Lingua Italiana

Margherita Sermonti

Nasce e studia a Roma. Si trasferisce in Spagna, a Salamanca, dove si laurea in lettere moderne. È svizzera per metà. Collabora con l’Istituto della Enciclopedia italiana dall’inizio del nuovo millennio. Tra le altre cose, ha fatto parte della redazione dell’opera Il Vocabolario della Lingua italiana Treccani e, qualche anno prima, della redazione del vocabolario Il Treccani. Per la sezione Lingua italiana del portale Treccani.it scrive per la rubrica Da leggere, e ha ideato e curato la rubrica Libertà di parole, un breve questionario di Proust – tra lingua e vita – che ha rivolto a studiosi, scrittori, giornalisti, attori, esperti di lingua e, più in generale, a chi lavora quotidianamente con le parole.

Pubblicazioni
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L’italiano senza parole: segni, gesti, silenzi

 

Claudio Nobili 

L’italiano senza parole: segni, gesti, silenzi 

Firenze, Franco Cesati editore, 2022 

 

Dove si collocano segni, gesti, silenzi negli atti comunicativi dell’essere umano? Rivestono un ruolo secondario rispetto alla comunicazione verbale o del tutto paritario?

Volgiamo lo sguardo indietro di pochi anni. Due disposizioni ufficiali – una direttiva del Ministero della Salute italiano e una nota sulle celebrazioni liturgiche della Chiesa cattolica – intervenivano direttamente sull’ambito comunicativo dei gesti.

Sembra sia passato molto tempo, ma solo nel 2020, nel pieno della pandemia, erano interdetti alcuni gesti come la stretta di mano o gli abbracci tra i laici e lo scambio, durante la messa, di un segno di pace.

«Gesti circostanziali, di servizio o di necessità» (si veda il capitolo In tempo di pandemia da Covid-19) come l’avvicinamento dei gomiti o la mano sul cuore (che limitava del tutto i contatti) erano i saluti anti-covid raccomandati, almeno nel mondo occidentale. A poco a poco, con l’attenuarsi dell’aggressività pandemica, si è tornati alla normalità in quasi tutti i contesti sociali e, quindi, anche alla piena libertà espressiva.

In chiesa, prima di tornare al gesto di pace più radicato, si è passati attraverso una fase transitoria in cui ci si guardava, abbassando la testa. «Non apparendo opportuno nel contesto liturgico sostituire la stretta di mano o l’abbraccio con il toccarsi con i gomiti, in questo tempo può essere sufficiente e più significativo guardarsi negli occhi e augurarsi il dono della pace, accompagnandolo con un semplice inchino del capo» (Comunicato finale del Consiglio Episcopale Permanente della Conferenza episcopale italiana - CEI – sessione invernale del 26 gennaio 2021). Una sorta di censura igienica modificava le nostre consuetudini comunicative a salvaguardia della salute. Mai come allora molti, se non tutti, si sono sentiti profondamente limitati nella propria capacità espressiva, un po’ come se fossero state bandite dal nostro vocabolario le forme di saluto più comuni, dal ciao all’arrivederci.

 

L’italiano non ha solo una dimensione verbale, perché «siamo naturalmente dotati di una competenza multimodale», e ci esprimiamo attraverso una «combinazione complessa di parole e codici non verbali (distanza interpersonale, gesti delle mani e delle braccia, espressioni del volto, ecc.)».

Di questo («con il termine multimodalità si intende proprio l’uso combinato di codici verbali e non verbali – i mezzi o modi semiotici – per produrre un significato, ossia per comunicare») e del «rapporto tra le parole e i gesti delle mani e delle braccia» ci parla Claudio Nobili, ricercatore di Linguistica italiana presso il Dipartimento di Scienze umane, Filosofiche e della Formazione dell’Università di Salerno, nel suo pregevole volume L’italiano senza parole: segni, gesti, silenzi. 

Nobili, che ha posto al centro dei suoi studi la didattica dell’italiano, la gestualità in prospettiva linguistica e nell’ottica di un’educazione integrale, approfondisce l'analisi del gesto, collocando l’aspetto non verbale della comunicazione sullo stesso piano delle parole («i gesti come “parole nascoste” da esplicitare»).  E l’italiano, com’è noto, è una lingua nella quale le parole nascoste hanno grande rilievo e dove la gestualità costituisce una dimensione fondamentale.

Al riconoscimento giuridico della LIS, al suo insegnamento e agli strumenti per studiarla è dedicato il capitolo Un segno non è un gesto: l'Italia si muove. Qui è anche esplicitata la differenza tra segno e gesto: «Con buona approssimazione, possiamo dire che un segno è il corrispondente di una parola nella LIS, la Lingua Italiana dei Segni, usata dalla comunità dei sordi in Italia (la LIST, invece, è la Lingua Italiana dei Segni Tattile, ovvero la versione tattile della LIS utilizzata dalle persone sordocieche» […]). 

I gesti ai quali si fa riferimento in questo libro sono naturalmente i gesti comunicativi, diversi, per esempio, dai gesti pratici (come quelli di qualcuno che offre conforto a una persona in difficoltà attraverso un oggetto materiale). Il significante del gesto comunicativo è costituito dalla forma e dal movimento delle mani, che trasmettono un significato al destinatario del messaggio. «Un gesto comunicativo, pertanto, ha le stesse due “facce” di una parola: la faccia del significante che mostra il significato e la faccia di quel significato; la faccia del significante è realizzata con le mani e percepita attraverso la vista, è cioè realizzata attraverso un canale manuale-visivo […]».

 

Dei diversi tipi di gesti, emblematici o simbolici, illustratori o adattatori, la prima categoria è costituita da «gesti linguisticamente e culturalmente codificati, cristallizzati nell’uso a tal punto da formare un lessico gestuale repertoriabile e descrivibile in un dizionario proprio come un lessico di parole». Il più noto, probabilmente, è il Supplemento al dizionario italiano del 1963 di Bruno Munari.

Nel quarto capitolo si passano in rassegna molti altri dizionari, pubblicati negli ultimi sessant’anni e, più avanti, anche un video rap del Consolato USA a Milano Italian Hand Gestures RAP (IHGR), che permette all’autore di svolgere alcune riflessioni sui gesti emblematici.

Molto interessanti gli approfondimenti sull’«”italiano senza parole” fatto di silenzi tuttavia espressi da parole» nel capitolo dedicato alle Forme verbali del silenzio.

Oltre ai numerosi esempi che arricchiscono l’analisi linguistica, il libro, alla fine di ciascun capitolo, offre stimolanti esercizi di autoverifica (con soluzioni alla fine del testo).

 

Le parole, in definitiva, non sono tutto. Come conclude l’autore, che sottolinea l’importanza e la necessità di «realizzare a scuola un’educazione al gesto», anche in funzione degli effetti positivi che tale pratica può avere sull’apprendimento e sull’uso della lingua materna, «[p]ossiamo, dunque, fare a meno delle parole, ma non della comunicazione. Questo implica riconoscere come fondamentale un italiano senza parole ma con i gesti, da usare ogni qualvolta desideriamo far ascoltare all’interlocutore soltanto la “voce” delle nostre mani».

 

Per saperne di più

Claudio Nobili, Sguardo (e mano) ai dizionari dei gesti italiani: una breve ricognizione, Lingua italiana, Treccani.it

Claudio Nobili, Gesti circostanziali al tempo COVID-19. L’esempio del saluto nel confronto con l’intesa, Lingua italiana, Treccani.it

Altri articoli di Claudio Nobili sullo stesso argomento nel magazine Lingua italiana, Treccani.it

Benedetta Marziale, Elena Tomasuolo, Nel segno della LIS e dei diritti, Lingua italiana,Treccani.it

 

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Ariase Barretta: «Una buona traduzione? Se non sembra una traduzione»

 

Ariase Barretta è un intellettuale eclettico: musicista, scrittore, traduttore, non è facile descriverlo senza rischiare di rinchiuderlo nella gabbia di una definizione troppo sbrigativa. Tra le sue opere più recenti il romanzo Cantico dell’abisso (Arkadia, 2021), vincitore del premio letterario DEI (Diversità, Equità e Inclusione), e le traduzioni Chi ha paura del queer? di Víctor Mora (Odoya, 2022) e Le linee storte di Dio di Torcuato Luca De Tena (Vallecchi, 2022).

 

Il suo incontro con la traduzione e, in particolare, con lo spagnolo.

Ho iniziato con la palestra più dura: quella della comicità. Agli inizi della decade del 2000 ho curato l'edizione italiana (e anche quella spagnola) della Slapstick Encyclopedia, la collezione più importante di film muti comici dei primi del '900 mai realizzata. Da allora non ho mai smesso di tradurre: romanzi, film, fumetti, ma anche saggistica, in particolare sugli studi di genere, che sono anche l’ambito al quale mi dedico come ricercatore. L’amore per la lingua spagnola risale a quando ero bambino. Traduco anche dal francese e dall’inglese, ma lo spagnolo ha per me il fascino del primo amore.

 

Quali caratteristiche, secondo lei, deve avere un bravo traduttore?

Un bravo traduttore deve stare attento a non rimanere imbrigliato nelle strutture linguistiche del testo d’origine. Chiaramente, molto dipende dal testo che si ha davanti e dal tipo di traduzione che ci si propone di realizzare. Se si vuole fare un lavoro più filologico ha senso cercare di conservare il più possibile inalterate certe strutture sintattiche. A volte può accadere, però, che un testo sia difficilmente fruibile già nella lingua di origine, a quel punto fare delle scelte diventa molto complesso ed è importante avere le idee chiare su ciò che si vuole ottenere. Io sono tra coloro che considerano la traduzione letteraria un atto creativo e quindi frutto di un talento, oltre che di uno specifico processo di formazione. Il dibattito sulla traduzione non avrà mai fine, temo. I traduttori sono come i genitori, i quali, come diceva Calvino, «saranno sempre criticati dai loro figli, qualunque cosa facciano». A ogni modo, sono d’accordo con chi ritiene che l’aspetto più importante nella traduzione sia la conservazione del registro linguistico iniziale: si tratta di un aspetto imprescindibile.

 

Scrive Claudia Durastanti: «Il dibattito su “chi può tradurre chi” scatenato dalla pubblicazione in varie lingue straniere di The hill we climb della poeta afroamericana Amanda Gorman ha fatto emergere molte questioni intrecciate tra loro, in cui si passa dalla sacralità della letteratura alla contaminazione del mercato editoriale, dai danni e i vantaggi delle politiche identitarie, alla suscettibilità o sensibilità di una generazione woke, ossia perennemente vigile e in allerta» (Traduzioni, impegno e identità, Internazionale.it, 26 marzo 2021). Diciamo che questa polemica ha senz’altro avuto il merito di portare alla ribalta la figura del traduttore e l’importanza dell’atto del tradurre. Un po’ come se traduttrici e traduttori di nazionalità diverse si fossero improvvisamente trovati allo stesso tavolo per riflettere nello stesso momento sulla stessa questione e l’avessero sviscerata insieme. Lei che cosa ne pensa? Volendo utilizzare un titolo molto presente sulla stampa ai tempi della polemica, secondo lei chi può tradurre Amanda Gorman?

Senza entrare nello specifico della questione ideologica sottesa al caso di Gorman (che richiederebbe uno spazio di discussione molto ampio), sento di poter affermare che non tutti possono tradurre tutto. Conoscere una lingua non significa dominarne tutti i sottolivelli. Esistono molti socioletti e tecnoletti che è possibile riprodurre solo se si hanno conoscenze specifiche. Alcuni testi legati agli studi di genere, alle teorie queer o al transfemminismo, per esempio, sono stati tradotti da traduttori pur bravi ma che non avevano il giusto tipo di competenza e ne sono risultati linguisticamente alterati. Lo stesso vale per tante opere letterarie. Gli esempi potrebbero essere davvero tanti. Mi dispiace doverlo dire, ma le prime traduzioni italiane di David Leavitt sono state un disastro. Per non parlare del modo in cui sono state tradotte le opere letterarie di Almodóvar. Se non conosci da vicino un certo (sotto)mondo non potrai mai riprodurne il linguaggio. In conclusione, ribadisco che secondo me non tutti possono tradurre Amanda Gorman, così come non tutti possono tradurre Pedro Lemebel, Carlos Monsiváis o Severo Sarduy.

 

Insegnare a tradurre è possibile?

Certo che è possibile, così come è possibile insegnare a suonare il pianoforte. Non tutti, però, possono diventare Martha Argerich o Arturo Benedetti Michelangeli. Ognuno ha un tipo di attitudine, di intelligenza. Aggiungo un’altra cosa: le attitudini possono anche cambiare con il tempo. Io ho lavorato molto anche come interprete, poi mi sono accorto di non esserne più capace e ho smesso immediatamente. Forse la prima cosa che le persone dovrebbero imparare è a riconoscere e accettare i propri limiti.

 

C’è un’opera che non ha ancora tradotto e che vorrebbe assolutamente tradurre?

Ho sempre sognato di tradurre Pedro Lemebel, ma sono arrivato in ritardo. In generale, mi piace portare in Italia autori sconosciuti nel nostro Paese. Finora ci sono riuscito con Bentley Little, scrittore molto amato da Stephen King, e con Torcuato Luca de Tena. In futuro mi piacerebbe far conoscere ai lettori italiani lo scrittore cubano Carlos Montenegro. La mia più grande soddisfazione, a ogni modo, è stata tradurre André Gide, uno dei miei scrittori preferiti.

 

Qual è la differenza tra una buona e una cattiva traduzione?

Una cattiva traduzione è tale se è ingabbiata in strutture della lingua di origine che risultano stridenti in quella di destinazione.

C’è un esercizio che propongo spesso ai miei studenti che consiste nel tradurre dallo spagnolo un testo sforzandosi di utilizzare elementi grammaticali che in castigliano non esistono, come le particelle CI (locativo) e NE. Non ci crederà, ma ci sono interi libri tradotti dallo spagnolo in cui non appaiono mai queste particelle, così comuni nella nostra lingua.

Una cattiva traduzione è tale se utilizza un registro artificiale, non pragmatico (che negli ultimi anni ricalca sempre più spesso quello delle serie televisive statunitensi).

Una buona traduzione è tale se non sembra una traduzione!

 

A proposito della traduzione del romanzo di Torcuato Luca De Tena (Madrid 1923 – 1999), Los renglones torcidos de Dios, pubblicato in Spagna nel 1979, che vede la luce in Italia dopo più di 40 anni, che cosa ha significato per lei non potersi confrontare con l’autore?

Le linee storte di Dio è un romanzo cartesiano, scritto in uno spagnolo rigoroso, a tratti austero. Uno degli aspetti più affascinanti di quest’opera consiste nel fatto che i personaggi sono ambigui, ma non lo è per nulla la lingua con cui sono descritti. Per questo motivo, il fatto di non potermi confrontare con l’autore non ha rappresentato un grosso problema. In alcuni passaggi mi sono concesso qualche libertà nel riprodurre la sua lingua, in quanto un certo modo di costruire i periodi funziona perfettamente in spagnolo, ma per nulla in italiano. Sono certo che lui avrebbe approvato.

 

Lei ha visto il film di Oriol Paulo tratto dal romanzo di de Lena? Che cosa ne pensa della relazione tra la lingua dello scrittore e quella della trasposizione cinematografica?

L’ho visto. Transcodificare un romanzo di più di quattrocento pagine in un prodotto cinematografico non deve essere stato per nulla facile, ma trovo che il risultato finale sia più che convincente. Gli sceneggiatori sono riusciti a mantenere inalterato il registro linguistico del romanzo. Non ho visto, però, il film con i dialoghi in italiano. Spero che anche della versione doppiata si possa dire la stessa cosa.

 

In una traduzione, più fedeli o più creativi?

La traduzione letteraria per me è un atto creativo. Quindi non ho dubbi sulla risposta a questa domanda. La traduzione letteraria è transcreazione anche quando ha pretese filologiche. Sono in tanti a storcere il naso di fronte ad affermazioni del genere, come dimostrano certe orrende traduzioni pubblicate da tanti editori italiani.

 

Un’immagine che le piace per descrivere che cosa significa tradurre.

L’immagine migliore è quella dell’incontro.

Un’opera letteraria tradotta appartiene al traduttore quasi quanto appartiene all’autore. L’immagine del traduttore come soggetto impersonale che si mette da parte per rispetto verso l’autore è il residuo di una concezione, per me, totalmente sbagliata della traduzione. L’idea di rendersi trasparenti per non alterare la sacralità di un’opera è una pia illusione. Le Memorie di Adriano tradotte da Cortázar sono un’opera di Yourcenar e Cortázar. Il Decameron tradotto dall’italiano antico da Aldo Busi è in sé un’opera di Busi. Se perdiamo di vista questi principi finiremo col tradurre tutto con i software di traduzione automatica e il linguaggio letterario diventerà ancora più piatto di quanto non lo sia già.

 

 

Le altre interviste di Margherita Sermonti per il ciclo Con altri occhi da lei curato e dedicato alla traduzione letteraria:

 

Maria Nicola: «Tradurre? È un po' come recitare»



Pierpaolo Marchetti: «Tradurre non è tradire»



Ilide Carmignani: «Dal disincontro con la traduzione all’incontro con Sepúlveda»

 

 

Immagine tratta dalla copertina di Le linee storte di Dio di Torcuato Luca De Tena (Vallecchi, 2022), tradotto in italiano da Ariase Barretta

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Com’è successo? Una repubblica in crisi, parola per parola

 

Giordana Pallone e Paola Di Lazzaro

Com’è successo? Una repubblica in crisi, parola per parola

Roma, Fandango libri, 2022

 

Poco più di tre anni fa, il mondo cambiava. Durante quel periodo, anche la nostra lingua si trasformava per riuscire a descrivere una realtà che mutava giorno dopo giorno con una velocità direttamente proporzionale all’imprevedibilità di quanto stava accadendo. E così, senza quasi accorgercene, iniziavamo a usare parole nuove o provenienti da altre lingue, soprattutto dall’inglese. Tecnicismi dai suoni e significati spesso oscuri diventavano familiari alla stregua di parole d’uso comune. Termini quasi dimenticati nelle pagine del dizionario salivano improvvisamente alla ribalta da protagonisti assoluti. Il linguista Giuseppe Antonelli, con il suo consueto acume, cercava di vedere il bicchiere mezzo pieno. «La speranza è che tutto questo abbia cambiato anche il nostro rapporto con la lingua: che possa aiutarci a comprendere meglio lo sfaccettato spessore delle parole e insegnarci, magari, a trattarle con un’altra cura. Il che vale – a maggior ragione – per chi ha voce in capitolo nel dibattito pubblico: non solo i politici, ma tutti gli intervistati e gli intervistatori, tutti gli opinionisti, tutti quelli che appunto possono (o vogliono, o ambiscono a, o rischiano di) influenzare gli altri» L’influenza delle parole (Solferino editore, 2020).

 

Nel libro Com’è successo? Una repubblica in crisi, parola per parola di Paola Di Lazzaro (giornalista, un master in Etnopsichiatria, esperta di Comunicazione pubblica su diritti umani, pari opportunità e innovazione sociale) e Giordana Pallone (storica, coordinatrice dell’area Stato sociale e diritti per la Cgil) si analizza proprio lo stato di salute della lingua di chi ha (e ha avuto) voce in capitolo a partire dai primi anni Novanta del Novecento, gli anni di Tangentopoli, della seconda Repubblica fino al 2020, con qualche riferimento al periodo pandemico.

Seguendo l’ordine cronologico, il libro si snoda attraverso sette parole o espressioni emblematiche degli ultimi trent’anni (Inciucio, Sindaco d’Italia, Primarie, Casta, Presidente operaio, Fannulloni sul divano e Né di destra né di sinistra), organizzate in altrettanti capitoli, nei quali si evidenzia «il mutamento riscontrato ripercorrendo fatti storici e di cronaca politica, e la loro narrazione attraverso il nuovo vocabolario introdotto dai protagonisti e supportato dai media che hanno accompagnato questo processo».

 

Questa neolingua che le studiose osservano ed esplorano, oltre a risultare talvolta opaca, approssimativa, banale e molto spesso volgare, «contribuisce in maniera determinante alla messa in discussione dei principi cardine del nostro sistema politico e dei meccanismi della rappresentanza». Perché non si tratta più del politichese, travolto – come si spiegherà nel capitolo Presidente operaio – da Tangentopoli («Con la boria dei politici tramonta ormai anche la prepotenza del “politichese”») ma di una lingua che sembra più semplice e vicina al cittadino pur non essendolo affatto. «Dalla metà degli anni ’90 in poi, il progressivo e quantomai rapido adeguarsi del livello stilistico del discorso politico a quello medio-basso della lingua quotidiana porta con sé il grande equivoco o forse raggiro che questo sia sinonimo di trasparenza. Non c’è semplicità, ma semplificazione, le parole non diventano più chiare ma vuote, alle “argomentazioni” si sostituiscono le “emozioni”, con l’obiettivo non di avvicinare la politica alle persone ma quello di parlare alla pancia della gente».

 

Comè successo che la parola politico sia diventata un insulto? Comè successo che né di destra né di sinistra sia diventato un valore in cui riconoscersi? E ancora, comè successo che i diritti sociali siano diventati privilegi e la condizione di vulnerabilità una colpa? L’elenco dei com’è successo non si esaurisce con queste domande, e le risposte agli interrogativi, ci suggeriscono le autrici, si possono trovare «cercando di rifare la strada al contrario, per capire questa trasformazione politica e culturale. E le tracce più evidenti sono da riconoscere nel linguaggio. E nei suoi mutamenti».

Il neopolitichese appare vuoto e aggressivo e, soprattutto, «alimenta una molteplicità di fenomeni, ancora in corso, caratterizzati dal perseguimento spasmodico e acritico di una semplificazione della vita pubblica e delle istituzioni democratiche». Una semplificazione che riguarda i partiti («sempre meno radicati territorialmente, sempre più personalistici»), la competizione politica («ridotta a una continua ricerca della contesa tra due soli poli e della mitologica ricetta elettorale e istituzionale per la governabilità ad ogni costo»), la rappresentanza («con un progressivo svilimento dei corpi intermedi e del loro ruolo, l’esaltazione dell’elezione diretta e di figure salvifiche o leader onniscienti a cui affidare le sorti di comuni, regioni, o di un governo intero»). Nell’era della campagna elettorale permanente, della logorante contrapposizione del “noi” contro “loro”, della continua ricerca di follower, della centralità dei sondaggi, dove contano quasi più i candidati del programma, qual è l’antidoto e quale la strada giusta da percorrere per invertire il senso di marcia e immaginare una via d’uscita e, infine, restituire dignità alla parola politica? Sicuramente, come propongono le autrici, è fondamentale procedere a ritroso per comprendere appunto com’è successo.

 

E guardando indietro possiamo imparare ancora molto. Per esempio, quanto sia scivoloso il terreno sul quale ci stiamo muovendo. Ce lo ricorda George Orwell in un piccolo saggio uscito nel 1946, in cui analizza la lingua inglese con sguardo profetico (La politica e la lingua inglese in La neolingua della politica, a cura di Massimo Birattari, Garzanti). L’autore di 1984 sembra vivere nel nostro presente: «Un uomo può mettersi a bere perché si sente un fallito, e così fallire del tutto proprio perché beve. È più o meno quanto sta avvenendo alla lingua inglese. Diventa brutta e imprecisa perché i nostri pensieri sono stupidi, ma a sua volta la sciatteria della lingua ci rende più facili i pensieri stupidi». Secondo George Orwell, la soluzione c’è ed è alla portata di ciascuno di noi, anzi è una forma di impegno civile che dobbiamo assumerci tutti noi, operando un certosino lavoro di pulizia: «Il punto è che il processo è reversibile. L’inglese moderno, specialmente quello scritto, è pieno di cattive abitudini che si diffondono per imitazione ma che si possono evitare se siamo disposti a prenderci il necessario disturbo. Se ci si libera di queste abitudini si può pensare con maggiore chiarezza, e pensare con chiarezza è il primo passo necessario verso una rigenerazione politica: così la lotta alla cattiva lingua non è un vezzo e non riguarda solo gli scrittori di professione».

 

Dalla lezione di Orwell ai grandi protagonisti della storia dell’Italia repubblicana, le preoccupazioni sembrano le medesime. Per esempio, quelle di Luigi Einaudi, come osserva Valeria Della Valle: «La precisione e la consapevolezza linguistica di Einaudi si esprimevano attraverso una serie di osservazioni e notazioni critiche rivolte soprattutto a combattere la banalità delle frasi fatte e delle formule preconfezionate. Presidente della Repubblica dal 1948 al 1955, Einaudi raccolse nel libro Lo scrittoio del Presidente, pubblicato nel 1956, a breve distanza dalla fine del suo mandato, le riflessioni legate ai problemi di politica e di amministrazione degli anni appena trascorsi. Anche in quelle pagine, in cui la politica è sempre ricondotta ai suoi contenuti reali, fuori da ogni schema astratto o demagogico, Einaudi tornava sul pericolo rappresentato dall’uso delle parole vuote, banali, ripetute in modo automatico, privilegiando inutilmente quelle straniere» (Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, Le parole valgono, Treccani).

 

Se la lingua siamo noi, occorre sempre ricordare, riprendendo ancora le parole di George Orwell, che alla base di tutto rimane pur sempre l’intenzione: «la grande nemica di una lingua chiara è l’insincerità. Quando c’è uno scarto tra gli obiettivi reali e quelli dichiarati, uno ricorre istintivamente alle parole lunghe e alle usurate frasi fatte, come una seppia che schizza inchiostro».

 

Leggi anche:

Michele A. Cortelazzo, Le parole della neopolitica, Treccani.it

Silverio Novelli, Malalingua e neolingua all’italiana, Treccani.it

 

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Scrivere e parlare in italiano oggi: parla come mangi e scrivi come parli?

 

Daria Motta

Scrivere e parlare in italiano oggi: parla come mangi e scrivi come parli?

Firenze, Franco Cesati editore, 2022

 

Scrivere e parlare in italiano oggi: il titolo di questo saggio ci suggerisce subito la prospettiva dalla quale Daria Motta, ricercatrice di Linguistica italiana all’Università di Catania, desidera fotografare la situazione dell’italiano scritto e parlato ai tempi della gigantesca trasformazione introdotta dalle tecnologie digitali.

Sì, perché «[q]uella che stiamo vivendo in questi anni, innescata dalla capillare diffusione di Internet e dai cambiamenti che la Rete ha apportato alle abitudini collettive, è la rivoluzione digitale». Ciò riguarda, come sottolinea Motta, non solo «il meccanismo che regola la comunicazione ma anche, e forse soprattutto, il modo di agire collettivo e i rapporti egemonici all’interno della società». E come in tutte le trasformazioni radicali, potrebbero esserci, per esempio, delle conseguenze anche «sui nostri processi cognitivi più generali e sul modo in cui costruiamo gli schemi mentali (brainframes) attraverso cui interpretiamo il mondo (Palermo 2017)».

Rispetto al brainframe alfabetico, con al centro la scrittura (e la conseguente decodificazione di informazioni lineari e progressive attraverso «la lettura, il pensiero razionale e l’approfondimento individuale») e al brainframe televisivo («caratterizzato dalla velocità e addirittura simultaneità della trasmissione delle informazioni e dal prevalere della comprensione globale su quella analitica»), «[o]ggi prevale il brainframe cibernetico, caratterizzato dalla frammentarietà, dalla concentrazione quasi esclusiva sul momento attuale a scapito dell’evoluzione diacronica e dalla collettivizzazione delle conoscenze».

 

Prima di passare ad analizzare nello specifico la lingua del web che, come si evidenzia, non è una sola («Internet è un macro-contenitore in cui coesistono testi tra loro molto distanti e tipi di scrittura diversissimi per diafasia e diastratia»), nei capitoli iniziali, l’autrice fornisce un quadro storico-linguistico per comprendere meglio la natura della nuova testualità.

Si descrivono, per esempio, la sostanziale differenza tra scritto e parlato (il primo, organizzato, con informazioni gerarchizzate e collegate tra loro, non prevede la condivisione del contesto comunicativo, mentre nel parlato, che è volatile, veloce, prevale la semantica rispetto alla sintassi), le variazioni del sistema della lingua in base al contesto situazionale, al livello sociale, all’istruzione o alla provenienza geografica del parlante e via discorrendo, e si evidenzia l’importanza del canale di trasmissione attraverso il quale l’emittente trasmette il messaggio.

 

L’intento è quello di offrire una guida per elaborare un testo chiaro ed efficace, pienamente funzionale alla scopo per il quale è stato pensato (in fondo di questo si tratta), partendo dalla consapevolezza di ciò che ci si appresta a fare, dalla conoscenza degli strumenti a disposizione e dall’individuazione del contesto: «Avere una buona competenza comunicativa non significa solamente produrre frasi corrette dal punto di vista grammaticale, ma vuol dire saper selezionare i tratti linguistici più adatti ai testi – parlati o scritti – che si producono sulla base di una corretta valutazione del contesto in cui avviene la comunicazione, degli scopi per cui si parla o si scrive e del tipo di relazione che lega i partecipanti allo scambio comunicativo».

 

Nel capitolo L’immaterialità del testo digitale, si definiscono alcuni concetti chiave, anche in relazione alla nuova natura delle forme di scrittura. «Nuova è soprattutto la percezione della scrittura, che non è più guardata con timore reverenziale come un’attività per la quale serviva un lungo apprendistato […]. Ora, al contrario, scrivere è una pratica diffusa che ha perso l’aura di sacralità che un tempo aveva». Insomma, per rifarsi all’incisivo titolo del secondo paragrafo: Scrivere tanto, scrivere tutti è un bene o un male? È un dato di fatto che ha delle ripercussioni importanti. Sottolineando ancora una volta che non si può parlare di un’unica lingua della scrittura digitale, il testo digitale possiede tuttavia alcune caratteristiche ben definite. Oltre a una maggiore tolleranza degli errori, presenta una struttura che lo rende simile al parlato. «Il testo digitale è un processo, proprio come il parlato, perché è aperto, modificabile e altamente dialogico». E la fruizione del testo, basata sulla collaborazione tra autore e lettore (suggestivo il neologismo wreader o, in italiano, scrilettore) e la conseguente interattività sono elementi di grande rilevanza. 

 

Nel capitolo Scrittura epistolare e neo-epistolare, con molta cura e numerosi esempi, si analizza un tipo di scrittura digitale molto praticato quanto trascurato: l’e-mail, erede della vecchia lettera cartacea, è ancora in grado di consentire «un dialogo tra emittente e destinatario basato su dinamiche relazionali non troppo dissimili dal passato». Fare chiarezza su questo specifico tipo di testo digitale, potrebbe, per esempio, favorire il rispetto della «grammatica epistolare» o evitare di confondere la mail con un messaggio in una chat, con la conseguente adozione di scelte linguistiche meno formali.

In Parla come mangi, dedicato alla competenza lessicale, Motta passa in rassegna alcuni degli errori più comuni, usi e abusi di parole, ripetizioni, inutili anglicismi e vizi stilistici, invitando sempre il lettore a interrogarsi sulle proprie scelte.

 

Alla fine di ciascun capitolo, sono felicemente elencati «i punti salienti» e sono forniti alcuni «esercizi di autoverifica» (con soluzioni nelle ultime pagine), a dimostrazione del fatto che questo volume vuole anche essere una guida per i non addetti ai lavori o per chi inizia gli studi in àmbito linguistico.

Molto utile l’elenco delle Cose notevoli e dubbiario e dei testi delle Letture suggerite e citate.

L’autrice, nelle Conclusioni, non delinea un panorama apocalittico nonostante l’evidente «plastificazione del pensiero», tenendo sempre presente che «[l]a colpa di questo impoverimento del pensiero non è certo da attribuire alla lingua del Web […] anche perché la Rete altro non è che un contenitore di testi, lingue e stili differenti». Occorre portare avanti una seria azione didattica, che faccia crescere in scriventi e parlanti la capacità di «orientarsi nel panorama caotico dei modelli di parlato e di scrittura», per comunicare «in modo chiaro, semplice, efficace e, si spera, originale».

 

Per saperne di più

Juan Carlos De Martin, La rivoluzione digitale, web tv, Treccani.it

Luca De Biase, «Siamo immersi nei nuovi paradigmi dell’intelligenza connettiva», ilsole24ore.it, 31 marzo 2020.

Carlo Bonini (coordinamento editoriale), Alberto Flores D’Arcais, Gianni Riotta, Pier Luigi Pisa. Coordinamento multimediale di Laura Pertici, Nel mondo di ChatGPT. La sfida dell'Intelligenza artificiale applicata al linguaggio, Repubblica.it, 29 gennaio 2023.

Kiko Llaneras, Andrea Rizzi e José A. Álvarez, ChatGPT es solo el principio: la inteligencia artificial se lanza a reorganizar el mundo, El País, 29 gennaio 2023.

Silverio Novelli, Galileo, la scienza “nuova” e chiara, Lingua italiana, maggio 2010, Treccani.it

Daniele Scarampi, Si appalesa opportuno per la presente Pubblica Amministrazione favorire le operazioni comunicative, Lingua italiana, febbraio 2020, Treccani.it

 

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Storia delle fiabe. Origini di una grandiosa avventura

 

Mauro Smocovich

Storia delle fiabe. Origini di una grandiosa avventura

Illustrazioni di Francesca Ferrarese

Città di Castello, Odoya, 2022

 

«C’è un’oca, un’oca selvatica […]. L’animale galleggia su un torrente […]. Le uova si sono schiuse da poco e le ochette gli nuotano vicino» (Pedauque, Mamma Oca). «C’è uno schiavo con la testa grande, il collo corto» (Esopo e le favole fino a oggi). «C’è un uomo che sta cercando la sua anima gemella» (Cenerentola e la magia delle fiabe). «C’è una bara in mezzo alla sala di un grande castello» (Bianca come il latte). «C’è un bacio, uno di quelli fatati che svegliano le principesse, o trasformano i rospi in principi» (Un bacio). «C’è un asino, è su un monticello a brucare l’erba» (Strafiabe). «C’è una fata, in una fiaba, nascosta in una pianta di mirto» (Lo Cunto). «C’è un mostro seduto a tavola» (I viaggi di Swift)».

Iniziano tutti con un C’è i 36 capitoli di cui è composto il libro Storia delle fiabe. Origini di una grandiosa avventura. Lo scrittore e saggista Mauro Smocovich ci introduce nel mondo della narrativa per l’infanzia, costruendo un racconto fatto di personaggi, storie, aneddoti e moltissime informazioni, anche di carattere linguistico, su quelle narrazioni che gli esseri umani, in ogni parte del mondo, scoprono ancor prima di diventare lettori.

«Allora, saranno anche per bambini, le fiabe, ma non sono da bambini come li intendiamo noi adesso. Sono letteratura di genere come l’horror, il noir e il fantasy. Almeno nelle loro versioni originarie, prima che un certo senso del politicamente corretto infantile trasformasse, per esempio, il lupo di Cappuccetto Rosso da antropofago a vegano» (dalla Prefazione di Carlo Lucarelli).

A proposito di Cappuccetto Rosso, «in Italia […] la fiaba arriva nel 1875 quando un certo Carlo Lorenzini, scrittore toscano, la traduce dal francese. Lorenzini è stato incaricato dall’editore Paggi che vuole fornire testi in lingua toscana alle nuove scuole dell’Italia unita. Lorenzini si firma con uno pseudonimo: Carlo Collodi. E lo userà anche in seguito quando scriverà Pinocchio. È lui, è Collodi a dare il nome a Cappuccetto Rosso» (p. 116).

E sarà ancora Collodi, lo scopriremo più avanti, nel capitolo Pinocchio (p. 343), che sempre su impulso dell’editore fiorentino Paggi, nel 1877, venne invitato a «scrivere qualcosa per la scuola, un sussidiario che richiami il tanto famoso Giannetto». Fu così che nacque Giannettino. Il libro, che doveva diventare un supporto per insegnare le varie materie ai bambini delle scuole della neonata Italia («ci saranno una grammatica, una matematica e una geografia di Giannettino»), fu bocciato dalla commissione ministeriale perché il suo stile venne giudicato «così gaio, e non di rado così umoristicamente frivolo da togliere ogni serietà all’insegnamento».

La nascita del più famoso burattino del mondo sembra essere legata proprio a questi tentativi falliti di Lorenzini/Collodi di arrivare ai bambini entrando dall’ingresso principale delle scuole d’Italia. «Insomma, cercando di scrivere un paio di sussidiari, sembra proprio che Collodi stia facendo le prove tecniche per Pinocchio. Infatti, tra il primo Giannettino, Minuzzolo e tutti gli altri libri che verranno in seguito con Giannettino protagonista, Collodi crea Pinocchio, “una bambinata”, come la chiama lui […], un libro per l’infanzia. Fino ad allora, in Italia, le letture di narrativa per l’infanzia si riducevano ad alcune edizioni ridotte di romanzi stranieri, soprattutto inglesi».

 

Apparso a puntate sul Giornale per i bambini (1881-83) e pubblicato in volume nel 1883, Le avventure di Pinocchio: storia di un burattino, comincia con quella frase comune a moltissimi altri racconti per bambini (come vedremo, non solo in italiano): «C’era una volta... – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno».

Della genesi di questo incipit, comune a moltissime lingue, si parla nel capitolo Perrault e il gatto (p. 97). L’autore fa notare che questo inizio, c’era una volta, è un modo «per collocare gli avvenimenti della fiaba lontani nel tempo, senza una data precisa» […], e viene utilizzato «per dare un senso di straniamento al lettore, di distacco da ciò che si racconta […]. Spesso a queste fiabe si aggiunge anche la distanza del luogo in cui avvengono le storie».

Di otto fiabe, appartenenti allo stesso libro, ben sette iniziano allo stesso modo: il était une fois. «Siamo nel 1697 a Parigi ed è la prima volta che così tante storie, così tante fiabe con lo stesso incipit, “C’era una volta”, appaiono nella stessa pubblicazione. O almeno è la prima volta che succede in Francia e le fiabe di quel libretto, scritto da Charles Perrault e intitolato Les contes de ma mère l’Oye, i racconti di mamma Oca, diventeranno molto, ma molto famose in tutto il mondo».

Mauro Smocovich rintraccia una frase molto simile nell’epopea di Gilgamesh, leggendario eroe sumerico, per due terzi dio e per un terzo uomo, le cui gesta sono narrate in questo racconto epico. «È una delle più antiche opere letterarie dell’umanità, se non la più antica e, a un certo punto, vi si trova la frase “In quei giorni, in quei giorni lontani”». Molto più tardi, nella favola Amore e psiche, presente nelle Metamorfosi o Asino d’oro di Apuleio (circa 125 d. C. - 180 d. C.), si trova Erant in quadam civitate rex et regina. «In Inghilterra […], “Once upon a Time” sembra che appaia la prima volta nel 1385, ne I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer. In Germania, invece, “Es war einmal”, abbonda ne Die Märchen che i fratelli Grimm pubblicano dal 1812 in poi, le novelle popolari, le fiabe del focolare. Ma ancora prima che nelle fiabe di Charles Perrault, e ancora prima che in quelle dei fratelli Grimm, la frase appare nel 1630, in Italia. È in napoletano, “Era na vota”, e la troviamo ne Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile».

