione. Analogamente, l’individuo Dante è saldamente al centro della sua visione ultraterrena. La guida alle sfere celesti è Beatrice, la donna idealizzata negli anni della giovinezza, colei di cui a conclusione della Vita nova egli si riprometteva di dire «quello che mai non fue detto d’alcuna»; l’incontro centrale del Paradiso è quello col trisavolo Cacciaguida, che esplicita le varie profezie sul suo destino di esule, legittimando nello stesso tempo il dovere di Dante di proclamare la verità, senza riguardi umani: «Coscïenza fusca / o de la propria o de l’altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca» (Par., XVII).
 
La varietà del lessico e del pensiero
 
Non è un luogo comune affermare che Dante è l’inventore della lingua italiana. Nella Commedia si dà vita a una straordinaria polifonia che, dal realismo del fiorentino nativo, passa all’astrazione latineggiante delle parti filosofiche e al lessico puntuale della scienza. Pensiamo per esempio alla lezione di Stazio sulla generazione dell’anima (Purg. XXV) e a versi tramati sul lessico anatomico: «come al feto / l’articular del cerebro è perfetto» ecc.
È una polifonia che si articola in modo diverso a seconda delle cantiche. Lo stile “comico”, quello fortemente realistico fino al punto da accogliere parole triviali (che ancora oggi sarebbero giudicate tali: culo, merda, puttana), è caratteristico dell’Inferno; quello “tragico”, proprio della lirica più eletta, domina nel Paradiso. Qui Dante adatta al volgare audaci latinismi: nel canto di Giustiniano che, richiamandosi ai canti sesti delle altre due cantiche, corona in una prospettiva universale la visione politica prima concentrata su Firenze (Inf. VI) e sull’Italia (Purg. VI), figurano vocaboli che nessuno aveva usato prima di lui, come cirro ‘ricciolo’ e delubro ‘tempio’. Altrove all’occorrenza Dante crea neologismi che intendono esprimere l’eccezionalità dell’esperienza da lui compiuta. In Par. IX Dante incontra Folchetto di Marsiglia: come tutti i beati, l’anima è in grado di conoscere i desideri del pellegrino prima che questi li esprima; e Dante, per rappresentare questa situazione, conia tre arditi parasinteti, cioè verbi ricavati mediante un prefisso da un pronome personale o possessivo: «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia» ‘penetra in Lui’, «s’io m’intuassi, come tu t’immii» ‘se io penetrassi nella tua mente come tu puoi penetrare nella mia’.
 
Apertura culturale
 
Ma la “dottrina degli stili” a cui Dante si ispira non è legata a una distribuzione rigida delle soluzioni espressive. Uno dei grandi temi ispiratori del poema, la fiera condanna della corruzione della Chiesa, si spinge fino alla conclusione del viaggio, alle soglie della finale visione di Dio. San Pietro, condannando Bonifacio VIII (regnante nel momento in cui si immagina il viaggio, nel 1300), erompe in parole durissime ed esplicite nel loro realismo: il papa, «ch’usurpa in terra il luogo mio […] fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e della puzza». E nel XXIX la soave Beatrice si scaglia contro i frati antoniani che predicano promettendo incaute indulgenze agli ignari fedeli e badando soltanto al successo e al denaro: «Di questo ingrassa il porco sant’Antonio [i frati antoniani; Sant’Antonio abate era rappresentato con un maiale ai suoi piedi ed è tuttora considerato protettore degli animali] / e altri assai, che sono ancor più porci, / pagando di moneta senza conio [fornendo falsi valori ai fedeli]». Significativo che un commentatore illustre, Niccolò Tommaseo, non cogliesse l’empito artistico e morale di questi versi -- si potrebbe dire la loro necessità nel mondo valoriale di Dante -- e se ne scandalizzasse, annotando che «il cenno dei porci non è cosa degna di Beatrice e del Paradiso».
La capacità di rappresentare la complessità del reale ricorrendo a tutte le risorse della lingua è parallela all’apertura di Dante verso le due grandi culture che ne alimentano la poesia. Quella cristiana, com’è naturale; ma anche quella classica, attinta dai poeti della latinità, a partire dal suo Virgilio, e ricreata attraverso la singolare ripresa del pantheon mitologico pagano. Di qui la presenza, nell’Inferno, di Minosse nelle vesti tradizionali di giudice, o di Caronte e Cerbero, in quelle di diavoli; e, su un altro piano, la condanna di Capaneo (Inf. XIV), che si era vanamente ribellato a Giove, cioè al principe degli «dei falsi e bugiardi».
 
 

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Il dialetto oggi: vivo benché subalterno

 

Un tratto caratteristico della fisionomia linguistica dell’italiano è la forte presenza della variazione regionale: pressoché tutti i parlanti tradiscono la rispettiva area, o macro-area, di provenienza; e i dialetti hanno spesso l’apparenza di lingue diverse sia tra loro sia rispetto all’italiano standard. Verso la metà del secolo scorso, nel grandioso rivolgimento economico e culturale degli anni Cinquanta (incremento della scolarità, vasti movimenti migratori, potere modellizzante della televisione, dal 1956 in poi) sembrava che i dialetti fossero inevitabilmente avviati alla contaminazione e poi all’estinzione. Ma le previsioni, non solo in linguistica, sono sempre precarie. Alla fine del XX secolo e nei primi anni del nostro, il bilancio della dialettofonia mostrava segni di resistenza (saldo attaccamento al dialetto nel Triveneto e in gran parte del Mezzogiorno) e persino di autonoma vitalità, a vari livelli: dalla poesia dei grandi dialettali come Guerra e Pierro, alla musica pop.
 
La lingua in famiglia
 
Quel che più conta, da alcune indagini ISTAT sembrava di poter concludere che l’italofonia avesse raggiunto la massima espansione possibile rispetto ai dialetti. In tre rilevazioni successive, negli anni 1995, 2000 e 2006, la quota di coloro tra i 18 e i 74 anni che dichiaravano di parlare «solo o prevalentemente italiano in famiglia», ossia in condizioni di massima rilassatezza e informalità, era più o meno stabile, oscillando intorno al 44% (il resto si divideva essenzialmente tra coloro che si esprimevano prevalentemente in dialetto, in progressiva flessione, e coloro che alternavano italiano e dialetto a seconda delle circostanze – familiare coinvolto, registro scherzoso o emotivamente marcato ecc. –, in parallelo incremento).
 
Il sessanta per cento dei giovani
 
Ma, ancora una volta, le nostre aspettative sono state smentite. Una recente inchiesta ISTAT, relativa al 2012, ma resa nota solo nell’ottobre 2014, mostra, in tutti i parametri utili, una forte impennata dell’italofonia. Ora dichiara di parlare abitualmente l’italiano il 53,1% in famiglia e l’84,8% con estranei e la quota si innalza ulteriormente nella fascia più giovane, quella compresa tra i 18 e i 24 anni, con valori rispettivamente del 60,7% e del 90,9%. Ed è indicativa anche la differenza di genere, tenendo conto che le donne sono mediamente più sensibili al prestigio linguistico: le ragazze della fascia più giovane dichiarano di usare abitualmente italiano in famiglia nella misura del 65,0%, arrivando al 92,4% con gli estranei.
 
Punkettusi a Torino
 
Naturalmente cifre del genere non possono che essere indicative: riflettono autovalutazioni del campione esaminato e non ci dicono nulla sulla qualità dell’italiano (o del dialetto) effettivamente adoperato. Ma è innegabile una complessiva erosione della “fedeltà linguistica” dei parlanti nei confronti del dialetto, anche se in particolari situazioni si possono notare microfenomeni in controtendenza. Gaetano Berruto nel 2012 segnalava «casi di un impiego del dialetto come lingua aliena in fumetti disneyani» o l’estensione presso i giovani torinesi e milanesi di formazioni scherzose col suffisso tipicamente calabrese-siciliano -uso (sul modello di fetuso ‘puzzolente’, il fituso di Andrea Camilleri): punkettuso ‘relativo al genere musicale punk’, stiluso ‘che ha stile’, tabaccuso ‘fumatore incallito’ ecc. Ciò si spiega evidentemente con la presenza di un retroterra dialettale meridionale legato agli anni del boom economico; ma mostra anche la sopravvivenza di un piccolo serbatoio dialettale, a fine espressivo, nei nipoti e pronipoti degli antichi immigrati, con estensione ai loro coetanei di famiglie settentrionali. E si può citare anche l’occasionale presenza di dialettismi nella narrativa contemporanea, più che mai aperta alle sollecitazioni del parlato: ruscata ‘scambio di intimità’ (Rossana Campo), sgomellare ‘sgobbare’ (Silvia Ballestra), cazziatone ‘aspro rimprovero’ (Pier Vittorio Tondelli; da notare che il meridionalismo è adottato dallo scrittore emiliano in un romanzo di ambiente militare: il servizio di leva, come si sa, ha rappresentato un’irripetibile occasione di contatto tra i vari dialetti italiani).
 
Marginalizzazione
 
A ben vedere, forme come punkettuso o ruscata non sono segni di vitalità del dialetto, ma piuttosto della sua marginalizzazione. Sono forme usate in quanto offrono un’escursione stilistica rispetto alla lingua media, quella condivisa da tutti; e sono forme che appartengono al livello linguistico più superficiale e più soggetto al rinnovamento, il lessico. Solo qualche anno fa si discuteva sulla possibilità che i dialetti diventassero materia d’insegnamento scolastico. Oggi il tema non è più di attualità politica: il dialetto è una realtà ben viva anche nell’Italia del 2015, ma ormai avvertita come decisamente subalterna rispetto alla lingua comune. Ed è difficile non concordare con le parole che Tullio De Mauro, certo non imputabile di dialettofobia, ha scritto nella sua recente Storia linguistica dell'Italia repubblicana (apparsa, si noti, prima che fossero divulgati i dati dell’ultima inchiesta ISTAT): «Nei tre millenni di storia che ricostruiamo e conosciamo le popolazioni che hanno abitato l’Italia mai avevano vissuto un grado di convergenza verso una stessa lingua pari a quello realizzatosi nell’età della Repubblica democratica».
 