Il libro esplora e approfondisce tante altre storie nelle storie, che toccano anche il cinema, la tv, l’opera lirica, in una narrazione avvincente che si sposta dai luoghi della fantasia a quelli della realtà, con uno stile simile a quello di cui è fatta la materia incantata delle fiabe. Il tutto arricchito, oltre che con le illustrazioni di Francesca Ferrarese, con fotografie, ritratti di scrittori, scene di film e locandine, copertine e illustrazioni di libri.

Le fiabe non nascono per far addormentare i bambini, al contrario, servono ad accendere la loro fantasia, perché, con le parole di Gianni Rodari, «l’uomo deve anche immaginare un mondo diverso e migliore, vivere per crearlo. Perciò alla sua educazione sono essenziali le fiabe. Non il loro contenuto immediato, non l’ideologia di cui possono essere portatrici: ma il loro modo di affrontare la realtà con occhio spregiudicato, di inventare dei punti di vista per osservarli, di vedere l’invisibile, come lo scienziato “vede” le onde elettromagnetiche dove nessuno aveva mai visto nulla».

 

Per saperne di più

Pinocchio, Enciclopedia online, Treccani.it

Le fiabe postmoderne dell'identità, di Vittorio Lingiardi e Guido Giovanardi, ilsole24ore.com, 31 maggio 2022.

«Ricerche pedagogiche», 216-217, luglio-dicembre 2020

Gianni Rodari, quando vale la pena di stare al gioco, Lingua italiana, Speciali, 7 giugno 2020, Treccani.it

 

 

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La zona di lettura. Come aiutare i ragazzi e le ragazze a diventare lettori abili, appassionati, abituali, critici

 

Nancie Atwell e Anne Atwell Merkel

La zona di lettura. Come aiutare i ragazzi e le ragazze a diventare lettori abili, appassionati, abituali, critici

Traduzione di Alessandra Nesti

«Quaderni della Ricerca / Didattica e letteratura /15»

Loescher Editore, Torino, 2022

 

C’è un verbo nel sottotitolo del quaderno La zona di lettura (Come aiutare i ragazzi e le ragazze a diventare lettori abili, appassionati, abituali, critici) di Nancie Atwell e Anne Atwell Merkel sul quale vale la pena di soffermarsi.

Si tratta del verbo aiutare, dal latino adiutāre, intensivo di adiuvāre ‘aiutare’, che deriva da iuvāre ‘giovare’. Aiutare nasconde con dolcezza una meta e un limite, un traguardo e un ostacolo, ed evidenzia come in certi àmbiti sia impossibile, se non controproducente, imporre o imporci. Quindi meglio sostenere, agevolare o condurre per mano, soprattutto per quanto riguarda l’atto di leggere.

Esordiva così Daniel Pennac nel suo celeberrimo Come un romanzo: «Il verbo leggere non sopporta l’imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo “amare”... il verbo “sognare”... Naturalmente si può sempre provare. Dai, forza: “Amami!” “Sogna!” “Leggi!” “Leggi! Ma insomma, leggi, diamine, ti ordino di leggere!". “Sali in camera tua e leggi!”. Risultato? Niente».

 

Lo sanno bene le autrici di questo saggio, tradotto in italiano da Alessandra Nesti, che hanno dedicato – e dedicano – la loro vita professionale a rendere la lettura un’occasione di crescita e, perché no, di felicità.

Nancie Atwell ha iniziato a insegnare agli inizi degli anni Settanta del Novecento e, nel 1990, ha fondato il Centre for Teaching and Learning (CTL) - Centro per l’insegnamento e l’apprendimento nello Stato del Maine.

Grazie alla sua attività, nel 2015 ha vinto il Global Teacher Prize («a US $1 million award presented annually to an exceptional teacher who has made an outstanding contribution to their profession»), un riconoscimento che premia il lavoro di insegnanti che si sono particolarmente distinti nella loro professione. Sua figlia, Anne Atwell Merkel, ha preso il posto della madre nel CTL quando Nancie ha smesso di insegnare nel 2013.

Si può insegnare a leggere? Quali sono le condizioni per rendere la lettura un gesto facile e spontaneo? Come possono giovani e giovanissimi diventare lettrici e lettori felici?

I numeri citati nel libro non sono trascurabili: «[N]ella nostra scuola, il CTL […], la media annuale di lettura è di quaranta titoli per studente del settimo e ottavo grado. E nei gradi inferiori i numeri sono altrettanto straordinari» (p. 22). Stiamo parlando di giovani che vivono nel Maine, «uno stato rurale e povero. Meno della metà degli impieghi offre uno stipendio con cui si può vivere, e i genitori dei nostri studenti lavorano sodo facendo ogni tipo di mestiere: agricoltori, carpentieri, muratori, operatrici d’infanzia, soldati, pescatori, addetti alle pulizie, così come medici, insegnanti, piccoli imprenditori o imprenditrici […]. Non parliamo, dunque, di un’enclave di privilegiati, bensì di lettori e lettrici che tutti i bambini e le bambine possono diventare» (p. 24-5).

Qual è il segreto di questo sorprendente successo? Sarebbe importante comprenderlo, anche in considerazione di altre cifre, quelle che emergono dall’ultimo resoconto Istat Produzione e lettura di libri in Italia, anno 2020, pubblicato nel febbraio 2022.

«La quota più alta di lettori continua a essere quella dei giovani: ha letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali il 58,6% dei ragazzi tra gli 11 e i 14 anni. Tuttavia, in questa fascia di età i lettori sono diminuiti negli ultimi 10 anni di 6,8 punti percentuali […]. In assoluto, il pubblico più affezionato alla lettura è rappresentato dalle ragazze tra gli 11 e i 24 anni (oltre il 60% ha letto almeno un libro nell’anno)».

Stiamo parlando di cifre che si riferiscono a un intero Paese e che non ha senso confrontare con i risultati specifici di un centro d’istruzione, che peraltro non si trova in Italia. Si tratta tuttavia di numeri che esprimono in modo significativo la sofferenza di un settore, quello dei libri e della lettura, su cui occorre mantenere alta l’attenzione.

La zona di lettura è un testo ricco di testimonianze vive e vissute direttamente, di esperienze alle quali ispirarsi per immaginare un percorso, una strada possibile e percorribile da chiunque, per «imparare come rendere la lettura un’“arte personale” – con le parole dello scrittore Robert Davis –, e con un obiettivo preciso: «che ogni studente diventi un lettore abile, appassionato, abituale, critico» [p. 22]. Sotto la guida degli insegnanti, ciascuno studente seleziona i libri da leggere in base alla propria identità, alle proprie passioni o inclinazioni. «L’unico modo davvero infallibile per indurre l’amore per i libri è invitare gli studenti a sceglierseli per contro proprio. E così, gli insegnanti aiutano i bambini e le bambine a scegliere libri piacevoli, a sviluppare e rifinire i loro criteri letterari, e a costruire le loro identità di lettori e lettrici» [p. 22].

Dalla scelta del libro al come e dove leggerlo. Zona di lettura è un’espressione coniata da uno studente di settimo grado, che ha interpretato la condizione descritta da Thomas Newkirk come “lo stato di lettura” (2000). Dopo un confronto sull’articolo di Newkirk, studentesse e studenti, con le loro risposte, hanno contribuito a definire questo spazio come «il posto in cui vanno quando si lasciano l’aula dietro le spalle e vivono esperienze simulate e vicarie attraverso i loro libri» [p. 38]. Sembra tutto semplice e naturale, ma non è così.

Un po’ come quando osserviamo atleti straordinari che fanno sembrare le loro prestazioni atti semplici e ordinari: sono proprio competenza e preparazione a rendere naturali – e in apparenza semplici i risultati ottenuti da questa categoria di sportivi.

Sfogliando questo quaderno, troveremo anche moltissime fotografie di giovani completamente assorti, di veri e propri atleti della lettura, di persone immerse nei libri e nella loro zona: «“mi dimentico dove sono e chi c’è intorno a me, e anche chi sono”; “non ti accorgi nemmeno di girare la pagina o di passare al capitolo successivo” […]; “il tempo scorre incredibilmente veloce, ma non me ne accorgo minimamente”; “ti perdi, ma in un modo bello”», sono solo alcune delle frasi raccolte dalle autrici (p. 39).

Se nei laboratori si parla di libri e di lettura («un booktalk è un ibrido: un po’ servizio alla comunità, un po’ discorso da imbonitore per vendere il libro»; «i booktalk sono brevi spot pubblicitari, raccomandazioni dirette e informali di titoli che sono apprezzati da singoli lettori»), durante questa attività non sono contemplati invece esercizi sulle parole, analisi del testo, progetti artistici o test di verifica. Non ci sono schede da compilare né resoconti da presentare e neppure domande di riflessione al termine della lettura di un libro. Tanto meno ricompense: «il premio sono le avventure vissute attraverso i personaggi e le passioni che loro e le storie suscitano, oltre che lo sviluppo di un’abitudine di lettura» (p. 32).

L’azione delle autrici è molto ampia e comprende tutta una serie di strategie che, a partire dalla possibilità di disporre di una ricca e articolata biblioteca, si basano per esempio anche sulle recensioni da parte di studentesse e studenti («A differenza del genere scolastico della relazione sul libro, la recensione rappresenta una sede critica riconosciuta e popolare nel mondo degli adulti», p. 110) e sulle lettere-saggio («Scrivere lettere sui libri è una delle attività di base dei gradi dal terzo all’ottavo nei laboratori di lettura del CTL […]. Le nostre hanno in particolare lo scopo di far riflettere sui libri, in uno scambio circolare tra studenti e insegnante», p. 99).

Chi crede nel valore dei libri e della lettura potrà agilmente mettere in pratica, arricchire e interpretare i percorsi narrati in questo testo, tenendo conto che sono il frutto di esperienze dirette, di obiettivi raggiunti e di una grande convinzione: «Le mode, nell’istruzione, vanno e vengono. Ma i bisogni e i desideri umani restano gli stessi. Ogni studente […] cui insegniamo si merita il piacere e il senso che noi adulti letterati troviamo nelle pagine dei libri che amiamo. Non è solo una cosa bella da fare: è quella essenziale per assicurarci che i nostri studenti e le nostre studentesse diventino i lettori e le lettrici abili, appassionati, abituali e critici che desideriamo» (p. 31).

Nel settembre del 1931, il poeta e drammaturgo spagnolo Federico García Lorca (1898-1936), fucilato dai franchisti durante i primi giorni della guerra civile, pronunciò un discorso in occasione dell’inaugurazione della biblioteca di Fuente Vaqueros (Granada), suo paese natale. Questo è un passaggio.

«Quando l’insigne scrittore russo Fëdor Dostoevskij, padre della rivoluzione russa molto più di Lenin, era prigioniero in Siberia, lontano dal mondo, tra quattro mura e circondato da desolate pianure di infinita neve, e scriveva chiedendo aiuto alla sua famiglia lontana, diceva soltanto: “Mandatemi libri, libri, tanti libri affinché la mia anima non muoia!”. Aveva freddo e non chiedeva fuoco, era assetato e non chiedeva acqua: chiedeva libri, cioè orizzonti, cioè scale per risalire la vetta dello spirito e del cuore. Perché l’agonia fisica, biologica, naturale, di un corpo causata da fame, sete o freddo, dura poco, pochissimo, ma l’agonia dell’animo insoddisfatto dura tutta la vita».

Per saperne di più

Per leggere un estratto del Quaderno cliccare qui

Center for Teaching & Learning

Globalteacherprize.org

Nancie, la prof più brava del mondo: "I miei ragazzi leggono 40 libri l'anno", Riccardo Luna, Repubblica.it

Intervista di Antonella De Gregorio a Nancie Atwell, Bambini, leggete quello che volete. Così ho vinto il Nobel dei maestri (22 novembre 2015, Corriere.it)

Produzione e lettura di libri in Italia (anno 2020), Istituto Nazionale di statistica, 7 febbraio 2022

Daniel Pennac, Come un romanzo (traduzione dal francese Yasmina Melaouah), Feltrinelli, 1994.

Alocución al pueblo de Fuente Vaqueros. Discurso leído por la inauguración de la biblioteca pública de Fuente Vaqueros (septiembre, 1931), Federico García Lorca, Biblioteca virtual Miguel de Cervantes (www.cervantesvirtual.com).

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Altri dodici Cesari

 

Stefano Tonietto

Altri dodici Cesari

Roma, Exòrma, 2022

 

Si è mai sentito parlare di C. Vanesius Suetoniectus e della sua Historiola Augustula? No, impossibile, perché sia lo scrittore latino sia la sua opera sono frutto della fantasia dell’autore di Altri dodici Cesari. Stefano Tonietto, che insegna latino e italiano in un liceo di Padova, ha immaginato un personaggio «non altrimenti noto», tale Svetonietto (un po’ Svetonio e un po’ Tonietto?), che, a sua volta, ha biografato dodici immaginarî imperatori romani (anzi tredici, considerando l’ultimo descritto nell’Appendice).

 

Come in un gioco, in cui le regole devono essere rispettate per far sì che tutti i partecipanti si divertano, Tonietto ha elaborato una cornice storico-letteraria plausibile, conferendo verosimiglianza sia all’Historiola sia al narratore. Già nell’Introduzione: «questo florilegio di biografie di imperatori romani si colloca come epigono da un lato del De vita Caesarum di Svetonio, di età adrianea, più noto come Vite dei dodici Cesari, dall’altro della cosiddetta Historia Augusta, una raccolta di vite imperiali del II e III secolo d. C. […]».

 

Illustrando che cosa manca al testo di Svetonietto, l’autore, per contrasto, enumera le caratteristiche delle opere menzionate in precedenza: «Da entrambe le opere succitate tuttavia il presunto Svetonietto differisce per una minore attenzione alla credibilità delle fonti, per una maggiore approssimazione storiografica e per un approccio disinvolto alla prosa d’arte». E ancora: «L’elegante costruzione della frase, l’imprevedibile ricorso alla variatio, lo scintillare dei concetti e l’incisività delle sententiae sono tutti elementi che in quest’opera decisamente mancano». L’autore non ricorre al Phishing for compliments, sminuirsi per ‘andare a pesca di complimenti’: si fa burla dell’opera di Svetonietto in tono giocoso per introdurre il lettore nella materia dell’opera.

Per esempio, si dice che non vi è un ordinamento cronologico delle vite narrate ma una scelta basata sui primati. «Obbedendo alla passione che gli antichi nutrivano per l’individuazione della priorità, sia nell’arte che nella filosofia che nelle altre attività umane (il concetto di pròtos euretès, il “primo inventore”), il nostro biografo individua nella serie a lui nota dei reggitori dello Stato imperiale Romano coloro che si sono distinti appunto per priorità, sia in senso positivo che in senso negativo».

Vale la pena citare tutti i personaggi della narrazione, perché già dal nome trapela molto dello spirito del libro e della personalità dei protagonisti. Stavolta in ordine di apparizione ecco il primo imperatore plebeo (Imperator Cæsar Spurius Glebanus Augustus), il primo imperatore donna (I. C. Bonus Fortunatus A. - Bona Fortuna), il primo imperatore inesistente (I. C. Flavius Apoculatus A.), il primo imperatore tossico (I. C. Quintus Ovvius Lapalissianus A.), il primo ultimo imperatore (I. C. Iunius Papius Alienus A.), il primo imperatore repubblicano (I. C. Cocceius Dextalinianus A.), il primo imperatore doppio (I. C. Titus Absynthius Laudanus A.), il primo imperatore sportivo (I. C. Decimus Petronius A.), il primo imperatore non umano (I. C. Caius Iulius Incitatus A.), il primo imperatore filosofo (I. C. Gaius Aperitivus A.), il primo imperatore insicuro (I. C. Sextus Dissidius Ethicus A.), il primo imperatore veramente degno (si vedrà perché privo di nome) e, come anticipato, in Appendice, si narra la Vita sacri regis generici Romanorum Imperatoris semper Augusti, cioè del primo imperatore monaco.

 

Tra il serio e il faceto, una sorta di nota filologica arguta e ironica e, allo stesso tempo, ricca di informazioni vere o verosimili, precede ciascuna biografia, descrivendo, per esempio, l’impianto, le fonti e lo stile, spesso, come si diceva, per sottrazione. Come nel caso di Decimo Petronio: «La varietà meravigliosa di Erodoto, il rigoroso metodo tucidideo, la lucidità analitica di Polibio, l’enfasi retorica di Tito Livio qui sono del tutto assenti».

 

Con sapiente ironia, in questa narrazione giocosa (ma verosimile) si amalgamano realtà e finzione, letteratura e fantaletteratura latina, personaggi esistiti e altri del tutto inventati, opere note e opere dai nomi estrosi, elementi reali (si veda il garum, una salsa di pesce di cui erano ghiotti i Romani) e invenzioni ingegnose.

 

La satira è un genere che affonda le radici nella letteratura latina e così la penna di Stefano Tonietto non risparmia quasi nessun Cesare, con la chiara eccezione del «primo imperatore rivelatosi in tutto e per tutto degno del titolo, del trono, della corona e dell’amore e lealtà dei sudditi». Di questa figura, quasi mitologica, non si sa nulla né si conoscono le generalità: dopo le ultime parole del proemio, il testo sfuma nella pagina bianca, quasi un richiamo alla fantasia dei lettori, che dovranno immaginare colei o colui all’altezza di qualità inarrivabili. In fondo alla pagina, una nota chiarisce: «Qui s’interrompe il testo del libro XII giunto fino a noi, probabilmente per la caduta di un foglio nell’archetipo».

I ritratti dell’autore sono concepiti in un’immaginaria latinità, un mondo costellato di umanissimi quanto strampalati antieroi che, dato il ruolo rivestito nella società, si fanno portatori di una critica garbata e spiritosa (ma non meno efficace) delle istituzioni e del potere in generale, della sempiterna vanità dell’essere umano, dell’incapacità dei governanti, condannati ad allontanarsi sempre più dai governati e dai paradigmi positivi che dovrebbero incarnare. Allora come ora?

«In un’epoca di declino della storiografia e di abbassamento del livello culturale del pubblico, quale era quello della decadenza imperiale (III-V secc. d. C.), Svetonietto offriva ai suoi lettori preferibilmente notizie spicciole e curiosità, malignità, pettegolezzi, dettagli pruriginosi. Nemmeno noi d’altronde possiamo dirci esenti da tale propensione; chi ha frequentato le scuole del nostro paese ricorderà che Caligola fece senatore il proprio cavallo, che Nerone incendiò Roma, che Vespasiano inventò i pubblici orinatoi, che Traiano edificò una colonna istoriata. La memoria del non specialista conserva particolari di questo genere, impressi nella sua esperienza scolastica di fanciullo, e non ricorda, o peggio non ha mai avuto accesso alle corrette e articolate conclusioni della seria ricerca storiografica.

Questo dovrebbe indurci a qualche riflessione. La vera e valida azione politica di un governante, nel bene e nel male, non regge ai secoli, rimane solo il dettaglio curioso, magari non verificato, il luogo comune, questo sembra dirci Svetonietto; così verrà forse un’epoca futura in cui le masse ricorderanno di Napoleone soltanto che rubò la Gioconda, di Churchill che mostrava “V” con le dita, di Mussolini che faceva arrivare i treni in orario».

 

 

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I segreti delle parole

 

Noam Chomsky e Andrea Moro

I segreti delle parole

Milano, La nave di Teseo, 2022

 

Quando due maestri dialogano tra di loro, non si può far altro che rimanere in silenzio e ascoltare (o immergersi in una lettura attenta). A maggior ragione quando si tratta di due studiosi che hanno inciso profondamente sui paradigmi della linguistica: Noam Chomsky e Andrea Moro.

 

Noam Chomsky, classe 1928, sfugge a ogni definizione. La nota biografica del risvolto di terza di copertina del volume I segreti delle parole sintetizza: «linguista, filosofo, scienziato cognitivo, saggista storico, critico sociale e attivista politico».

Oltre ad avere contribuito con i suoi studi a illuminare la strada della conoscenza del linguaggio, Chomsky si è sempre allontanato dal “discorso ufficiale”, proponendo un’analisi approfondita e pacata – non sempre gradita ai «padroni del mondo» – delle più attuali questioni di politica internazionale. Il suo ultimo libro è Perché l’Ucraina (Ponte alle Grazie).

Andrea Moro è professore di Linguistica generale alla Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia. Allievo di Chomsky al Massachusetts Institute of Technology (MIT), con il suo lavoro ha favorito l’incontro tra linguistica e neuroscienze, rivoluzionando gli studi sul rapporto tra linguaggio umano e cervello anche attraverso tecniche fondamentali di neuroimmagini come la PET (tomografia a emissione di positroni) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI).

«Quando s’incontrano due discipline, se un cambiamento può portare a un’unificazione, tale cambiamento non è mai unilaterale, e questo di certo vale per la linguistica formale e per la neurobiologia del cervello. La neurolinguistica, se mai riuscirà ad emanciparsi come disciplina autonoma, emergerà dal connubio tra una nuova linguistica e una nuova neuropsicologia, e non per la confluenza della prima nella seconda […] Le annessioni unilaterali, almeno nella scienza, o non hanno senso o sono propaganda» (p. 121).

 

Nel libro I segreti delle parole i due studiosi intrecciano una conversazione a tutto campo in cui, in maniera agile e sintetica, ed estremamente stimolante, ripercorrono le principali tappe di una rivoluzione iniziata a metà Novecento; al contempo offrono al lettore una prospettiva privilegiata, rendendolo partecipe – e testimone – della Storia della linguistica.

 

Il dialogo si incardina, tra le altre cose, su ciò che sappiamo del linguaggio umano (che, per quanto studiato, lascia sempre un margine di mistero), sulle cosiddette lingue impossibili («sistemi grammaticali che possono essere coerenti, completi e forse anche semplici nella loro natura ma che non rispondono alle proprietà formali specifiche del linguaggio umano e che, pertanto, non vengono riconosciuti dal cervello come dati linguistici e non vengono computati dalle reti naturali del linguaggio» - p. 118), sul modo in cui gli esseri umani imparano a parlare («[…] per usare le parole di Chomsky, i bambini imparano la grammatica proprio come imparano a camminare e a digerire» - p. 98), sul miraggio dell’infinita varietà di Babele, sulle lingue perfette e su molti altri aspetti che, oltre a offrire risposte, sollevano interrogativi. E questo modo di esplorare il linguaggio genera una meraviglia costante.

 

Nel capitolo conclusivo, Quel che resta del futuro: note a margine di una conversazione, Andrea Moro sottolinea: «Negli anni cinquanta del secolo scorso, nel pieno della rivoluzione strutturalista che, partita da Ferdinand de Saussure a Ginevra, aveva investito non solo il resto di Europa e gli altri continenti ma soprattutto altri dominî oltre quello della linguistica, si era certi di poche cose sul linguaggio ma due di queste apparivano conquiste assodate. La prima certezza era che Babele fosse un continente senza confini: le lingue possono variare “indefinitamente e senza limiti” (come sosteneva, autorevolmente, Martin Joos). La seconda certezza era che le regole strutturali di questo colossale artefatto fossero invenzioni pure e che le regole delle lingue fossero “convenzioni culturali di natura arbitraria” […] Un secolo dopo, abbiamo ancora poche certezze circa il linguaggio […] ma di certo sappiamo che quelle due certezze –variazione illimitata e pura convenzionalità delle regole – si sono rivelate completamente false» (p. 91).

 

È interessante notare come Chomsky e Moro riconoscano reciprocamente il contributo che ciascuno ha apportato nell’ambito degli studi linguistici, favorendo un cambiamento di prospettiva radicale. Entrambi dimostrano peraltro quanto sia indispensabile il dialogo attivo tra studiosi e l’osmosi tra scienze in apparenza distanti tra loro. L’amicizia e la stima mutua, che traspaiono da ogni parola del libro, sono elementi che impreziosiscono ancor più l’opera.

Noam Chomsky: «I tuoi esperimenti con un insieme assortito di materiali che si basavano sull’ordine lineare hanno mostrato che questa curiosa proprietà della nostra vita mentale si manifesta nelle operazioni del cervello. Ciò fornisce un fondamento neuronale alla distinzione tra lingue possibili e impossibili discussa in modo estensivo nel tuo libro Le lingue impossibili. Perlomeno a mio giudizio, queste sono finora le intuizioni più illuminanti della neurolinguistica» (p. 35).

Andrea Moro: «[P]enso che gli esperimenti che si possono immaginare in questo campo, soprattutto quelli che coinvolgono la sintassi – il nucleo fondamentale del linguaggio umano – possano essere effettuati solo se consideriamo le procedure generative, e la loro corrispondente forza esplicativa, che tu avevi immaginato e progettato come una linea guida negli anni cinquanta» (p. 39-40). «[È] stato possibile concepire gli esperimenti sulle lingue impossibili […] contando unicamente sui tuoi primi articoli degli anni cinquanta» (p. 32).

«Come accade in tutti i dominî scientifici, le rivoluzioni difficilmente sono opera di un solo individuo in quanto riflettono lo Zeitgeist che ha permesso che attecchissero; tuttavia l’innesco si può spesso attribuire all’intuizione di un singolo. Nel caso dello studio del linguaggio umano, è stato il programma di ricerca di Noam Chomsky, tecnicamente noto come “grammatica generativa” (o “grammatica completamente esplicita”), che ha fornito il contributo essenziale per questo cambio radicale di prospettiva e per demolire le due false credenze che guidavano allora i linguisti» (p. 90-91).

 

L’ultima domanda che pone Moro è anche un’indicazione di metodo e un tributo al maestro: «Cosa rimarrà della linguistica di oggi tra cinquecento anni? Potremmo forse non avere una risposta chiara, ma se ci troviamo nella condizione di formulare domande nuove per il futuro, l’essenza della scienza, certamente lo dobbiamo alla rivoluzionaria visione del linguaggio innescata da Noam Chomsky» (p. 127).

 

Con Il segreto di Pietramala (La Nave di Teseo, 2018), Andrea Moro ha vinto il Premio Flaiano. Nel romanzo, Andrea Moro si spoglia (solo in parte) dell’abito del linguista per indossare le vesti del romanziere. Sembra quasi che l’autore voglia rivolgersi ad una platea ancora più vasta di quella fatta, per così dire, di esperti o curiosi della lingua, e intenda condividere la sua passione per il linguaggio traducendola in una narrazione alla portata di un maggior numero di lettori. Una passione, la sua, che trapela da ogni pagina. Moro imbastisce una storia avvincente, inaugurando quasi un nuovo genere letterario che potremmo definire giallo linguistico. Qui sono narrate le vicende del linguista parigino Elia Rameau che, dovendo completare un atlante geolinguistico, viene spedito in Corsica. Scopre però tre cose che lo sorprendono: il paesino di Pietramala è abbandonato, in esso non sono presenti parole scritte e nel cimitero mancano le tombe dei bambini. Attraverso numerose peripezie, il giovane studioso arriverà fino a Manhattan, alla scoperta dei misteri e dei pericoli legati a questa lingua fantasma.

Tra i numerosi passi memorabili del romanzo, che non è possibile riprodurre nella loro completezza, mi piace concludere prendendo queste parole: «[…] Ireneo […] mi disse: “Sei sicuro che per capire si debba vedere? Gli occhi non possono conoscere la natura delle cose. Solo uno stupido pensa che le cose bianche siano fatte di particelle bianche: il bianco viene fuori dopo. Bisogna invece riconoscere che esistono cose nella realtà anche se non si vedono. Anzi, capire vuol dire proprio trasformare ciò che si vede ed è complicato in ciò che non si vede ed è semplice».

 

Per saperne di più

I padroni del mondo (Ponte alle Grazie) è il titolo italiano del saggio di Noam Chomsky Who Rules The World.

Andrea Moro alla Milanesiana: un testo sul linguaggio e l’arte (3 luglio 2022, Corriere.it)

Andrea Moro, Linguaggio, in Enciclopedia Italiana, IX appendice (2015), Treccani.it

 

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Manuale dell’italiano facile da leggere e da capire

 

Floriana C. Sciumbata

Manuale dell’italiano facile da leggere e da capire

Come scrivere testi semplici per persone con disabilità intellettive e difficoltà di lettura

Firenze, Franco Cesati editore, 2022

 

«1. Al fine di consentire alle persone con disabilità di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli aspetti della vita, gli Stati Parti adottano misure adeguate a garantire alle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri, l’accesso all’ambiente fisico, ai trasporti, all’informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o forniti al pubblico, sia nelle aree urbane che in quelle rurali […].

2. Gli Stati Parti inoltre adottano misure adeguate per:

[…]  (f) promuovere altre forme idonee di assistenza e di sostegno a persone con disabilità per garantire il loro accesso all’informazione;

(g) promuovere l’accesso delle persone con disabilità alle nuove tecnologie e ai sistemi di informazione e comunicazione, compreso internet».

 

Si tratta di una parte dell’articolo 9 (Accessibilità) della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006.

Di seguito, un brano della medesima Convenzione scritto, in questo caso, con un linguaggio “facile da leggere” (anche conosciuto in inglese come easy-to-read, easy-read o easy-reading): «Hai diritto a sapere tutte le cose che ti interessano usando internet, leggendo i giornali e i libri, guardando la televisione e ascoltando la radio». È la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità in versione facile da leggere tradotta dall’Associazione nazionale di famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale–Anfass.

 

Il significato è lo stesso, anche se il linguaggio usato per esprimere gli stessi concetti è profondamento diverso. Si tratta di un linguaggio studiato proprio per abbattere le “barriere architettoniche” della lingua, che vuole essere più un ponte che un muro, un linguaggio facile da leggere e da capire, asciutto, diretto, efficace, che prova a raggiungere un numero sempre maggiore di lettrici e lettori.

 

Il Manuale dell’italiano facile da leggere e da capire. Come scrivere testi semplici per persone con disabilità intellettive e difficoltà di lettura di Floriana C. Sciumbata, dottoressa di ricerca in Studi linguistici e letterari presso l’Università di Udine e assegnista di ricerca in Linguistica italiana presso l’Università di Trieste, illustra alcune linee guida per realizzare questo tipo di testi. Le indicazioni riguardano l’organizzazione delle informazioni, la scelta del lessico, la costruzione delle frasi, ma anche la grafica e il web, e sono rivolte a chi si occupa di comunicazione («redattori, giornalisti, editori, impiegati, traduttori, sottotitolatori, insegnanti, social media manager e comunicatori in generale»), a chi lavora con persone con difficoltà di lettura o a chi è interessato, più in generale, all’inclusività.

 

Nella Premessa del libro, Roberto Speziale, presidente nazionale dell’Anfass, evidenzia il ruolo del linguaggio facile da leggere «quale strumento indispensabile per assicurare alle persone con disabilità, in particolare intellettive e disturbi del neurosviluppo, inclusione e reali pari opportunità nella società di appartenenza».

L’Associazione ha lavorato sul testo della Convenzione ONU accorgendosi che, paradossalmente, era inaccessibile proprio ad alcuni dei destinatari della stessa. «Da qui l’idea di Anffas di sperimentare tale nuovo linguaggio a partire dalla traduzione della Convenzione ONU in linguaggio facile da leggere e da capire coinvolgendo nel lavoro proprio le persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo in qualità di lettori di prova».

«Il linguaggio facile vero e proprio è invece poco conosciuto al grande pubblico e l’Italia è in notevole ritardo rispetto ad altri Paesi nella sua applicazione e diffusione. La sua principale promotrice resta l’associazione Anffas, che […] ha partecipato alla creazione dello standard europeo e che produce diversi documenti semplificati: dalle istruzioni sull’uso della lavatrice a quelle su una

corretta alimentazione, dai giornalini delle sedi dell’associazione alle guide dei musei. La stessa associazione ha avviato anche iniziative di redazione di testi semplificati in occasione di eventi importanti che richiedono il coinvolgimento diretto delle persone, come le elezioni politiche o quelle europee, oppure documenti sulla diffusione del Covid-19» (p. 23).

 

La comprensione è dunque il primo dei gradini della scala che porta all’indipendenza, all’integrazione nella società, alla possibilità di esprimere sé stessi in libertà, a conoscere ed esigere i propri diritti.

Bussola della realtà di tutti i giorni, i testi scritti «ci permettono di orientarci: le notizie ci permettono di capire che cosa succede; romanzi e racconti di intrattenerci; istruzioni e manuali (come questo) di imparare come fare qualcosa; e i siti internet di “navigare” nel mondo» (p. 11).

Capita a tutti, prima o poi, di non comprendere ciò che si legge, con la conseguente sensazione di frustrazione o spaesamento. Per esempio, quando siamo alle prese con il criptico burocratese o, in alcuni casi, con la lingua giuridica. «All’alta proliferazione legislativa si accompagna spesso una bassa qualità dei testi; come spiega Giuseppe Benelli, la scarsa comprensione del dettato delle norme intensifica il problema della comunicazione delle leggi, che quindi resta limitata ad una fascia della popolazione elitaria, con un’appropriata cultura giuridica, e quasi inaccessibile alla maggioranza dei cittadini; aspetto paradossale, visto che le leggi, proprio perché destinate a tutti i cittadini, devono poter essere comprese dal maggior numero di persone» (Francesca Vaccarelli, Burocratese e gobbledygook : il linguaggio oscuro in italiano e in inglese | Treccani.it).

 

Come si sente chi, invece, questo disorientamento lo vive sempre, rispetto alla quasi totalità del circostante mondo scritto? Sciumbata invita a fare una riflessione: «Cerchiamo ora di immaginare l’esperienza quotidiana di chi ha difficoltà di lettura, come le persone con disabilità intellettive, disturbi neurologici o psichiatrici o con una scarsa conoscenza dell’italiano. Le difficoltà di lettura limitano la possibilità delle persone di interagire con il mondo, mettendo a rischio la loro indipendenza e il loro diritto all’informazione».

 

Le linee guida elaborate da Sciumbata mirano ad ampliare quelle dello standard europeo, ad adattarle alle specificità della lingua italiana e a svecchiarle, in alcuni casi, come per esempio per quanto riguarda la parte relativa alla realizzazione di siti web e contenuti multimediali.

Uno degli aspetti rilevanti del linguaggio facile da leggere è che l’elaborazione dei testi può coinvolgere anche un campione rappresentativo dei destinatari. «La loro partecipazione è utile per decidere quali argomenti trattare, che cosa dire su un argomento e qual è il supporto migliore per una pubblicazione. I lettori di prova danno anche un riscontro su strutture sintattiche e lessico da utilizzare» (p. 30).

Come abbiamo già visto per quanto riguarda l’articolo 9 della Convenzione Onu, il linguaggio facile non riguarda solo i testi da elaborare ex novo ma anche la traduzione di testi già esistenti, con tutte le difficoltà che può comportare la rielaborazione di informazioni che talvolta, in partenza, non sono ben scritte. Sciumbata tiene conto anche di questo aspetto, fornendo alcuni suggerimenti utili. I numerosi esempi di riscrittura, le osservazioni puntuali dell’autrice e l’ampia bibliografia completano questo prezioso Manuale che contribuisce, con rigore scientifico, a far conoscere questo tipo di linguaggio e il suo indiscusso valore.

In questo senso, un segnale positivo arriva dal Ministero della Cultura: l’Archivio centrale dello Stato ha realizzato, in collaborazione con l’Anfass, la prima guida archivistica in linguaggio facile in cui si descrive che cosa è e che cosa fa l’Archivio centrale, quali documenti conserva e quanto sono importanti. Una pregevole guida e, allo stesso tempo, un invito all’inclusione, come recita il sottotitolo («nessuno resti fuori») perché, come ricorda Galileo Galilei in una celeberrima massima, «Parlare oscuramente lo sa far ognuno, ma chiaro, pochissimi».

 

Per saperne di più

Convenzione ONU - Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali

La guida dell’Archivio centrale dello Stato scritta in linguaggio facil da leggere

Burocratese e gobbledygook: il linguaggio oscuro in italiano e in inglese, Francesca Vaccarelli | Treccani.it

Parlare oscuramente lo sa far ognuno: il diritto in pubblico, Sergio Lubello | Treccani.it

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L’insulto. La lingua dello scherzo, la lingua dell’odio

Paolo Nitti

L’insulto. La lingua dello scherzo, la lingua dell’odio

Firenze, Franco Cesati editore, 2021

 

Che cos’è un insulto e perché è così importante rivolgere la nostra attenzione verso questa specifica categoria di «atto linguistico ostile»?

Antico quanto l’essere umano, l’insulto è presente nel nostro linguaggio dai tempi più remoti. Molto interessanti le pennellate storiche che ne fa la scrittrice e studiosa Andrea Marcolongo nell’articolo Male parole, le diceva pure Socrate (La Stampa.it, 16 settembre 2021): «le espressioni più in voga tra i Greci erano “per il cane!”, “per la capra!”, “per l’aglio!” – e se un “per Zeus!” è imprecazione già omerica, bisogna riconoscere come i Greci, a differenza degli Egizi, non amassero scherzare troppo con gli dei. Alla trivialità urbana bisogna poi aggiungere il tocco di stile di letterati e poeti classici, che lasciarono un segno non solo nella letteratura, ma anche nel turpiloquio. Pitagora ad esempio, nel VI secolo a.C., credendo che la matematica fosse una manifestazione diretta della realtà, imprecava addirittura con i numeri – l’offesa suprema sarebbe stata dare a qualcuno “del numero 4”[…]».

Per non parlare di come ci si appellava dall’altro lato del Mediterraneo: «i Romani non erano certo più pudichi dei Greci: alcune delle contemporanee parolacce arrivano direttamente dal latino, come stercum o meretrix, che credo non valga la pena di tradurre. […] il peso di certi insulti pompeiani scandalizzerebbero anche il più scurrile dei contemporanei, meritando un posto più in un bagno dell’Autogrill che in una biblioteca. […] Un vizio, quello della parolaccia, che ha poi attraversato i secoli e le epoche storiche. Se a Roma l’insulto più comune era dare dello “sporco sannita” a qualcuno, in riferimento al popolo dei Sanniti che strenuamente si era opposto al potere della SPQR, nel Medioevo l’epiteto peggiore era quello del “villano”, che con estremo classismo rimandava alla presunta volgarità degli abitanti delle campagne, un termine che ancora oggi conserva una se pur pallida calunnia verso il prossimo».

 

Torniamo ai nostri giorni, in cui sembrano proliferare ingiurie, diffamazioni, denigrazioni e offese («Non è infrequente imbattersi nella considerazione che la quantità e la ricorrenza di insulti all’interno delle pratiche comunicative oggi sia più significativa rispetto al passato», p. 81), talvolta anche per via della veicolazione e dell’amplificazione che ne fanno social media e nuove forma di comunicazione digitale: «L’insulto proferito attraverso una piattaforma social e mediato da internet, dunque, si manifesta in forma più violenta a causa della possibilità di raggiungimento di un pubblico vasto, della velocità di trasmissione del messaggio e dell’assenza o dell’inadempienza di un meccanismo di controllo», p. 82). Ed è per questo che diventa sempre più opportuno soffermarsi ad analizzare e comprendere un fenomeno di tale portata, che, in taluni casi, arriva a costituire reati veri e propri.