Riferimenti bibliografici
Gaetano Berruto, Lingua nazionale e dialetti a 150 anni dall’Unità d’Italia, in P.A. Di Pretoro e R. Unfer Lukoschik (a cura di), Lingua e letteratura italiana 150 anni dopo l’Unità, München, 2012, pp. 95-.111.
Nicola De Blasi, Geografia e storia dell’italiano regionale, Bologna, Il Mulino, 2014.
Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 2014.
Pietro Trifone, L’apporto dei dialetti al lessico dell’italiano contemporaneo, in G. Ruffino e M. D’Agostino (a cura di), Storia della lingua italiana e dialettologia, Palermo, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, 2010, pp. 753-765.
 
 

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Come arricchire il lessico “astratto” di uno studente

La distinzione tra nomi astratti e concreti è tanto radicata nella tradizione scolastica, a partire dall'Ottocento, quanto discutibile nel suo statuto cognitivo. Fame dovrebbe essere un nome astratto, perché non la tocchiamo e non la percepiamo con nessuno dei cinque sensi ma, quando il tasso di glucosio nel sangue si abbassa oltre una certa soglia, il "centro della fame", nell'ipotalamo, si fa sentire, eccome. Il salto di un uomo o di un animale lo vediamo, ma a rigore vediamo chi salta, non il salto in sé.

 

Vecchio, anziano, attempato, logoro: sinonimie

 

Quando parliamo di "lessico astratto", specie in riferimento al suo mancato possesso da parte di una quota verosimilmente alta di parlanti, ci riferiamo, però, a una nozione più facilmente ed empiricamente circoscrivibile. Si tratta di quelle parole (nomi, aggettivi, avverbi, verbi) che si riferiscono ad alcune azioni e ad alcune qualità fondamentali (come fare, arrivare, parlare; vecchio, superbo, notevole), sfumandone e restringendone in vario modo il significato. Per la comunicazione quotidiana posso anche farne a meno e accontentarmi, poniamo, di vecchio: un vecchio signore, una vecchia casa, idee vecchie, una vecchia giacca, vino vecchio. Ma per ciascuna di queste nozioni esiste una gamma di possibilità alternative che ne delimitano variamente l'accezione. Siamo nel campo dei "sinonimi": i sinonimi puri, ossia perfettamente intercambiabili, non esistono o quasi (nell'italiano attuale è il caso di tra e fra, che ciascuno di noi usa promiscuamente, senza farci caso); ma esistono, e sono rilevanti quanto più il discorso, parlato e soprattutto scritto, si fa complesso e articolato, le varie sfumature. Anziano concorre con vecchio come forma di maggiore riguardo in riferimento a persone e ormai anche ai tradizionali animali d'affezione, il cane e il gatto: una "formica anziana" ci farebbe ridere, ma un "cane anziano" da portare al veterinario no. Ancora più ristretto l'uso di attempato, riferibile solo a persone: «un attempato fotografo che aveva lo studio nel palazzo» (Elena Ferrante). Un indumento può essere liso («un soprabito liso e striminzito» Giorgio Bassani) o logoro («la stessa tonaca logora e frittellosa» Carlo Cassola); ma logoro può usarsi anche in senso figurato, per indicare idee o espressioni stancamente ripetute («scegliere nel loro logoro repertorio i lazzi e le battute che ritenevano più divertenti» Michele Prisco).

 

In classe, riunire le parole per famiglie

 

Il problema è come arricchire il lessico, tipicamente quello di uno studente. Certo non studiando le pagine di un dizionario e nemmeno confidando solo nella pratica, salutare, della lettura (non soltanto di testi letterari, ma di saggistica su vari argomenti), che crea un processo di osmosi, è vero, ma solo nel caso di lettori forti. Una possibilità didattica da esplorare, facilmente percorribile da chi abbia una pur rudimentale conoscenza di latino (licei classico e scientifico ordinamentale, delle scienze umane, linguistico), ma applicabile all'intero universo studentesco, perché sollecita la naturale curiosità di bambini e adolescenti per l'etimologia, è quella di riunire le parole per famiglie.

 

Riflettere sull’esempio di flettere

 

Prendiamo il caso di flettere (participio passato: flesso). Il significato fondamentale di 'piegare' è variamente modificato a seconda del prefisso: deflettere si usa raramente in senso proprio ('scostarsi da una direzione prestabilita') e abitualmente nel senso figurato di 'venir meno a un principio', estroflettersi è un termine del linguaggio scientifico che indica lo svilupparsi "verso l'esterno"; genuflettersi è formato dal latino genu e ha il significato, trasparente una volta individuate le componenti, di 'inginocchiarsi'; riflettere etimologicamente 'piegare all'indietro' ha un doppio significato: quello proprio di 'rinviare un certo stimolo fisico' (riflettere la luce, un suono) e quello figurato di 'considerare attentamente', come se un certo pensiero tornasse indietro, su di sé, saggiando la propria tenuta. Ricca anche la gamma di aggettivi formati dal tema fless-: flessibile, in doppia accezione (propria: un ramo f.; figurata: un atteggiamento f. L'antonimo inflessibile si usa solo in questa seconda accezione: «sarò inflessibile»); riflessivo (solo nell'accezione figurata); flessivo («l'italiano è una lingua flessiva»), flessuoso 'armonioso, sinuoso'.

 

Oltre il lessico fondamentale

 

Di tutti questi vocaboli il GRADIT di Tullio De Mauro qualifica come appartenente al lessico fondamentale solo riflettere; gli altri sono ascritti al linguaggio tecnico-scientifico (estroflettersi, flessivo), a quello genericamente «comune», e dunque considerati «genericamente noti a chiunque abbia un livello mediosuperiore di istruzione» (p. XX) o addirittura «di basso uso» (deflettere). Ma la scuola superiore, dai licei ai professionali, una volta assicurata la padronanza del lessico fondamentale, deve assicurare il possesso agli studenti italofoni – altro discorso richiederebbero quelli che hanno imparato l'italiano da adolescenti – proprio di questa porzione di lessico astratto, che è quello indispensabile per affacciarsi all'orizzonte culturale di riferimento con una qualche consapevolezza.

 

Bibliografia

Michele Colombo e Paolo D'Achille, Repertorio Italiano di Famiglie di Parole, Bologna, Zanichelli, 2019

Tullio De Mauro, Grande dizionario italiano dell'uso (GRADIT), Torino, UTET, 1999

Tullio De Mauro, Primo Tesoro della Lingua Letteraria Italiana del Novecento, Torino-Roma, UTET-Fondazione Bellonci, 2007

Raffaella Setti, Nomi astratti e nomi concreti, risposta pubblicata sul sito dell'Accademia della Crusca il 10 aprile 2009.

 

Immagine: L'albero rosso di Piet Mondrian

 

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Prima l’italiano, a scuola e per tutti

Qual è l'andamento del mercato delle lingue per quel che riguarda l'italiano? Recenti dati diffusi dal Ministero degli ESTERI (MAECI), relativi al 2017, documentano un discreto numero di studenti sparsi nel mondo: 2.145.000, distribuiti in 115 Paesi. Ma sono anche cifre da non enfatizzare. Da una ricerca di Claudio Giovanardi e Pietro Trifone (dati relativi al 2010) ricaviamo che l'italiano non rappresenta mai la prima scelta, una posizione saldamente occupata dall'inglese, tranne ovviamente nei Paesi anglofoni, con tre quarti delle opzioni. Come seconda scelta l'italiano raggiunge il 4,6%, molto meno di francese (36,3%), spagnolo (19,3%) e tedesco (18,2), anche se il doppio del russo (2,3%). A parte i numeri, va ricordato che la lingua straniera che permette all'apprendente di arrivare a una buona padronanza è la prima; la seconda, non parliamo della terza e la quarta quando vengono effettivamente praticate, è generalmente studiata accontentandosi dei gradi più bassi del sistema europeo di riferimento, noto con la sigla QCER.

 

L’italiano appreso in Italia dai non autoctoni

 

Ma non c'è solo l'italiano all'estero. C'è anche l'italiano appreso in Italia dai non autoctoni, si tratti di cittadini optimo iure o di stranieri che soggiornano per periodi più o meno lunghi nel nostro Paese. Questo composito gruppo ammonta, secondo i dati ISTAT più recenti, dislocati tra 1.1.2016 e 1.1.2018, a poco più di cinque milioni, compresa una quota di cittadini comunitari, i rumeni, la principale comunità non autoctona, che ammonta a ben 1.190.000 persone: più degli abitanti di Napoli o Torino per capirci. Il grado di competenza dell'italiano è molto diverso e dipende da diversi fattori. Al vertice potremmo collocare la realtà dei cosiddetti scrittori migranti: scrittori di varia provenienza che hanno scelto l'italiano come lingua d'affezione, raggiungendo in diversi casi un certo successo, come l'algerino Amara Lakhous, la somala Igiaba Scego, l'americana di origine bengalese Jhumpa Lahiri. Ma accanto a loro vanno collocati tutti coloro che hanno completato il ciclo di istruzione, magari arrivando anche all'Università. La perfetta padronanza dell'italiano emerge anche dal fatto che questi bambini o adolescenti, immersi nel contesto dei loro coetanei, parlano l'italiano con un accento regionale. Chi viaggia a Roma sui mezzi pubblici, per esempio, ha varie occasioni di cogliere un perfetto romanesco in bocca a ragazzi la cui etnia diversa si ricava solo dai tratti più superficiali: e alludo proprio alla superficie in senso letterale, all'epidermide, al colore della pelle. I gravi episodi di bullismo e di intolleranza che ogni tanto si leggono nei giornali, e che colpiscono peraltro anche altre minoranze come i gay o presunti tali, non devono farci sottovalutare il grandioso fenomeno di integrazione che avviene sotto i nostri occhi, non attraverso l'insegnamento linguistico, ma attraverso il naturale scambio tra parlanti.