 

Il volume di Paolo Nitti L’insulto. La lingua dello scherzo, la lingua dell’odio offre un’imprescindibile rassegna – ampia e approfondita –, su un argomento non sufficientemente sistematizzato, integrando «più punti di vista e prospettive disciplinari, in particolare una linguistico-descrittiva e una applicativa, con un riferimento significativo alle strategie di intervento didattico» (Prefazione, Massimo Palermo).

 

Sì, perché non ci si può voltare dall’altra parte, rimuovere o semplicemente censurare: «se per il concetto di crimine d’odio non c’è definizione giuridica sul piano nazionale, per il discorso d’odio non c’è neppure una definizione univoca a livello internazionale» (Quando l’odio diventa reato. Caratteristiche e normativa di contrasto degli hate crimes di Stefano Chirico, Lucia Gori e Ilaria Esposito).

L’insulto si inserisce a pieno titolo nei cosiddetti discorsi d’odio che devono necessariamente attivare azioni di contrasto, «politiche educative e strategie di intervento nazionali e sovranazionali mirate alla prevenzione di fenomeni come il cyberbullismo, l’intolleranza, la xenofobia, la discriminazione di gruppi vulnerabili» (Prefazione, Massimo Palermo).

Ed è in tale contesto che Paolo Nitti ci parla di “competenza denigratoria” (di cui si dirà più avanti), suggerendo di «innescare un cambiamento», agendo sulla «formazione del personale docente e di chi si occuperà di comunicazione massmediatica, all’interno dei percorsi universitari, […] avviare riflessioni critiche e percorsi di ricerca proprio negli insegnamenti di linguistica generale, di linguistica italiana, di filosofia del linguaggio, di semiotica e di glottodidattica per promuovere la consapevolezza sui fatti della lingua […] (p. 98).

 

Come lo stesso autore esplicita nell’Introduzione, il libro ha «il proposito […] di fornire una degna rappresentazione dell’insulto, ovvero di un dispositivo linguistico che si conosce poco e che risulta tanto utilizzato quanto disprezzato». Si rivolge a un pubblico esperto ma, allo stesso tempo, fornisce tutti gli strumenti utili per la piena comprensione degli argomenti, anche a chi non frequenta abitualmente trattazioni su lingua e linguistica.

 

Che cos’è un insulto? Nel primo capitolo, Nitti prova a circoscrivere l’àmbito semantico di questo atto linguistico, anche attraverso definizioni, caratteristiche e considerazioni sulla natura di un «fenomeno linguistico di non facile definizione, in quanto concerne una vasta gamma di lessemi, sintagmi e frasi impiegati con un’intenzione denigratoria, sia in chiave scherzosa che offensiva - p. 13».

 

Perché ricorrere all’insulto? Il secondo capitolo passa in rassegna l’uso e le finalità dell’espressione insultante, che «offende perché “attinge a una certa fonte di significato e viene pronunciata per colpire un certo bersaglio” (Domaneschi 2020: 25). Tale fonte di significato può rimandare a sfere semantiche ritenute sconvenienti, ma, demandare l’insulto meramente all’argomento o al ricorso al turpiloquio, implica mancare di considerare insultanti alcune espressioni che di fatto lo sono, in quanto offendono e squalificano il bersaglio» - p. 21).

Illustra gli «insulti rituali», le espressioni insultanti comuni a gruppi utilizzate per «circoscrivere e rinsaldare la microcomunità, a discapito di un’altra», i destinatari e i bersagli, gli insulti a sfondo razzista, le differenze tra insulto e altre forme di invettiva, di ingiuria, di maledizione.

L’autore si sofferma inoltre sul panorama internazionale, dove è assente «una definizione unanime e condivisa, relativa alle forme di linguaggio d’odio, in grado di stabilire quali siano i confini fra il diritto alla libertà di espressione e l’attacco rivolto a individui e minoranze, tale da determinarne l’esclusione e la marginalizzazione sociale» (p. 26).

Non da ultimo, si affronta la questione legislativa: «Attualmente, malgrado l’orientamento del Governo Renzi, l’ingiuria è stata inserita in diverse proposte di legge volte a contrastare l’omofobia, il sessismo, la discriminazione delle minoranze (si pensi al caso del DDL Zan), non senza accese discussioni sul piano etico e normativo (pp. 29-30).

 

Proposte di classificazione degli insulti descrive gli studi di Andersson e Trudgill, Domaneschi, Galli de’ Paratesi, Milić, Guimarães, Bazzanella e Alfonzetti.

 

Nel capitolo L’insulto come atto linguistico si sottolinea che «L’espressione linguistica stricto sensu, dunque, non è sufficiente a essere classificata come insulto, se non si considera la dimensione sociale e pragmatica, poiché devono essere recepite le intenzioni comunicative dell’emittente da parte del destinatario», tenendo presente anche il ruolo dell’ascoltatrice o dell’ascoltatore dell’insulto, cioè di un soggetto terzo.

 

Nel capitolo L’acquisizione linguistica degli insulti si riprendono gli studi su come gli individui apprendono e assimilano l’espressione ingiuriosa attraverso la socializzazione primaria e secondaria già a partire dal primo anno di vita.

Segue il capitolo I risultati di un’indagine sull’insulto rispetto alle pratiche di cyberbullismo, in cui, tra i tanti spunti di riflessione, si mette a confronto il valore dell’espressione utilizzata de visu rispetto a quella lanciata su una piattaforma sociale.

Il saggio di Paolo Nitti si conclude con un capitolo il cui titolo comprende il celeberrimo motto latino seguito da un punto interrogativo: Absit iniuria verbis? Il ruolo della linguistica educativa. L’insulto, infatti, può essere trasformato in un elemento educativo, è patrimonio di tutte le società, «costituisce un aspetto della lingua certamente interessante, poiché è uno dei pochi elementi della cultura a essere tanto biasimato e riprovato quanto utilizzato» (p. 81) e, dulcis in fundo, non è solo ed esclusivamente un mezzo per esprimere l’odio.

 

«L’uso consapevole dell’insulto o – meglio – lo sviluppo della competenza denigratoria dovrebbe costituire un aspetto della programmazione linguistica, giacché nella programmazione non si inseriscono le scelte valoriali dei singoli individui, ma gli elementi necessari affinché un apprendente sviluppi la competenza comunicativa. Il divieto del ricorso all’insulto e al turpiloquio stricto sensu, tipico della tradizione scolastica, così, si trasforma ed evolve in un utilizzo consapevole della lingua, rispetto alle più svariate situazioni comunicative» (p. 99).

 

Studiare, educare, alimentare senso critico e competenza metalinguistica, per poi «lavorare sulle pratiche di mitigazione e di gestione degli insulti, in quanto oggetti potenzialmente disinnescabili».

Perché non tutti gli insulti vengono per nuocere.

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E di chi non te lo dice. I migliori insulti della storia

Valeria Arnaldi

E di chi non te lo dice. I migliori insulti della storia

Roma, Ultra edizioni, 2021

 

Se le parole sono pietre, rifacendoci al titolo del romanzo di Carlo Levi (1955, Premio Viareggio), che cosa potrebbero essere allora le parolacce? Massi o macigni? Per l’uso abbondante e spregiudicato che se ne fa oggi, forse, potrebbero anche essere paragonate a granelli di sabbia.

Nel febbraio del 2016, in un’intervista a LaPresse, Tullio De Mauro osservava che «[n]egli anni Settanta e Ottanta le parolacce esistevano, naturalmente, ma non comparivano con grande frequenza ed erano piuttosto marginali: non apparivano negli scritti né sui giornali ma prevalentemente nell’avanspettacolo. Invece adesso dilagano. Soltanto i testi accademici sono, almeno per ora, privi di male parole. Ma giornali, letteratura, romanzi, teatro, cinema, televisione, perfino aule giudiziarie, vedono frequentemente occorrere il gruppetto delle male parole più clamorose».

 

Un uso disinibito – ma non ostentato – di un linguaggio colorito non riguarda tuttavia solo i nostri giorni. «Le lettere private dei più importanti personaggi dell’Ottocento erano punteggiate, quasi come le più recenti intercettazioni telefoniche, di espressioni scurrili. L’esemplificazione potrebbe andare da scrittori come Leopardi («la vera letteratura, di qualunque genere sia, non vale un cazzo con gli stranieri») o Carducci, fino a musicisti come Rossini, a scultori come Canova, e appunto a politici come Francesco Crispi, per quattro volte presidente del Consiglio («bisogna che io pianga la mia coglioneria»). La differenza è che nessuno, fino a cinquant’anni fa, si sarebbe sognato di usare parolacce in una situazione pubblica: in una conferenza, in un comizio o più tardi parlando alla radio o in televisione. E men che meno in Parlamento» (Giuseppe Antonelli, Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica 2017).

 

Nel volume E di chi non te lo dice. I migliori insulti della storia, la scrittrice e giornalista Valeria Arnaldi, con pennellate agili e delicate, passa in rassegna, illustra e contestualizza parole ed espressioni oltraggiose, irrispettose, sconce, volgari e offensive, dall’antichità ai nostri giorni, dalla letteratura al cinema, dall’arte figurativa alla televisione, dalla canzone alla politica. Ne emerge un quadro composito, attraverso il quale Arnaldi prova a delineare sia il profilo di chi usa l’espressione ingiuriosa sia la circostanza in cui lo fa, evidenziandone intenzioni e risultati.

Secondo l’autrice, c’è un elemento che accomuna il parlare triviale di tutte le epoche: «L’insulto apre la conversazione sincera. Più spesso, la chiude. Di certo – sempre – la accende. E accompagna la storia dell’uomo, è antico quanto l’essere umano o quanto meno quanto il suo vivere in comunità».

 

A Roma, nella basilica di San Clemente, non distante dal Colosseo, è conservata una delle più antiche scurrilità pronunciate in un luogo sacro, tra le altre cose. Fa parte di un affresco (probabilmente della fine del secolo XI) che raffigura un miracolo del santo, il quale aveva convertito al cristianesimo Teodora, moglie del patrizio Sisinnio.

Il marito della convertita, accecato non solo dall’ira ma da san Clemente stesso, ordina ai suoi servi di condurre il santo al martirio. Trasformatosi miracolosamente in una colonna, Clemente rende così impossibile il suo trasporto. Da lì, l’incitazione veemente (FILI DELE PUTE TRAITE ‘Figli di puttana, tirate’) che il prefetto rivolge agli increduli trasportatori. L’espressione non è casuale, come spiega Giuseppe Antonelli: «[…] qui la parolaccia ha uno scopo educativo: è scritta a fin di bene, se così possiamo dire. Perché serve a caratterizzare Sisinnio come un uomo volgare nell’eloquio e soprattutto nell’animo. Il senso dell’affresco sta tutto qui. Nella contrapposizione tra nobiltà sociale e nobiltà d’animo; tra la rozza violenza del pagano e la nobile santità del cristiano. La resa linguistica del dialogo è funzionale a questa contrapposizione. Il santo parla in latino, cioè nella lingua nobile. Il pagano, anche se è un ricco patrizio, parla invece nella lingua del popolo: il volgare.  Quell’espressione scurrile (fili dele pute) viene messa in bocca a Sisinnio proprio perché il suo volgare suoni più volgare che mai» (Il museo della lingua italiana, 2018).

 

Valeria Arnaldi sottolinea un altro aspetto: «Il potente insulta i suoi servitori affinché gli obbediscano. Nell’insulto del “padrone” e nella reazione dei tre uomini che non replicano, ma anzi obbediscono, a essere raccontato – e al contempo, soffocato – è un conflitto sociale. La parolaccia è espressione di potere, ricchezza […] Il silenzio è la “prigione” del servo». E ancora: «Sisinnio vuole insultare i suoi servitori, ma non lo fa direttamente […]. Il vero insulto, dunque è per le madri. La donna è al centro di numerosi insulti. Indagare le parolacce significa dunque studiare i cambiamenti di “sguardo” della società su sé stessa e le sue discriminazioni, non del tutto superate».

Il capitolo Parolacce: femminile e plurale esplora la questione dell’insulto di genere, così come la creazione e la diffusione di alcuni termini o espressioni che, a seconda del contesto, possono diventare, da offensivi, addirittura bonari o neutri. E non mancano gli esempi, da Giuseppe Gioacchino Belli a Fantozzi, dagli Stadio a Marco Masini.

La strada che percorre l’autrice è lunga e articolata, perché la parolaccia è «”sociale”, perché ci permette di comunicare», diventa «uno scudo a tutela del nostro spazio», e riesce ad essere «liberatoria, catartica, “leggera”, quando la diciamo. Maestosa e pesante, quando la ascoltiamo». È «scritta sui muri», «nei pensieri che non osiamo confessare», «è il salvavita di molte situazioni», «è lì quando le parole non sono più sufficienti», «quando ci facciamo male» o «quando qualcuno ci ferisce, tradisce, delude […] perfino quando siamo felici».

Nel libro sono raccolti anche esempi d’autore (Dante, Boccaccio, Rustico Filippi o Pietro Aretino fino a Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera). Sono spiegati e contestualizzati gli insulti che riguardano la sfera sessuale e gli escrementi. Nel capitolo Ma va’… si spiega come nelle imprecazioni che esortano al movimento «il primo intento è di ottenere l’allontanamento della persona, insultandola ovviamente. Chiarita la volontà di mettere distanza, ecco, allora, sì, si passa all’analisi della “meta” auspicata» che sia all’inferno o a quel paese, nel migliore dei casi.

 

Esiste però un limite per manifestare il proprio stato d’animo o attaccare gli altri senza peli sulla lingua e non si tratta solo di una demarcazione imposta dal galateo delle parole. Le motivazioni di alcune sentenze (Marisa Marraffino, “Pinocchio”, “lecca piedi”, “buffone”: ecco quando l’offesa diventa diffamazione, ilsole24ore.com) ci mostrano quando la legge sanziona l’eccesso e quando no: «Vi sono parolacce che attaccano la dignità e l'autostima di un’altra persona e queste costituiscono insulti. Altre parolacce, invece, sono usate per esprimere emozioni forti: rientrano in questa categoria le imprecazioni ma anche i modi di dire. In questo caso le parolacce hanno una funzione catartica: servono come enfasi e valvola di sfogo. È evidente quindi la natura di sfogo dell'espressione “che gran coglione”, che non ha alcuna valenza di disprezzo della persona e del professionista. Lo ha affermato il Tribunale di Roma (sentenza 33269 del 7 novembre 2011)».

 

Questa parola leggera e pesante al tempo stesso, in grado di vincere il tempo e le barriere sociali, di raccontare chi siamo e chi siamo stati, è davvero così ribelle, fantasiosa e spontanea? Soprattutto oggi, quando la parolaccia è presente sempre, comunque e dappertutto, siamo sicuri che riesca a rendere colorito il discorso piuttosto che farlo sprofondare nel grigiore piatto e scuro? 

«Se Manzoni, del suo buon curato avesse detto “cacasotto” non avrebbe creato un personaggio dell’umanità. La parolaccia avrebbe fatto sparire don Abbondio come tipo letterario, lo avrebbe spazzato via con tutto il suo sistema di relazioni, interiori ed esteriori. Non c’è insomma l’invettiva nella descrizione del Manzoni, non c’è l’insulto ambiguo e complice. Don Abbondio non è “stronzo”. Manzoni lo inchioda alle parole e non alle parolacce, non agli umori ma ai concetti che lo rendono ricchissimo: una fabbrica di comportamenti. Ma non gli danno scampo. “Non era nato con un cuor di leone” è la famosa litote che, opposto retorico della parolaccia instabile, è una figura rigorosa dell’ars dicendi, della scienza utilizzata da un maestro della lingua. Nella litote c’è l’intero vocabolario, studiato ed usato nelle forme più appropriate. La parolaccia, pur ammiccando al suo contrario, è invece poverissima di significato» Francesco Merlo, Parolaccia. L’ambiguo lessico dell’Italia del turpiloquio, «R2. Diario di Repubblica, 26 novembre 2009».

 

 

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Le mute infernali. Dante e le donne

AA. VV.

Le mute infernali. Dante e le donne

a cura di Debora de Fazio e Maria Antonietta Epifani

Nardò (LE), Besa Muci editore, 2021

 

Nell’opera di Dante, la parola donna è molto frequente. In particolar modo, nella Commedia, il termine ricorre 94 volte, in un crescendo numerico: 10 nell’Inferno, 37 nel Purgatorio e 47 nel Paradiso.

«In Dante, come nell'italiano del Trecento, oltre all'area semantica del latino domina, la parola tende ad assorbire quella contigua di femina e mulier, abbassando il termine ‘femmina’ a significato spregiativo. L'evoluzione, che ha il suo punto di avvio nel lessico poetico, probabilmente nella sostituzione di ‘donna’ per ‘femmina’ in sede di vocativo, è già compiuta nel linguaggio poetico del Petrarca e nella Commedia, mentre nelle opere minori di Dante, e soprattutto nel Boccaccio, la distinzione dugentesca ‘donna’ / ‘femmina’ è ancora viva (Bonfante)». (Donna, voce di Carlo Delcorno - Enciclopedia Dantesca (1970); Treccani.it).

 

Dal significante al significato, nella Commedia, le figure femminili non sono invece molto presenti, come evidenziano Debora de Fazio e Maria Antonietta Epifani, curatrici del volume Le mute infernali. Dante e le donne. «Secondo Delmay, su un totale di 364 personaggi riconoscibili, soltanto una quarantina sono donne». E ancora: «Se scendiamo a verificare a quante di esse venga “concesso” di parlare, il numero scende drasticamente. Sono soltanto cinque: Francesca da Rimini nell’Inferno, Pia de’ Tolomei e Sapìa nel Purgatorio, Piccarda Donati e Cunizza da Romano nel Paradiso (escludendo, per ovvi motivi di status, Beatrice».

L’amore nella Commedia è ovunque: sensuale e divino, si esprime in un percorso che avanza dal basso verso l’alto, dalla carnalità dei sensi alla spiritualità dell’anima. Ed è molto legato alle presenze femminili che, in alcuni casi, il Poeta trasforma in simboli e metafore. Nei confini dell’Inferno, tradimenti, incesti, incontenibili passioni sensuali si intrecciano, per esempio, con Francesca da Polenta, Mirra, Taide o Semiramide.

Nella Commedia, emerge tuttavia un panorama femminile caratterizzato dall’assenza di parole: donne prive di voce e di spazio per esprimere sé stesse e il loro pensiero così come le motivazioni intime delle colpe di cui si sono macchiate.

 

È da questa prospettiva («Un omaggio al grande trecentista attraverso la rilettura delle storie dei suoi personaggi lumeggiate da punti vista volutamente diversi, in alcuni casi antitetici») che Debora de Fazio e Maria Antonietta Epifani hanno scelto alcune figure femminili presenti nell’Inferno e le hanno affidate alla sensibilità e alla narrazione di alcune scrittrici, tutte di origine pugliese, con percorsi formativi non uniformi tra loro: giornaliste, musiciste, docenti, fotografe e molto altro. Si crea un ponte lungo circa sette secoli che giunge sino a noi e ci restituisce, oltre alle parole, una visione umana e attuale di personaggi più o meno noti, presenti in una parte dell’opera dantesca.

 

Il volume segue l’ordine di apparizione dei personaggi dell’Inferno.

 

Le tre Fiere (compreso il leone, un maschio, in via del tutto eccezionale), Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena di Troia, le tre Furie, Medusa, le Arpie, Isifile, Medea, Taide, Manto, Penelope, Circe, Mirra, Ecuba e la moglie di Putifarre parlano attraverso la penna di: Olga Sarcinella (Le tre fiere. Processo a Dante); Lucrezia Argentiero (Semiramide. Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?); Wilma Tagliaferri (Didone. Eccomi. Fiera di essere Didone); Anna Maria Mazzotta (Cleopatràs. Fu solo il morso di un serpente?); Grazia Carrozzo (Elena. Masseria amarcord); DomeNica Convertino (Tre furie. Un viaggio nel tempo); Loredana Legrottaglie (Medusa. Le scoperte più grandi si fanno attraverso lo sguardo); Delfina Todisco (Le Arpie. Le tre cagnette a cui aveva sottratto l’osso); Fabiana Grassi (Isifile. Un’eroina in tre puntate); Santa Fizzarotti Selvaggi (Medea. Tu non mi fai parlare… tu non mi fai esistere); Maria Antonietta Epifani e Debora de Fazio (Taide. Voci da un’autopsia); Beatrice Stasi (Manto. Parlando e lacrimando); Maria Corvino Forleo (Penelope. Tessere le parole); Beatrice Perrone (Circe. L’ultimo canto di Circe); Sonia Gioia (Mirra. Chiamatemi Mirra); Carmen Taurino (Ecuba. Era bello essere una regina); Pamela Spinelli (La moglie di Putifarre. Niente è come sembra, niente è come appare).

 

Dall’incontro con le autrici emergono figure in alcuni casi totalmente rivisitate, talvolta decostruite o interpretate, traghettate nel presente e dal presente ridisegnate con contorni che le trasformano in voci moderne e spesso dialoganti con l’attualità.

La rilettura dei personaggi è sempre molto intima e personale e, in molti casi, rispecchia il percorso formativo dell’autrice (brevi note biografiche sono presenti alla fine del volume). In una nota al testo, che conclude ciascun saggio, sono citate fonti, ispirazioni e bibliografie essenziali.

 

 

 

 

 

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Storie di parole nuove. Neologia e neologismi nell’Italia che cambia

 

Ugo Cardinale

Storie di parole nuove. Neologia e neologismi nell’Italia che cambia

Bologna, Il Mulino, 2021

 

Che cosa ci dicono i neologismi dell’italiano e dei suoi parlanti? Molto. Per esempio, ci danno informazioni preziose sullo stato di salute della nostra lingua, su quanto siamo legati alla tradizione o su quanto invece siamo aperti alle novità.

Ugo Cardinale con Storie di parole nuove. Neologia e neologismi nell’Italia che cambia ci offre anche una prospettiva storica dalla quale osservare l’Italia e l’italiano alle prese con un lessico in trasformazione, nel periodo che va dagli anni Sessanta del secolo scorso fino ai nostri giorni. Espressione del cambiamento degli ultimi sessant’anni, le nuove formazioni sono anche spunti, suggerimenti e nuove angolature per capire come eravamo, come siamo e, probabilmente, anche come saremo.

 

L’autore che, tra le altre cose, ha insegnato Linguistica generale all’Università di Trieste e Linguaggio giornalistico all’Università LUMSA di Roma, dopo la Prefazione di Luciano Canfora, illustra la lunga gestazione del volume e racconta quali sono stati gli spunti recenti che lo hanno portato a concludere un progetto che affonda le radici negli anni Settanta.

 

Il risultato è brillante: un testo originale, scorrevole e di piacevole lettura, in cui le parole e le espressioni analizzate e raccontate sono contestualizzate e proposte alla luce di due dimensioni complementari: quella storiografica e quella lessicografica. La struttura del libro non è sviluppata nella forma classica del repertorio in ordine alfabetico, anche se, in appendice, è messo a disposizione del lettore un utile elenco delle forme. La recente storia italiana è suddivisa «in frames (cornici) in cui inquadrare i neologismi più significativi che l’avevano attraversata: quelli che hanno prodotto sviluppi successivi ma anche neologismi effimeri, che rimarranno però tutti come parole degne di memoria».

Sono tante le storie della nostra lingua (non una sola, come suggerisce il titolo), descrizioni e percorsi che si intrecciano senza alcuna pretesa di «offrire la narrazione più veritiera, ma una narrazione possibile, con la sola intenzione di non perdere la memoria dei contesti in cui le parole sono nate, si sono diffuse e a volte si sono estinte».

 

Ma che cos’è un neologismo? Come nasce e prospera? Perché talvolta sparisce senza lasciare traccia? E poi, per quale motivo alcune parole di nuovo conio hanno fortuna e altre no? E ancora, chi decide sulla sorte delle parole? Esistono «autorità regolatrici»?

 

«La diffusione e la sopravvivenza di un neologismo non sono prevedibili a priori. Chi decreta la sua fortuna o la sua comparsa effimera è la comunità dei parlanti, ma la maggior parte dei meccanismi di formazione delle parole nuove sono riconducibili a regole ben precise».

Con l’intento di fornire al lettore gli strumenti essenziali per comprendere di che cosa si sta parlando, i primi capitoli di Storie di parole nuove sono dedicati ad illustrare alcune nozioni su teoria e principi della neologia, in un modo semplice e accessibile.

 

Anche per fugare le paure di alcuni parlanti che temono il nuovo e il diverso, l’autore spiega come avvengono le mutazioni e chiarisce che la lingua, nonostante tutto, tende a mantenersi stabile.   

 

«Nella tradizione italiana ha avuto un grande peso il purismo, cioè il riferimento al modello autorevole e indiscusso di autori classici e la considerazione della loro lingua come perfezione insuperabile. Ciò ha prodotto a lungo il rifiuto del nuovo, fosse esso forestierismo o conio di un termine in precedenza inesistente. Ma nessuna lingua, che non sia morta, appare imbalsamata come vorrebbero i puristi: le lingue vive si modificano seguendo il corso del tempo, adattandosi alle circostanze e ai bisogni nuovi».

 

Adottare nuove parole non è un atto che di per sé tende a impoverire la nostra lingua: può arricchirla, renderla viva, forte e permeabile alla bellezza (talvolta purtroppo anche alla bruttezza): se un sistema linguistico riesce ad accogliere, anche in modo selettivo, può maturare, prosperare e proiettarsi verso il futuro.

Diverso il caso di quei prestiti che nulla aggiungono e solo tolgono, insomma, sono inutili, improduttivi e dannosi, come, per esempio, sold out, step o mission. Le parole italiane utilizzabili ci sono (‘tutto esaurito’, ‘tappa’, ‘compito’ o ‘missione’), sono alla portata di tutti e sono più chiare e precise.

Dalla necessità di monitorare neologismi e forestierismi è attivo dal 2015, presso l’Accademia della Crusca, un gruppo di esperti (Michele Cortelazzo, Paolo D'Achille, Valeria Della Valle, Jean Luc Egger, Claudio Giovanardi, Claudio Marazzini, Alessio Petralli, Remigio Ratti, Luca Serianni, Annamaria Testa), che «ha il compito di esprimere un parere sui forestierismi di nuovo arrivo impiegati nel campo della vita civile e sociale […]; respinge ogni autoritarismo linguistico, ma, attraverso la riflessione e lo sviluppo di una migliore coscienza linguistica e civile, vuole suggerire alternative agli operatori della comunicazione e ai politici, con le relative ricadute sulla lingua d’uso comune» (La nascita del gruppo Incipit, osservatorio sui neologismi e forestierismi incipienti).

 

Come si parlava sessant’anni fa? E durante i folli anni Settanta? Quanto furono produttivi da un punto linguistico i banali anni Ottanta? Quali sono le parole dell’attualità e che cosa nascondono?

Dal fattore k ai sanguinosi anni di piombo, dal craxismo al berlusconismo, dal ripescaggio all’espressione fare il cucchiaio, passando per rottamatore: sono tante le tessere di un puzzle che arriva fino al presente, a COVID-19 (con la sua narrazione) e ai costruttori, metafora usata dal presidente Mattarella nel discorso di fine anno (2020) nonché «meteora linguistica».

 

Pagine che ci guidano magistralmente alla scoperta (per giovani non ancora nati in quell’epoca) o alla riscoperta (per chi invece quegli anni li ha vissuti) di un pezzo importante della nostra storia recente e che ci permettono un’esplorazione più approfondita, attraverso una serie di parole che diventano testimonianza e, al tempo stesso, segno del cambiamento.

 

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Ilide Carmignani: «Dal disincontro con la traduzione all’incontro con Sepúlveda»

 

Ilide Carmignani non ha bisogno di presentazioni: ha tradotto autori come Jorge Luis Borges, Luis Cernuda, Julio Cortázar, Gabriel García Márquez, Roberto Bolaño e Luis Sepúlveda. Ha vinto premi prestigiosi e da sempre è impegnata a raccontare il mestiere e l’importanza del traduttore.

A Lucho, scomparso nell’aprile del 2020, di cui ha tradotto 25 libri, oltre a un gran numero di racconti, favole, poesie, saggi, articoli e sceneggiature, Ilide Carmignani era legata non solo da un sodalizio letterario ma da un’amicizia durata 28 anni. Con la sua prima opera narrativa, lo splendido romanzo Storia di Luis Sepúlveda e del suo gatto Zorba, ha voluto raccontare a «ragazzi dagli 8 agli 88 anni» la biografia in forma di favola dell’uomo dalle mille vite, poetico omaggio a un compagno di viaggio che se ne è andato troppo presto.

 

Parliamo del suo incontro con la traduzione. E con il castigliano.

Il primo incontro con la traduzione è avvenuto, come per molti altri, al liceo, con le versioni di latino e greco, ma forse è stato più un disincontro. La traduzione vera l’ho conosciuta a ventitré anni, appena laureata, quando ho affrontato con grande audacia Ocnos, una raccolta di poemi in prosa di Luis Cernuda. Un professore voleva pubblicare un volumetto ma preferiva non occuparsi della traduzione. «Ti affido anche le note che fanno titolo nei concorsi» mi disse per ricompensarmi e mi sembrò il mondo alla rovescia: dovevo dar voce in italiano a un grandissimo poeta e l’unico lavoro degno sembrava quello di inserire qualche glossa a piè di pagina. Comunque passai un’estate bellissima a tradurre quel libro, così bella che in seguito, mentre frequentavo un Ph.D. alla Brown University, chiesi uno Special Course a un grande traduttore, oltre che studioso, e cioè Alan Trueblood, e al mio rientro in Italia presentai alcune proposte di traduzione a case editrici di Milano. Da allora non ho più smesso di tradurre.

Potrei dire che ho scelto lo spagnolo perché ha non una ma tante bellissime letterature (peninsulare, messicana, argentina, cilena, peruviana, uruguaiana, colombiana…), perché è una lingua con una grande tradizione culturale (pensiamo al barocco) e al tempo stesso è una lingua vitalissima parlata da cinquecento milioni di persone. Sullo spagnolo non tramonta mai il sole: Europa, Africa, Asia, America; si parla spagnolo perfino in Oceania, sull’Isola di Pasqua. E non solo è una lingua molto diffusa, è anche una lingua ricchissima che attinge ai substrati e ai superstrati più diversi, dall’azteco al mapuche, dal dialetto padovano all’inglese dei gringos. Basterebbero queste ragioni a giustificare la mia preferenza, eppure a volte temo di aver scelto lo spagnolo per un altro motivo, ben più strano. In quarta elementare la maestra mi fece fare una ricerca sulla Spagna e m’innamorai perdutamente dei vestiti delle ballerine di flamenco con le loro gale, gli strascichi, le mantiglie, io che allora ero un maschiaccio coi capelli cortissimi e le magliette da rugby che mi passavano i miei cugini californiani, e a nulla è valso avere, appunto, mezza famiglia negli Stati Uniti, o studiare tedesco a Heidelberg e a Magdeburg; lo spagnolo aveva la metà che mi mancava.

 

Per anni, lei ha prestato la sua voce a Sepúlveda davanti alle lettrici e ai lettori italiani - non un pubblico qualsiasi, visto che i libri dello scrittore cileno uscivano prima in italiano che in spagnolo. Lucho la definì «non traditrice ma compañera de camino», un grande onore e al tempo stesso un’enorme responsabilità. Come ha vissuto questo ruolo e, più in generale, secondo lei, quanto incide nella qualità della traduzione la conoscenza personale dell’autore?

Il mio ruolo l’ho vissuto proprio così, come un privilegio che comportava anche una grande responsabilità. Sapevo che i lettori non avrebbero letto questa o quell’opera di Lucho, ma la mia lettura di questa o quell’opera di Lucho. E più traducevo più mi preoccupavo, perché con l’esperienza capivo meglio quanto sfugge o può sfuggire a una traduzione. Certo, seguire un autore nel tempo ti permette di raggiungere un’intimità linguistico-letteraria fuori del comune e di offrire una coerenza interna, nel macrotesto, altrimenti impossibile. Inoltre, con Sepúlveda, ho avuto esperienza anche dell’avantesto, traducendo per così dire in progress stesure non definitive, il che è sempre molto interessante e utile perché consente, attraverso le varianti, di osservare in diretta in quale direzione vanno quell’opera in particolare e lo scrittore in generale. Il rapporto personale, infine, mi ha permesso di conoscere aspetti dell’autore che di solito restano nell’ombra, per esempio la lingua istintiva, spontanea, del parlato, e addirittura di attingere un po’ al vissuto. Claudio Magris in un’intervista de Gli autori invisibili, scrive che è questo l’ideale utopico di ogni traduzione: «Per tradurre un colore che cala una sera su un’ansa di un fiume, bisognerebbe in qualche modo sapere cosa è stato quel vissuto, in quella sera».

 

Dopo così tanta esperienza, in modo particolare con il medesimo autore, si emoziona ancora quando riceve un nuovo testo da tradurre, lo aspetta?

Certo, un testo vuol dire mesi di lavoro, vuol dire passare ore e ore in compagnia di quella voce, di quelle storie. Un testo cambia il colore delle tue giornate. Ricordo perfettamente l’atmosfera particolarissima, un po’ ossessiva, che mi avvolgeva mentre traducevo 2666 di Roberto Bolaño, un romanzo meraviglioso formato da cinque romanzi che ha fatto invecchiare di colpo buona parte della letteratura contemporanea. Durante la Parte dei delitti dovevo spalancare ogni tanto la finestra e respirare a fondo, perché mi si accorciava sempre più il respiro, tutti quei femminicidi mi toglievano l’aria. Quando ho finito il libro, ne ho avuto a lungo nostalgia e a volte, tutt’ora, nei momenti più strani, certe scene mi si spalancano davanti all'improvviso, come se invece di essere io a contenere il romanzo fosse lui a contenere me.

 

Con il suo romanzo, lei crea un ponte non più tra la lingua dello scrittore e quella dei lettori, ma tra sé stessa, autrice - con il suo stile, le sue scelte linguistiche, la sua cifra, insomma, i suoi ricordi personali, i suoi sentimenti, - e l’incredibile figura di Luis Sepúlveda, che si trasforma in un personaggio del libro. Che cosa ha significato per lei diventare autrice visibile? E, oltre alla sua esperienza diretta, da quali fonti ha attinto per raccontarci questa storia?

Della scrittura mi ha colpito l’infinita libertà e insieme la solitudine. Si parla sempre di solitudine del traduttore e invece a me è sembrata ben più grande quella dello scrittore. Comunque, la Storia di Luis Sepúlveda e del suo gatto Zorba per me in realtà è stata un modo per continuare a dar voce a Lucho e per rendergli omaggio. Forse anche per elaborare un po’ il lutto. Sepúlveda aveva avuto una vita straordinaria, anzi sette vite come i gatti, ma non aveva mai trovato il tempo di scrivere la propria autobiografia, preferiva dar voce a chi non ha voce, agli abitanti emarginati dei suoi mondi emarginati, come diceva lui. E invece la sua vita era un romanzo: guerrigliero in Bolivia, leader studentesco nel Sessantotto cileno, guardia del corpo di Allende, prigioniero politico nelle carceri di Pinochet, alfabetizzatore nei villaggi andini dell’Ecuador, sandinista in Nicaragua, compagno degli shuar in Amazzonia, esule ad Amburgo, attivista sui gommoni di Greenpeace, inviato di guerra in Angola... Così gliel’ho fatta scrivere io la sua autobiografia, con la sua voce, i suoi aneddoti, la sua passione, il suo senso dell’umorismo. Il materiale arriva da tutto quello che ho tradotto, cioè da tutto quello che ha scritto in quasi trent’anni, dalle sue conferenze e presentazioni, e poi dalle nostre chiacchierate a casa mia, a casa sua e in giro per tutta l’Italia. Carmen Yáñez, sua compagna per cinquant’anni, mi ha regalato foto di famiglia, ricordi, una bellissima poesia per aprire il libro e una postfazione affettuosa sul rapporto di Lucho con la natura, perché ha detto che la Storia di Luis Sepúlveda era «un gesto di giustizia poetica».

 

Parallelamente all’attività di traduttrice letteraria, lei si è sempre spesa per far uscire dall’ombra i traduttori. Per esempio, con AutoreInvisibile, l’incontro annuale che lei cura al Salone del libro di Torino (quest’anno anche con il convegno Dall’italiano al mondo, dedicato ai traduttori stranieri che danno voce alla letteratura italiana all’estero). Nella raccolta di interviste Gli autori invisibili. Incontri sulla traduzione letteraria (BesaMuci, 2020; prefazione di Ernesto Ferrero), lei sottolinea che «l’invisibilità ideale a cui il traduttore tende nel lavoro traboccava fuori dalla pagina, copriva volti e storie, cancellava un grande patrimonio di esperienze, vitale per chiunque abbia a cuore lo scrivere e il leggere». Con questo speciale viaggio nel mondo della traduzione, lei dà la parola a tanti uomini e donne che finalmente escono allo scoperto e si tolgono la maschera, illuminando sé stessi e il proprio mestiere. Crede che oggi, anche grazie al suo impegno, si sia compreso meglio che, senza i traduttori, chi non conosce le lingue, rimane chiuso nel cortile di casa? O la strada da fare è ancora lunga?

Ha ragione: non per merito mio ma negli ultimi vent’anni l’immagine di questo mestiere è un po’ mutata. Il fatto che i traduttori abbiano preso la parola al Salone del libro di Torino e alle Giornate della traduzione letteraria e pian piano altrove ha innescato un cambiamento, anche perché spesso hanno dato prova di saper leggere un testo più a fondo degli altri, come diceva Calvino. La strada da fare, però, è ancora lunga. Dovremmo essere messi in condizione di lavorare meglio, per il bene di tutti: degli scrittori che traduciamo, del dialogo interculturale e della stessa lingua italiana. Basterebbe seguire l’esempio della Francia.

 

«Le parole sotto le parole, scriveva un maestro della linguistica come Jean Starobinski, riferendosi agli anagrammi di un altro grande, Ferdinand de Saussure. Ogni parola ne copre, ne nasconde e ne contiene un’altra e quando la si usa è come smuovere il terriccio, evocarne e farne apparire altre, come oggetti sepolti nella terra o nella memoria, individuale e collettiva. Ogni espressione ha a che fare con questa miniera nascosta; più di ogni altro la traduzione, che per ogni espressione ne ha ben più di una a scelta, una cava stratificata nella mente dell’autore che si traduce e nelle civiltà che si incrociano in lui. Tradurre significa non tanto comunicare quanto ricreare una vicenda, un destino, facendoli restare se stessi ma insieme diventare altri. Tradurre è una forma di scrittura, non meno creativa di altre cosiddette originali» (Claudio Magris, Traduttore, creatore infinito. Ogni libro ne nasconde un altro, corriere.it, 10 settembre 2020). Ci sono tante immagini, più o meno felici, alle quali si ricorre per descrivere l’operazione e l’attività del tradurre. Ce n’è una che le piace in particolare?