 

L’italiano per chi soggiorna da poco

 

Al polo opposto si situano o i migranti appena arrivati che magari mirano a raggiungere altri Paesi, e quindi privi, non che della possibilità, nemmeno della motivazione di apprendere la lingua del Paese ospite; o coloro che, pur soggiornando da tempo in Italia, hanno scarse frequentazioni al di fuori del proprio gruppo etnico o addirittura familiare e hanno poche occasioni, e ancora una volta pochi stimoli, per imparare l'italiano. Quest'ultimo fenomeno riguarda in particolare la popolazione femminile di comunità in cui la donna è relegata al tradizionale ruolo domestico, come quella islamica. Può anche darsi il caso di badanti che assistono un anziano dialettofono e che apprendono semmai un po' di dialetto: è stato descritto il caso di una badante rumena cinquantacinquenne, da 9 anni a Reggio Calabria, che parla un italiano molto precario intriso di elementi dialettali (per esempio l'inciso comu si rici? 'come si dice?').

Come si sa, ma non ci si deve mai stancare di ripetere, la quota di non autoctoni è complessivamente limitata (non arriva al 10% della popolazione presente), in parte notevole già pienamente integrata o in corso di integrazione: pensiamo ai rumeni o agli albanesi, la comunità di più antico insediamento – spesso ventennale – (482.000), o a coloro che provengono dalle Americhe, specie dall'America latina (406.000). Tra l'altro non c'è nessun rischio di "islamizzazione", visto che la grande maggioranza, circa i quattro quinti, è costituita da cristiani o agnostici (è quasi sempre il caso della consistente comunità cinese).

 

Perché i migranti possano studiare l’italiano

 

La legge Maroni (94/2009) ha introdotto specifici obblighi a carico del migrante che richieda un permesso di soggiorno non inferiore a un anno: acquisizione del livello A2, conoscenza dei principi costituzionali di base, adempimento dell'obbligo scolastico per i figli minorenni. Sono richieste ragionevoli: il problema sta nel dovere che incombe sui pubblici poteri di creare le condizioni materiali per l'adempimento degli obblighi richiesti ai migranti. L'ammirevole sostegno fornito dal volontariato, cattolico e laico, non può evidentemente esimere lo Stato dallo svolgere fino in fondo le sue funzioni.

L'italiano va promosso all'estero, non c'è dubbio; e va promosso per ragioni in primo luogo culturali, ma anche mirando a una valorizzazione del turismo, un settore da tempo in crisi. Ma i margini di espansione, non nascondiamocelo, sono ridotti e quello della "quarta lingua più studiata nel mondo", come spesso si sente ripetere, è poco più che un mito. Pensiamo anche a rafforzare l'italiano all'interno dei confini: con una più efficace didattica nelle scuole, prima di tutto, e insieme con una politica che favorisca l'acquisizione della lingua da parte delle comunità non autoctone, con particolare riguardo a categorie deboli (ragazzi arrivati da poco in Italia e collocati magari nell'ultima classe di una secondaria di primo grado, o donne adulte con poche occasioni di interazioni extra-familiari).

 

Nota bibliografica

P. Caretti, G. Mobilio (a cura di), La lingua come fattore di integrazione sociale e politica, Torino, Giappichelli, 2016.

C. Giovanardi, P. Trifone, L'italiano nel mondo, Roma, Carocci, 2012.

M.S. Rati, Varietà dialettizzate e code mixing italiano-dialetto nel parlato degli immigrati, «Carte di viaggio», 8 2015, pp. 143-162.

L. Ricci, Neoislamismi e altri "migratismi" nei romanzi di Amara Lakhous, «Carte di viaggio», 8 2015, pp. 115-142.

 

 

 

Immagini: Christ School [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], from Wikimedia Commons

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Gozzano, il poeta che mise le camicie a Nietzsche

 

 

È passato un secolo dalla morte di Guido Gozzano (1883-1916), scomparso in giovane età, come molti altri poeti di quella stagione che fu detta, con termine destinato a grande fortuna critica, dei "crepuscolari": appena ventun anni visse Sergio Corazzini, trentacinque Guido Gianelli, trentasei Carlo Chiaves, ventotto Nino Oxilia, che morì al fronte.

 

Fisionomia ed etichetta

 

Ma Gozzano condivide poco con questi altri suoi sodali letterari, e non soltanto per la diversa statura artistica. La sua poesia si colloca davvero al bivio tra Otto e Novecento: non certo per la mancanza di una fisionomia definita, ché, anzi, incombe su di lui l'etichetta di poeta delle «buone cose di pessimo gusto», delle piccole realtà di una quotidianità dimessa e provinciale, con la relativa aneddotica favorita dal caratteristico accumulo proprio di tanta sua poesia: «Loreto impagliato, ed il busto d'Alfieri, di Napoleone» (L'amica di nonna Speranza), «Ho rivisto il giardino, il giardinetto / contiguo, le palme del viale, / la cancellata tozza dalla quale / mi protese la mano ed il colletto...» (Cocotte).

 

Il “cuore”, organo anatomico

 

Al passato e alla tradizione poetica Gozzano guarda per diversi aspetti: prima di tutto per la metrica e per la conferma della rima: ma le sue rime spesso esaltano quel «cozzare dell'aulico col prosaico» che Montale indicò come sua cifra stilistica tipica. Famosa la rima per l'orecchio (non per l'occhio) camicie : Nietzsche (La signorina Felicita), emblema di due mondi non comunicanti, quello casalingo e ingenuo della protagonista del poemetto e quello intellettualistico dei salotti letterari, frequentati da qualche «intellettuale gemebonda», dai quali Gozzano affetta distacco. Ma pensiamo anche a clavicola : ridicola e malinconia : radioscopia di Alle soglie, in cui ci si rivolge al cuore («Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto»), non come al tradizionale centro della vita affettiva cantato dai poeti, ma come organo anatomico, oggetto dell'auscultazione dei medici.

 

L'ironia di «guidogozzano»

 

Alle soglie è un esempio dell'ironia di Gozzano, esercitata prima di tutto su di sé: qui la malattia che segnò i suoi ultimi anni, la tubercolosi, altrove la sua attività poetica: la villa di Totò Merumeni «sembra tolta da certi versi miei», il suo stile «pare / lo stile d'uno scolare corretto un po' da una serva»; al «grande artiere» carducciano e al poeta fidente nella «divina parola» di D'Annunzio, subentra l'abbassamento del nome proprio a nome comune, scritto come una sola parola: «né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano» (Alle soglie). Ma ironia non significa dissacrazione. Gli inserti dai poeti del passato, perfettamente riconoscibili nella sua poesia, fanno pensare a «chi abbattesse una cattedrale gotica allo scopo di riutilizzare i rosoni o le vetrate» (Angela Casella). Così un'immagine con cui Petrarca allude al «dolce pensero» che intercorre tra sé e l'Amore, un pensiero «che secretario antico è fra noi due», è usata in riferimento a un'«agile fantesca / che secretaria antica è fra noi due» (Elogio degli amori ancillari) e almeno due ricordi danteschi riaffiorano nella scena di pattinaggio con la donna spavalda contrapposta al compagno vile, che torna a riva quando sente il ghiaccio scricchiolare, di Invernale; «Dall'orlo il ghiaccio fece cricch» (da Inf., XXXII 30) e «dello stuolo gaietto femminile», con gaietto che varrà 'variopinto' come la «fera alla gaetta pelle» di Inf., I 42. Più sottile l'operazione che si potrebbe ravvisare nella poesia I colloqui, con una esasperata rassegna del decadimento fisico, che comincia con «la trentina / inquietante, torbida d'istinti / moribondi» per arrivare alle vecchiezza, detta «orrida», un epiteto che sembra ricordare quello che in Mimnermo, il lirico greco del VII secolo a. C, accompagna quasi ossessivamente l'età in cui i piaceri non hanno più corso: ἀργαλέον γῆρας argalèon gheras 'vecchiaia penosa, terribile'; ma la preziosa classicità dell'epiteto viene subito dissolta dalla specificazione che segue: «l'orrida vecchiezza / dai denti finti e dai capelli tinti».

 

Ci si dà del “lei”

 

Un elemento di grande modernità in Gozzano è dato dall'immissione di modi del dialogo. Una donna nubile viene chiamata signorina, come Felicita («Signorina, restiamo ancora un poco!...») o come la protagonista di Cocotte, che si avvicina teneramente al bambino dei vicini di casa; ma i genitori, quando vengono a saperlo, reagiscono: «"Una cocotte!..." "che vuol dire, mammina?" / "Vuol dire una cattiva signorina: / non bisogna parlare alla vicina». Tra persone con cui non si è in confidenza ci si dà del lei, un pronome allocutivo ignoto alla poesia italiana classica, che disponeva solo di tu o di voi: «C'è il notaio furibondo / con Lei, con me che volli presentarla / a Lei» (La signorina Felicita). Il capolavoro in questo senso è rappresentato da Le due strade (che cito dalla versione più antica e più felice, quella contenuta nella raccolta La via del rifugio). Un uomo e la sua amante ormai matura incontrano una ragazza diciottenne in bicicletta, che si ferma a salutare la donna: «"Signora! Sono Grazia!" / sorrise nella grazia dell'abito scozzese. / "Graziella, la bambina? – "Mi riconosce ancora? […] "La piccola Graziella! Diciott'anni? Di già? / La Mamma come sta? E ti sei fatta bella!"». Il poeta coglie con finezza la diversa percezione del tempo da parte dei due personaggi femminili: la signora ricorre al diminutivo infantile, mentre l'adolescente, sentendosi ormai grande, si presenta come Grazia; il Di già? della signora è la tipica reazione che si ha quando ci meravigliamo del tempo che sembra essere trascorso rapidamente; i convenevoli, con la proiezione della signora sulla generazione precedente a quella di Grazia/Graziella (La Mamma come sta?), ribadiscono la differenza di età tra le due. Ed è proprio questo il tema della poesia: il distacco sentimentale dell'uomo dall'amante, «Da troppo tempo bella, non più bella tra poco», e l'adolescente irraggiungibile, alla quale ci si rivolge con espressioni di sapore quasi liturgico: «O via della salute, o vergine apparita, / o via tutta fiorita di gioie non mietute».