Sì, quella a cui ho fatto ricorso in appendice alla Storia di Luis Sepúlveda: «Una vecchia metafora sostiene che tradurre è come mettere i piedi nelle orme dell’altro, ed è grande lo sforzo per misurare esattamente il passo, perché sia di quella certa lunghezza, ora così pesante ora così leggero sulla sua terra latinoamericana. A volte manca il terreno sotto i piedi: quella prateria è fatta di erbe che non hanno nome in italiano e quell’estate accecante splende durante il nostro inverno. A volte lo smarrimento è più sottile: perché lo scrittore ha preso quel passo, perché si è avviato proprio su quel sentiero fra tutte le strade che poteva battere nella sua lingua, nella sua letteratura? L’inseguimento si fa più complicato, non basta studiare il paesaggio, c’è bisogno di ascolto. Allora, nel silenzio, risuona piano la voce di un assente, che racconta di altri e di sé e, come sempre accade, racconta di sé anche raccontando di altri». E qua torniamo a quello che scriveva Magris sul vissuto.

 

Per quanto riguarda la scoperta della lingua, qual è la soddisfazione più grande che le ha regalato il suo lavoro?

Siamo fatti di parole. Le nostre e quelle dell’Altro. Le cose acquistano esistenza e senso solo quando vengono nominate. Pensiamo agli intraducibili, a come allargano gli orizzonti della nostra esperienza umana. Passare le proprie giornate immersi in un fiume di parole nostre e altrui, come fa il traduttore, è una gran gioia.

 

Nel suo romanzo, Lucho dice: «Mi sono sempre piaciute le lingue, ne parlo più o meno bene diverse […] e adoro lo spagnolo. Forse per la mia nascita avventurosa o per la vita errabonda che ho fatto, ho sempre avuto la sensazione di non appartenere a un posto, ma a tanti, e di avere un’unica, amatissima patria: la mia lingua». Mi sembra una visione potente oltreché molto bella. Dovrebbe essere uno spunto di riflessione per tutti.

È vero. Non è un caso che la lingua in cui ciascuno di noi nasce venga definita madre: ci genera e ci definisce; le apparterremo sempre e ovunque. Aver cura della nostra lingua madre significa aver cura della nostra identità, davanti per esempio all’invasione dell’inglese. E qua si torna alla traduzione che è un modo per dialogare con l’Altro senza perdere se stessi, insomma è l’opposto della globalizzazione.

 

 

Immagine: Luis Sepúlveda e Ilide Carmignani, fotografia di Daniel Mordzinski, trattata artisticamente da Andrea drBestia Cavallini, che ha seguìto le illustrazioni del romanzo Storia di Luis Sepúlveda e del suo gatto Zorba di Ilide Carmignani, edito dall'editore Salani (che si ringrazia per la concessione amichevole dell’illustrazione come immagine di copertina).

 

 

Le interviste di Con altri occhi già pubblicate:

 

Maria Nicola: «Tradurre? È un po' come recitare»

 

Pierpaolo Marchetti: «Tradurre non è tradire»

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Pierpaolo Marchetti: «Tradurre non è tradire»

Pierpaolo Marchetti, giornalista sportivo e traduttore letterario, è nato a Pescara nel 1962.

Con lui abbiamo parlato delle sue scelte stilistiche, di quanto sia importante dialogare con gli autori, di grandi scrittori latinoamericani, di sport e letteratura e altro ancora.

 

Ci può raccontare il suo incontro con la lingua castigliana? Un colpo di fulmine o un progressivo innamoramento?

Un progressivo innamoramento. Tutto nasce dal mio lavoro di giornalista sportivo. Nel 1990. «Il Messaggero» mi inviò a seguire i Mondiali di Italia di quell’anno. Per due mesi mi occupai di Spagna e Uruguay, con decine di colleghi che parlavano solo spagnolo. Alla fine, parlavo un discreto castigliano, che decisi di migliorare leggendo e traducendo libri senza alcuna velleità di pubblicarli. Poi le cose sono andate diversamente.

 

Quanto ritiene utile conoscere personalmente le autrici o gli autori che traduce?

Utilissimo. Quando è possibile cerco sempre di confrontarmi con loro. Per discutere passaggi critici, per capire qualcosa che mi sfugge e per scambiare idee su possibili soluzioni. Sono nati anche rapporti che mi hanno arricchito sul piano umano. Tranne in un’occasione, quado ebbi forti contrasti con un autore che si diceva insoddisfatto del mio lavoro. Comunque, purtroppo o per fortuna, quel romanzo finì per vincere un importante premio letterario.

 

Un’opera della letteratura spagnola o ispanomericana che secondo lei tutti dovrebbero leggere e perché.

Più che un titolo, indicherei alcuni autori. Tra gli spagnoli, un classico come Miguel Delibes. Tra i latinoamericani, Alejo Carpentier per la ricchezza e la sontuosità del linguaggio, Gabriel García Márquez perché era un immenso raccontatore di storie e le sue parole erano musica. Cent’anni di solitudine va letto ad alta voce, perché riproduce anche le sonorità di quel mondo nuovo che era Macondo. Per l’asciuttezza della prosa, consiglierei invece di leggere Juan Rulfo. Poi ci sono gli scrittori che ho amato io, ma qui entriamo nel campo della sensibilità individuale: Osvaldo Soriano per la capacità di mescolare ironia, disincanto e malinconia nei suoi personaggi; Eduardo Galeano perché nei suoi capitoli di poche righe c’è dentro un mondo. La sua trilogia Memoria del Fuoco mi ha spalancato le porte dell’America Latina.

 

Renata Colorni, traduttrice di Schnitzler, Freud e Joseph Roth, solo per citarne alcuni, sostiene: «Ci sono dei casi, per esempio Thomas Bernhard, in cui è necessario allontanarsi dalla lettera del testo, in qualche modo “tradirla”, per realizzare una fedeltà più ampia, la fedeltà al suo spirito» (Roberta Scorranese, Renata Colorni: “Ho tradotto Freud e Mann. Mio “padre” Altiero Spinelli mi ha insegnato a essere rigorosa”, Corriere.it, 6 febbraio 2021).  C’è qualcosa che lei ha deciso di non tradire mai, a priori, come i nomi dei personaggi, la punteggiatura originale o un registro linguistico?

Condivido le parole di Renata Colorni. Parlando di ciò che non si può tradire, insieme allo spirito dell’opera, metto al primo posto lo stile, che a mio avviso include anche il registro linguistico. Oltre alla punteggiatura, la scelta dei termini. Non si può prescindere dal dire in una sola parola ciò che lo scrittore dice in una sola parola, dall’usare neologismi quando lui usa neologismi, vocaboli ordinari o desueti quando lui li usa. Questa è la fedeltà alla quale non si può derogare. E che deve essere tanto più rigorosa quanto più il testo è letterario e caratterizzato da uno stile riconoscibile.

 

Il dubbio come fattore chiave nella traduzione. In un breve scritto, noto come Lettera sul tradurre, Martin Lutero, alle prese con la Bibbia, racconta addirittura di aver indugiato per settimane intorno ad una sola parola. Come riesce a superare i suoi scogli e come fa a capire quando ha trovato il “giro giusto”?

Quando si incappa in un passaggio poco “amichevole” è di vitale importanza confrontarsi con l’autore, capire bene che cosa voleva esprimere e in che modo. Perché in effetti ci sono parole chiave intorno alle quali ruotano libri interi. Mi capita spesso di proporre soluzioni e di discuterle insieme fino a trovarne una condivisa. Se poi arriva l’illuminazione, tanto meglio.

 

Non le sarà sfuggita la controversia a proposito della traduzione di The Hill We Climb di Amanda Gorman. La sua declamazione, durante l’insediamento del presidente americano Joe Biden, ha suscitato unanime consenso. Divisioni e polemiche ha invece provocato l’individuazione del profilo perfetto di chi si sarebbe occupato della traduzione, come in Catalogna e in Olanda. E così, la versione di Víctor Obiols (poeta e musicista catalano, nato nel 1960) è stata rispedita al mittente, non senza imbarazzo da parte dell’editore Univers (del gruppo Enciclopèdia Catalana) che gli aveva affidato il testo della Gorman. Giustamente contrariato, Obiols ha dichiarato che si trattava di una questione delicata, niente affatto banale e la poneva in altri termini: «se non posso tradurre qualcuno perché è una donna, giovane, nera, un'americana del XXI secolo, non posso nemmeno tradurre Omero perché non sono un greco dell'VIII secolo a. C. né Shakespeare perché io non sono un inglese del XVI secolo».

(Más conflictos para traducir a la poeta Amanda Gorman: ahora vetan al traductor al catalán, Clarín.com, 10 marzo 2021).

Il dibattito è ampio, travalica la pura questione linguistica e letteraria, inserendosi in un solco politico e ideologico. Qual è la sua opinione al riguardo?

Non so se sia effettivo e quanto sia comune questo sconfinamento nella politica e nell’ideologia. Per mia fortuna non ho avuto esperienze del genere. Ma considero intollerabile ciò che è stato fatto a Obiols. Secondo questa logica perversa, magari non avrebbero consentito a Fernanda Pivano di tradurre Hemingway. Tanto per fare un esempio. Temo questo genere di deriva. Mi chiedo, scherzando ma non troppo, se il prossimo passo sarà creare un algoritmo che stabilisca chi può tradurre cosa.

 

Il castigliano ha un dominio geografico molto esteso, che raggiunge l’Africa e alcune zone dell’Asia e del Pacifico. È la lingua materna di circa 490 milioni di persone, concentrate in Spagna e in 19 Paesi dell’America Latina (El español: una lengua viva. Informe 2020, a cura dell’Instituto Cervantes). Questa grande estensione territoriale comporta una smisurata varietà linguistica. In America, lo spagnolo è in contatto con l’inglese, al Nord, e il portoghese, al Sud; con lingue native come il quechua, il guaraní o il nahuatl, senza considerare gerghi, registri e idioletti. Sul piano della traduzione, non è difficile immaginare che, rispetto al castigliano “peninsulare”, lo spagnolo d’America presenti problemi specifici.

Per la resa in italiano, secondo lei, si può ricorrere all’uso del «meticciato linguistico» dei nostri dialetti e delle varianti regionali? O si rischia di rendere la traduzione troppo distante dall’originale? Che tipo di lavoro fa per restituire al lettore italiano questo mosaico linguistico?

Questo è un problema complesso, che deriva appunto dal fatto che il castigliano è parlato in molti Paesi e che ognuno di questi ha una propria lingua viva, fatta di vocaboli che cambiano significato radicalmente a seconda della zona, espressioni gergali e uno slang che si modificano quasi quotidianamente. Per chi traduce, dunque, non sempre è facile, per esempio, caratterizzare un cubano, un argentino o un messicano e renderli immediatamente distinguibili. Diverso è il caso dell’italiano che, pur non essendo una realtà monolitica, ha un’area d’uso contenuta e un numero di parlanti di gran lunga inferiore allo spagnolo. Personalmente non amo usare i regionalismi dell’italiano per restituire le varietà linguistiche del castigliano, preferisco normalizzare, magari caratterizzando il personaggio con un intercalare che lo identifichi aldilà della provenienza geografica. Mi è capitato proprio recentemente, traducendo Simón, un bellissimo romanzo dello spagnolo Miqui Otero. Dopo un lungo confronto, abbiamo optato per questa soluzione.

 

Calcio e letteratura: un binomio felice in molti casi. Pensiamo per esempio a Mario Benedetti, Eduardo Galeano, Osvaldo Soriano, Manuel Vázquez Montalbán, Juan Villoro o Eduardo Sacheri. Lei scrive di sport per professione e traduce anche letteratura sportiva.

In Italia, per molti anni, sono stati quasi esclusivamente i giornalisti (come Arpino, Brera, Mura) ad avventurarsi a trattare lo sport nella letteratura. Come se gli intellettuali si vergognassero di dare dignità a un argomento considerato forse troppo popolare. Vázquez Montalbán ha dato in Spagna una lettura politica della sua passione per il Barça, definendo quella squadra «l’esercito disarmato della Catalogna» e il calcio come una religione laica delle masse. In America Latina quasi tutti i grandi scrittori si sono cimentati in questa impresa. La definisco “impresa” perché non è facile essere originali parlando di un argomento così discusso sviscerato. E soprattutto essere credibili perché tutti sono informatissimi in materia. Galeano, una sera, mi disse: «Perché scrivo di calcio? Perché è forse la più grande forma di arte popolare e smuove le passioni della gente in tutto il mondo. Mi sembra un motivo più che sufficiente».

 

Alcuni romanzi li ha tradotti con suo figlio Andrea, come L’età segreta di Eugenia Rico o, fresco di stampa, Debiti di sangue di Susana Rodríguez Lezaun, entrambi per la casa editrice Elliot. Che differenza c’è tra la traduzione individuale e quella a più mani?

Questo devo ancora scoprirlo. Mio figlio Andrea sta iniziando adesso e, per ora, lo lascio libero e mi limito a rivedere con lui il lavoro alla fine. Sarei già soddisfatto se riuscissi a trasmettergli anche solo una parte della mia passione.

 

Crediti immagine: Sandra Saenz, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, attraverso Wikimedia Commons

 

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Con altri occhi

La scrittrice spagnola Alicia Giménez Bartlett, nata ad Almansa (Albacete) nel 1951, è conosciuta in Italia soprattutto per aver creato il famoso personaggio letterario dell’ispettrice Petra Delicado.

Fuori dal solco delle vicissitudini della poliziotta di Barcellona, il romanzo Uomini nudi (Hombres desnudos), pubblicato in Italia dalla casa editrice Sellerio, ha vinto in Spagna il prestigioso Premio Planeta 2015.

 

Si tratta di un romanzo in cui la narrazione polifonica è costruita magistralmente sui dialoghi e i monologhi interiori dei personaggi. Donne e uomini nudi, Irene, Javier, Iván, Genoveva mostrano ciò che sono e ciò che vorrebbero essere; fragili ciascuno a suo modo, imprevedibili, come sono imponderabili i casi della vita che, presentandosi all’improvviso, impongono scelte dall’esito talvolta inimmaginabile.

 

Sullo sfondo di una pesante crisi economica e sociale, in un confronto amaro con la sottoccupazione - e con la disoccupazione in generale -, i personaggi si muovono come equilibristi sul baratro di paure nascoste, aspirazioni non confessate e fallimenti di ogni genere.

Ironia e senso dell’umorismo accentuano, per contrasto, il dramma che a poco a poco si compone e che svela la profondità dell’animo dei protagonisti del romanzo. Alcuni di essi hanno in apparenza meno paura di denudare il proprio corpo quanto di rivelare il desiderio incontenibile di essere amati o di mostrare la propria ansia di riscatto economico e sociale.

 

Uomini e donne che si muovono in ambienti a prima vista privi di punti di contatto, connessioni, come per esempio i foschi locali popolati da spogliarellisti e gigolò o i circoli esclusivi dell’alta borghesia imprenditrice. Tuttavia, la vita, com’è ovvio, non è fatta a compartimenti stagni.

 

Maria Nicola ha tradotto in italiano questo libro. Le rivolgiamo alcune domande.

 

Lei è la traduttrice italiana di Alicia Giménez Bartlett (che l’ha definita «fantastica»). Per la traduzione dei suoi libri, quanto le è stato d’aiuto conoscere l’autrice? E in che momento è avvenuto questo incontro?

Innanzitutto devo dire che il mio rapporto con i libri di Alicia Giménez nasce molti anni fa, intorno al 1999, quando si pensò con Angelo Morino, che era consulente della Casa editrice di Elvira Sellerio, di cominciare a tradurre questi libri polizieschi piuttosto originali, e decidemmo di partire strategicamente dal secondo libro della serie, Giorno da cani, che uscì nel 2000 e che io tradussi nell’estate del 1999. Si tratta quindi di una lunga storia, risalente a più di vent’anni fa. Allora non conoscevo l’autrice, e devo dire che a quei tempi i rapporti con gli autori erano piuttosto lenti e difficili. Mi pare che Alicia Giménez venne in Italia per la prima volta, e proprio a Torino,  tre anni dopo, in occasione del Salone del Libro, quando già aveva avuto successo il secondo libro suo pubblicato da Sellerio, Riti di morte, e stava uscendo il terzo. Ricordo che era il Salone del 2003, perché c’era anche Roberto Bolaño, che morì pochi mesi dopo, si andò a cena tutti insieme, con gli autori, i collaboratori della Sellerio e gli editori. Fu un’occasione di famiglia. Posso dire che tra noi ci fu subito una grande intesa, come capita spesso con gli autori che si traducono e di cui si è assorbito il linguaggio, in qualche modo il ritmo interiore.

 

Si confronta spesso con Alicia Giménez Bartlett? Nello specifico, ricorda qualche rilevante scambio linguistico su Uomini nudi?

Riguardo a questo libro no. Alicia Giménez fa una vita molto appartata, e se ci sentiamo è per conversare d’altro, delle nostre esperienze personali o delle nostre  letture, magari. Parlammo del libro dopo che era uscito, questo sì. Ero sorpresa del realismo che aveva ottenuto con il linguaggio dei giovani protagonisti, e chiesi se avesse fatto delle interviste con un registratore, e lei mi disse di no. Di non avere mai incontrato uno di quegli gigolò. Di avere solo parlato con alcune signore che avevano avuto esperienze con ragazzi di quel tipo. Evidentemente la sua sensibilità alla lingua parlata è notevolissima.

 

In questo romanzo si incontrano e si scontrano mondi assai differenti tra loro, espressi attraverso le voci di personaggi che riproducono le peculiarità di determinati ambienti sociali, culturali, lavorativi. Quale personaggio ha rappresentato per lei la sfida linguistica maggiore? E perché? Viceversa, sempre dal punto di vista della lingua, quale personaggio ha sentito meno ostico?

Non ricordo i nomi dei personaggi, ma posso dire che per i due giovani gigolò, specialmente per quello più addentro nell’ambiente, mi sono rifatta a un romanzo uscito a Torino quell’anno, un libro semi-autobiografico che poi l’editore dovette ritirare dal mercato perché l’autore, un comico trentenne piuttosto spregiudicato, vi aveva raccontato alcune buffe vicende di una sua ex fidanzata, usando nome e cognome. Il padre della ragazza era un avvocato e aveva sporto querela. Avevo bisogno di trovare un linguaggio di strada, o notturno, termini gergali ma non dialettali, diffusi in tutta Italia, parole e ritmi che nessuno che abbia più di quarant’anni o faccia una vita regolare userebbe. Quel particolare libro oggi scomparso mi aveva molto aiutata a trovare dei giri di frase e dei termini che facessero colore.

 

Il linguaggio di Iván è infarcito di parolacce, espressioni molto dirette e crude, un registro che risulta anche funzionale alla costruzione di un ambiente in forte contrasto con quello borghese e benpensante di Irene o Genoveva. Le è capitato di dover “attenuare” qualche passaggio?

Ecco, Iván. Il personaggio dal linguaggio «strano» si chiamava Iván. No, in questo particolare libro no, non era il caso di attenuare nulla. Anzi, era indispensabile mantenere lo stesso livello di turpiloquio, magari spostandolo su altri elementi di una frase. Mi spiego: dove in una lingua si può usare una parolaccia, non è detto lo si possa fare in italiano. Per mantenere lo stesso tasso di parolacce bisogna saperle metterle dove verrebbero naturali per noi, altrimenti si costruisce un turpiloquio finto che sa di traduzione.

Confesso che invece nei romanzi polizieschi di Petra Delicado ho spesso ammorbidito le espressioni, perché ci sono contesti nei quali in Italia la gente userebbe un linguaggio più sorvegliato. E a parte considerazioni di realismo, di aderenza agli usi effettivi delle persone, non sempre la pagina scritta ammette lo stesso intercalare del parlato. In qualche modo credo di sapere che cosa il lettore si aspetta di leggere e che cosa può trovare divertente, espressivo, o invece urtante e fuori luogo.

 

Per la traduzione della giovane poetessa afroamericana che ha declamato The Hill We Climb durante l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, l’esperto traduttore catalano Victor Obiols, 60 anni, è stato considerato in buona sostanza troppo bianco, troppo uomo e troppo avanti con gli anni per poter comprendere appieno, e quindi per poter interpretare, le parole di Amanda Gorman. Per lei è così? Bisogna essere molto simili alle autrici e agli autori per poterli tradurre?

Non credo. Credo però sia necessario sapersi «mettere nei panni» dell’autore o dell’autrice. In un certo senso si fa un lavoro di recitazione. Io questo lo sento molto. C’era un libro americano che parlava della traduzione come di una performing art1. Si tratta di una cosa in cui credo e che avverto come parte fondamentale del mio mestiere. A volte a noi traduttori capita di doverci immedesimare in autori e personaggi di cui non condividiamo le idee o il tono o la posizione nei confronti del mondo, ma dobbiamo saperlo fare ugualmente. A volte viene anche meglio, per quella distanza che secondo Diderot è paradossalmente necessaria all’attore.

 

Sempre a proposito di traduttori reputati inadatti a interpretare Amanda Gorman, in una recente intervista (Si traduce la lingua non il colore, a cura di Ilaria Zaffino, Repubblica.it, Robinson, 14 marzo 2021), Ginevra Bompiani rivendica la creatività della traduzione, usando un’immagine tanto efficace quanto suggestiva: «Ho sempre pensato che tradurre volesse dire rifare in macchina lo stesso percorso che l’autore ha fatto in barca. Si parte da Napoli e si arriva a Genova, però io sono in macchina. C’è poco da fare. Devo seguire una strada e devo fare delle cose che si fanno in macchina e che lui, invece, ha fatto molto più liberamente sull’acqua. La differenza è proprio quella, cambia il mezzo, dunque è tutto il percorso che deve essere rifatto con un altro mezzo. Per questo è un atto veramente creativo». Lei quanto si sente pilota di automobile?

Non lo so, guido l’automobile ma è una similitudine con la quale fatico a identificarmi. Semmai credo che l’autore decida il viaggio: cosa vedere, che strada fare, dove fermarsi, quanti chilometri fare, e il traduttore non possa cambiare percorso, decidere di fare un’altra strada o di dormire in un altro albergo. Deve seguire tutti i passi, cercare di vedere le stesse cose, che gli piacciano o no. Se gli piacciono è meglio, lavorerà con più gioia, ma se non gli piacciano non è detto che il suo lavoro fallisca.

 

C’è stato un momento preciso in cui ha deciso di diventare traduttrice, una sorta di colpo di fulmine? O la sua professione è frutto di un percorso più lungo?

L’ho deciso perché avevo un padre che era cresciuto all’interno di un’altra lingua, e sentivo il bisogno di imparare le altre lingue, di appropriarmene. Era una necessità profonda. E poi, nel periodo dell’indecisione giovanile sul cosa fare da grande, ho pensato che la cosa che mi veniva meglio, che acquietava certe mie ansie, era passare da una lingua all’altra, avere la certezza che qualunque cosa venisse detta in una lingua la si potesse ridire o riscrivere in un’altra. Non è sempre così vero, ma la ginnastica del farlo era un impegno che mi dava tranquillità.

 

Da dove nasce l’interesse per la lingua castigliana?

Da un lungo viaggio in Spagna fatto in treno a vent’anni.

 

Traducĕre, ‘portare oltre’: secondo lei, quanto ci si può allontanare dall’originale per non tradire il senso delle parole dell’autrice o dell’autore? Qual è il grado di libertà di chi traduce?

Credo sia necessario capire che tipo di lavoro sta facendo l’autore, che tipo di progetto ha in mente. E poi cercare di fare una cosa il più possibile analoga con la propria lingua. Per rimanere nell’ambito dei libri di Giménez Bartlett, se l’autrice, o un personaggio dell’autrice, dice una cosa che fa ridere, io devo girare la frase, o cambiarla o aggiungere o togliere delle cose finché non sono sicura che chiunque leggendola riderà. Pur dicendo sempre più o meno la stessa cosa, con la stessa intenzione e nello stesso contesto, ma agendo sulla scelta delle parole o sul loro ordine in modo che nel lettore scatti quello straniamento divertito che scatena il riso.
Se invece l’effetto ricercato è lirico, o inquietante, o sexy, ovviamente, le cautele e gli stratagemmi saranno altri.

 

1 Robert Wechsler, Performing Without a Stage: The Art of Translation, Catbird Press, North Haven, 1983.

 

 

Immagine: I Am

 

Crediti immagine: Mehmetgn, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, attraverso Wikimedia Commons

 

 

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Il dannato caso del Signor Emme

 

Massimo Roscia

Il dannato caso del Signor Emme

Roma, Exòrma Edizioni, 2020

 

Mai come in questo momento si percepisce nelle persone il desiderio di muoversi, di spostarsi, di percorrere distanze, brevi o lunghe che siano; mai come in questo momento, anche nel più stanziale degli esseri umani si manifesta un’urgente voglia di viaggiare, quindi di sapere.

Ciò a cui si poteva rinunciare senza troppo sacrificio diventa prepotentemente indifferibile: uscire di casa, camminare, correre, inforcare la bicicletta o la moto, montare in macchina, prendere un treno, salire su un aereo, salpare da un porto, varcare confini, superare barriere, conoscere.

Con un talento narrativo fuori dal comune, Massimo Roscia ha raccontato con Il dannato caso del Signor Emme un’avventura letteraria di cui avevamo bisogno. Ha saputo mantenere il lettore incollato alle pagine del libro, e allo stesso tempo lo ha fatto volare, sorridere, riflettere, talvolta commuovere, trasportandolo attraverso un itinerario geografico all’interno della vita di un importante quanto poco conosciuto intellettuale del Novecento.

Il signor Emme è Paolo Monelli. Studiando il Fondo a lui intitolato, composto da 347 scatole (dal 1868 al 1997) e conservato presso la Biblioteca statale “Antonio Baldini” di Roma, Massimo Roscia ha potuto immergersi nel corpus dei documenti, testimonianza unica delle complesse peripezie culturali di un caleidoscopico personaggio.

Di quest’uomo ci ha fatto toccare con mano l’amore smisurato per la lingua italiana, nella quale si muoveva con devozione, eleganza e maestria, e che, come un amante geloso, difese strenuamente da tutto ciò che, a suo avviso, ne intaccava la purezza e da tutti coloro che, secondo lui, la maltrattavano.

 

«Alcuni mi ammoniscono che la lingua è un organismo vivente, in continuo mutamento, ed è assurdo pretendere di arrestarne l’evoluzione. Grande scoperta. Aspiro forse io a scrivere come il Guerrazzi o il D’Annunzio? Ma è altrettanto assurdo confondere un naturale fenomeno di evoluzione con uno sbrigativo e avventato danno commesso senza motivo o necessità alcuna, per capriccio, snobismo di bassa lega o semplice ignoranza, per cui potremo trovarci fra mezzo secolo senza più una lingua italiana e senza esserci fatto un altro idioma altrettanto organico, coerente, logico, armonioso e nobile. E io conosco già il finale: tutti noi diventeremo come quei nostri vecchi parenti emigrati negli Stati Uniti che hanno dimenticato l’italiano senza avere ancora imparato l’inglese. Un popolo senza lingua e senza futuro». (p. 216)

 

Massimo Roscia ha così delineato la figura di un uomo curioso e affamato di sapere e saperi, scrittore abile, giornalista dagli interessi sconfinati, enogastromono raffinato, cronista di viaggio e di guerra. E per far questo si è affidato alla concretezza dei documenti che, a mano a mano, i protagonisti del romanzo scoprono, catalogano e interpretano insieme al lettore. Emerge un ritratto composito e vivido, a tratti romanzato, ma sempre rigoroso, brillante, ironico e sorprendente.

Non bisogna tuttavia dimenticare che ci muoviamo nell’àmbito di un romanzo, in cui convivono finzione e realtà, personaggi veri e inventati.

E proprio l’attenta costruzione dei personaggi e l’accurato dispositivo narrativo permettono al lettore di sentirsi a proprio agio nella rocambolesca trama del libro, compartecipe di un’avventura incredibile. Senza che mai si creino zone d’ombra, il Signor Emme si disvela un po’ alla volta grazie ai reperti disseminati qua e là, come in una grande caccia al tesoro. Si tratta di cartine geografiche, appunti, disegni, poesie amorose, sonetti, ricette, etichette di vini, e altro ancora. I commenti nelle note a margine offrono osservazioni raffinate e acute per comprendere appieno l’identità del Signor Emme.

Una «insolita microstruttura sociale itinerante», composta da Carla (filantropa, ambientalista e dalla natura profondamente generosa e solidale), dai suoi due undicenni figli monozigoti e dall’amico Giordano, si sposta con uno scuolabus trasformato in camper all’interno di un continente frantumato, un’Europa parcellizzata, dove muri troppo alti hanno finito col ridisegnare confini che sembravano superati e superabili.

Tra Regni, Protettorati, Imperi e Stati dai nomi nuovi e antichi, la sfida è quella di collezionare prove documentali, portarle a Roma, capitale dello Stato Pontificio, e sottoporle alla Congregazione dell’Indice delle vite cancellate e delle opere proibite, affinché il Signor Emme non venga ingoiato dalla sostanza scura e appiccicaticcia di cui è fatto il buio dell’oblio.

«Avremmo viaggiato in lungo e in largo, barattato il qui con l’altrove e l’ordinario con lo straordinario. Avremmo scandagliato il tempo e misurato lo spazio, alla ricerca di carte e di fili e di impronte e di segni e di vita. Avremmo sfidato la sorte, varcato i confini, inseguito le ombre, ascoltato i sussurri, posato gli sguardi, raccolto le prove e unito gli eventi. Avremmo fatto di tutto per ricostruire da zero un’esistenza e per porre fine a un’ingiustizia». (pp. 73-74)

Oltre a Carla e al suo amico («bravissimo a ipostatizzare un Dio Tutto Infinito e l’inscindibile unità panenteistica di pensiero e materia, ma non sa andare neanche in bicicletta» p. 13), ci sono le voci narranti, i due figli di Carla, gemello 1 e gemello 2 (non hanno nome) e Buf (acronimo di un lunghissimo composto chimico), un essere pensante in forma di massa gelatinosa contenuta in un vaso di vetro, che cataloga i documenti.

 

Entrambi geniali, disposti come in un Giano Bifronte, il gemello 1 e il gemello 2 esprimono lo stesso mondo con sguardi differenti e con registri linguistici in taluni casi opposti ma sempre caratterizzati da uno stile ricco di grazia e poesia.

 

«Non c’è dubbio che, da Savona in poi, la parola che più di altre riassume il senso del nostro viaggio è “peripezia”, parola che nella tragedia greca indicava l’improvviso e inatteso evento che faceva mutare radicalmente una situazione, solitamente in peggio. E noi, in poco meno di quattro mesi, siamo riusciti a dare concretezza a ogni singola sfumatura che questo termine ha assunto nell’uso comune, spaziando dagli avvenimenti imprevisti ai colpi di scena, dalle avventure pericolose alle vicende rischiose, dalle semplici traversie alle vere disgrazie» (gemello 1, p. 106).

 

«È bello quando mi fanno i complimenti o mi dicono le parole belle e non come a scuola o al campeggio quando mi dicevano deficiente e ritardato e mongoloide e io sentivo un dolore forte dentro alla testa perché certe volte le parole brutte fanno più male dei pugni e delle bastonate e dei calcinculo. Ora però non perdo altro tempo e anche se non sono bravo a usare i verbi e gli avverbi e i proverbi come fanno mio fratello e zio Giordano racconto il resto della storia» (gemello 2, p. 113).

 

Alla fine di un bel libro, si rimane per un po’ in uno stato di beato stordimento. Soddisfatta e arricchita dalle nuove strade percorse, ho voluto rivolgere qualche domanda all’autore per approfondire aspetti che mi incuriosivano.

 

 

A piè di pagina. Quattro domande a Massimo Roscia

 

Come presenterebbe Paolo Monelli a chi non ne avesse mai sentito parlare?

Con una lunga sequela di aggettivi, sgranati a mo’ di laico rosario ed elencati in rigoroso ordine alfabetico: abile (nel maneggiare il repertorio lessicale), acuto, affascinante, ambizioso, callido, cinico, colto, cordiale, curioso, devoto (parole sue: «alla lingua e allo stile»), disincantato, dotto, eccentrico, elegante (un vero arbiter elegantiarum), eristico, facondo, fumino, galante, gaudente, ghiotto (anzi, ghiottone errante), intelligente, insofferente (ai conformismi di massa e alle ovvietà), ironico, iperattivo, libero, mordace, narcisista, ossessionato (dalla ricerca della parola giusta), portentoso, precursore, profondo, proteiforme, raffinato, romantico, spavaldo, tagliente, trasgressivo, umoristico, unico (per abilità descrittiva ed evocativa), vissuto, zelante.

Paolo Monelli e Massimo Roscia: quanto avete in comune?

Tanto, forse troppo. Considerando le comuni occupazioni e talune presunte affinità, potrei essere definito come una versione contemporanea o una riproduzione in scala minore – 1:10, 1:20, 1:50… decidete voi il rapporto – di Paolo Monelli. Entrambi scrittori e giornalisti, entrambi specializzati nella narrazione odeporica e nella critica enogastronomica, entrambi piuttosto versatili e capaci di spaziare tra ambiti culturali diversi e di ibridare i saperi, entrambi impegnati nella salvaguardia della lingua italiana, entrambi ossessionati dalla cura della parola, entrambi amanti dell’ironia, dei motti di spirito e delle arguzie dettate dall’intelligenza, entrambi amanti del piacere (in tutte le sue declinazioni), entrambi esageratamente narcisi, sempre pronti a piacersi, compiacersi e battersi le mani da soli.

Secondo lei, Paolo Monelli era un purista?

Purista, a tratti anche duro e intransigente, della lingua italiana, Paolo Monelli è stato – e prendo in prestito l’espressione dal titolo di un suo celebre articolo – un “guerrigliero della grammatica”. Oltre alle guerre vere, Monelli ha infatti combattuto una lunga battaglia in difesa dell’integrità dell’italiano e sull’argomento ci ha lasciato una ricca eredità. Dai suoi scritti taglienti emerge un’afflizione quasi fisica nel vedere che «la lingua di Dante, di Petrarca, dell’Ariosto, del Leopardi e giù fino al Tommaseo, al Carducci e al D’Annunzio, figlia primogenita del latino e più illustre monumento della cultura italiana», è quotidianamente corrotta, ferita da storture e deformazioni, profanata, offesa, saccheggiata nel garbo e nella misura, imbastardita da esotismi (che egli stesso ha definito «l’improvvido e vertiginoso passare di forestiero intonaco sul parlare dei nostri nonni»), neologismi arbitrari, tecnicismi incomprensibili ai più, locuzioni sguaiate, sigle ermetiche, vocaboli affetti da elefantiasi, espressioni gergali e altre orrende invenzioni lessicali.

Qual è invece il suo lo sguardo verso la lingua italiana? È preoccupato (per esempio per l’uso eccessivo di forestierismi, per i troppi neologismi o per le invadenti neoformazioni giornalistiche spesso facili e meccaniche), è compiaciuto (perché la lingua oggi è veramente viva ed è per tutti) o si limita a osservare (perché non abbiamo alcun potere di modificare la lingua)?

Pur conducendo da circa un decennio una crociata a tutela della lingua italiana, avendo scritto sull’argomento romanzi, saggi, articoli e persino uno spettacolo teatrale, essendomi lungamente battuto a difesa del congiuntivo e dei più deboli (accenti, apostrofi e segni di interpunzione), essendo convinto assertore del rispetto delle regole (grammaticali e non), sono decisamente meno fondamentalista e manicheo di Monelli. So distinguere i contesti, formali e informali, e i relativi registri linguistici (da cui il diverso grado di tolleranza rispetto a eventuali errori) e sono convinto che la lingua non sia un reperto custodito in una teca di cristallo all’interno di un museo, ma un organismo vivente che abbraccia, accoglie, integra, scambia, prende in prestito, si contamina, muta. Sull’avanzata dei neologismi non oppongo grosse resistenze; anche se alcuni, più per motivi di natura estetica e acustica che linguistica, non riesco proprio a metabolizzarli e farli miei. Sulle frasi fatte, sui plastismi, sugli enunciati preconfezionati, sulle espressioni consumate dalla continua reiterazione, ho scritto un libro dal titolo più che eloquente, “Peste e corna”. Quanto alla mission, alla vision, alla location e all’attualissima governance, la questione si fa più complessa. Sono infastidito dall’abuso che facciamo di anglicismi, il più delle volte inutili, per sudditanza psicologica, provincialismo, ostentazione, moda, snobismo, cosmopolitismo di facciata, scarso senso di identità e pigrizia. Ai tanti vocaboli inglesi (che peraltro scriviamo male, pronunciamo peggio e dei quali spesso ignoriamo il significato), contrappongo una riappropriazione consapevole e amorevole dei tantissimi e bellissimi vocaboli contenuti nel libro dei libri: il dizionario della lingua italiana.

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Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole

 

Vera Gheno

Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole

Firenze, effequ, 2020

 

Il 13 novembre 2020 è cambiato il vento alla Sapienza – Università di Roma. La professoressa Antonella Polimeni è stata chiamata a ricoprire la massima carica accademica del prestigioso ateneo romano, entrando così nel novero ristretto delle rettrici italiane.

Dopo essermi rallegrata per il fatto in sé, ho osservato incuriosita la reazione dei media e ho notato che, nella maggior parte dei casi, è stata utilizzata con naturalezza la parola rettrice, anche se non sono mancati equilibrismi linguistici del tipo «donna rettore», «rettore donna» o «magnifico rettore donna».

Mi è capitato anche di ascoltare o leggere interviste alla neorettrice, in cui la questione terminologica veniva addirittura collocata al primo posto. Prima ancora di indagare sensazioni, emozioni o progetti futuri, si parlava di parole e di definizioni, come in questo caso:

«Antonella Polimeni: rettore o rettrice?

Rettrice, la Crusca ci dice rettrice.

E il cuore?

Rettrice, rettrice, decliniamo così»

(Alessandra Arachi, Corriere.it, 14 novembre 2020)

 

Questo è solo uno dei segnali che evidenziano quanto la questione femminile non sia affatto secondaria nella nostra lingua. E di questo si occupa Vera Gheno, sociolinguista e social-linguista molto esperta, nel bel libro Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole.

La studiosa parte dal dibattito pubblico presente nei social network per parlare di femminile (soprattutto professionale), attraverso un confronto pacato («la migliore arma contro la supponenza è l’informazione, la quieta assertività»), costruttivo e rigoroso.

Mi piace sottolineare questo aspetto perché in molti degli interventi raccolti nel libro emergono rabbia e talvolta odio, a testimonianza di quanto la lingua non sia asettica né avulsa dal mondo che descrive. Al contrario, è intimamente collegata a questioni sociali, culturali e politiche.

Con il consueto piglio brillante, Vera Gheno raccoglie dai social network un gran numero di opinioni di italiane e italiani che si infervorano sull’opportunità di usare questa o quella parola, e ne fa materia di studio.


L’universo dei social diventa così osservatorio privilegiato per parlare di lingua italiana. Gli strumenti di una studiosa, che non urla ma spiega, che non si mette in cattedra ma argomenta, servono anche a far comprendere che se certe parole non possono essere usate o inventate tout court non per è un capriccio ideologico ma perché semplicemente non è corretto (per esempio, da un punto di vista grammaticale).

 

C’è un certo margine di movimento all’interno della nostra lingua. Perché una donna preferisce essere chiamata direttore generale? Forse perché il maschile di questa locuzione nominale la fa sentire maggiormente autorevole? La grammatica non lo impedisce, di per sé non è sbagliato, così come tuttavia non sarebbe sbagliato usare direttrice generale. Il punto è: che cosa porta ad una scelta del genere?

Altro discorso è sostenere, battendo i piedi come i bambini, qualcosa del tipo “se si può dire sindaca, ministra o assessora allora io dico *giornalisto e *pediatro. L’autrice pubblica molti interventi che hanno dell’incredibile, che però è capace di sgonfiare poco a poco, riconducendo pazientemente il discorso nei confini del buon uso della grammatica italiana e della buona educazione, anche quando i toni si fanno sgradevoli («Non è che perché la signora maraschio, presidente emerito dell’Accademia della Crusca sia ignorante come la signora boldrini, dobbiamo essere “tutti” ignoranti!» p. 146).

 

«Nei capitoli che seguono cercherò di smontare le obiezioni mosse, prendendo comunque sul serio il dissenso, ignorando la parte offensiva e rispondendo nel merito, in modo da rimanere sempre sull’argomento. Per chi fosse già d’accordo con l’uso dei femminili professionali, può essere una buona palestra per avere la risposta pronta davanti a chi gli dovesse sbraitare addosso. Chi, invece, non li sopporta, forse può cercare di capire meglio da dove derivi tale malsopportazione, magari riflettendo su come comunicare la propria diversa opinione in maniera meno distruttiva» (p. 76).

 

Sorge spontanea la domanda: ha senso condurre una battaglia per trasformare l’uso della lingua?

«La lingua è una democrazia in cui la maggioranza governa, i grammatici prendono atto delle innovazioni e cercano di farle andare d’accordo con la tradizione, e le minoranze, anche ribelli, hanno pur diritto di esistere, senza dover temere l’eliminazione fisica o la cosiddetta gogna mediatica».

Lo scrive Claudio Marazzini e lo riporta Vera Gheno nelle prime pagine (p. 47) del volume, a sottolineare, ancora una volta, che la lingua non può essere imposta dall’alto. Una giusta premessa per comprendere il modo più corretto ed equilibrato per affrontare un tema appuntito e delicato al contempo, che, non a caso, suscita irritazione e indignazione (niente di meno).

Quindi sì, una battaglia (o un’attenta vigilanza) ha senso, se non altro perché è espressione di qualcosa che sta cambiando, di una mutata sensibilità sociale che deve trovare uno spazio nella lingua di ognuno di noi.

Le parole non solo descrivono la realtà ma la creano. Ciò che non viene nominato spesso non esiste.

L’universo femminile si sta svelando e la presenza delle donne in certi àmbiti professionali o posizioni di rilievo è, come abbiamo visto, sempre più frequente. Che piaccia o meno, non è più possibile voltarsi dall’altra parte.

«[…] il problema non si pone tanto per lavori medi, percepiti come normali, come potrebbero essere il/la estetista o il motivatore/la motivatrice, quanto per incarichi di prestigio oppure cariche istituzionali: danno dunque ‘scandalo’ forme come ministra, sindaca, ingegnera, assessora, magistrata eccetera. E questo è un primo segnale interessante del fatto che la questione, nella percezione comune, non è esclusivamente linguistica, quanto sociale: perché un nuotatore e una nuotatrice vanno bene, ma un rettore e una rettrice no? O perché sindaca sarebbe sbagliato, laddove esistono cariche femminili da sempre per le quali non c’è nessun dubbio, come regina o imperatrice? Ce la immaginiamo Vittoria d’Inghilterra a farsi chiamare re?» (p. 54)

 

La nostra lingua non è di per sé sessista, è l’uso che ne facciamo che può renderla poco inclusiva. Le possibilità per esprimersi in modo rispettoso esistono. Si tratta di elevare la nostra sensibilità linguistica, accettando che non tutto ruota intorno ad un unico asse.

 

Il dibattito travalica le frontiere nazionali ed è molto vivo e vivace.

In spagnolo, per esempio, è stato inventato da alcuni collettivi il pronome neutro elle (plurale elles) per sostituire i pronomi di terza persona, i femminili ella (s.) ed ellas (pl.) e i maschili él (s.) ed ellos (pl.), con l’intento di attenuare atteggiamenti discriminatori o addirittuta penalizzanti nei confronti delle donne e della comunità LGBTQ. Alle fine del passato mese di ottobre, l’austera Real Academia Española - RAE aveva inizialmente “ospitato” e descritto il pronome elle nella sezione Observatorio de palabras del suo portale, affrettandosi però ad eliminarlo dopo pochi giorni a causa della risonanza mediatica che aveva avuto. La presenza di quel pronome nel sito istituzionale della RAE poteva essere interpretata come una tacita approvazione, nonostante sia ben evidenziato nella pagina dedicata che «la presencia de un término en este observatorio no implica que la RAE acepte su uso», cioè se una parola è presente nell’osservatorio non significa che la Real Academia ne accetti l’uso.

Proposte, tentativi, ritrosie.

In inglese, uno sforzo analogo si sta facendo con l’utilizzo di they come pronome singolare: «They è la parola dell’anno per il vocabolario Merriam-Webster. Cioè “loro”, usato però come pronome singolare per riferirsi alle persone che non si identificano nel binarismo di genere maschio/femmina» (ilpost.it, 11 dicembre 2019). E la notizia di questi giorni va in una direzione analoga: «L'Oxford English Dictionary, il prestigioso vocabolario di lingua inglese redatto dalla Oxford University Press, aggiorna la definizione della parola donna, e corregge altri termini sessisti, dopo la petizione lanciata da Maria Beatrice Giovanardi» (D.it – Repubblica, 9 novembre 2020).

 

Segnali di mutamenti e di lingue in movimento. Anche se molto lentamente, le lingue si spostano nella direzione tracciata dall’uso che ne fanno i parlanti, tutti i parlanti.

C’è posto per tutti, ci tiene a sottolineare Vera Gheno: «quella dei femminili professionali o, più in generale, dell’attenzione alle discriminazioni linguistiche, non è una guerra in cui ci sono vincitori e vinti; giudico profondamente sbagliato, fuorviante e controproducente ridurre la questione a una polarizzazione tra pro-f(emminili) e no-f¸ tanto per ispirarci alla questione dei vaccini». La ricetta dell’autrice dovrebbe valere sempre: niente spropositi, castronerie o insulti, che si dialoghi e che il dissenso sia sempre informato!

 

 

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Libro privato. Quel che stavamo cercando. 33 frammenti

 

Alessandro Baricco (progetto e testi)

Libro privato. Quel che stavamo cercando. 33 frammenti

Disegnato da Dieci 04, ottobre 2020

 

 

Per misurare la temperatura di ciò che sta accadendo, è utile ripensare alle parole. Così come è utile notare che una stessa parola può mutare le sfumature del suo significato piuttosto velocemente, almeno di questi tempi. Senza girarci intorno, ci risiamo, e la nostra lingua lo sa.

 

Fotografie del presente sono i libri. Si avverte un desiderio sempre più urgente di descrivere quella realtà fino a poco tempo fa inimmaginabile, forse anche per contenerla, sancirne i limiti, i confini (almeno concettuali) a partire dalle parole, che tutto nominano.

 

Nei mesi più bui («mentre scrivo è un raro 29 febbraio, un sabato di quest’anno bisestile»), Paolo Giordano, scrittore e fisico, osservava che: «Le epidemie, prima ancora che emergenze mediche, sono emergenze matematiche. Perché la matematica non è davvero la scienza dei numeri, è la scienza delle relazioni: descrive i legami e gli scambi fra enti diversi, cercando di dimenticarsi di cosa sono fatti quegli enti, astraendoli in lettere, funzioni, vettori, punti e superfici. Il contagio è un’infezione della nostra rete di relazioni» (Nel contagio, Einaudi, 2020).

 

Dalla pancia del confinamento («nel momento in cui scrivo questa riflessione finale, sono alla sesta settimana di “arresti domiciliari”»), la sociolinguista Vera Gheno ha proposto uno speciale glossario digitale: «parole direttamente legate al racconto della pandemia sui media» e «termini che sono emersi, o tornati in auge, di questi tempi» […] Perché ricordiamolo: ogni parola non è mai “solo” una parola, ma una specie di gancio verso un intero mondo di significati. In questo modo, spero di creare una galleria di immagini rilevanti del “tempo della pandemia”, così da renderlo raccontabile anche alle generazioni che verranno» (Parole contro la paura. Istantanee dall’isolamento, Longanesi, 2020).

 

Alla fine dell’isolamento primaverile («Scrivo queste righe il 17 maggio. Da domani molti negozi riapriranno, potremo tornare a incontrarci e a muoverci liberamente, almeno nei limiti della nostra regione»), Giuseppe Antonelli, ordinario di Storia della lingua italiana all’Università di Pavia e straordinario comunicatore (non sempre i due ruoli vanno a braccetto) con acume osserva nel suo vocabodiario che «mai come in questi giorni ci siamo resi conto di vivere una vita tra le parole. Parole che il silenzio creato tutt’intorno da quell’irreale stasi amplificava a dismisura. Parole che dalla dimensione pubblica rimbalzavano in quella privata dei discorsi fatti in famiglia o al telefono o in videoconferenza». E poi, «Ci siamo crogiolati tanto a lungo nella convinzione che la vera realtà fosse quella virtuale da perdere di vista il senso delle parole. Leggevamo una cosa e ne vedevamo un’altra: astratta, impalpabile, estranea alla sfera dei sensi. Tutti sognavano di essere virali. Gli stessi virus, d’altra parte, sembravano riguardare i nostri computer molto più di noi […] Ora, invece, queste parole ci fanno paura. Perché hanno ripreso di colpo tutta la loro concretezza, proprio quella che avevamo tentato di rimuovere in una grande metafora» (L’influenza delle parole, Solferino editore, 2020).

 

«Cambia, todo cambia», lo scriveva nel 1982 il musicista cileno Julio Numhauser (e lo interpretava la cantante argentina Mercedes Sosa). «Cambia lo superficial, cambia también lo profundo, cambia el modo de pensar, cambia todo en este mundo». Evidentemente non vi erano riferimenti all’oggi: le trasformazioni ci sono sempre state, anche se il cambiamento cui stiamo assistendo viaggia ad un’altra velocità, e di conseguenza i significanti e i significati, gli stati d’animo, e anche il modo di raccontarli.

 

Libro privato. Quel che stavamo cercando è un progetto narrativo che parte da un link (https://libroprivato.it/pc.html). Dal link si arriva ad una pagina in cui compare un QRCODE, una sorta di precopertina. Dopo aver inquadrato il codice con il cellulare, si apre una schermata bianca, attraversata da una pennellata verticale, celeste su fondo chiaro (ma è possibile selezionare un fondo scuro, e allora la linea diventa rossa), che ad ogni frammento varia dimensione delicatamente, senza mai sovrastare le parole.

 

Alessandro Baricco ci offre un’altra possibilità di leggere (nel significato di intepretare) un mondo in evoluzione, quello che stiamo vivendo. Siamo alla fine di ottobre, di doman non c’è certezza, i numeri salgono, lo scenario non è tra i più rosei, non sappiamo ancora quali saranno le soluzioni più opportune o efficaci per arginare il contagio.

 

Scoprendo questa creatura (un po’ instant book, un po’ audiolibro, un po’ qualcos’altro) sullo schermo del nostro cellulare, scorriamo verso il basso, uno dopo l’altro, i 33 frammenti marcati con numeri romani, a loro volta suddivisi in sei sezioni.

 

Oltre a leggere in intimità, in privato appunto, ci si può abbandonare alla voce dell’autore, o fare entrambe le cose allo stesso tempo. Cullati dallo sciabordio dell’acqua in sottofondo (nel testo non mancano peraltro i riferimenti al mare «i nomi della scienza sono le conchiglie che rimangono nella sabbia quando l'onda del Mito si ritrae attratta dai campi magnetici delle maree. Virus: molluschi», SEZ. 2, VIII), si può decidere di non seguire la linea marcata dalla successione numerica dei frammenti ma cliccare sulle parole che compaiono in fondo alla pagina, accanto a cerchi in movimento, per atterrare nei frammenti di altre sezioni, disegnando un percorso guidato dai propri interessi e dalla propria curiosità. È lecito, anzi, è quasi suggerito dalle istruzioni per l’uso.

Parole come scienza, mostri, guerra, sogni o pandemia: seguirle o cliccarle non sazia la nostra fame di certezze, non ci saranno definizioni ad attenderci ma anelli di un racconto, spunti e suggestioni, dove tutto è nuovo o tutto è già stato detto.

 

In un mondo quasi adimensionale, c’è un itinerario circolare e concentrico, suggerito dalla ricorrenza di alcune parole che possono legarsi tra di loro e dalla osmosi concettuale che permea la narrazione, attraverso la costante meraviglia della scoperta. Il frammento finale (XXXIII), poi, rimanda al primo, quasi a voler sottolineare il ciclico andare e riandare del sapere.

 

All’inizio del viaggio (scandito da un evocativo numero 33), una sorta di introduzione si trasforma in un trampolino da cui tuffarsi nel mare delle parole scelte da Baricco, aggrappati al salvagente del suo racconto e della sua voce, volendo. «Ciò che un medico decide di chiamare malattia, è una malattia. Ciò che un virologo decide di chiamare virus, è un virus. Ciò che un epidemiologo decide di chiamare pandemia, è una pandemia». La sete di certezze ci spinge a procedere e a creare dentro di noi un cammino individuale che prende spunto dagli anelli quasi magici delle parole dell’autore. Certo è che di pandemia in questi termini non se ne era mai parlato: «creatura mitica», «costruzione collettiva in cui diversi saperi e svariate ignoranze hanno spinto nella stessa direzione» (SEZ. 3, XIV). Una Pandemia vista come urgenza, grido, urlo. «Adesso possiamo anche scegliere di considerarla, per opportunismo come una semplice emergenza sanitaria. Ma come non capire, invece, che è un urlo?» (SEZ. 4, XXI).

 

La Pandemia come possibilità: «Così, nelle corsie in cui si moriva soli senza sapere di cosa, noi abbiamo disegnato la sintesi mitica di un nostro possibile destino, per costringervi a guardarlo, temerlo, a dirlo, forse a fermarlo» (SEZ. 5, XXXI).

 

Più che mai, forma e contenuto diventano compatti, quasi inscindibili in questa discesa privata ed intima nel significato (se c’è) del mistero che tutto avvolge.

 

Nel dicembre del 1998, in tv va in onda Totem. Alessandro Baricco spiega e legge La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda. Fa una bella introduzione, che a riascoltarla dopo più di 20 anni sembra quasi una profezia. La trascrivo. «Il posto molto prezioso che hanno i veri grandi scrittori, nella nostra vita, la cosa per cui noi abbiamo nei loro confronti una grande gratitudine, è che loro erano capaci, sono capaci (se sono ancora vivi) di dare nomi alla vita, alla nostra esperienza. Erano grandi perché riuscivano a nominare le cose, alcune cose molto semplici e altre molto, molto complicate. Nominare è una cosa preziosa per tutti, dare i nomi alle cose. Si danno i nomi alle cose per difendersi dalle cose, se non sapete nominarle non sapete cosa sono, non sapete come difendervi da loro. Dunque ci vuole qualcuno che per noi faccia questo mestiere. Loro avevano questo di straordinario, sapevano nominare le zone più semplici e quelle più complicate della nostra esperienza, per questo sono grandi. Gli altri magari scrivono, raccontano storie. Noi raccontiamo storie, loro nominavano la vita».

 

 

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C’era cento volte Giovanni di Omegna. A proposito di Lezioni di Fantastica di Vanessa Roghi

 

Per evitare che le celebrazioni offuschino la figura del celebrato è importante non disorientarsi, mantenendo un saldo contatto con la storicità del personaggio di cui ricorre l’anniversario. Altrimenti ricordare (dal latino recŏrdari, da cor, cordis ‘cuore’, sede della memoria secondo gli antichi) potrebbe trasformarsi in un inutile esercizio di retorica, anche se ‘ripassare dalle parti del cuore’, presso i moderni sede dei nobili sentimenti, è un’esperienza non trascurabile.

A non farci perdere l’orientamento e a svelare il prolifico scrittore (solo per l’infanzia?) di Omegna, Lezioni di Fantastica. Storia di Gianni Rodari (Roma-Bari, Laterza, 2020, pp. 296), un ritratto vivido ed efficace, realizzato dalla storica Vanessa Roghi. Attraverso uno studio approfondito e una ricerca su fonti ricchissime, l’autrice ci riporta nei confini netti della vita del personaggio cui tanto si è detto e tanto ancora si dirà, consegnandoci una fotografia né sbiadita né ritoccata di quel narratore amato e snobbato al contempo, noto e sconosciuto, e non si sa quanto compreso fino in fondo.

Questo è il punto: il lavoro della Roghi mira proprio a descrivere l’uomo narrandoci tutti gli «insiemi» (con cui proprio Rodari amava esercitare la sua fantasia) ai quali appartiene: egli non era infatti solo un narratore, solo un giornalista, solo un maestro o un funzionario di partito, era ed è molto di più.

Per liberare l’universo di Rodari da ammuffiti aggettivi ed anguste definizioni di una critica talvolta distratta e miope, per restituirci gli occhi con cui Rodari osservava e ci riconsegnava la realtà, quelli di un sentipensante (utilizzando l’evocativa parola coniata dallo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, 1940-2015), l’autrice si affida a chi, in un modo o in altro, lo conobbe ed ebbe a che fare con lui: ne emerge un ritratto equilibrato, a tratti commovente, ma mai celebrativo.

 

Tanti anni fa, negli anni Novanta del XX secolo, in uno sperduto carcere del nord della Spagna, era finito un maestro pacifista che si era rifiutato di fare il servizio militare, un insumiso, un obiettore totale. Era anche un mio amico. Gli portai la traduzione in castigliano delle Favole al telefono: aveva molto tempo a disposizione e sapevo che continuava a prepararsi le lezioni per i suoi amati alunni, per quando sarebbe uscito. Un giorno, da dietro il vetro sudicio del parlatorio, costernato, si scusò per aver regalato quel libro ad un detenuto, un ragazzo gitano cui aveva insegnato a leggere e che, innamoratosi di quella splendida finestra sul mondo, gli aveva chiesto di tenerla. Lo avevo già intuito, ma allora ebbi la certezza della capacità unica che aveva Rodari di parlare a tutti e di quanto le sue parole fossero in grado di superare il tempo e lo spazio.

«A Rodari, dice Tullio De Mauro, è accaduto qualcosa di simile a quanto capitò a don Milani e a Pasolini. Subito dopo la morte, c’è stata un’esplosione di interesse, di ricerche, di libri. Una autentica riscoperta come se “tutti noi, solo dopo, avessimo finalmente capito che cosa quegli uomini ci avevano voluto dire”».

Ne parliamo con l’autrice.

 

Sopra ogni cosa, dal suo libro emerge una grande passione per Rodari. Da dove nasce l’idea di raccontare questo autore?

Il mio libro La lettera sovversiva (Laterza, 2017) si chiude con una citazione di Gianni Rodari: «Tutti gli usi della parola a tutti mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo». Era un libro che raccontava la storia culturale di Lettera a una professoressa, la sua genesi e i suoi esiti. Gianni Rodari si collocava perfettamente entro la genealogia del libro dei ragazzi di Barbiana, rappresentava parte di quel tessuto democratico, come lo aveva definito Tullio De Mauro che aveva contribuito a riformare il discorso sulla scuola in senso democratico. Mi è sembrato naturale così approfondire il suo punto di vista.

 

Sin dalle prime righe, si capisce che non abbiamo a che fare con una agiografia; al contrario, con rigore scientifico, metodo e un’immensa quantità di fonti, lei restituisce una biografia approfondita e appassionante. Se le venisse chiesto di descrivere Rodari ad una persona che non ne avesse mai sentito parlare, quali tratti metterebbe subito in rilievo?

Direi che Gianni Rodari è stato, prima di tutto, un essere umano meraviglioso che ha vissuto, da scrittore e da militante del Partito Comunista Italiano, tutte le contraddizioni del suo tempo e da ognuna e uscito migliore, perché generoso e disponibile e convinto, veramente, del valore emancipativo della conoscenza. Un intellettuale che non ha mai rimpianto il passato come luogo mitico, età dell’oro, paradiso perduto: consapevole dell’egoismo insito in ogni sguardo nostalgico, poiché toglie speranza e offusca lo sguardo.

 

La Fantastica, «magnifica e disconosciuta disciplina», che cos’è?

Rodari inizia a pensare alla Fantastica nel 1938, è lui stesso a raccontarcelo ne La grammatica della fantasia (Einaudi, 1973). Dopo aver letto i frammenti del filosofo Novalis scrive: «Un giorno, nei Frammenti di Novalis (1772-1801), trovai quello che dice: «Se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l'arte di inventare». Era molto bello. Quasi tutti i Frammenti di Novalis lo sono, quasi tutti contengono illuminazioni straordinarie». La Fantastica è, dunque, il metodo per inventare le storie, metodo, non scienza, né manuale: un insieme di tecniche tenute insieme da una visione precisa, nitida. Immaginare, inventare, esercitare la fantasia non è un atto neutro ma un atto politico per immaginare il mondo in modo diverso. Chi si trova bene nel mondo così come è o peggio rimpiange quello passato stia ben lontano dalla Fantastica!

 

La parola può essere una gabbia, in cui si rimane intrappolati, o un parapendio per librarsi in aria. Che cosa significa la parola per Rodari?

La parola è al centro della riflessione di Rodari: non la frase, ma la parola. Una lezione molto probabilmente appresa dalle avanguardie, dall’ermetismo (Rodari ha amato moltissimo Eugenio Montale e i surrealisti). Intorno alla parola si costruisce la sua poesia, la sua “filosofia” (pensiamo al Libro degli errori, Einaudi 1964), la sua Fantastica (il sasso nello stagno, primo fra gli “esercizi” della Grammatica della fantasia, prende spunto dall’idea che la parola, come un sasso gettato in uno stagno smuove ricordi: «Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena»).

Ovviamente il possesso delle parole è una questione di classe sociale negli anni Cinquanta, quando Rodari inizia a scrivere, e continua a rimanerlo a lungo, malgrado alcune importanti riforme come quella della scuola media del 1962. Ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano.

 

Nel suo libro, lei cita molto Tullio De Mauro che, per esempio diceva di Rodari che «non era un antigrammaticale e un antitradizionalista. Al contrario, voleva che dell’intero potenziale delle grammatiche e delle tradizioni tutti, e non solo pochi, diventassero padroni, e lo diventassero scoprendo che la grammatica o la tradizione reale non è che una delle grammatiche, una delle tradizioni possibili». Un’utopia? Qual è il valore dell’utopia per Rodari? 

Che non ci sia niente di utopico nell’immaginare un mondo più giusto è banale dirlo. Si tratta, come avrebbe detto Rodari, di rimboccarsi le maniche e fare qualcosa per rimuovere gli ostacoli che impediscono agli esseri umani di essere uguali nella sostanza e non nella forma. Che non ci sia niente di utopico nell’immaginare una grammatica democratica lo sappiamo proprio grazie alla lezione di Tullio De Mauro e di tanti altri.

L’utopia dunque è per Rodari un luogo concreto di possibilità non un “nessun luogo”: infatti è sulla terra e non sulla luna che si realizza. In una scuoletta del Trullo, quartiere popolare di Roma. In un comune democratico, come era quello di Reggio Emilia negli anni Settanta. È chiaro che serve elasticità mentale, esercizio, immaginazione, generosità per immaginare che le cose possano andare diversamente: la fiaba allora diventa una palestra dove esercitare “tutte le ipotesi”.

 

Come lei ricorda, ai bambini, principali narratari delle opere di Rodari, lo scrittore si riferisce così: «La loro sensibilità al mondo delle parole è straordinaria, ridà sangue ai luoghi comuni, rinverdisce le metafore. […]. Fanno venir voglia di parlare in modo semplice e diretto di cose semplici e vere». Un’inascoltata lezione per il presente?

Inascoltata no perché anche grazie a Gianni Rodari lo sguardo sull’infanzia in Italia si è modificato e l’ascolto è parte della nostra migliore cultura pedagogica ma anche di genitori. Certo molti adulti sono passati indenni dalle cose più belle e importanti messe a punto da tanti intellettuali negli ultimi 100 anni. Poverini loro e poverini noi, mi viene da dire, che rimpiangono il mondo prescrittivo e autoritario della loro infanzia.

 

Nell’assurdo momento che stiamo vivendo, quali pagine di Rodari consiglierebbe di rileggere? O, con uno sforzo di fantasia, secondo lei che cosa direbbe Rodari di contagi, pandemie, confinamenti e varie ed eventuali?

Rodari va riletto tutto: le filastrocche, le favole, le novelle, gli articoli sui quotidiani o sui periodici, anche le poesie per gli adulti, meno note. Perché in Rodari c’è sempre vivo il lume della speranza. Io non so cosa avrebbe pensato oggi ma sono sicura di una cosa: avrebbe chiesto con insistenza di mettere al centro di ogni riflessione l’infanzia, perché nei bambini è scritto il nostro futuro. Ignorarlo è da pazzi.

 

Immagine: Why books are always better than movies? Paranormal levitation made with the free software Gimp

 

Crediti immagine: Massimo Barbieri / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)

 

 

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Parole contro la paura. Istantanee dall’isolamento

 

Vera Gheno

Parole contro la paura. Istantanee dall’isolamento

Milano, Longanesi (edizione digitale), 2020

 

In attesa che tutto finisca, ci sforziamo di capire quanto la pandemia muterà la nostra vita, le nostre abitudini e il nostro modo di stare al mondo, senza forse accorgerci che è già cambiato tutto.

Il tempo potrà solo fornirci maggiori strumenti interpretativi e la giusta distanza emotiva per analizzare correttamente questo momento storico, per trovare parole utili a dire quanto e perché abbiamo sofferto, per elaborare teorie certe e inconfutabili, cui seguiranno numeri con le virgole al posto giusto.

Quanto più saremo distanti dall’oggi, tanto più saremo in grado di analizzare con lucidità ciò che è accaduto e che sta accadendo – allo stato attuale il futuro è difficilmente prevedibile. Il cambiamento è qui tra di noi, aleggia nelle nostre città e nei nostri pensieri, così come la paura, della quale nostro malgrado abbiamo imparato a conoscere le sfumature più cupe e imprevedibili, e della quale nemmeno l’essere più immaginifico avrebbe mai pensato potesse avere la forma di una nanoscopica corona.

Chi ha potuto permettersi il lusso della rinuncia ha iniziato a fare a meno del superfluo, rinchiudendosi nella propria casa più o meno dorata, più o meno equipaggiata per affrontare la nuova vita, osservata dal balcone della propria abitazione, dal monitor del computer e dallo schermo del televisore. Chi non ha potuto scegliere, è stato costretto a perdere e basta, a stare chiuso senza balconi né monitor e a contare i giorni con quattro linee verticali tagliate da un tratto obliquo. Tutti però, sia i fortunati sia gli sfortunati, hanno dovuto confrontarsi con le parole per dirlo. Un lessico fatto di espressioni e termini premuti a forza nella lingua di tutti i giorni, che ci ha permesso di comprendere meglio che cosa stava succedendo intorno a noi e in che modo difenderci, come turisti catapultati d’improvviso in un Paese sconosciuto, costretti ad imparare in breve tempo un idioma straniero per capire e per farsi capire.

Non più di un mese fa, sarebbe stato impossibile sentir pronunciare nelle lunghe file dei supermercati (per molti giorni unico vero luogo di socializzazione) parole come lockdown (più in voga di isolamento), autodichiarazione o focolaio, magari da anziane signore che non hanno ancora metabolizzato il passaggio dalla lira all’euro.

Sono molti gli studiosi della lingua che si sono dedicati ad analizzare il terreno fertile del lessico dell’emergenza, immersi anche loro in questa «situazione che molti non esitano a definire distopica».

Vera Gheno, sociolinguista e social media manager, con la capacità di leggere l’attualità e la sensibilità che la contraddistinguono, ha elaborato Parole contro la paura. Istantanee dall’isolamento, un libro appena pubblicato in versione digitale da Longanesi.

Un’idea assai originale, che ha preso vita dall’acuta intuizione di fotografare il momento attuale attraverso un sondaggio realizzato tra i frequentatori del profilo Facebook della Gheno (le prime tre parole venute loro in mente in questo periodo), la quale, da esperta di infosfera, ha poi organizzato in modo brillante le informazioni ottenute facendone un libro.

Dall’isola Covid è stata lanciata in mare aperto una sorta di bottiglia, al cui interno i naufraghi hanno inserito istantanee dall’isolamento: bigliettini di parole, sentimenti, stati d’animo, dubbi e molto altro di un mondo assediato da un nemico onnipresente. Chi raccoglierà la bottiglia avrà qualche strumento in più per leggere gli incredibili (ma veri) giorni in cui la vita sulla Terra è cambiata.

Come la Gheno sottolinea, «se è pur vero che un’immagine vale, normalmente, mille parole come ovviare all’overdose di esse?». Le immagini vere e proprie sono talmente tante che si perdono, si mischiano nella nostra mente: anche le più belle, le più drammatiche o le più significative corrono il rischio di essere dimenticate semplicemente perché sono troppe. Così Vera Gheno le ha trasformate in un «album di “polaroid di parole”» e ha costruito una «narrazione più intimistica, più personale, dell’evento che ci vede tutti coinvolti: una sorta di visione magari alternativa a quella delineata dai mezzi di comunicazione di massa».

Ventisei “nuvole” composte da parole di dimensioni differenti, grandi e piccole, che narrano lo «spirito del tempo», con rigore scientifico, sobria leggerezza e amabile ironia, per mezzo di etimologie, significati, collegamenti semantici, rimandi a musica, cinema, articoli di giornale e a molto altro, in una navigazione che rende tutta la vitalità e le contraddizioni dell’attualità.

Alla fine di ciascun capitolo, il racconto è corredato di due parole collaterali, una appartenente alla Panmedìa («il filone delle parole direttamente legate al racconto della pandemia sui media) e l’altra allo Zeitgeist («termini che sono emersi, o tornati in auge, di questi tempi, e che in qualche modo contribuiscono a delinearne, appunto, lo spirito»).

Dalla A di attesa alla Z di zombie ogni capitolo è narrato con la grazia e la ricchezza di un racconto. Un lemma circondato da altre parole disposte come satelliti che orbitano attorno a un pianeta principale, che con esso condividono la lettera iniziale e la vita nuova assunta in questa speciale circostanza.

Prendiamo ad esempio il capitolo dedicato alla V (di vuoto, vitamina D, vino, virus, vita e tanto altro). Inizia con la citazione di un brano del gruppo musicale Nine Inch Nails (che è possibile ascoltare cliccando sul link del titolo Into the void, ‘Nel vuoto’), da cui origina la spiegazione dell’irrefrenabile sensazione di «scivolare via» nel vuoto, «dal latino parlato *VOCITU(M), variante di *VACITU(M), participio passato di *VACERE ’essere vuoto’», un aggettivo che «da sempre indica qualcosa che è totalmente privo di contenuto».

Poi dalla nuvola si stacca vino, bene di consumo consolatorio sì ma non univocamente definito di “prima necessità” (si rimanda a un articolo su un uomo multato perché aveva acquistato solo bottiglie di vino in un supermercato). La parola del box Panmedìa è virus, in cui si legge anche un’interessante riflessione sulla denominazione virus cinese, «deleteria e potenzialmente istigatrice di razzismo». Nel box Zeitgeist c’è Video-*, un prefissoide che non è «stato mai produttivo quanto in queste settimane», che ha dato vita a tutte quelle occasioni sociali, formative e lavorative cui è stato sottratto il contatto umano, sostituito nella parola da video-. Ecco quindi videoconferenze, videolezioni, videoseminari, videoformazione, videoriunioni, ma anche videoaperitivi e videopranzi. Quando potremo tornare a frequentarci, elimineremo video- per partecipare a conferenze, seminari e organizzare pranzi o aperitivi.

Mai come in questo momento la lingua è intrisa di vita e del suo contrario; le parole, negli ultimi tempi spesso usate senza cura, svuotate di significato e di forza, ritornano sulla scena da protagoniste, traboccano di verità, anche perché non è più tempo di dire sciocchezze. Se vorrete conservare la sostanza di questo periodo, non dimenticare, nonostante tutto, conservate questa istantanea coinvolgente e appassionata. In genere è nella narrativa e nella poesia che ritroviamo noi stessi, Parole contro la paura è una bella eccezione.

 

 

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Breve storia del libro manoscritto

Marilena Maniaci

Breve storia del libro manoscritto

Roma, Carocci editore, 2019 ("Bussole" 593)

 

Identificare un libro con gli autori o le autrici, o con il suo contenuto, è più che naturale. Lo consideriamo come un’entità ospitante, portatore di parole, raccoglitore di idee, nozioni e pensieri, espressi attraverso la lingua scritta.

C’è però un altro punto di osservazione per andare oltre l’apparenza e immergersi in una storia ricchissima, fatta di papiri e di pergamene, di carta, di inchiostri e di colori, di alfabeti e di scribi e, ancora, di rotoli, codici, perfino di spazi bianchi, di macchie di vino o di cera.

Con il suo agile e piacevolissimo saggio, Breve storia del libro manoscritto, Marilena Maniaci, che insegna Storia del libro manoscritto all’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale, ci aiuta a comprendere ciò che c’è dietro e dentro questo prodotto dell’ingegno umano, svelando un mondo spesso sconosciuto, con un linguaggio chiaro e accurato.

«Il libro manoscritto non è soltanto il veicolo indispensabile per la trasmissione della cultura antica e medievale: è anche un oggetto culturale complesso e dinamico che riflette, nel suo aspetto e nella sua struttura fisica, i cambiamenti subiti in un lungo arco di secoli».

In questa Breve storia, rivolta anche a lettori non specialisti, emerge come materia, struttura e aspetto del libro manoscritto, considerati insieme e analizzati con rigore scientifico, si trasformino in fonte essenziale di conoscenza, ponte tra passato e presente.

«Prodotto dalle mani esperte di artigiani, copisti e miniatori, letto o sfogliato da monaci o re, dotti o mercanti, studenti o nobildonne, nel corso della sua lunga storia il manoscritto ha lasciato traccia di sé e delle persone che lo hanno ordinato, fabbricato, posseduto e utilizzato in una gamma eterogenea di fonti, il cui contributo frammentario e variegato non si lascia facilmente comporre in un quadro unitario».

Ne parliamo con Marilena Maniaci.

 

Abbiamo visto che il libro manoscritto rappresenta di per sé, oltre che per i contenuti, uno strumento per conoscere «la vita intellettuale e pratica delle epoche e degli ambienti» in cui è nato e vissuto. Ci può aiutare a capire, per sommi capi, in che modo?

I libri manoscritti sono oggetti altamente polisemici, che ci parlano in vari modi: attraverso la tipologia e la qualità dei materiali di cui sono composti (supporti, inchiostri, colori…); le dimensioni, che ne individuano in maniera immediata il tipo di fruizione; l’organizzazione della pagina scritta, che riflette la preoccupazione di sfruttare in modo più o meno intenso lo spazio disponibile… oltre che, ovviamente, attraverso le forme e gli stili della scrittura, la ricchezza e la distribuzione della immagini e degli elementi decorativi. Una sontuosa Bibbia “da banco”, copiata su pergamena integra e ben lavorata e arricchita da raffinate miniature rimanda a contesti, committenti, usi e pubblici lontani da quelli di un codicetto cartaceo di formato modesto, trascritto ad uso personale dalla mano di un erudito. Anche uno stesso contenuto può materializzarsi, significativamente, in manufatti molto diversi: proprio la Bibbia, il “Libro” per eccellenza, nel suo farsi “libro” può presentarsi come un singolo volume di dimensioni imponenti (carico di una forte valenza simbolica), come un libretto portatile e miniaturizzato (destinato allo studio e alla predicazione) o più spesso come una sequenza di volumi contenenti porzioni di testo “nudo” o corredato da un fitto commento.

 

Secondo Diogene Laerzio, come si legge nel suo saggio, il filosofo Cleante, non avendo il denaro per acquistare la carta, era costretto a prendere appunti «su cocci e su scapole di bue». La cultura scritta è passata attraverso una vasta gamma di materiali e forme di libro. Ci può fare qualche esempio?

Esempi se ne potrebbero fare moltissimi, specie per le epoche più antiche, in cui nel mondo greco e latino si è scritto non solo su rotoli di papiro (o di pelle variamente lavorata) e poi anche su codici allestiti con entrambi i materiali, ma anche su pietra, frammenti di vasellame, lamine metalliche, stoffe, avorio e soprattutto su tavolette lignee, riempite o meno da uno strato di materiale malleabile. Il codice si è poi affermato, con ritmi diversi, in tutto il bacino del Mediterraneo, e ha finito col prevalere non solo nell’epoca del manoscritto ma fino ai nostri giorni; il rotolo però non è scomparso del tutto, anzi ha continuato a vivere durante tutto il medioevo, in forme e per usi diversi da quelli antichi. Se poi allarghiamo lo sguardo ai libri prodotti nelle civiltà orientali più lontane troviamo una varietà ben più ampia di forme (libri a fisarmonica, soffietto, farfalla…) e di materiali (legno, bambù, seta, foglie), ancora in attesa di uno studio globale e integrato, fondato su raccolte e analisi sistematiche dei materiali superstiti.

 

Nel Medioevo, il latino è la lingua ufficiale della politica, dell’amministrazione e della Chiesa, quando e come si afferma in Italia la lingua volgare nei codici? 

I tempi di penetrazione dei volgari nell’uso librario differiscono notevolmente da un ambito linguistico all’altro. In Italia, come è noto, una letteratura in volgare – o meglio nei diversi volgari adoperati nella penisola – si diffonde in ritardo rispetto al resto d’Europa, dopo una lunga fase di utilizzo a fini pratici e documentari. Le prime tracce di volgare italiano letterario compaiono fra la metà del XII e l’inizio del XIII secolo, inserite negli spazi liberi di manoscritti (o documenti) contenenti testi latini, mentre la conquista della “forma codice” avviene nel corso del Duecento, in assetti e grafie che variano secondo i contenuti e gli ambienti di ricezione e circolazione. Ma ancor più che la cronologia (sempre gravata dalle incertezze della tradizione), l’aspetto che soprattutto interessa lo storico del libro è il processo che ha condotto alla definizione della fattezza e delle scritture del libro volgare, il suo rapporto con i modelli latini, la fisionomia dei copisti, la relazione fra i contesti d’uso, le esigenze di committenti e lettori e la varietà delle forme assunte dal “contenitore”. Proprio pochi giorni fa si è svolto a Firenze un convegno dedicato alla Emersione delle scritture volgari, in cui studiosi provenienti da tutto il mondo si sono confrontati sulla scritturazione dei volgari europei, contribuendo a delineare un panorama estremamente variegato e stimolante.