 

 

Immagine: Gozzano con alcuni amici al circolo della Marinetta a San Francesco d'Albaro

 

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Il gioco linguistico nella poesia di Toti Scialoja

Filastrocche per adulti

Nonostante un’attività poetica dispiegatasi in un lungo arco di anni (1961-1998), non si può dire che alla figura di Scialoja poeta abbia arriso una fama pari a quella che ha conosciuto il pittore, nonostante l’apprezzamento di critici-scrittori di eccezione: da Antonio Porta a Giorgio Manganelli e a Giovanni Raboni, che ha additato in lui «il talento poetico più originale e compiuto rivelatosi in Italia nel corso degli anni Settanta e Ottanta».

Quel che è certo è che la fisionomia poetica di Scialoja stenta ad apparentarsi con quella dei poeti a lui contemporanei. Anche l’evoluzione della sua poesia non è pacifica. È vero che lo stesso poeta, in una conversazione con A. Ranchi (1991), aveva dichiarato già La stanza la stizza l’astuzia (1976) «un libro di nonsense per adulti», mentre «l’esperienza per i bambini era racchiusa tra gli anni Sessanta e Settanta». Ma le filastrocche per l’infanzia non sono solari come sembrano e del resto, nella stessa occasione, Scialoja precisava che le prime poesie erano scritte sì per un nipotino, «ma segretamente erano dirette a [sua] moglie che doveva leggerle al bambino»: dunque, potremmo dire, un doppio livello di lettura presente ab origine, già all’atto dell’ideazione.

 

A Mosca la mosca, in Zara la zanzara

 

Un elemento tipico dello Scialoja per bambini che ritroviamo in tutto l’arco della sua poesia è la toponomastica fantastica, suggerita dai suoni e promotrice di imprevedibili accostamenti che hanno a fondamento un animale, secondo il consueto processo di antropomorfismo delle fiabe. Ecco un esempio in cui un tema familiare nell’esperienza della prima infanzia (l’obbligo di mangiare quando non se ne ha voglia) è affidato a una lepre che, dopo il primo cucchiaio, si risolve a una decisione drastica: «C’è una lepre, a Mestre, a destra, / che rimesta la minestra, / dopo un sorso si fa mesta, / lesta lesta la rovescia / a sinistra, fuori della finestra».

Qualsiasi lettore, anche occasionale, di Scialoja potrebbe moltiplicare gli esempi di questa geografia irreale, che punteggia luoghi e abitatori della sezione nonsensica (dalla mosca che ronza a Mosca alla zanzara che vive a Zara, alla biscia che attraversa sulle strisce a Brescia, agli alacri bruchi di Locri e via dicendo). Ma anche nelle Poesie successive il procedimento è tutt’altro che raro; la differenza è la rinuncia allo zoo fiabesco e la riduzione – non la scomparsa – della sperimentazione paronomastica. Nell’esempio che segue il cane è un cane a tutti gli effetti, mentre la verosimile allocutaria è la compagna di un viaggio nell’alto Egitto (indicato col nome antico di Tebaide, che non funge solo da significante per innestare le allitterazioni di apertura e di chiusura, ma evoca anche, col suo sentore classico, la scomparsa di antiche civiltà, di cui rimangono miseri resti, le tibie): «Tepida è la Tebaide / non appena s’è spento / il sole – idee di vento / traversano le pallide / valli mal dette laide / purché – tra mugolii – / il tuo cane non frughi / tibie della Tebaide».

 

Sempre caro mi fu quest’erto corno

 

Ma torniamo alle lepre e alla sua minestra per osservare un altro aspetto della poesia di Scialoja (e ancora una volta siamo di fronte a una costante, sia pure diversamente declinata nel corso della sua parabola): l’ironizzazione della lingua più corriva e automatica, a cominciare dalle frasi idiomatiche. Qui il punto di partenza è il trito dilemma o mangiar questa minestra o saltar dalla finestra; solo che la nostra lepre dalla finestra getta non sé stessa, ma l’aborrita minestra.

Agli antipodi delle “frasi fatte” sono gli echi della grande letteratura o della grande storia che, di tanto in tanto, si riaffacciano – perfettamente riconoscibili, ma straniati in un ambiente in cui domina il suono e la libera varietà degli accostamenti – nella poesia di Scialoja.

A un livello immediato ed elementare il gioco coinvolge tessere famose – in qualche caso divenute tali fin dai primi anni di scuola – e forse Scialoja avrà pensato che anche i bambini potessero cogliere le sue manipolazioni e sorriderne. È quel che vale per i grandi classici della letteratura italiana, da Leopardi («“Sempre caro mi fu quest’erto corno” / pensa il rinoceronte / senza nessuno intorno», col terzo verso arieggiante giocosamente il tema leopardiano della solitudine) a Carducci, con l’albero di Pianto antico trasformato in un albatro (ma Baudelaire qui non c’entra proprio) che vola via alla vista di un pericolo: «L’albatro a cui tendevi / un piccolo caimano / volò così lontano / che non si vede più».