 

Immaginando un segmento i cui estremi sono rappresentati con le lettere A e B, collocherebbe il codice manoscritto nel punto di origine (A) e il libro elettronico all’estremo opposto (B)?

Confesso che il confronto fra libro “fisico” e libro elettronico – per lo più declinato in termini di contrapposizione netta o di divinazione sul futuro del libro – non mi appassiona particolarmente. Spetterà ai posteri studiare il significato di una transizione nella quale siamo attualmente immersi, e che come in altri periodi del passato vede convivere, direi abbastanza tranquillamente per il lettore (meno, ovviamente, per editori e librai), oggetti diversi ma pensati per assolvere una stessa funzione. Diversi fino a un certo punto, oltretutto: come agli albori della stampa il libro tipografico imitava consapevolmente la presentazione del manoscritto (e codici e incunaboli coesistevano senza distinzione sugli scaffali delle biblioteche) così tutti gli e-reader, almeno fino ad oggi, conservano significativi punti in comune con i libri tradizionali (dalle dimensioni, al contorno “chiuso” della pagina, ai caratteri che si stagliano in nero su uno sfondo “paperwhite”). Certo, con la lettura digitale – che può risultare molto comoda, specie in alcune situazioni – si perde il fascino della relazione fisica (visiva, tattile e anche olfattiva) con i materiali, il layout, i colori, il peso del libro, che nel medioevo, ma non solo, era certamente molto importante. 

 

Come spesso evidenzia, sono fondamentali sia un’attenta conservazione sia una rigorosa tutela dei fondi librari, anche per favorire una ragionevole fruizione dell’immenso patrimonio contenuto nelle nostre biblioteche. Quali caratteristiche dovrebbe avere il bibliotecario-conservatore per essere in grado di svolgere una corretta mediazione tra libri e studiosi?

Il bibliotecario conservatore ha due compiti essenziali: quello di garantire l’integrità del patrimonio affidato alle sue cure e quello di fungere da tramite fra i libri e le persone, studiando le raccolte, mantenendone aggiornata la bibliografia, producendo cataloghi scientifici. Purtroppo la mole di nuove incombenze che le biblioteche sono chiamate ad assolvere (attività di tipo amministrativo, organizzazione di mostre ed eventi, gestione di risorse elettroniche…)  e l’assenza di un canale specifico per la selezione dei conservatori fa sì che le raccolte antiche siano spesso affidate a personale privo di competenze specifiche (o comunque oberato da altri compiti) e spinge a esternalizzare le attività di catalogazione, a danno della qualità e della continuità del lavoro.

 

Lei racconta che «nel II secolo d. C., il retore Luciano di Samostata ha reso celebre il topos del collezionista di libri ottuso e narcisista che spera di nascondere la propria ignoranza facendo incetta di volumi ricchi e preziosi». L’accumulo di libri è un modo senz’altro affascinante, ma non necessariamente efficace, di colmare lacune. In questa direzione, ma con strumenti diversi, il 5 febbraio 2020 il Senato ha approvato una legge per la promozione della lettura. Le iniziative sono diverse, la più controversa è la limitazione del tetto massimo di sconto sul prezzo di copertina dei libri (dal 15% al 5 %) per favorire le piccole librerie. Ma ci sono anche misure che hanno portato meno malumori, come per esempio i fondi a sostegno delle biblioteche scolastiche, l’introduzione della Carta della cultura o l’istituzione, ogni anno, di una Capitale italiana del libro. Secondo lei serve il legislatore per alimentare l’amore per i libri e la lettura?

L’operetta lucianea mi è particolarmente cara perché è stata l’argomento della mia tesi di laurea, ma il protagonista non è certo un modello di lettore appassionato. Senza entrare nel merito delle polemiche sollevate dalla legge – che affianca interventi sensati ad altri che considero discutibili – penso che la promozione del libro e della lettura non abbia bisogno di stanziamenti episodici concentrati su singoli progetti: serve piuttosto una strategia complessiva, accompagnata dalle risorse necessarie per rilanciare un servizio bibliotecario nazionale da tempo in crisi per i continui tagli ai bilanci e al personale e ormai giunto allo stremo. La passione per i libri si può senz’altro acquisire sin da piccolissimi, attraverso l’abitudine, l’esempio, l’ascolto (e la scuola ha ovviamente un ruolo essenziale in questo processo), ma la percezione della lettura come sintesi di bisogno e piacere non può prescindere dall’esistenza di biblioteche (statali, locali, scolastiche, universitarie…) funzionanti, accoglienti e aperte, adatte alla fruizione e condivisione di esperienze e conoscenze.

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Parole come muse. Conversazione con Sabrina D’Alessandro

Sabrina D’Alessandro, milanese, nata nella seconda metà del XX secolo, artista delle parole e artigiana della lingua, fondatrice dell’URPS, (Ufficio Resurrezione Parole Smarrite), è definita «archeologa del linguaggio». Quanto pesa l’archeologia e in che misura influisce la linguistica nel suo lavoro artistico?

 

Sebbene non sia linguista, ma solo studiosa con uno sguardo da artista, lessicografia ed etimologia sono le basi della mia ricerca. Ho studiato greco e latino e sono appassionata di dizionari, storici e contemporanei, nonché grande ammiratrice di linguisti come Niccolò Tommaseo, Ottorino Pianigiani, Alfredo Panzini. Per me le parole sono esseri viventi, quindi posso propriamente dire di essere anche appassionata di tassonomia e in particolare di specie rare; mi piace cercarle con metodo o scovarle per caso, classificarle secondo categorie e, se serve, ridefinirle. Il lato artistico mi porta poi a trattarle come oggetti d’arte e a trasformarle in immagini, installazioni, video, pubblicazioni, riti psicovocali (link), espressioni mutoparlanti (link), ma la linguistica rimane per me il fondamento. L’archeologia è una bella metafora di Jean Blanchaert che, nel suo saggio La sinossi di Blanchaert (in Ufficio Resurrezione, Archivio 1, Firenze 2012), paragonava le parole riscoperte dall’Urps a punte di selce, disseppellite da secoli di stratificazioni lessicali… «L’archeologia di per sé può anche essere noiosa, centinaia di punte di selce messe l’una dietro l’altra in bacheche di musei polverosi. Però sia queste punte di selce che altri reperti, se rivitalizzati, se rianimati con la loro stessa anima, possono raccontarci molte cose». Ed è questo che cerco di fare ogni giorno con l’Ufficio Resurrezione.

 

«La parola è la chiave fatata che apre ogni porta» diceva don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, in una lettera del marzo del 1956. Quali porte aprono le sue chiavi o, in altre parole, come nasce la sua ispirazione?

 

È vero, le parole sono chiavi che aprono infinite porte. La prima è quella cognitiva; mi affascinano in particolare le parole che attirano la mia attenzione su dettagli che altrimenti non vedrei, portandomi a osservare meglio la realtà e, di conseguenza, fornendomi migliori strumenti per indagarla, rappresentarla e infine, quando possibile, reinventarla. Le parole hanno questo potere non solo nel significato, ma anche nel significante: mi piace giocare tra queste dimensioni, confonderle e metterle in cortocircuito lavorando sia sul piano concettuale, sia sul piano sonoro e visivo. Non potrei chiedere di più a una musa.

 

Nel suo sito si legge che l’URPS è un «ente preposto al recupero di parole smarrite benché utilissime alla vita sulla terra». Chi o che cosa decreta la morte di una parola?

 

Per parole smarrite intendo parole rare o cadute in disuso. Smarrite nell’uso dunque, sebbene in molti casi ancora registrate nei dizionari. Generalmente il vocabolario decreta che una parola è desueta utilizzando il simbolo della croce, ma per fortuna come in religione anche nel linguaggio la morte non è definitiva, una parola può sempre tornare a vivere se adottata da un certo numero di parlanti o se (come da poetica dell’Urps) riportata all’attenzione e rappresentata. Alcuni termini su cui lavoro sono comunque talmente rari o arcaici da non essere più registrati nei dizionari contemporanei. Riporto il caso di sbaglione (chi commette molti errori), che ad esempio in questo momento (febbraio 2020) non compare sul vocabolario della Treccani online: non è praticamente usata, altrimenti sarebbe stata presente, ma è una bella parola. E io sono grande sostenitrice dell’utilità della bellezza. Tornando al tema delle ispirazioni e delle piccole rivoluzioni cognitive che alcuni vocaboli instaurano, lo sbaglione ha operato una trasformazione nella mia cognizione dell’errare, portandomi ad esempio a “riconoscere”, e dunque a titolare, come sbaglioni opere e azioni il cui guizzo vitale consiste proprio nel loro margine di errore. Lo sbaglione contiene l’allegria dell’errare: una qualità che può portare a essere più indulgenti con i propri errori e quelli degli altri.

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Parola di Lincoln. Conversazione con Nadia Terranova

Nadia Terranova, autrice del romanzo finalista al premio Strega (2019) Gli anni al contrario, ha recentemente tradotto per Edizioni EL – Einaudi Ragazzi – Emme Edizioni Lettera all’insegnante di mio figlio di Abraham Lincoln (illustrato da Giulia Rossi).

 

Parliamo con lei di traduzione, letteratura e scrittura.

 

Nel contributo “Traduco, traduco, traduco”: Luciano Bianciardi traduttore tra ispirazione e ossessione (link), Flavio Santi sostiene che: «Probabilmente in tutta la storia della letteratura non esiste un altro scrittore che come Luciano Bianciardi abbia dedicato tanta e tale attenzione a quella che, di fatto, è l’operazione più simile alla scrittura in proprio, la traduzione […]». Secondo lei, quanto si avvicina l’atto del tradurre alla scrittura?

C'è la ricerca della parola giusta, che può durare anche giorni, e c'è la meta di restituire un'atmosfera, a costo di perdere e poi recuperare qualcosa nello stesso paragrafo. Però dover essere fedeli a sé o a un'altra voce cambia tutto.

 

Diceva Bianciardi che «quando incontri un autore che scrive esattamente come avresti sognato di scrivere tu, allora ti sembra di inventare, non di tradurre».

Non è la prima volta che lei si cimenta con la traduzione: le è mai capitato di identificarsi con autori o autrici?

Sì, quando ho tradotto gli adattamenti a fumetti dei romanzi di Jane Austen. Poiché non sono una traduttrice professionista, avevo accettato solo perché conoscevo benissimo la voce dell'autrice.

 

Senza l’opera dei traduttori, la nostra conoscenza sarebbe assai limitata o, per dirla con le parole di George Steiner, «senza la traduzione abiteremmo province confinanti con il silenzio». Eppure, nonostante l’Italia sia uno dei Paesi dove si traduce di più, il mestiere del traduttore è sottopagato e poco valorizzato. Come far capire a chi legge un libro che la mediazione della traduzione è essenziale?

Insistere sul nome del traduttore è giustissimo, come sacrosante sono le sue battaglie per il riconoscimento di un lavoro tostissimo. Ma credo sia un po' nella natura del mestiere essere anche invisibile. Lo è perfino l'autore, rispetto alla sua opera.

 

Si è confrontata con un personaggio che ha fatto la storia: non ha avuto timore?

Sì, moltissimo! All'inizio ero terrorizzata e ho rimandato di molto il lavoro. In quei mesi ho studiato il testo da tutte le angolazioni. Poi, all'improvviso, ho trovato la chiave e allora è stato tutto semplice e giocoso.

 

Le parole che Lincoln rivolge all’insegnante del figlio sembrano molto attuali («gli insegni […] che per ogni mascalzone esiste un eroe, per ogni politico corrotto un leader appassionato»; «lo istruisca su come farsi beffa dei cinici»; «provi a dare la forza a mio figlio di non seguire la folla»). Del resto, alcuni precetti non hanno tempo.

Impressionante come questo testo sia eterno.

 

«Non solo essere docenti non è più in alcun modo prestigioso. E pace. Ma non è quasi neppure dignitoso nel comune sentire. Si parte a insegnare con un debito di fiducia, ed è tutto da dimostrare l’esser bravi insegnanti» spiega Mariapia Veladiano, scrittrice ed ex docente, nel suo Parole di scuola (Milano, Guanda, 2019). Rivolgersi come fa Lincoln ad un insegnante, anche se idealmente, appare un gesto di altri tempi. Oggi il dialogo tra le famiglie e la scuola sembra essersi deteriorato, se non definitivamente esaurito. Da dove ripartire per riprendere a dialogare? Perché, secondo lei, agli occhi di molti la scuola e gli insegnanti sono così sottovalutati?

Oggi veramente corriamo il rischio opposto: genitori troppo ingombranti, che non riconoscono più alla scuola alterità e autorevolezza e pretendono di sostituirsi all'insegnante delegittimandolo. Lì vedo il vero pericolo.

 

Lei scrive anche per bambini e ragazzi. Qual è, secondo lei, la lingua più adatta per essere compresi e ascoltati dai giovanissimi?

Leggera e robusta insieme, semplice ma non banale, complessa e profonda ma non ostica. Sembra facile ma non lo è affatto.

 

L’Italia è un Paese in cui si legge poco. Tuttavia bambini e ragazzi sono lettori più appassionati degli adulti. Secondo lei, come si può mantenere vivo l’interesse per i libri?

Incentivando le attività di librerie e biblioteche, lasciando libertà di scelta nel coltivare i propri gusti e non dimenticando mai di divertirsi mentre si impara.

 

Lei ha tradotto anche alcuni adattamenti a fumetti dei romanzi di Jane Austen. Come si è trovata a confrontarsi con la lingua dei fumetti?

È stato difficile soprattutto non tradire, tenendo in più conto delle gabbie, dei limiti delle nuvolette… Un bell'esercizio.

 

Che rapporto c’è tra scrittura e illustrazione? Non pensa che anche l’illustrazione sia una sorta di traduzione?

Già: è anch'essa una riscrittura, come l'interpretazione di un attore. Il testo è lo stesso, ma può avere mille voci diverse.

 

 

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Discorsi di odio, veleno per l’Europa

Il 22 novembre 2019 è stato presentato a Roma il dossier Words are stones. Analisi dell’hate speech nel discorso pubblico in sei paesi europei (link al dossier), curato da Lunaria, in collaborazione con cinque associazioni che promuovono, tra le altre cose, azioni contro il razzismo, a favore delle pari opportunità e dell’integrazione.

Il documento presenta gli studi elaborati da sei associazioni – Adice (Francia), Antigone-Centro di informazione e documentazione su razzismo (Grecia), KISA (Cipro), Grenzenlos (Austria), Lunaria (Italia), SOS Racisme (Spagna) – sui discorsi di odio del dibattito politico, nell’ambito del progetto Words are Stones.

Abbiamo rivolto 10 domande a Grazia Naletto, responsabile dell’area Migrazioni e lotta al razzismo di Lunaria.

 

Il linguista Andrea Moro, in un suo recente saggio (La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo, Milano, La nave di Teseo, 2019), mette in guardia sui pericoli del «razzismo linguistico», aiutandoci, per esempio, a comprendere meglio «cosa c’è di sbagliato nel significato della parola razza, e come quel che c’è di sbagliato in quella parola, e che crediamo estirpato, possa essere invece trapiantato, senza che noi ce ne accorgiamo, e germogliare in un altro, fertile, terreno». Nel dossier non si utilizza mai né parola razza né altri derivati, se non tra virgolette. Da dove nasce questa scelta?

È stato ampiamente dimostrato che l’uso della categoria razza applicato al genere umano non ha alcun fondamento scientifico. Continuare ad utilizzare la categoria razza significa, a nostro modo di vedere, riconoscerne la legittimità scientifica. Poiché essa è però presente nelle fonti normative internazionali e nazionali contro le discriminazioni, persino nella nostra Costituzione (art. 3), laddove si rende necessario citare la legislazione, siamo costretti a utilizzarla. Le virgolette sono una presa di distanza, un modo per ricordare che la categoria non ha alcun fondamento scientifico.

 

Cosa si intende per ‘discorsi di odio’ o hate speech?

Sono note da tempo le problematiche insite a una definizione controversa che sul piano normativo non ha trovato una piena condivisione a livello internazionale e nazionale.

La legislazione italiana non offre, ad esempio, una definizione dei cosiddetti ‘discorsi di odio’. Occorre dunque fare riferimento alle fonti internazionali. Tra quelle rilevanti: la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICPRR) (link), adottata nel 1966 ed entrata in vigore nel 1976 (Art. 20); la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (CERD) (link), adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 dicembre 1965 e entrata in vigore il 4 Gennaio 1969 (Art.4); la Raccomandazione sull’hate speech del Consiglio d’Europa No. R (97) 20 (link), adottata il 30 ottobre 1997 e la Raccomandazione di politica generale n. 15, adottata l’8 dicembre 2015 adottata dalla Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza (ECRI) (link).

In base a quest’ultima definizione, per ‘discorso di odio’ deve intendersi il «fatto di fomentare, promuovere o incoraggiare, sotto qualsiasi forma, la denigrazione, l’odio o la diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo, nonché il fatto di sottoporre a soprusi, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce una persona o un gruppo e la giustificazione di tutte queste forme o espressioni di odio testé citate, sulla base della "razza", del colore della pelle, dell’ascendenza, dell’origine nazionale o etnica, dell’età, dell’handicap, della lingua, della religione o delle convinzioni, del sesso, del genere, dell’identità di genere, dell’orientamento sessuale e di altre caratteristiche o stato personale».

L’hate speech presenta dunque le seguenti caratteristiche principali:

- identifica manifestazioni di pensiero pubbliche e denigratorie che intendono suscitare una reazione o un’azione ostile, discriminatoria o violenta da parte degli interlocutori;

- incita alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza contro un individuo o un gruppo sociale determinato, identificato sulla base di pregiudizi e stereotipi negativi utilizzati come elementi di differenziazione inferiorizzante rispetto al gruppo di appartenenza dell’aggressore;

- viola alcuni diritti fondamentali della persona: il diritto di eguaglianza, alla dignità umana, alla libertà, alla partecipazione alla vita politica e sociale.

È importante osservare che, per qualificare un messaggio come hate speech, non è sufficiente il suo contenuto (anche profondamente) offensivo, ma occorre che tale messaggio sia pubblico e risulti finalizzato a suscitare nell’interlocutore un’azione ostile, discriminatoria o denigratoria. Risiede proprio qui la difficoltà applicativa delle norme laddove non è sempre facile accertare l’intenzione, l’incitamento o l’incoraggiamento dell’autore del messaggio a odiare, discriminare, denigrare, fare violenza.

 

Tra gli obiettivi del dossier c’è quello di «analizzare dal punto di vista della società civile l’involuzione che sta interessando la comunicazione e la propaganda politica in Europa, quando si occupa di migranti, richiedenti asilo, rifugiati, rom o comunque di minoranze considerate estranee a priori rispetto al gruppo dominante». Ci può fare qualche esempio?

Gli “argomenti” chiave più ricorrenti nelle retoriche ostili sono i seguenti: invasione (dei migranti); sicurezza (che sarebbe messa a rischio dai migranti e dai Rom e a cui si connette “l’allarme terrorismo”); insostenibilità sociale ed economica (dei migranti); competizione (dei migranti e dei Rom nel welfare e nel mercato del lavoro); incompatibilità culturale (in particolare con le persone di fede musulmana e con i Rom).

Gli esempi sono, purtroppo, molti anche se non sempre le retoriche politiche fortemente stigmatizzanti e offensive sono riconosciute come tali a livello giuridico. Alcuni esempi?

«Non sono rifugiati. Questo è un afflusso di persone che cercano di ingrassare in Europa. C'è un piano per rovinarci», Grecia, 17 ottobre 2018.

«I musulmani sono inviati a Cipro dalla Turchia come cosiddetti rifugiati con l’intenzione di modificare la nostra identità nazionale e culturale», Cipro, Natale 2017. «PrimaiFrancesi, #viaimigranti” in questa #Francia del 2018 che abbandona il suo popolo per prendersi cura degli altri», Francia, 7 agosto 2018. «Perché non possiamo accettarli tutti, perché se dovessimo accettarli tutti, non ci saremmo più noi come realtà sociale, come realtà etnica. Perché loro sono molti più di noi e molto più determinati nell’occupare questo territorio. Qui non è questione di essere xenofobi o razzisti», Italia, 15 Gennaio 2018.

 

Le leggi possono essere uno strumento utile per fermare o limitare i cosiddetti “reati di odio”?

Le leggi sono utili soprattutto quando sono applicate, ma non bastano. È del tutto illusorio pensare di prevenire e di contrastare i discorsi e i reati di odio solo percorrendo le vie legali. Servirebbe una strategia coordinata tra gli attori politici e istituzionali e le diverse aree della società civile per un piano nazionale di interventi in campo sociale, educativo, culturale, mediatico, sportivo e sì, anche legale.

 

Quali sono i «gruppi bersaglio» più stigmatizzati nel dibattito politico? In altre parole, contro quali categorie di persone sono indirizzati maggiormente i discorsi di odio?

Le retoriche ostili, come tutte le forme di discriminazione, colpiscono quegli individui e quei gruppi vulnerabili, considerati di volta in volta come “estranei” al gruppo dominante. Nel dibattito politico, la creazione di capri espiatori è utilizzata per conquistare il consenso dell’opinione pubblica. Le donne, gli omosessuali, i cittadini di origine straniera con una storia di migrazione vissuta direttamente o indirettamente, le persone di religione musulmana o ebraica, i Rom sono sicuramente tra i gruppi più colpiti. In Italia e in Spagna il discorso razzista è tornato in modo preoccupante ad essere attraversato da forme di razzismo biologico e a colpire le persone nere.

 

«In mare aperto ti viene detto di andare sempre dritto e che lì troverai l’Italia, ma l’orizzonte muta e quell’andare dritto potrebbe non esistere. In mare i cellulari non prendono, non c’è nessuno e non c’è nessun taxi da chiamare» (In mare non esistono taxi, Roberto Saviano, Contrasto, 2018). Talvolta, parole o espressioni ‘neutre’, usate in determinati contesti, assumono un significato terrificante. Come taxi del mare…

Questa espressione, utilizzata in Italia a partire dal marzo 2017 con riferimento all’attività di ricerca e soccorso in mare svolta dalle Ong, ha contribuito a cambiare l’orientamento dell’opinione pubblica italiana rispetto a queste missioni. Come ha efficacemente scritto in un suo rapporto (Navigare a vista. Il racconto delle operazioni di ricerca e soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale) l’associazione Carta di Roma (link al documento), da quel momento le attività delle Ong è stata vista con sospetto da parte di un numero crescente di cittadini. E non è un caso che nel corso del nostro lavoro abbiamo scoperto che un’espressione molto simile è stata utilizzata da parte di un politico spagnolo nel 2018. Espressioni come queste hanno avuto un forte impatto simbolico e hanno alimentato una campagna di criminalizzazione di ogni forma di solidarietà con i migranti in diversi Paesi europei.

 

Ci può fare qualche esempio di lessico «drammatizzante e allarmistico quando non esplicitamente deumanizzante, denigratorio e violento»?

La migrazione presentata come «un’invasione, un’emergenza, una crisi, un’immigrazione di massa, uno tsunami»; i cittadini stranieri definiti come «criminali» e come un «pericolo per le donne»; i fedeli di religione musulmana individuati come portatori di una «minaccia all’identità etnica, culturale, religiosa»; «meglio le pantegane dei Rom». Si tratta di un lessico divisivo unicamente finalizzato a generare e ad alimentare nell’opinione pubblica paura, ostilità e polarizzazione tra i “noi” europei maggioritari e i “loro” stranieri, Rom, migranti, rifugiati, neri.

 

Se i discorsi di odio parlano “alla pancia” in che modo possiamo usare il cervello per contrastarli?

Innanzitutto, acquisendo la consapevolezza che le parole, soprattutto oggi, nell’era della comunicazione resa (solo virtualmente) paritaria dalla diffusione delle nuove tecnologie, hanno un peso e possono sollecitare, ispirare, incoraggiare concreti comportamenti sociali. In secondo luogo, adottando la strategia multidimensionale cui ho accennato e che nel nostro dossier cerchiamo di descrivere più in dettaglio. Terzo, e credo che questa sia la cosa più importante, agendo sulle radici profonde di quelle diseguaglianze economiche e sociali che negli ultimi anni sono cresciute e che sono non certo la causa, ma la linfa più pericolosa per la proliferazione dei discorsi e delle violenze razziste. Da questo punto di vista il ruolo delle istituzioni e degli attori politici è centrale.

 

Con cinque aggettivi, come descriverebbe la società italiana del XXI secolo?

È una domanda impegnativa a cui è difficile rispondere senza rischiare di compiere generalizzazioni improprie. Con molta prudenza, parlerei di una società spaesata, impoverita, frammentata, smemorata e molto competitiva.

 

In conclusione, può suggerire qualche parola–antidoto contro il veleno dell’odio linguistico?

Diritti, eguaglianza, solidarietà, giustizia e sicurezza sociale: queste mi sembrano parole (e principi) chiave di cui dovremmo riappropriarci per vivere tutte e tutti meglio.

 

Immagine: L’urlo di Edvard Munch

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La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo

Andrea Moro

La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo

Milano, La nave di Teseo, 2019

 

«Non usate con leggerezza le parole,
non fomentate odi e pregiudizi,
non dividete gli esseri umani in astratte categorie,
non offrite facili nemici a chi non cerca altro».

 

(Liliana Segre, Il mare nero dell'indifferenza, a cura di Giuseppe Civati).

 

 

Sembra impossibile che una donna alla soglia dei 90 anni possa ancora stupirsi di qualcosa. Tanto più quando si tratta di una persona sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti; una donna consapevole di essere ormai tra gli ultimi testimoni della Shoah, e che, pur di mantenere viva la memoria di ciò che ancora oggi è difficile da credere, è disposta a ripiombare nel suo inferno personale per testimoniare l’orrore, perché nessun altro essere umano debba rivivere l’atrocità del male.

Il 30 ottobre 2019, «con 151 voti favorevoli, nessuno contrario e 98 astenuti, l'Aula […], a conclusione dell'esame delle mozioni per l'istituzione di una Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza, avviato nella seduta di martedì 29 ottobre, ha approvato la mozione n. 136 della senatrice a vita Liliana Segre» (link).

Novantotto silenzi. Com’è possibile? «Davo per scontato che il Senato della Repubblica l'avrebbe accolto come si accoglie un principio fondamentale di civiltà. Il mio sentimento davanti alle astensioni? Stupore, un profondo senso di stupefazione. Come difficilmente ci si può sorprendere alla mia veneranda età» (link).

E, se non fosse stato abbastanza, sempre nel nostro mondo al contrario, Liliana Segre è stata oggetto di minacce e insulti, tanto che è stato deciso di proteggere la sua persona assegnandole una scorta.

C’è un pericolo tangibile che serpeggia: smontare giorno dopo giorno le basi su cui poggia il razzismo, minare dalle fondamenta l’edificio dell’ignoranza, dell’odio e dell’indifferenza è diventato un dovere di tutti, un dovere civile cui non è più possibile sottrarsi.

Professore di linguistica generale alla Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia, Andrea Moro, nel saggio La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo, ci conduce nei meandri del razzismo linguistico con osservazioni di ampio respiro e con un linguaggio non necessariamente rivolto a studiosi ed esperti. «La preoccupazione per il ritorno di un pensiero discriminatorio e violento deve rimanere sempre viva, perché esso può scatenarsi di nuovo contro chiunque, in ogni tempo» (pag. 23).

Il razzismo linguistico è un rischio concreto, su cui bisogna proporre una riflessione approfondita, che Moro conduce in modo brillante, portandoci ad osservare ciò che è avvenuto (e sta avvenendo) da prospettive differenti, che vanno dalla filosofia alle neuroscienze, dalla biologia alla medicina.

Innanzitutto è utile soffermarsi sul fatto che non è sufficiente, e peraltro poco efficace quanto nocivo, il lavoro di «cosmesi lessicale» che porta, per esempio, a sostituire la parola razza con un nome diverso (p. 18).

«Difficile immaginare come il passaggio dal termine razza a etnia possa risolvere il problema; la scelta sembra più che altro un ammiccamento alla correttezza sociale o a una superstizione ideologica» (p. 14). «L’uguaglianza si difende con la valorizzazione della diversità, non con la minimizzazione delle differenze, tanto meno con quella che si ottiene tramite operazioni di maquillage lessicale: il razzismo linguistico va snidato anche da questi subdoli anfratti» (p. 126).

Il discorso di Moro procede dimostrando con minuzia quanto sia infondato pensare ad una gerarchia delle lingue: «la più pericolosa nozione di razza che dobbiamo temere è quella che deriva dalla convinzione che esistano lingue migliori e che dunque esistano persone migliori, non per i caratteri fisici ma per la capacità di comprendere e di comunicare […]» (p. 153).

Che entusiasmi alcuni o che non piaccia affatto ad altri, da un punto di vista biologico, parliamo tutti la stessa lingua,  e la comprensione che del  mondo abbiamo non dipende dalla lingua che parliamo ma dalla nostra struttura biologica (nostra, cioè tipica degli esseri umani). È poi evidente e del tutto comprensibile che possiamo essere più legati a suoni e parole di una specifica lingua, per motivi affettivi e personali. Ma non esistono né «lingue stupide» né «lingue geniali»: «si possono dire cose da imbecilli nella stessa lingua di Dante, perché ovviamente dipendono dalla persona che le dice, non dalla grammatica che usa» (p. 127).

Con una bella immagine, Moro rileva che lingue e parole «non contengono significati così come i cieli non contengono costellazioni ma solo stelle: siamo noi che le combiniamo in figure osservando la loro luce con occhi umani e con un cervello umano […] noi non vediamo la luce; vediamo solo gli effetti che essa ha sugli oggetti […]. Allo stesso modo funzionano le parole: non hanno contenuto in sé, ma se incontrano qualcuno che le ascolta diventano qualcosa» (p. 152).

A partire dalla seconda metà del Novecento, una delle più radicali rivoluzioni linguistiche fornirà nuovi elementi per demolire il razzismo della lingua. La svolta dello studioso statunitense Noam Chomsky (Filadelfia, 1928) riguardo all’acquisizione del linguaggio condizionerà perfino la medicina.  Con il titolo Una grammatica generativa per il sistema immunitario, l’immunologo danese Niels Jerne presentò «la conferenza che tenne alla cerimonia durante la quale, per questa idea che esplicitamente riconduce a Chomsky, fu insignito del premio Nobel per la medicina» (p. 68).

Così, «sulla base di un’analisi comparata della struttura delle lingue condotta in termini matematici e dei dati inerenti all’apprendimento spontaneo delle lingue nei bambini, a partire dai primi lavori di Chomsky si ipotizza che la struttura delle lingue umane sia espressione della struttura neurobiologica degli esseri umani e lo sia in modo esclusivo; questa struttura guida l’apprendimento» (pag. 74). In questo modo, se ognuno di noi, da un punto di vista neurobiologico, nasce attrezzato per poter costruire e interpretare tutte le lingue, viene meno qualsiasi fondamento che conduca al razzismo linguistico.

Con un forte richiamo alla responsabilità, Andrea Moro è giustamente categorico nelle sue conclusioni: «Chi crede che quello che ho cercato di argomentare non sia vero e sostiene che le lingue condizionino il modo di vedere la realtà e che ci siano lingue migliori di altre è ovviamente liberissimo di continuare a crederlo e di battersi per provarlo ma deve rendersi conto che con questa posizione si assume la responsabilità di aprire uno spazio fertile a chi intende discriminare le persone secondo ciò che è più prezioso» (p. 153).

 

Testi citati

Giuseppe Civati, Liliana Segre, Il mare nero dell'indifferenza, Gallarate (VA), People, 2018.

Istituzione Commissione straordinaria contrasto fenomeni intolleranza: approvata mozione Segre in Aula, Senato.it (30 ottobre 2019)

Simonetta Fiori, Liliana Segre: “Stupita dal voto. Non ci si può astenere dalla lotta al razzismo”, Rep: (31 ottobre 2019).

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Parole di scuola

Mariapia Veladiano

Parole di scuola

Milano, Guanda, 2019

 

La scuola è un’esperienza (quasi) universalmente condivisa. Chi più chi meno, ognuno di noi, in Italia, ha frequentato la scuola da studente; poi può averla (ri)frequentata da insegnante, da genitore o con altre mansioni. Forse per questo motivo quasi tutti hanno da dire qualcosa sulla scuola, anche senza conoscerla. Una scuola spesso ostaggio della propaganda politica, usata in campagna elettorale per sventolare una bandiera in faccia a quel politico o a quel ministro, le cui «diagnosi non sono quasi mai stilate da donne e uomini della scuola», bersagliata da «proposte reazionarie al limite del terrapiattismo pedagogico», per usare la felice immagine di Alberto Sobrero (link).

 

Mariapia Veladiano la scuola l’ha conosciuta sul serio e l’ha vissuta con tutte le sue contraddizioni, sentendosi addirittura di doverla abbandonare con un gesto estremo di coerenza e, perché no, di amore (link).

Scrittrice, insegnante prima, preside poi, Veladiano con Parole di scuola imbastisce una storia fatta di parole sperimentate nel corso di una trentennale esperienza. Ed emerge chiaramente dalle pagine di questo volume.

Non si tratta di un amore cieco ma ben consapevole. Partire dalla realtà non può che generare analisi lucide e grande chiarezza. Ed ecco che la Veladiano mette nero su bianco ciò che in pochi hanno il coraggio di ammettere. «Non solo essere docenti non è più in alcun modo prestigioso. E pace. Ma non è quasi neppure dignitoso nel comune sentire. Si parte a insegnare con un debito di fiducia, ed è tutto da dimostrare l’esser bravi insegnanti. “Almeno il postino prende la pioggia” ha detto uno studente che contestava la fatica dell’insegnare» (p. 13).

Ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli se non fosse che «la parola abita le aule di scuola». Ripartire è necessario e possibile. Per esempio, restituendo protagonismo alle parole, «perché possono essere forti senza essere violente, possono trasformare il mondo, possono ricostituire la fiducia e la giustizia, e mettono in gioco la volontà, l’intelligenza delle donne e degli uomini» (p.20).

Sono tanti i termini su cui rimettere mano per comprendere e poi riparare la scuola («chi insegna sa l’arte del riparare» p. 101). Come anelli di una lunga catena, al centro di ogni capitolo l’autrice colloca le parole chiave per far luce sulla scuola così com’è oggi, con competenza e consapevolezza, ad anni luce dal «vanverismo pedagogico» dilagante (link).

 

Per cominciare, non è casuale la scelta di integrazione: «in italiano la parola ha conservato il significato proprio del latino da cui proviene, cioè l’idea di un movimento che porta al compimento della realtà, che rappresenta sia un crescere della realtà di cui si parla, sia un farla diventare diversa da come era proprio grazie al nuovo che è arrivato». Sempre sul filo del significato, l’autrice rimarca che «Se il contrario di integrazione è disintegrazione allora è in gioco tutto. Una società disintegrata è finita» (p. 21).

Si prosegue con armonia («Nella costruzione di questa armonia fra generi la scuola ha un ruolo grande quanto trascurato», p. 25);  gender («una crociata sul nulla quella del gender, che ha lacerato la scuola o almeno l’ha coperta di sospetto», p. 37); competizione («dal latino cum – con, insieme – e pètere – andare verso -, ovvero andare insieme verso uno stesso punto», p. 39); meritocrazia («solo se tutti partissero dallo stesso stato sociale (ricchezza), culturale, di salute (poter diagnosticare e curare le malattie). Ma non è così», p. 44); paura («di essere emarginato, paura del maestro severo, dei compagni gagliardamente crudeli secondo l’età, di non capire di restare indietro, fuori», p. 45). Le tessere sono tante e sono fatte di protezione, educazione, (prima gli) italiani, identità, empatia, libri e molto altro ancora.

È una scuola possibile la scuola di cui si parla in questo libro, una scuola dove al primo posto ci sono le persone, adulte e giovani, impegnate insieme a costruire nel rispetto e nell’ascolto dell’altro, in una relazione educativa orizzontale, gentile, accurata. È una scuola accogliente, «aperta a tutti» secondo l’articolo 34 della Costituzione e non per «un ghiribizzo sinistrorso»; «perché quella che viviamo è la nostra unica vita, l’unica vita di ciascuno di noi, e non esiste una gerarchia nell’attribuzione dei diritti umani, non può essere la geografia della fortuna il fondamento della gerarchia dei diritti», (p. 59). 

 

All’ingresso di un liceo del Salernitano, è stata collocata una pietra di inciampo, come quelle dedicate ai cittadini ebrei deportati nei campi di concentramento, per ricordare ogni giorno, a chiunque varchi la soglia di quell’Istituto, un ragazzo del Mali di soli 14 anni, di cui non si conosce il nome ma il triste destino, che perse la vita «il 18 aprile 2015, nel più spaventoso naufragio avvenuto nel Mediterraneo dalla seconda guerra mondiale, dove morirono annegati nel canale di Sicilia oltre mille esseri umani che cercavano di raggiungere il nostro paese. […] Cristina Cattaneo, medico legale che ha raccolto con cura le sue spoglie, nel libro Naufraghi senza volto ha rivelato un dettaglio che ha commosso molti. Cucito nel risvolto di una tasca dei suoi abiti ha trovato infatti, ben riposta, la sua pagella piena di buoni voti scritti in arabo e francese. Un documento che dava prova del suo impegno scolastico e che lui ha desiderato portare con sé nella lunga traversata del deserto e del mare, perché probabilmente sognava potesse fargli da lasciapassare nel trovare un lavoro o magari proseguire gli studi» (link).

Questo giovane, ricordato anche dal Presidente Mattarella nel discorso di inaugurazione dell’anno scolastico 2019/2020, che non avremmo mai voluto diventasse un simbolo, porterà sempre con sé un messaggio di speranza, che dobbiamo avere la forza di trasmettere, con le parole giuste.

«E allora resta la scuola, quando le parole si son perse, la scuola ritrova la strada. Qualcuno ha detto tempo fa che la scuola è un potere forte. Vero, ma non nel senso inteso da chi parlava. Potere fortissimo, sì, di dare ai bambini e poi ai cittadini le parole per dirsi, capirsi, difendersi, capire il sopruso e poi lottare contro l’ingiustizia» (p. 20).

 

Testi citati

Alberto Sobrero, Educazione linguistica democratica fra realtà e “negazionismo”, Treccani.it (4 ottobre 2019).

Fabio Giaretta, Questa scuola è diseguale, ilgiornaledivicenza.it (5 settembre 2019).

Rosarita Digregorio, A proposito di “La scuola è politica. Abbecedario laico, popolare e democratico”, Treccani.it (4 ottobre 2019).

Franco Lorenzoni, Una pietra d’inciampo per ricordare un giovane migrante, Internazionale.it (2 febbraio 2019).

 

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L’italiano che parliamo e scriviamo

Sabina Gola (a cura di)

L’italiano che parliamo e scriviamo

Firenze, Franco Cesati editore, 2019

 

Quale lingua parliamo e come percepiamo la nostra lingua? Sono molti e molto interessanti gli spunti di riflessione dei dieci studiosi della lingua italiana che, con i saggi raccolti nel libro L’italiano che parliamo e scriviamo, si soffermano ad analizzare da più punti di vista la rappresentazione e la percezione collettiva dell’italiano. Come sottolinea Giuseppe Antonelli nell’Introduzione, «l’opinione pubblica fatica ad accettare il fatto che la lingua segue la storia e, come un notaio, la verbalizza: quando capita qualcosa di nuovo, la lingua ne prende atto».

È inutile negare che, così come il mondo nel quale viviamo, anche l’uso dell’italiano si modifica e non necessariamente verso il basso. Nonostante il catastrofismo al quale molti non riescono a sottrarsi, Antonelli ci rassicura ricordando che «oggi, a dispetto dei tanti giudizi apocalittici, l’italiano gode di una salute migliore del passato. Non solo perché è finalmente usato da (quasi) tutti gli italiani in (quasi) tutte le situazioni comunicative. Ma anche perché l’attenzione alla lingua e alla sua correttezza si è fatta sempre più spiccata, rafforzando quella “salutare sensibilità – o ipersensibilità – nei confronti della lingua nazionale” che Luca Serianni riconduce alla lealtà linguistica».

Rita Fresu si sofferma sulla relazione tra lingua e genere. Nel capitolo Il linguaggio femminile e maschile nell’italiano contemporaneo: orientamenti e linee di tendenza, la studiosa interpreta e analizza le più recenti indagini sociolinguistiche evidenziando «da un lato, una progressiva attenuazione della percezione di una differenza tra i comportamenti linguistici dei due generi, almeno nell’immaginario dei parlanti; dall’altro – e ciò pare l’elemento di maggior rilievo – un graduale abbandono della visione della lingua maschile come varietà neutra».

Stefano Nobile, con L’italiano della canzone: una prospettiva sociolinguistica, tra caratteristiche e trasformazione della canzone italiana, si sofferma «non solo sulle differenze tra i diversi decenni, ma anche su aspetti generali o, al contrario, su peculiarità riferibili ai singoli generi o a determinati artisti, avendo come riferimento soprattutto il lessico utilizzato». Purtroppo, in questo àmbito, le conclusioni non sempre sono confortanti: «Qualcosa sul piano lessicale, […] è andato perso negli anni. Sono arrivate iniezioni di parole straniere, dialettali e turpiloquio “a gogo”. Ma al di là del vocabolario, è la dimensione poetica ad aver ceduto il passo a un lirismo banalizzato, nel quale è atrofizzata buona parte della ricerca metrica e compositiva».

Di punteggiatura si occupano i due capitoli seguenti.

«Le specificità interpuntive che oppongono la lingua mediata dalla rete alla scrittura (neo)standard, a partire dall’angolatura offerta da due segni di punteggiatura funzionalmente diversi: la virgola enunciativa – segno segmentante – e i puntini di sospensione – segno interattivo» sono alla base dello studio proposto da Angela Ferrari e Filippo Pecorari nel capitolo La punteggiatura italiana contemporanea tra (neo)standard e lingua mediata dalla rete. Il caso della virgola e dei puntini di sospensione.

Uno sguardo d’insieme (declinato anche attraverso numerosi esempi) sull’uso della punteggiatura nelle tavole disegnate ci offre il saggio Quando i punti esclamativi diventano suoni: la punteggiatura nel fumetto di Luca Raffaelli, che definisce la narrazione a fumetti «un’emozione (qualcosa di simile a un sogno, o a un ricordo) che, seguendo la punteggiatura del disegno e del testo, si forma nella nostra mente».

I computer non sono più semplicemente strumenti di comunicazione tra esseri umani, ma stanno diventando essi stessi interlocutori autonomi. Mirko Tavosanis (Dai computer come strumenti di comunicazione ai computer che parlano e scrivono) «esamina queste novità in prospettiva linguistica, prendendo in esame soprattutto il caso degli assistenti virtuali e degli altoparlanti intelligenti, e in particolare delle loro possibili applicazioni alla didattica e alla pratica delle lingue».

Della lingua del cinema si occupa invece Fabio Rossi con Le lingue dello schermo negli anni Duemila: tra reductio ad unum e plurilinguismo, notando che il cinema e la fiction oscillano tra «italiano standard d’impronta, più che scolastico-letteraria, doppiaggese e rappresentazione delle varietà», nonostante «il baricentro sembri sempre più spostato verso il secondo polo, che è quello cui preferiscono tendere i registi migliori, con i prodotti filmici e televisivi più interessanti (meno banali, con uno sguardo critico sulla realtà) dell’ultimo quindicennio». Thea Rimini si concentra specificamente sull’analisi dell’Italiano de La grande bellezza (il corpus è costituito dai dialoghi della sceneggiatura del film di Paolo Sorrentino pubblicata nel 2013), rilevando che «Artisti, intellettuali, nobili, clero, domestici: ognuno ne La grande bellezza ha una sua lingua. I personaggi non sono monadi e, in accordo all’epoca intermediale in cui vivono, prediligono il pastiche, la contaminazione linguistica. Sorrentino allora riserva una cura millimetrica non solo all’impaginazione visiva delle inquadrature, ma anche alla caratterizzazione linguistica dei personaggi».

Last but not least, gli ultimi due saggi di Vera Gheno e della curatrice del volume, Sabina Gola, sono entrambi dedicati alla lingua nella rete.

Vera Gheno, con il contributo Paese Reale 2.0: whateverismo linguistico e maestrine dalla penna rossa nell’Italia dei social network, si confronta con il pressappochismo delle «false competenze» e l’arroganza variamente declinata, auspicando sempre la «quieta assertività» e la «possibilità di una disputa felice». Gli esempi riportati, proposti con gustosa ironia, sono sempre fonte di interessantissime osservazioni. Richiamando la notissima «invasione degli imbecilli» di Umberto Eco, la Gheno invita però a ribaltare la prospettiva e ad utilizzare la rete per «sfruttare a nostro vantaggio l’aumentata consapevolezza dei punti di crisi della nostra lingua per cercare di fare qualcosa di costruttivo. Anche attraverso i social network – troppo spesso considerati un semplice passatempo – si può fare cultura linguistica».

Sabina Gola con Il gruppo Facebook ‘La lingua batte-Radio3’: i linguabattenti e il sentimento della norma linguistica si concentra su un campione rappresentativo (32.795 utenti al 27 luglio 2018) di italiani colti (o stranieri con un’ottima padronanza dell’italiano) che si confrontano sui temi della lingua. Un gruppo ormai quasi completamente autonomo rispetto alla trasmissione di Radio 3 La lingua batte, che condivide, prima di ogni altra cosa, un grande attaccamento alla lingua italiana. Quattro mesi di post, letti e classificati dalla studiosa, per «analizzare la percezione della norma, la consapevolezza dei mutamenti in atto della lingua e la loro accettazione da parte degli appartenenti al gruppo». Ne emerge anche una speciale catalogazione dei membri del gruppo (con tanto di stralci in appoggio a queste definizioni), che, più in generale, potrebbe essere utile a definire l’atteggiamento di molti italiani rispetto alla propria lingua, non solo quello dei linguabattenti. Si tratta dei «San Tommaso, i delusi, i prudenti, gli avversari tenaci del linguaggio burocratico, i cacciatori di ipercorrettismi, gli esasperati, gli affezionati alla maestra, gli intolleranti, i maestri, i resistenti, i fiduciosi nell’uso, i radicali, i ragionevoli e gli accomodanti nei confronti degli anglicismi».

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La scoperta della lingua italiana. Linguistica per insegnare nella scuola dell’infanzia e primaria

Raffaella Setti

La scoperta della lingua italiana. Linguistica per insegnare nella scuola dell’infanzia e primaria

Firenze, Franco Cesati editore, 2019

 

«Io prego i cari bambini, che possono tutto, di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo». Sono queste le parole che Maria Montessori (1870-1952) volle lasciare scolpite sulla sua lapide, ricordando a tutti quanto sia potente la mente di un fanciullo e, come naturale conseguenza, quanto sia centrale il ruolo dell’educatore.

Ai futuri insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria si rivolge principalmente Raffaella Setti, storica della lingua e docente di Linguistica italiana presso l’Università degli studi di Firenze, con La scoperta della lingua italiana.

Lo stupore dei bambini di fronte ad eventi che per un adulto possono sembrare scontati e il loro senso della meraviglia sono leve che ciascun insegnante dovrebbe saper maneggiare con sapienza nell’intraprendere il percorso educativo.

La parola scoperta presente nel titolo di questo manualetto di linguistica ha un significato preciso: «se ci soffermiamo a esaminare il processo attraverso il quale ciascuno di noi è passato dal possesso e uso della propria lingua materna alla capacità di riflettere su di essa fino a renderne impliciti i meccanismi che la regolano, vediamo bene che tutto questo non è altro che una scoperta, una stupefacente scoperta dal cui fascino ogni bambino, a partire dai cinque/sei anni, è attratto». Mantenere acceso il fuoco della continua scoperta potrebbe costituire una sfida per qualsiasi insegnante, a maggior ragione se opera nel mondo dell’infanzia.

L’autrice prova ad allestire una sorta di «cassetta degli attrezzi» nella quale siano presenti tutti gli strumenti necessari ai maestri per svolgere al meglio il proprio compito, «privilegiando la trattazione approfondita di argomenti mirati ai bisogni degli insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria, nell’intento di offrire loro una base solida su cui sentirsi a proprio agio nel maneggiare la materia e da cui partire per raggiungere l’acquisizione di un metodo efficace in prospettiva di una formazione continua».

I cinque capitoli (1. Alcune nozioni di base. 2. Dal noto al nuovo: suoni e lettere dell’italiano. 3. Storie ascoltate, storie lette, storie scritte. 4. Dal testo alla frase. 5. Orientarsi nell’universo delle parole) sono rivolti soprattutto all’educatore («colui che riesce a far emergere in superficie tutto ciò che i bambini sanno e sanno fare senza averne consapevolezza») con una speciale attenzione al percorso mentale e cognitivo di apprendimento della lingua italiana da parte dei più piccoli.

Se in classe si adotta un metodo di insegnamento inclusivo, che offra continui spunti di interazione con gli alunni, sarà necessario avere le idee chiare su ciò che si dice e su ciò che si propone, perché, come evidenzia la professoressa Setti «trasmettere a dei bambini le basi, i fondamenti della lingua in una forma semplice, essenziale ma rigorosa, è un compito difficile, ma socialmente e direi, politicamente, strategico».

Già dal primo capitolo, oltre alle nozioni di linguistica “in pillole”, l’autrice propone alcune riflessioni sulle relazioni tra cervello, linguaggio e movimento, ponendo l’accento su quanto sia importante, per un completo sviluppo cognitivo e linguistico, che i bambini sperimentino «con il corpo, toccando, manipolando materiali diversi e muovendosi nella realtà che li circonda, sia con azioni libere sia con esperienze strutturate di giochi in movimento».

Altro elemento su cui occorre soffermarsi è la dimensione pre-scrittoria della lingua, sempre nell’ottica dell’insegnamento ai bambini. Prima di addentrarsi nei concetti di fonema, coppie minime (molto utili anche per giocare con la lingua), nella descrizione dell’apparato fonatorio, del repertorio dei fonemi dal punto di vista articolatorio eccetera, l’autrice osserva: «Dal momento in cui si inizia il processo di alfabetizzazione, quindi da quando si impara a leggere e a scrivere, è come se si dimenticasse che c’è stata una fase della nostra vita in cui la scrittura non ci riguardava; è pertanto difficile per gli insegnanti pensare alla lingua come esclusiva sonorità a prescindere dalla sua forma scritta, ma è la strada da percorrere insieme agli allievi».

Dai suoni ai segni grafici, all’appuntamento con la lingua scritta, intorno ai cinque/sei anni, sarà importante arrivare preparati. Anche perché, a differenza della spontanea acquisizione della lingua orale, per scrivere è necessario un vero e proprio “addestramento”. Dovrebbero inoltre essere sviluppate «le abilità su cui fondare le basi dell’atto scrittorio: quelle visuo-percettive […], visuo-spaziali […] e le abilità motorie […]»; mentre per la scelta del metodo da adottare «è importante verificare che le fasi previste seguano le tappe evolutive dei bambini, senza mai perdere di vista gli aspetti ludici e di coinvolgimento che amplificano il naturale entusiasmo infantile per le novità».

Per i bambini, la scrittura e la lettura diventano una specie di chiave segreta per aprire la porta che li conduce nel «mondo dei grandi, per avere accesso a tutto quello che li circonda senza più la necessità della mediazione degli adulti».

La scoperta della lingua italiana riesce a costruire un armonico percorso intorno alla nostra lingua con un’attenzione particolare ai processi educativi e formativi dei bambini, oltretutto, ricollocando al centro di questa esperienza i veri protagonisti: i docenti e i discenti. È sempre utile ricordare quanto rileva Raffaella Setti: «gli insegnanti hanno il delicatissimo compito di guidare ciascun bambino, negli anni di sviluppo, alla scoperta del funzionamento di questo strumento affascinante e potentissimo che è la lingua: è un’impresa fondamentale perché avviene nella fase di crescita in cui si impiantano conoscenze e percorsi logici che resteranno alla base di tutti gli apprendimenti successivi». 

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Che cos’è una fanfiction

Stefano Calabrese e Valentina Conti

Che cos’è una fanfiction

Roma, Carocci editore, 2019

 

Che piaccia o meno, la lingua italiana cresce accogliendo neoconiazioni – malgrado tutto e tutti – ad una velocità che nessuno si è mai preoccupato di misurare con il cronometro ma che spesso va di pari passo con l’evoluzione della tecnologia e della terminologia specialistica che ne deriva.

Solo alcune neoformazioni godono di lunga vita: molte di esse rimangono incastrate nel mantello scuro dell’occasionalismo, altre, dopo essersi guadagnate un posto al sole, si nutrono e crescono autonomamente. Come, per esempio fanficition.

 

Ammirazione o culto?

 

Con l’agile volumetto Che cos’è una fanficition Stefano Calabrese, ordinario di Comunicazione narrativa all’Università di Modena e Reggio Emilia e Valentina Conti, dottore di ricerca in Narratologia nella medesima università, documentano un fenomeno culturale sempre più presente, e per molti versi sconosciuto, orientandoci in un panorama narrativo dai contorni non ancora ben marcati.

Innanzitutto, secondo gli autori «per fanfiction (più comunemente fanfic, fic o FF) si intende l’insieme delle produzioni narrative scritte dai fan di un’opera appartenente al mondo letterario, cinematografico, televisivo o di qualsiasi altra natura, prendendo spunto dalle storie o dai personaggi di un lavoro originale, ma anche da personaggi famosi realmente esistenti […]».

I pilastri di questo nuovo genere letterario sono comunità di appassionati che, «al di fuori del mercato letterario editoriale», intervengono riscrivendo e trasformando storie appartenenti a «materiale creativo caratterizzato da personaggi presenti in opere precedenti il cui copyright è detenuto da altri». All’autore, al suo “diritto” e al suo destino al tempo del digitale e della globalizzazione è dedicato un capitolo a parte, pieno di spunti critici molto interessanti.

Che cosa si intende per appassionati, ammiratori, sostenitori, fan, per farla breve? Come osservano gli autori, sull’origine della parola fan ci sono due scuole di pensiero, una «sostiene che fan derivi dall’inglese to fancy (“ammirare”); la seconda fa risalire il termine a fanatic, derivante dal latino fanum (tempio, luogo sacro), che si associa strettamente all’idea di cult, una forma di culto profano che rappresenta la fascia “bassa” dei comportamenti religiosi».

 

Figlie della fanfiction

 

È interessante rilevare come, intorno a questa nuova realtà, proliferino numerose parole inglesi o angloamericane (alcune di nuova formazione), la cui longevità è probabilmente legata alla fortuna che avranno appunto le fanficition. Come fanwriter (autore di fanfiction), fandom, termine che «unisce al significato di fan il suffisso locativo astratto o concetto di “dom”, “luogo dedicato a” o “popolato da” (come nell’inglese kingdom: territorio di pertinenza di un sovrano, reame) per significare l’ambito dei fan o fanitudine, comprensiva dei comportamenti o delle pratiche testuali derivanti dall’ammirazione» e prosumer «il consumer che entra attivamente nel processo del producer reclamando un ruolo di coautore».

 

Il filo della parola

 

Sempre seguendo il sottile filo delle parole, gli autori suggeriscono che «i generi specifici sorti all’interno di questo informe arcipelago narrativo […] non fungono solo da tag del contenuto di una storia, ma sottendono un insieme di familiarità tematiche e abitudini linguistiche che fanno delle fanfiction il terreno di studio oggi più succulento per chi voglia addentrarsi nelle identità culturali giovanili».

Sono cinque i criteri individuati, mettendo a confronto siti o piattaforme multifandom. A tutti questi criteri (lunghezza, coefficiente di adulterazione, morfologia, presenza di relazioni sentimentali e/o rapporti sessuali, criticità dei contenuti) sono associate moltissime parole. Ne cito solo alcune: fanfiction drabble, (di una lunghezza che va dalle 90 alle 110 parole); flashfic (111-500 parole); one Shot (un solo capitolo); AU, alternate (o alternative) universe; missing moments (momenti mancanti) e molto altro.

 

Dalla fanfiction al sé

 

Torniamo ai gusti, sui quali non si può discutere. Comunque vogliate collocarvi nell’universo della narrazione, più o meno interessati alle nuove forme di scritture, questo volumetto vi presenterà un quadro chiaro e rigoroso, utile a comprendere un mondo talvolta percepito come molto distante, pur essendo in realtà a portata di click. Se la fanfiction non vi attrae, troverete in questo saggio numerosi elementi per indagare i fenomeni interculturali nei quali siamo immersi nonché una prospettiva diversa dalla quale osservarli. Perché è innegabile che «a partire dall’invenzione del web e dal conseguente big bang della produzione di fanfiction, sono in molti a chiedersi in quale misura queste nuove modalità di scrittura e fruizione delle storie stiano modificando il modo in cui comunichiamo e come esse influiscano sul nostro potenziale neuro-cognitivo».

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Parole armate. Le grandi scrittrici del Novecento italiano tra Resistenza ed emancipazione

Valeria P. Babini

Parole armate. Le grandi scrittrici del Novecento italiano tra Resistenza ed emancipazione

Milano, La Tartaruga, 2018

 

Ecco le voci di due partigiane, tratte dal volume di Alessandro Portelli L'ordine è già stato eseguito: Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, (Feltrinelli, 2012): «Maria Teresa Regard legge la motivazione della sua medaglia d'argento al valore militare: “'Tratta in arresto e tradotta nelle prigioni di via Tasso, teneva, durante i ripetuti interrogatori, contegno virile ed esemplare nulla rivelando...'. Io virile l'ho cancellato: gli ho detto sentite, levate 'virile' perché proprio non lo reggo”». La testimonianza di Lucia Ottobrini, eroina gappista della resistenza romana, va in una direzione simile: «“Venni decorata con la medaglia d'argento da Taviani, allora ministro della Difesa. Stavo insieme a due ufficiali dell'aviazione. Mi prese per la vedova di un combattente e mi disse gentilmente 'lei, signora, è la moglie?', pensava fossi la vedova del decorato, che quello fosse morto. Gli feci, 'Guardi, la decorata sono io'”».

Valeria P. Babini, esperta di storia delle donne, è stata docente presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna. Attraverso il profondo lavoro di analisi confluito nel saggio Parole armate. Le grandi scrittrici del Novecento italiano tra Resistenza ed emancipazione, la studiosa traccia il profilo di alcune donne che la Resistenza l’hanno fatta non tanto o solo imbracciando le armi quanto combattendo attraverso le parole, a partire dalla loro condizione femminile, con sensibilità e capacità di trasmettere idee e sentimenti da una prospettiva diversa, quella di chi di guerre ne stava combattendo due insieme, una contro nemici in carne ed ossa, l’altra contro stereotipi e pregiudizi di genere.

In quel periodo cruciale della storia d’Italia, lo status della donna stava inevitabilmente mutando: nel mondo sospeso della guerra, si era raggiunta una specie di “tregua di genere”, poi in parte superata dal ritorno alla normalità e da quella tendenza all’oblio tanto cara alle italiche genti.

Già da allora, però, ci furono donne che intuirono la portata di un processo che non poteva fermarsi, nonostante il rimosso collettivo, che emerge, per esempio, negli aneddoti delle partigiane decorate.

Si tratta di scrittrici, giornaliste e intellettuali che hanno voluto fare della parola un potente antidoto alla propaganda fascista, donne che «hanno scritto, parlato alla radio, istigato al sabotaggio, alla rivolta contro il nazifascismo: insomma hanno usato le parole come armi. La comunicazione è stata la loro trincea».

L’autrice presenta nelle pagine del libro donne capaci di cogliere un potenziale cambiamento, anche grazie alla grande operazione culturale di cui si erano rese protagoniste. «Tramite il lavoro nel giornalismo radiofonico e nella comunicazione letteraria queste donne si sono impegnate in un’altra Resistenza e in una battaglia per un’altra Liberazione, che va oltre la liberazione dal nazifascismo». 

Come Fausta Cialente, la voce dell’emittente britannica Radio Cairo, la voce che parlerà agli italiani del Nord Africa e in patria dall’ottobre del ’40 al febbraio del ’43. La radio rappresentava per lei un’occasione da non perdere, «un’arma che la sorte mi poneva in mano e con quell’arma, astuzia aiutando, sul fascismo avrei finalmente sparato anch’io»; anche «uno strumento di appello alla ragione e alla coscienza degli italiani, […] uno strumento di smontaggio delle comunicazioni di Radio Roma, emittente fedelissima alla propaganda di Mussolini».

O come un’altra eroina della voce, la scrittrice cubana Alba de Céspedes, alias Clorinda, in onda prima da Radio Bari e poi da Radio Napoli, dal 10 dicembre del 1943 fino alla liberazione di Roma, nel giugno del ’44. «Mi sembra che qualcosa per la battaglia e per le armi non possiamo fare, ma qualcosa per la nuova coscienza dell’italiano sì».

Intellettuali, giornaliste, scrittrici sanno che l’impegno non può e non deve concludersi con la fine della guerra: «Per loro non è sufficiente che l’Italia sia stata liberata e che le donne abbiano acquisito il diritto di voto. I codici civile e penale dell’Italia liberale, ancora in vigore, non tengono conto della parità dei diritti indicata dalla nuova Costituzione né di quell’uguaglianza tra uomini e donne che la guerra e la lotta di Liberazione hanno promosso sul campo. C’è ancora molto da fare».

Nel saggio, si analizzano anche i lavori e l’anima di scrittrici che hanno raccontato eroine femminili che cercano il riscatto con ogni mezzo. È il caso di Anna Banti (Artemisia), Natalia Ginzburg (È stato così) e Alba de Céspedes (Dalla parte di lei),che «attraverso le figure femminili dei loro romanzi hanno puntato lo sguardo sul bisogno di un radicale mutamento dei costumi e della mentalità».

Parte da queste pagine un invito a rileggere la storia e le parole di una resistenza infinita, di donne che parlano dal passato con un coraggio e una forza capaci di superare la barriera del tempo per arrivare dritte al nostro presente, in cui sembra traballare non tanto un’uguaglianza di genere mai raggiunta quanto la necessità di essa. Un presente, il nostro, da ricostruire anche attraverso le potenti voci e l’esempio di donne che non si sono mai arrese.

/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Liberta_di_parole27.html

Libertà di parole

Undici domande a Roberto Tartaglione, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Laureato in filologia romanza per scelta, insegnante di italiano per stranieri per vocazione, fondatore e direttore di una scuola di italiano per stranieri a Roma per necessità.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Parola: all’età di otto o nove anni un ragazzino con cui litigavo mi ha detto: “e certo, a parole vinci tu. Perché nun famo a cazzotti?”. Inevitabilmente ho privilegiato la linguistica a scapito della boxe.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

Il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava. Tu scavi (Il buono, il brutto, il cattivo).

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Futtiténne (da padre napoletano).

4. La parola che la fa volare.

Grazie.

5. La parola che la amareggia.

Hashtag.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Quanto pesano cinque-seicento giga?

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Bravo (usato nel senso di “sono d’accordo”, tipo «Meglio essere sani che malati» «Bravo, infatti lo penso anch’io») – perché mi fa sentire stupido quando me lo dicono.

Consapevolezza metalinguistica – perché quando la chiamavano grammatica era tutto più chiaro.
Inclusivo – perché mi suona come il contrario di esclusivo, che si usa per il trattamento riservato alle persone agiate (exclusive).

8. Chi sono i padroni della lingua?

Quelli che hanno il potere di determinarne usi, significati e stilemi. Purtroppo di solito non si tratta di scrittori, ma di furbi politici (se populismo è stare dalla parte del popolo io sono populista!); diligenti giornalisti (pieni di cauto ottimismo); noiosi burocrati (che ci garantiscono ravvedimenti operosi); popolari star dello spettacolo o pubblicitari (cerrrto!!!) e oggi anche blogger e esperti in comunicazione social. Insomma il Potere.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Buono.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Buono.

11. L’emoji con cui si identifica.

Faccina che si sganascia dal ridere con lacrime agli occhi.

emoji2

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

Marino Sinibaldi

Frediana Biasutti

Pietro Sermonti

Maurizio Ruggeri

Gaia Manzini

Giulio Marcon

Eraldo Affinati

Domenico Iannacone

Emanuele Giovannini

Giorgio Moretti

Federico Moccia

Valerio Piccioni

Gianni Minà

Paolo Calabresi

Massimo Wertmüller

Benedetta Tobagi

Paolo Di Giovine

Marco Mazzocchi

Valentina Falcinelli

Guglielmo Loy

Giuseppe Antonelli

Alessandro Iovinelli

Valeria Della Valle

Attilio D’Arielli

Giuseppe Patota

Cristina Faloci

/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_149.html

Nuovo dizionario affettivo della lingua italiana

Nuovo dizionario affettivo della lingua italiana

a cura di Matteo B. Bianchi. Con la collaborazione di Giorgio Vasta

Roma, Fandango libri, 2019

 

«Sono tutte le parole che ho detto e sarò quelle che ancora premono in gola per uscire» parola, Elisa Ruotolo (p. 202-203).

 

Se le parole sono gli strumenti di lavoro degli scrittori («ma sono anche legami, feticci, rappresentano ragioni di orgoglio, di passione, oppure di insofferenza, di frustrazione»  - Introduzione), questo dizionario è una bella finestra sul mondo interiore, sull’emotività e sulle scelte stilistiche degli autori che hanno scritto i lemmi del Nuovo dizionario affettivo della lingua italiana, curato da Matteo B. Bianchi, con la collaborazione di Giorgio Vasta.

L’esperimento letterario vede la luce a partire da una rivista di letteratura, «’Tina» (il cui nome, per sottolineare l’assenza di pretese, perde «Rivi» rimanendo appunto «’Tina»).

Ad alcuni autori che gravitavano intorno a «’Tina» venne chiesto, più di dieci anni fa, di scegliere una parola e di motivare le ragioni di tale scelta. Approdato in un primo momento in Rete, il lemmario si trasforma in libro grazie ad un osservatore d’eccezione, Giorgio Vasta, che promuove la sua pubblicazione.

Nasceva così, nel 2008, la prima edizione di questo volume, il Dizionario affettivo della lingua italiana.

Arriviamo ai nostri giorni: la casa editrice Fandango festeggia  i suoi primi 20 anni di vita e ripubblica alcuni dei titoli più rilevanti del proprio catalogo, tra cui Il nuovo dizionario, con una rinnovata veste grafica, un formato e un’impaginazione che valorizzano maggiormente i contributi dei 368 scrittori-lessicografi. Un limite di 2.000 battute, libertà assoluta per i contenuti: «Gli autori erano dunque autorizzati a spaziare dalla battuta fulminante alla dettagliata dissertazione, dalla prosa alla poesia, dal ludico al colto, dall’emotivo al cerebrale».

 

Il risultato è brillante e  riflette un preciso momento storico, il nostro, in cui c’è sempre più bisogno di restituire significato autentico alle parole, di riappropriarsi delle parole spesso svuotate come manichini svestiti e buttati in un angolo di una vetrina. La parola fa bene e fa male, libera dal dolore e può provocarlo, la parola lascia sempre un segno, positivo o negativo: non a caso una delle espressioni più belle ed essenziali della nostra lingua, essere di parola, significa essere affidabili, rispettabili.

Rispetto a dieci anni fa, come osserva acutamente il curatore nell’Introduzione, «c’è molta meno leggerezza, meno voglia di giocare con le definizioni». «Gli scrittori hanno dichiarato affetto per le parole che afferiscono al senso di umanità di ciascuno di noi: confine, identità, habitat, crisi, popolo, karma…» (p. 13).

Vediamone alcune. Confine, per esempio, di Tommaso Giagni: «Fuori e dentro. Sopra e sotto. L’Altro e me. Confine è la linea che dà forma al mondo e ai rapporti che lo muovono. Nega l’unità, marca la differenza […]».

Roberto Saviano definisce la parola buonismo che: «viene utilizzata per degradare qualsiasi comportamento che si fonda su ragionevolezza, rispetto, comprensione, compassione. È la prima volta che ci troviamo a dover riflettere su questa parola e sul suo significato, e lo facciamo oggi per difenderla […] Quando non si conosce a fondo un argomento e si è incapaci di controbattere in maniera costruttiva, la risposta è compromettere l’autenticità dell’interlocutore: ”Salvi i migranti in mare? Non puoi farlo per spirito umanitario, lo fai perché ci guadagni! Dunque sei un buonista” […]»

Il bello di questo dizionario è che lo si può leggere in diversi modi. Se si è interessati a un determinato scrittore o a una certa scrittrice, basta andare in fondo al libro e sfogliare l’Indice degli autori: dopo il nome, è indicato tra parentesi il lemma definito e l’ultimo libro pubblicato. Ho cercato Gaia Manzini, la sua parola è nuotare: «Mia nonna, novantenne, sognava tutte le notti di andare a nuotare nella sua Liguria: esattamente come, negli anni Venti, faceva da ragazza scandalizzando l’intera provincia di Imperia. Non sono una vera sportiva, ma forse ho ereditato qualcosa da mia nonna. E ho sempre pensato che vivere – vivere bene – avesse a che fare con l’acqua […]». Nel definire umanità, anche Marta Pastorino ricorda la nonna: «È una parola che mi fa pensare a mia nonna. Quand’ero piccola, con l’arrivo del Natale, mia nonna faceva il presepe […] c’era l’asino piccolo piccolo, che mia nonna metteva al centro, e poi due più grandi, mamma e papà asino, e altri ancora, di dimensioni via via maggiori. Vedi, piccola mia – mi diceva –, questo è il presepe che ci rappresenta meglio, perché facciamo parte di un’umanità asina».

Se poi si vuole saltare di lemma in lemma, basta sfogliare l’Elenco per definizioni che riporta, dopo la parola, autore o autrice della definizione ma «trattandosi di un’opera talmente variegata negli stili e nei contenuti, un volume così indisciplinato, irregolare, volubile e appassionato, si presta agevolmente anche a una lettura integrale».

 

 

 

 

 

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Il nuovo dizionario degli orrori. Neologismi da brivido

Maurizio Fei e Lamberto Tomassini

Il nuovo dizionario degli orrori. Neologismi da brivido

Roma, Castelvecchi, 2019

 

Che ci sembrino belli o brutti, i neologismi sono una realtà. Essi arrivano dagli ambiti più diversi, che spaziano dall’economia alla cronaca, dalla moda o dallo sport al mondo della cultura o dello spettacolo, per non parlare delle parole che nascono e si sviluppano insieme con le nuove tecnologie o con l’evolversi delle scienze.

«A tanti avvenimenti, a tanti umori o punti di vista diversi possono corrispondere altrettante parole nuove: le inventano - per necessità o anche per gioco - politici, economisti, sociologi, commentatori e opinionisti, cronisti, scienziati, sportivi, personaggi della cultura, dello spettacolo e della moda. Si tratta di formazioni molte volte legate a episodi che colpiscono l’immaginazione collettiva, grazie anche alla fantasia dei giornalisti che contribuiscono a crearle o a diffonderle, incontrando un favore e un successo immediati, che possono, però, anche rivelarsi effimeri. Si pensi, per esempio, ai casi di petaloso e webete, emersi con gran clamore, ma forse destinati a fare prima o poi ritorno nelle praterie dell’immaginazione da cui sono venuti» (Neologismi. Parole nuove dai giornali 2008-2018, diretto da Giovanni Adamo e Valeria Della Valle, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2018).

Che cosa hanno in comune i 300 lemmi del volumetto Il nuovo dizionario degli orrori. Neologismi da brivido? Il loro massimo comune denominatore è, secondo gli autori, la bruttezza. Secondo Fei e Tomassini, «lo scopo di questo dizionario è semplicemente quello di suggerire una riflessione critica e pacata sul loro impiego. Dopotutto stiamo solo parlando di quei detestabili e ripugnanti vocaboli che, scaturendo dalle continue scariche inquinanti dei mass-media, affiorano come mucillagini scatomorfe nel padule infetto e limaccioso del nostro linguaggio comune» (Introduzione).

Un po’ per gioco, un po’ per divertimento ma anche con l’intento di puntare i riflettori su sciatterie e pigrizie linguistiche, gli autori presentano una raccolta di parole da evitare. Maurizio Fei, autore e regista radiofonico, e Lamberto Tomassini, vignettista, in arte Tomas, con le parole lavorano quotidianamente pur non essendo dei veri e propri lessicografi né studiosi della lingua: sono andati a scovare quasi 300 spiacevolezze linguistiche, ordinandole poi in una sorta di dizionario. Brevi storie di parole, spesso condite con ironia e umorismo. Come nel caso dell’arcinoto, amato e al contempo odiato, petaloso.

«PETALOSO – agg. Pieno di petali. La storia di questo caso è nota: un bambino lo scrive in un compito scolastico e la maestra glielo sottolinea, ma poi ci ripensa e lo invia all’accademia della Crusca che ne conferma la plausibilità, in quanto analogo agli aggettivi ‘peloso’ e ‘coraggioso’. Tuttavia – dice l’esperto linguista – il termine non entrerà di diritto nel vocabolario finché non sarà sulla bocca di tutti. Nasce allora una gara, a colpi di hashtag, sui social network per diffondere l’aggettivo e portarlo di peso nel linguaggio comune. Nel giro di due giorni (come sempre avviene in questi casi) il termine viene prima esaltato e poi demolito. E subito dopo, centinaia di genitori iniziano a tempestare l’accademia della Crusca con le insulse creazioni lessicali dei loro figli» (p. 63).

Nei Neologismi (Adamo e Della Valle), l’aggettivo, dopo la categoria grammaticale, è definito in modo asciutto: «Ricco di petali»; la voce è poi documentata, come per la maggior parte dei lemmi, con tre citazioni di altrettanti articoli di giornali, scelti tra 76 quotidiani («Le entrate del dizionario si trovano attestate all’interno di 9.295 brani firmati da 3.209 autori». In fondo alla voce è poi indicata la formazione della neoconiazione e la sua prima attestazione.

Schema simile per quanto riguarda i Neologismi raccolti nel portale Treccani.it: «petaloso agg. provvisto di petali; pieno di petali». A seguire, tre brani giornalistici in cui compare la parola, la derivazione e la prima attestazione.

Ben vengano le riflessioni sull’uso dell’italiano, fatte con umorismo o senza, meglio ancora se con il dizionario alla mano, sia esso degli orrori o degli onori. Ma quando ci mettiamo le mani nei capelli perché percepiamo la lingua italiana attaccata in continuazione da forestierismi, contaminata da neoconiazioni in cerca di gloria eterna oppure oltraggiata da usi sbagliati  o vuoti tormentoni, non dovremmo dimenticare che ciò che diciamo manifesta ciò che noi siamo, le nostre parole sono il frutto del nostro pensiero e della nostra visione del mondo, perché «La storia siamo noi, la lingua anche» (Giuseppe Antonelli, Un arcitaliano senza nostalgie, «La lettura - Corriere della sera», 2 giugno 2019).

 

 

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Libertà di parole

Undici domande a Cristina Faloci, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Figlia di ingegnere e madre trilingue, cresciuta tra liceo classico e scout, avrei fatto chimica se un'anomala esperienza scolastica non mi avesse spinto a cambiare istituto all'ultimo anno di liceo. Sulla via di Damasco, un'eccellente professoressa di lettere. Fu quello che scelsi di studiare alla Sapienza. Alla mia prima lezione di Storia della lingua italiana decisi che mi sarei laureata con Luca Serianni. Tra un corso e un esame, soprattutto, le esperienze uniche con gli allievi Scrausi della mitica cattedra (con le tre "corone" Serianni, Della Valle, Patota); e poi la riscoperta del tedesco, le prime prove di giornalismo, l'Erasmus a Colonia, embrionali collaborazioni radiofoniche, un tirocinio in casa editrice. Infine la traduzione, una passione sempre rimasta sottotraccia, con un Master all'Università di Siena: ancora, due grandi professori mi onorano di farmi confrontare con la scrittura di autori come Goethe e Zweig. Su tutto, prima, durante e dopo, la radio: ascoltata, immaginata e poi realizzata. Anche lì, altri maestri, tra giornalismo e lingua italiana: tre amori della vita in un colpo solo. Hashtag: #ragazzafortunata

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Fin da piccola quando in vacanza in montagna nei luoghi di famiglia ero immersa in un ambiente trilingue e, specie con mia nonna che era nata sotto l'Austria, dovevamo capirci, che fosse in italiano, tedesco o ladino.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.  

Amicus Plato, sed magis amica veritas

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Un'espressione tedesca, forse l'unica rimasta, nel lessico di mia madre: «Schlaf dich schoen». Un monito affettuoso per dire 'dormire ti fa bella', un'illusione a cui mi piace continuare a credere.

4. La parola che la fa volare.

Tempo, quello da progettare.

5. La parola che la amareggia.

Tradimento.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Il mio? Pesante, che ambisce a diventare leggero.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Autoreferenzialità, narcisismo, egoismo,  negano la nostra natura di animali sociali.

8. Chi sono i padroni della lingua? 

Siamo tutti noi parlanti, una grande responsabilità.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Proiettata.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associata.

Incoerente.