Un secondo livello è più elaborato, sia per i testi evocati sia, e soprattutto, per le implicazioni soggiacenti. Possono essere in gioco testi famosi, ma non certo paragonabili all’Infinito e a Pianto antico quanto a radicamento nella memoria collettiva. L’incipit di una celebrata anacreontica di Iacopo Vittorelli (Guarda che bianca luna) riecheggia in una poesia della raccolta La mela d’Amleto («Guarda che bianco alano!»); ma se il poeta settecentesco dall’incanto di una notte lunare passava agli amori di due usignoli e vi contrapponeva la freddezza della sua Irene, Scialoja si muove nella direzione di un grottesco e prudenziale realismo – un po’ come avviene per il rifacimento di Pianto antico – riprendendo nel secondo verso l’anafora di Vittorelli ma continuando così: «Guarda che zanna aguzza! / Teniamoci per mano / al centro della piazza».

 

La lesione del senso

 

Il gioco linguistico può farsi malizioso quando il richiamo letterario è un’occasione per un’irrisione antireligiosa, come avviene con una citazione metastasiana in cui a Dio si sostituisce uno dei tanti animali dello zoo dell’autore e precisamente un Ghiro (non casualmente con l’iniziale maiuscola) tutto intento a dormire, indifferente alle vicende del mondo: «Ovunque il guardo io giro / vedo il tuo sonno, o Ghiro!» (e non sfugga il fatto che si tratta dell’ultimo componimento di Una vespa! Che spavento, dunque collocato in una posizione di spicco).

Il tipico nonsense di Scialoja, però, si declina altrimenti. Intanto, una serie di componimenti rappresenta una situazione plausibile in un contesto inatteso. Ad esempio: «La zelante zanzara dell’Alsazia / se all’alba s’alza sazia mi ringrazia». Che una zanzara, dopo averci punto, possa dirsi sazia non fa notizia; ma il gioco sta nell’ambientazione imprevista (l’Alsazia non è nota per essere infestata dai fastidiosi insetti), nell’antropomorfismo della zanzara (che non solo «ringrazia», ma all’alba «s’alza», come un essere umano) oltre che nell’investimento fonico, qui trasparentemente fonosimbolico.

Altre volte si ha una vera e propria lesione del senso superficiale. Lo spunto iniziale può consistere in un’asserzione banale («Oggi è Pasqua e vado a pesca»), alla quale i versi successivi tolgono ogni plausibilità: si può anche partire senza l’occorrente e senza la prospettiva di pescare un pesce o magari la sua lisca (versi 2-3: «senza lenza senza lasca / senza lisca senza l’esca»), ma certo l’acqua è un presupposto ineliminabile per esercitare quest’attività (verso 4: «senza l’acqua nella vasca»). Inversamente, come nella poesia che segue, si può esordire con una serie di dichiarazioni assurde (le etimologie dei vv. 1 e 2), continuare con asserzioni sufficientemente perspicue, anche se espresse con un certo investimento figurale e fonico (vv. 3-5: il dado è il simbolo tradizionale del giocatore; l’innamorato, colpito dalla freccia d’amore, riesce a liberarsene con fatica; il ladro è cauto e non commette leggerezze o ingenuità) per concludere con un verso di prosaica verosimiglianza: «Chi crede alla corda si chiama cordaro / chi adotta la coda si chiama codardo / chi adora l’azzardo si attarda col dado / chi ha un dardo nel cuore lo strappa in ritardo / chi è ladro di rado si sdraia su un cardo / soffrigge col lardo chi è cuoco di bordo».

 

Dare del “lei” alla fillossera

 

Frequente è un procedimento, ampiamente praticato già dal Burchiello, per il quale la perdita di coerenza si accompagna a un forte aumento degli indicatori della coesione testuale, cioè dei connettivi tipici di un discorso organizzato razionalmente e scandito, per esempio, da ipotesi (se) irrelate rispetto alla reggente: «Se la farfalla ha fatto la valigia / non è azzurra né gialla: è tutta grigia».

Con gli animali fantastici delle sue poesie l’autore intesse un dialogo che qualche volta è incardinato sul tu metastorico della tradizione poetica (e fiabesca), ma altrove utilizza il lei della conversazione borghese. Così, si dà del lei a una fillossera: «Per quanto non mi fidi degli afidi verdastri / le dico: “Perché piange?” e le riannodo i nastri / mentre con gli occhi rossi fissa il cielo che stinge».

Ricordando il destarsi in sé bambino dell’interesse per i versi, Giovanni Giudici ha affermato che nella poesia lo «attirava la rima, credo soprattutto perché sembrava quasi dispensare dal comprendere il concetto. Purché tornasse la rima andava tutto bene. E in fondo, benché stravagante, non era un approccio sbagliato». Forse Scialoja, che con Giudici condivide almeno l’ironia (e l’autoironia), avrebbe sottoscritto.