11. L’emoji con cui si identifica. 

 

emoji2

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

Marino Sinibaldi

Frediana Biasutti

Pietro Sermonti

Maurizio Ruggeri

Gaia Manzini

Giulio Marcon

Eraldo Affinati

Domenico Iannacone

Emanuele Giovannini

Giorgio Moretti

Federico Moccia

Valerio Piccioni

Gianni Minà

Paolo Calabresi

Massimo Wertmüller

Benedetta Tobagi

Paolo Di Giovine

Marco Mazzocchi

Valentina Falcinelli

Guglielmo Loy

Giuseppe Antonelli

Alessandro Iovinelli

Valeria Della Valle

Attilio D’Arielli

Giuseppe Patota

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L'etichettario. Dizionario di alternative italiane a 1800 parole inglesi


 

Antonio Zoppetti

L’etichettario. Dizionario di alternative italiane a 1800 parole inglesi

Firenze, Franco Cesati Editore, 2018

 

Un sales executive avrà uno stipendio maggiore di un direttore delle vendite? In rete, fa più danni un hater o un seminatore d’odio? Per il banchetto di un matrimonio è meglio scegliere una bella location o semplicemente un bel posto? Sarà più efficace una crema anti-age o anti-età? Si viaggia meglio con lo scooter o con il motorino? Chissà perché in molti pensano che gli anglismi richiamino un mondo migliore, un concetto leggermente superiore a quello evocato da una parola in lingua indigena.

Siamo in un paese democratico, ognuno può parlare come preferisce. Anche se tutti dovrebbero essere consapevoli che, mentre si costruisce un discorso, si operano delle scelte. E, anche nel caso del lessico, le scelte non sono mai obbligate. Per riferirsi a una professione, a un concetto o a un oggetto ci sono molte parole, la maggior parte di esse in lingua italiana, alcune in inglese.

Per quanto riguarda le istituzioni o, più in generale, chi riveste ruoli di responsabilità come, per esempio, i rappresentanti del governo, i legislatori o i comunicatori a vario livello, essi dovrebbero sapere che, volenti o nolenti, costituiscono un modello e ciò che dicono (e lasciano scritto) ha un enorme potenziale di propagazione, potrebbe raggiungere grandi quantità di individui e potrebbe essere riproposto in modo acritico. Lo stesso richiamo alla responsabilità varrebbe per il contenuto, ma non è questa la sede adatta per affrontare tali questioni.

«A impressionare è soprattutto l’aumento tra le parole nuove: trent’anni fa le parole inglesi rappresentavano solo il 15 per cento dei neologismi accolti dai dizionari: oggi siamo arrivati al 50 per cento. Ogni due parole nuove, una è inglese: l’invasione potrebbe sembrare ormai un dato di fatto». Ma non c’è da preoccuparsi, secondo Giuseppe Antonelli, per almeno tre buoni motivi: «Il primo è che, in ogni caso, l’influenza dell’inglese riguarda solo il lessico – l’aspetto più superficiale della lingua – senza minimamente intaccare la struttura, la grammatica o la sintassi dell’italiano. Il secondo è che solo alcune di quelle parole nuove resisteranno all’usura del tempo. Molte scompariranno, più o meno rapidamente, com’è successo a gran parte delle parole francesi tanto alla moda nei secoli scorsi» (Giuseppe Antonelli, Il museo della lingua italiana, Milano, Mondadori, 2018).

Ma non tutti i linguisti sembrano dormire sonni tranquilli. Nel 2015 nasce presso l’Accademia della Crusca di Firenze il gruppo Incipit, un osservatorio che ha «lo scopo di monitorare i neologismi e forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede» (dal sito dell’Accademia della Crusca).

«Oggetto delle riflessioni e dei suggerimenti di Incipit sono gli anglismi nella fase di introduzione in italiano – spiega uno dei membri di Incipit, Michele Cortellazzo in Il gruppo Incipit: l’alternativa c’è - speciale Treccani Inglese - Italiano 2 a 1? – (quando, cioè, l’accoglienza del forestierismo da parte della comunità italofona non è ancora consolidata: da qui il nome del gruppo, che si occupa, per l’appunto, dell’introduzione dei neologismi in fase incipiente); il pubblico di riferimento, ai quali Incipit indirizza i suoi suggerimenti, è quello degli operatori della comunicazione e dei politici».

«Negli ultimi quindici anni, complice anche il quadro internazionale, le insidie per la nostra lingua sono decisamente aumentate». Sottolinea Claudio Giovanardi in Inglese - Italiano 2 a 0 (speciale Treccani Inglese - Italiano 2 a 1?).

Le insidie ci sono, nessuno vuole interpretare il ruolo di retrogrado censore, né tanto meno considerare perfida l’onnipresente Albione. È sufficiente non abbassare la guardia, scegliere consapevolmente e capire che le alternative esistono, eccome. Non si tratta di emulare le insensate politiche linguistiche del Fascismo, di proclamare un piatto purismo ideologico o, come si faceva negli anni più bui della nostra storia, tassare l’uso dei forestierismi o punire gli utilizzatori di lingue “barbare”.

Antonio Zoppetti nel volume L’etichettario. Dizionario di alternative italiane a 1800 parole inglesi propone circa 2.000 lemmi per fornire strumenti utili a risciacquare i panni in fiumi nostrani (volendo). È bene sottolineare che non si tratta di una lista nera, di un elenco di forestierismi da bandire, il lavoro è tutto svolto in positivo: sono parole italiane (piacevolmente illustrate) da scoprire e da riscoprire, da ricominciare ad usare senza paura né complessi di inferiorità.

Prendiamo hacker. Il primo moto è un leggero sussulto, uno scoraggiamento pessimistico: intraducibile. Invece no: «hacker ha un’accezione negativa, come sinonimo di pirata informatico, e una positiva che denota l’abilità informatica; dunque corrisponde a smanettone, esperto di programmazione, mago del computer. Ha generato hackerare e hackeraggio» (p. 99). Ecco fatto.

È il tempo delle grandi percussioni emotive, dei colori estremi, bianco o nero, tutto o niente ma non è questo il caso di Zoppetti. L’autore indica una strada possibile non obbligatoria. E lo fa senza sosta, dal 2018 anche attraverso il sito AAA: Alternative Agli Anglicismi, in cui quantifica e raccoglie parole o espressioni inglesi, affiancandole «alle alternative e ai sinonimi in italiano in uso o possibili, attraverso esempi reali tratti dalla stampa».

«La nostra lingua è un bene comune. È un patrimonio di cultura, di bellezza, di storia e di storie, di idee e di parole che appartiene a tutti noi, che vale, che ci identifica e che ci aiuta a esprimerci pienamente come individui, come cittadini e come Paese. Dovremmo averne cura» ce lo ricorda Anna Maria Testa nella Prefazione di Diciamolo in italiano. Gli abusi dell'inglese nel lessico dell'Italia e incolla (Antonio Zoppetti, Milano, Hoepli, 2017).

Il dibattito è aperto. L’importante è non minimizzare la questione o, peggio ancora, tacciare di retrogrado chi si esprime in italiano a tutti i costi, perché quella che respiriamo «Non è l’aria del vero inglese, ma di quel Globish simile alle lingue creole degli schiavi, non scelto liberamente come produttivo investimento plurilingue, ma imposto dalla necessità e sancito dai padroni della piantagione come depauperato strumento di omologazione servile. E alla fine, di oppressione» (Lorenzo Tomasin, Italiano sotto attacco, ilsole 24ore.com).

 

 

 

 

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Libertà di parole

Undici domande a Giuseppe Patota, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Professore distratto, musicista mancato, individuo agitato.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

La parola è sorriso. L’ho capito in due occasioni successive: quando ho visto per la prima volta quello di mia figlia Valeria e quando ho visto per la prima volta quello di mia moglie Natalia.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«Io cercai d’imparare la Treccani a memoria».

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

«Senza offesa». La usa mio figlio Federico ogni volta che dice, con olimpica serenità, qualcosa di tremendo al malcapitato o alla malcapitata di turno (è un ingegnere robotico, lavora a Google Italia e ha amici che sistemano il cubo di Rubik con i piedi. Senza offesa).

4. La parola che la fa volare.

Bellezza.

5. La parola che la amareggia.

Rimprovero.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Leggerissimo.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Soltanto due: buonista e radical-chic. Sono parole-alibi; mi pare che le usi soprattutto chi nega la possibilità stessa che qualcuno possa essere buono e impegnarsi per un mondo con meno ingiustizie.   

8. Chi sono i padroni della lingua?

La lingua non ha padroni; padroni della lingua (senza articolo) sono quelli che la sanno usare.  

9. L’aggettivo che più le si addice.

Ansioso.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Cattivo.

11. L’emoji con cui si identifica.

Nessuno.

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

Marino Sinibaldi

Frediana Biasutti

Pietro Sermonti

Maurizio Ruggeri

Gaia Manzini

Giulio Marcon

Eraldo Affinati

Domenico Iannacone

Emanuele Giovannini

Giorgio Moretti

Federico Moccia

Valerio Piccioni

Gianni Minà

Paolo Calabresi

Massimo Wertmüller

Benedetta Tobagi

Paolo Di Giovine

Marco Mazzocchi

Valentina Falcinelli

Guglielmo Loy

Giuseppe Antonelli

Alessandro Iovinelli

Valeria Della Valle

Attilio D’Arielli

 

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Dialetto e canzone. Uno sguardo sulla Sicilia di oggi


 

 

Roberto Sottile

Dialetto e canzone. Uno sguardo sulla Sicilia di oggi

Firenze, Franco Cesati Editore, 2018

 

Togliete tutto a un popolo, «mittitilu a catina /spughiatilu /attuppatici a vucca /è ancora libiru». Mettetelo in catene, spogliatelo, tappategli la bocca, privatelo del lavoro, del passaporto, del letto in cui dorme e della tavola dove mangia: sarà ancora ricco. «Un populu /diventa poviru e servu /quannu ci arrobbanu a lingua /addutata di patri: /è persu pi sempri». Quando gli toglieranno la lingua ricevuta dai padri, il popolo diventerà povero e servo, sarà perso per sempre.

Con questi versi (Lingua e dialettu, 1970) il poeta siciliano Ignazio Buttitta (1899-1997) accenna magistralmente alla vera fonte di libertà dell’essere umano, alla sua intrinseca ricchezza, alla potenza della lingua come strumento di espressione schietta, efficace, sincera. «Mi nn’addugnu ora / mentri accordu a chitarra du dialettu / ca perdi na corda lu jornu». Solo ora me ne rendo conto, mentre accordo la chitarra del dialetto, che perde una corda al giorno (in Io faccio il poeta, Milano, Feltrinelli, 1972).

E di potenza espressiva si parla nel saggio Dialetto e canzone. Uno sguardo sulla Sicilia di oggi: Roberto Sottile, docente di Linguistica italiana all’Università di Palermo, indaga i motivi per cui l’uso del dialetto nella canzone di artisti (prevalentemente siciliani) è tornato in modo così vigoroso negli ultimi decenni, proprio in concomitanza dell’italianizzazione sempre più massiccia dell’Italia. Canzone e dialetto, un binomio che sembra consolidarsi sempre più per molteplici ragioni.

«Il diffondersi della capacità di capire e parlare l’italiano non ha affatto ucciso i dialetti: li ha, anzi, rivitalizzati […] il dialetto ha guadagnato nuovi spazi e nuove funzioni: da spia di una presunta ignoranza, è diventato un segnale di confidenza, emotività, ironia anche nell’uso di persone che conoscono bene l’italiano» (Giuseppe Antonelli, Il museo della lingua italiana, Milano, Mondadori, 2018).

Questo approfonditissimo studio è basato su un corpus costituito da «oltre trecento testi di circa settanta autori prevalentemente siciliani all’interno di un panorama che va dai cantautori dello star system, come Carmen Consoli e Franco Battiato, ai “cuntastorie” dei centri più remoti e “periferici”» (p. 14).

Cosa c’è di meglio della voce dei protagonisti, perlopiù trattandosi di canzone, per comprendere la materia di cui si sta parlando? Gli autori e le autrici raccontano direttamente la propria esperienza attraverso la compilazione di un questionario al quale sono stati invitati a rispondere (Appendice I).

La domanda numero 4 del questionario è molto esplicita: «Trenta o quarant’anni fa, in musica come in pubblicità, il dialetto non era molto utilizzato, anzi addirittura si tendeva a sanzionarne l’uso in qualunque contesto “ufficiale”. Oggi le cose sembrano cambiate. […] Come spieghi queste recenti linee di tendenza? Attraverso quali percorsi, secondo te, si è giunti a questa nuova “considerazione” del dialetto?» (p. 219)

Per quanto riguarda la domanda 6.1, «Cosa significa per te scrivere e cantare in dialetto?», si possono selezionare più risposte (sempre da motivare il più possibile). Eccone alcune.

  • «Comunicare in maniera più espressiva;
  • Usare una lingua con una maggiore forza/carica comunicativa;
  • Comunicare in maniera spontanea, immediata, praticamente riproducendo il mio modo di parlare “normalmente” nel mio “spazio sociale” […]
  • Protestare contro l’establishment […]
  • Usare, a mo’ di rivalsa, una lingua che per molto tempo è stata esclusa dagli usi “alti” e ufficiali e che oggi è stata invece “sdoganata”» (p. 220-1).

Le domande sono significative quanto le risposte. L’analisi dell’esito del questionario, materia del capitolo 5, mira a «rintracciare la coscienza ideologica degli autori, per comprendere il senso (artistico, sociale, linguistico) che essi attribuiscono alla scrittura in dialetto» (p. 153).

Se, come afferma Antonelli (Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, Bologna, Il Mulino, 2010), l’uso del dialetto è generato anche da precedenti «recuperi d’autore», come per esempio nel caso di Fabrizio De André, certamente è motivato dall’esigenza di manifestare un percorso alternativo all’italiano standard «ormai identificato con la lingua del potere, delle istituzioni, dei mezzi di comunicazione di massa».

Il dialetto si traduce così in un’alternativa espressiva, una sorta di reazione antiglobale, senz’altro diventa uno strumento utile per esplorare nuove sonorità nonché un canale lirico-poetico.

«Il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare», secondo Andrea Camilleri; oltretutto, aggiunge Tullio De Mauro, «Gli uomini, per parlare di argomenti più impegnativi intellettualmente, usavano il dialetto […]. Perché a Venezia come a Palermo, quando il discorso si fa serio, si usa il dialetto. Ancora oggi, il passaggio al dialetto di chi sa bene l’italiano, non è una scivolata. Lo slittamento in quel caso non è emotivo» (Andrea Camilleri e Tullio De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, Roma-Bari, Laterza, 2013).

Il quadro in cui si inserisce l’analisi dei testi cantautoriali è ricco e composito, offre una panoramica sulla situazione sociolinguistica attuale, presenta gli studi più recenti sulla lingua della canzone, al centro negli ultimi anni dell’interesse di numerosi linguisti. Inoltre, «data la straordinaria numerosità di artisti contemporanei che optano per l’uso del codice locale, in connessione e in concomitanza con una tradizione musicale popolare assai viva», si capisce come mai la Sicilia sia oggi «un terreno priviligiato per osservare il rapporto tra dialetto e canzone» (p. 41).

Questa straordinaria ricchezza emerge anche dall’antologia dei brani di autori siciliani in cui sono presenti testi trascritti, tradotti e commentati. Oltre alle schede sugli artisti, alcuni musicisti sono stati invitati a scrivere una piccola “autobiografia linguistica”, che va inevitabilmente ad integrare le risposte del questionario.

/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Liberta_di_parole24.html

Libertà di parole

Undici domande a Attilio D’Arielli, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Nasco a Viterbo, nel 1959, ambientalista, fotografo, naturalista, scrittore, sposato con Angela e padre di Daniele e Simone. Subacqueo da sempre.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Kilimangiaro fu la prima parola che mi esplose dentro. Mio padre si recava spesso in Africa e quando faceva ritorno era tutto un crepitare di racconti, di parole e d’immagini.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«Avvampando gli angeli caddero; profondo il tuono riempì le loro rive, bruciando con i roghi dell’orco»: William Blake, riadattato in una nota opera cinematografica (Blade runner, ndr). Una frase epica ed onirica al tempo stesso per rappresentare il cosmico pessimismo che aleggiava nel film dove, in un futuro distopico, vagavano sulla Terra delle repliche artificiali di esseri umani anch'esse, paradossalmente, impegnate nella ricerca di un’identità, di un Dio o, forse, della scintilla dell’anima.

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

«Passata la festa, gabbato lo  Santo», un vero e proprio inno all’ingratitudine.

4. La parola che la fa volare.

Salvare, decisamente in linea con i tempi. È una parola con una sua musicalità, è bellissima e carica d’amore. In questo particolare momento storico, potrebbe rappresentare un’ultima chance per un’umanità da tempo sprofondata nell’oblio.

5. La parola che la amareggia.

Estinzione: è la negazione stessa del concetto di vita. Sempre associata alla fine di alcune specie, significa in realtà molto di più, perché riguarda la fine di tutto, anche della speranza. Dovrebbe rappresentare un monito per la nostra specie.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante e dentro uno zainetto, per avere la sensazione di portarti tutto il mondo sempre con te.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Calendarizzare, prassi e istituzionale. Da sempre utilizzate in politica, appaiono come parole vuote, di comodo, oppure funzionali a interessi spesso privati. Istituzionale, in particolare, sembra aver smarrito la sacralità di un tempo.

8. Chi sono i padroni della lingua?

Ancora oggi, pochi influenzano il destino di molti. Nessuno, però, sarà mai realmente padrone della Lingua, perché essa è in continua trasformazione. Usata talvolta per assoggettare i deboli, la lingua ha fatto e farà crollare anche coloro che se ne sentono “padroni”.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Leale.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Corrotto.

11. L’emoji con cui si identifica.

La piccola onda, ispirata all'opera del giapponese Hokusai. Essa per me rappresenta tutta la potenza dell’energia del mare, che viene proiettata fuori dallo schermo del telefonino fin dentro le pagine del libro della nostra vita.

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

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Gianni Minà

Paolo Calabresi

Massimo Wertmüller

Benedetta Tobagi

Paolo Di Giovine

Marco Mazzocchi

Valentina Falcinelli

Guglielmo Loy

Giuseppe Antonelli

Alessandro Iovinelli

Valeria Della Valle

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Libertà di parole

Undici domande a Valeria Della Valle, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Nata a Roma, ho insegnato Linguistica italiana alla Sapienza di Roma fino al 2014. Ho passato la vita a insegnare e a scrivere libri di divulgazione linguistica, grammatiche e vocabolari della lingua italiana. E non ho ancora smesso.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Quando, appena laureata in storia della lingua italiana, entrai nella redazione del vocabolario della lingua italiana Treccani: da allora ho continuato ininterrottamente a occuparmi delle parole (anche dei neologismi) e della loro definizione.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«Amore vedessi com'è bello il cielo a via Margutta questa sera» (dalla canzone Via Margutta di Luca Barbarossa).

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Glissons.

4. La parola che la fa volare.

Gentilezza.

5. La parola che la amareggia.

Prepotenza.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Tutti e due, da usare per ricerche e necessità diverse. Ma quello amichevole ora l’ho finalmente ideato e diretto, con Giuseppe Patota: il Nuovo Treccani #leparolevalgono.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Nessuno. Non ci sono parole belle o brutte, ma solo parole che per motivi di gusto o ideologici ci piacciono, ci irritano o ci disgustano. Anche quelle più odiose devono continuare a essere presenti nel dizionario: raccontano, tutte, la nostra storia e il nostro passato.

8. Chi sono i padroni della lingua?

I parlanti, ma anche chi domina i mezzi d’informazione.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Affidabile.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Pedante.

11. L’emoji con cui si identifica.

Con nessuna, anche se le uso.

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

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Libertà di parole

Undici domande a Alessandro Iovinelli, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Alessandro Iovinelli (Roma, 1957) ha pubblicato 3 libri di poesia, 3 romanzi e una raccolta di racconti, nonché 4 volumi di saggistica, l’ultimo dei quali è Attraverso Tabucchi (Novecento Libri, 2018).

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Vivere (troppo tardi).

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

Devo citare i passi che ho messo nel mio profilo Facebook.


Il poeta è un fingitore.


Finge così completamente


che arriva a fingere che è dolore


il dolore che davvero sente


Fernando Pessoa

 



A che mi servono le gambe 


se ho le ali per poter volare? 


Frida Khalo

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Ogni lasciata è persa.

4. La parola (o l’espressione) che la fa volare.

Ti amo.

5. La parola che la amareggia.

Oblio.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante (ma fondamentale).

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Il verbo piacere (lo ammetto solo quando è riferito agli altri e non a sé stessi).

Rottamazione (riferito a persona vecchia – slogan sciagurato).

Anticasta (autodefinizione di un atteggiamento politico – pura impostura).

8. Chi sono i padroni della lingua?

Gli stessi che comandano le nostre idee. Le classi dominanti (Marx dixit).

9. L’aggettivo che più le si addice.

Intertestuale.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato

Trascurabile.

11. L’emoji con cui si identifica.

La faccina con gli occhiali da sole.

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

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Libertà di parole

Undici domande a Giuseppe Antonelli, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Studio, scrivo, vivo la lingua italiana.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Famiglia. Quando con mia moglie Gaia abbiamo saputo che stava per arrivare la nostra Maddalena.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

Il meglio deve ancora venire.

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

«Je la stai a ffà!». Puoi farcela, anche nell’inflessione ironico-sarcastica tipica del romanesco.

4. La parola che la fa volare.

Ali.

5. La parola che la amareggia.

Bile.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Il dizionario è la mia casa: direi spazioso, arioso, luminoso (non petaloso).

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Adirarsi, recarsi, dinanzi e altri simili: poiché si odono soltanto presso la scuola.

8. Chi sono i padroni della lingua?

«L'Uso è l'arbitro, il signore delle lingue, come tutti affermano; anzi, si può dire, è le lingue stesse» (A. Manzoni).

9. L’aggettivo che più le si addice.

Tenace?

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Infido, con l’accento sulla seconda i.

11. L’emoji con cui si identifica.

Il pollice alzato alla Fonzie: più che della generazione Goldrake, io mi sento della generazione Happy Days …

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

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Undici domande a Guglielmo Loy, tra lingua e vita

 

Autobiografia  in un tweet

Giovane anziano (o anziano giovane), a 62 anni sono sempre convinto che raggiungerò i miei obiettivi, anche se il tempo passa. Una vita spesa con passione nel sindacato. La cosa più gratificante per me resta sentirmi stimato (almeno spero). Le mie passioni? I miei figli, leggere la società per cercare di capirla, la storia, i cantautori italiani e la Lazio.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Quando ho compreso che qualcuno mi ascoltava e ricordava ciò che esprimevo.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco / E al fin della licenza io non perdono e tocco» (Francesco Guccini, Cirano).

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Pischelletto (‘ragazzetto’, in romano).

4. La parola che la fa volare.

Olimpia.

5. La parola che la amareggia.

Odio.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Mai, perché è un muro troppo alto.

Operativo, un aggettivo che sembra voler nascondere il suo contrario.

Paradossalmente, perché non amo ciò che è fuor di logica.

8. Chi sono i padroni della lingua?

Gli artisti.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Equilibrato.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Indeciso.

11. L’emoji con cui si identifica.

emoji2

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

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Frediana Biasutti

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Maurizio Ruggeri

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Giulio Marcon

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Benedetta Tobagi

Paolo Di Giovine

Marco Mazzocchi

Valentina Falcinelli

 

 

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Libertà di parole

Undici domande a Valentina Falcinelli, tra lingua e vita

 

Autobiografia  in un tweet

Da piccola volevo fare la benzinaia o la fioraia. Poi sono cresciuta e ho capito che ai barili avrei preferito le cartelle e ai fiori all’occhiello solo gli occhielli. Oggi sono titolare di Pennamontata, agenzia con cui ho ideato Play Copy e Copy42, il format di percorsi lunghi dedicati al copywriting. Lavoro con grandi e piccoli brand per aiutarli a trovare la propria personalità. Ho scritto con Franco Cesati Editore il mio primo libro, Testi che parlano, dedicato all’identità verbale dei testi aziendali. Sogno cose più grandi di me; non ho pretese di realizzarle ma non per questo mollo.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Molto presto, considerando che ho iniziato a scrivere a 4 anni. Ho comunque sempre sentito dentro di me come un bisogno, una vera e propria necessità di esprimermi tramite la scrittura, e subìto il fascino della scrittura creativa – già da piccolissima abbozzavo storyboard di pubblicità (all’epoca le richiamavo “le reclami”). Poi, crescendo, ho avuto la conferma: dopo l’università mi sono specializzata in redazione editoriale e ho messo sul serio le mani in pasta. Anzi, le mani sul testo. E non le ho più tolte da lì.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

 Non appena l’ho letta, l’ho subito fatta mia: «Il problema è che se non rischi nulla, rischi ancora di più». È una frase di Erica Jong che trovo di grande ispirazione per la vita di tutti i giorni.

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Nella famiglia di mio padre si dice «se è che sì». Non so se sia un’espressione viterbese, ma sta a significare qualcosa del tipo: “Nel caso in cui dovessero esserci le condizioni favorevoli, allora ok, succederà quello che ho appena affermato”. Un esempio di applicazione: «Se è che sì, ci vediamo in piazza»; o ancora: «Se è che sì, ti chiamo». Mi ha sempre fatto sorridere questo modo di sintetizzare un concetto tanto lungo (vedi perifrasi di cui sopra) in sole 4 parole.

4. La parola che la fa volare.

Sorriso. Non è solo una parola, per me. È più che altro il mio modus vivendi.

5. La parola che la amareggia.

Però. Perché il più delle volte viene usato nelle frasi di chi non ascolta davvero, non cambia mai il proprio punto di vista, finge apertura ma in realtà è inamovibile. «Sì, però»: quante volte ce lo sentiamo dire? Il “però” annulla tutto quello che era stato detto dall’interlocutore in precedenza; annulla persino quel , che non è una vera affermazione e condivisione, ma una mera toppa. Un segnaposto.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante quel tanto che basta. La cultura pesa, in fondo.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Leader. Perché se ne abusa e ne inizio a essere nauseata. Che poi, di solito, chi si autoproclama “leader” (di settore, di mercato…) non lo è quasi mai.

Apporre. Perché rimanda al burocratese e all’antilingua calviniana, almeno a mio parere. “Apporre la firma”, invece di “firmare”: come rendere difficile il semplice.

Apericena. Naaah.

8. Chi sono i padroni della lingua?

Chi la usa con gentilezza, tatto e rispetto.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Morbida.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associata.

Rigida. Perché dentro questo aggettivo ce ne sono tanti altri: scortese, scontrosa, chiusa: tutti il contrario di quello che mi sento di essere.

11. L’emoji con cui si identifica.

emoji2

a cura di Margherita Sermonti

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

Marino Sinibaldi

Frediana Biasutti

Pietro Sermonti

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Gaia Manzini

Giulio Marcon

Eraldo Affinati

Domenico Iannacone

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Federico Moccia

Valerio Piccioni

Gianni Minà

Paolo Calabresi

Massimo Wertmüller

Benedetta Tobagi

Paolo Di Giovine

Marco Mazzocchi

 

/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_123.html

¡La lingua feliz! Curiosità, bizzarrie e segreti: tutto quello che avreste voluto sapere sulla lingua spagnola


 

 

Andrea De Benedetti e Carlo Pestelli

¡La lingua feliz! Curiosità, bizzarrie e segreti: tutto quello che avreste voluto sapere sulla lingua spagnola

Torino, Utet, 2018

 

Tanti anni fa, in una piccola stazione di una meravigliosa cittadina della Spagna occidentale, Salamanca, fui involontaria testimone di un crudele (dal punto di vista dei protagonisti) quanto comico (dal punto di vista degli spettatori, cioè dal mio) equivoco: un uomo e una donna, che evidentemente si erano conosciuti da poco, si stavano scambiando dei doni. La minuta giovane, con le lacrime agli occhi, tendeva un pacchetto al ragazzo che, un po’ imbarazzato, lo prendeva salendo sul convoglio che lo avrebbe avvicinato alla natia Italia. Lei, senza nemmeno provare a parlare italiano, immaginando una prossimità tra italiano e spagnolo molto maggiore di quella reale, gli diceva, riferendosi al dono: «¡Guárdalo!». E lui, sempre più in difficoltà: «Ma no, lo faccio dopo, in viaggio». Anche a causa dell’insistente fischietto del capotreno, il giovane italiano scartò svogliatamente e con poca grazia quell’oggetto che doveva elevarsi a pegno d’amore e che invece diventò (ma poi che ne so io) motivo di insanabile distanza. Non so che fine abbiano fatto quei due amanti non bilingui, né posso sapere se la donna si sia mai domandata perché l’uomo abbia aperto il regalo nonostante le sue raccomandazioni.

La giovane salmantina aveva usato un cosiddetto falso amico. Guardar in castigliano significa ‘custodire’: in buona sostanza, lei voleva che il dono non venisse aperto al suo cospetto; lui, invece, aveva guardato l’oggetto, lo aveva spacchettato e quindi osservato, in ossequio al significato italiano, senza nemmeno sospettare che stava tradendo la preghiera della giovane piangente.

Andrea De Benedetti (professore in un liceo linguistico, ha insegnato per nove anni all’Università di Granada) e Carlo Pestelli (docente di linguistica generale alla Scuola superiore di mediazione linguistica “Vittoria” di Torino, tra le altre cose) con ¡La lingua feliz! Curiosità, bizzarrie e segreti: tutto quello che avreste voluto sapere sulla lingua spagnola hanno costruito un impeccabile quanto brioso profilo della lingua castigliana, anche e soprattutto in rapporto alla lingua italiana, per smontare il mito delle affinità, alimentandolo allo stesso tempo. Non abbiamo tra le mani un manuale di grammatica comparata né un trattato di linguistica. Siamo piuttosto alle prese con una raccolta di racconti, narrazioni raffinate e divertenti, mai banali, che si intersecano tra di loro, seguendo il filo di un’esperienza maturata sul campo, di una profonda conoscenza di entrambe le lingue nonché dei due popoli: «una specie di album fotografico, una galleria degli scorci più significativi che offre lo spagnolo visto dalla prospettiva di un italiano (p. 13).

Forse ciò che è apparentemente semplice non ci invoglia ad investire tempo ed energia per intraprendere un percorso di apprendimento, e con lo spagnolo, qui in Italia, è stato a lungo così.

«Per molto tempo ci siamo affidati a questa affinità di sangue dello spagnolo come scusa per non studiarlo (spesso ricambiati dagli ispanofoni), confidando nel fatto che per cavarcela in una vacanza a Ibiza o in Erasmus a Siviglia fosse più che sufficiente quell’itañol* abborracciato e caricaturale messo insieme a forza di canzonette da spiaggia e cinepanettoni, con tutto il carico di stereotipi – linguistici e non – che questi si portavano dietro» (p. 12).

Con il tempo le cose sono cambiate, ci siamo accorti che lo  spagnolo non è poi così facile e che si tratta di una lingua molto importante, ricchissima, avvincente, con una storia affascinante tanto quanto chi la parla.

Non a caso è la «terza lingua più diffusa del pianeta […] con oltre 500 milioni di parlanti, distribuiti principalmente in America centrale e meridionale, senza dimenticare le numerose comunità ispaniche degli Stati Uniti e, ovviamente, la culla iberica dove tutto è nato. Una lingua che nel Vecchio Continente paga il fatto di non figurare nel terzetto (inglese, tedesco e francese) di quelle utilizzate dalla Commissione Europea nei documenti ufficiali, ma che ciò nonostante è la terza più studiata nella maggior parte dei paesi dell’Unione (Italia compresa), prima del tedesco e in lenta e inesorabile rimonta rispetto al francese» (p. 12).

Dopo queste premesse, ci si addentra in una quantità di aspetti che vanno dalla fonetica alla pronuncia, dal lessico ai proverbi, dall’etimologia ai forestierismi, dalle differenze alle analogie con l’italiano (e davvero tanto altro), illustrati con humor e con estrema precisione. È senz’altro vero che gli iberici sono molto simili a noi e forse per questo la simpatia tra i nostri popoli è quasi immediata. Tralasciare o, peggio ancora, ignorare le inevitabili differenze, sarebbe banale e troppo semplicistico. 

La lingua è un ottimo strumento per misurare distanze, osservare sovrapposizioni, differenze o analogie.  De Benedetti e Pestelli ci aiutano in questo animato labirinto.

«Il ribaltamento di prospettiva, non solo geografica, è esercizio utile per (ri) conoscere la propria identità attraverso il filtro dello sguardo altrui. Ancora più utile è indagare le tracce lasciate nel lessico delle altre lingue per ricavarne una chiave di lettura che ci racconti che cosa siamo stati e che cosa siamo di là dallo specchio che rimanda la nostra stessa immagine» (p. 129).

Ciò che emerge da queste pagine è proprio una lingua feliz: non una lingua felice né una lengua feliz: è qualcosa che solo noi riusciamo a capire veramente, qualcosa in più, che unisce a prescindere, come l’intesa che spesso esiste tra fratelli, fatta di segreti, codici e ammiccamenti. Attenzione, però, amatela pure questa lingua ricca e bella, sfarzosa, spiritosa e talvolta struggente, cadeteci dentro senza paura, ma senza dimenticare che abbiamo a che fare con una sorella nata da una stessa madre, la quale ha semplicemente intrapreso una strada diversa, ni mejor ni peor.

 

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Libertà di parole

Undici domande a Marco Mazzocchi, tra lingua e vita

 

Autobiografia  in un tweet

Giornalista e fin da quando ero in fasce.

Sposato a 44 anni con Monica. In spiaggia, Isole Vergini Britanniche.

Ex-rugbista.

In Tv ho fatto di tutto e non voglio smettere di sperimentare.

La musica per me esiste grazie ai Marillion.

La scrittura grazie a Foster Wallace, Haruf e Roth.

L’Isola di Salina è il mio mondo perfetto.

Nel lavoro ci sono diritti e ci sono i doveri.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Sport. L’ho sempre fatto, lo faccio ancora ed è il mio pane quotidiano. L’ho capito fin da bambino.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

Faber est suae quisque fortunae.

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

«Non te la porti da casa» (tradotto: “non sarà semplice”).

4. La parola che la fa volare.

Mare.

5. La parola che la amareggia.

Cattiveria.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante. Perché la parola resta. E va cercata.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Italiano. Mai nati gli italiani come popolo, a dispetto degli auspici di Cavour. Anche la lingua italiana è ormai bistrattata. A ogni livello.

Insomma. Ormai è un intercalare, non un avverbio.

Importante. Aggettivo utilizzato come jolly. Ormai si usa sempre, al posto degli aggettivi corretti.

8. Chi sono i padroni della lingua?

I padroni (purtroppo) sono quelli che la usano. Alla fine, impongono nuovi lemmi o nuovi modi di formulare le frasi. A dispetto delle meravigliose regole che la nostra lingua imporrebbe. L’uso comune sta uccidendo la lingua italiana.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Egocentrico.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Ignorante.

11. L’emoji con cui si identifica.

Quello sorridente con gli occhiali da vista. E anche calvo!

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

Marino Sinibaldi

Frediana Biasutti

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Gaia Manzini

Giulio Marcon

Eraldo Affinati

Domenico Iannacone

Emanuele Giovannini

Giorgio Moretti

Federico Moccia

Valerio Piccioni

Gianni Minà

Paolo Calabresi

Massimo Wertmüller

Benedetta Tobagi

Paolo Di Giovine

 

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Libertà di parole

Undici domande a Paolo Di Giovine, tra lingua e vita

 

Autobiografia  in un tweet

Celibe per caso, linguista per scelta. Ingresso brutale nel mondo accademico, digerito poco per volta. Ma è un mestiere che mi entusiasma ancora, perché si costruisce il futuro.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

All’inizio degli studi universitari, non prima.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«Linguista sum. Linguistici nihil a me alienum puto» (Roman Jakobson, parafrasando Terenzio, per dire che il linguista deve avere una costante curiosità verso qualsiasi manifestazione che abbia a che vedere con il linguaggio).

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Quagliare (è una voce laziale molto espressiva e ad ampio spettro semantico, diversamente dal corrispondente toscano cagliare).

4. La parola che la fa volare.

Curiosità.

5. La parola che la amareggia.

Arrivismo.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Se è informatizzato, pesante quanto si vuole, attraverso i rinvii interni e le citazioni; se è a stampa, relativamente leggero, per l’uso quotidiano.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

1. Utilizzo (formazione di un tipo poco congeniale all’italiano, e del tutto inutile, in presenza di uso e impiego, sinonimi quasi perfetti).

2. Specificatamente (c’è una sillaba in più del tutto inutile, rispetto a specificamente – una sorta di horror vacui).

3. Infatti (non in sé, ma perché viene ormai usato a sproposito, con scelta della punteggiatura del tutto casuale).

8. Chi sono i padroni della lingua?

I parlanti (alla fine, nonostante i grammatici, hanno la meglio sempre loro).

9. L’aggettivo che più le si addice.

Disponibile.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Falso.

11. L’emoji con cui si identifica.

emoji2, in senso autoironico: disposizione d’animo programmaticamente serafica, in grado di mutare nel caso di delusione ricevuta dagli interlocutori.

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

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Benedetta Tobagi

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Libertà di parole

Undici domande a Benedetta Tobagi, tra lingua e vita

 

Autobiografia  in un tweet

Scrivo e faccio ricerche storiche; amo un ingegnere, per bilanciare. Adoro gli archivi, il tango, i film, i miei 3 gatti, curare le piante, il mare.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Alle soglie dei trent’anni, ci ho messo parecchio a riconoscere l’evidenza (evviva l’analisi).

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«Miei segni particolari:/ incanto e disperazione”, un verso di Szymborska che mi ha accompagnato a lungo.

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Cuoriciona, inventato per me da mio papà, e il film uèsner di mia madre, che non ha troppo feeling con l’inglese, e chiamarli western sarebbe stato banale.

4. La parola che la fa volare.

Gioia.

5. La parola che la amareggia.

Invidia.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Un dolce peso. Sono vintage e mi tengo ancora il mattone cartaceo accanto alla scrivania.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Preciso che sono contraria all’eliminazione, mi parrebbe una forma di censura: nessuna parole va distrutta – è importante poter definire e nominare anche le cose peggiori. Se parliamo di ridurre l’uso, sceglierei termini come razionalizzazione o efficientamento che, oltre ad avere un suono orribile, sono spesso indicatori di un universo del lavoro disumanizzato.

8. Chi sono i padroni della lingua?

È come l’acqua, di tutti: per questo non dobbiamo sprecarla né sporcarla.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Entusiasta.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associata.

Ipocrita.

11. L’emoji con cui si identifica.

emoji2

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

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Undici domande a Massimo Wertmüller, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Romano, sangue lucano e cognome svizzero per parte paterna, papalino e sangue umbro per parte di madre. Animalista. Romanista. Attore e caricaturista che però nel tempo ha scoperto di avere una testa buona anche per un impiego al catasto.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Quando facevo la voce di Jacopone da Todi nelle sue Laudi per l’annuale rappresentazione sacra al ginnasio, nascosto dietro una porta.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«Non mi avrete»… un modo a 360 gradi di sottolineare, soprattutto a sé stessi, come le mode, le convenzioni, i ricatti, i vezzi, gli autoritarismi, i compromessi non sono graditi. Soprattutto se richiedono, magari per ottenere qualcosa, una qualche propria trasformazione.

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

A casa spesso risuonava questa frase: «hai fatto l’affare de Maria Cazzetta». Risuonava spesso perché è una presa in giro vernacolare  per la capacità di prendere sòle (altro idioma romano per definire i bidoni, le fregature). Capacità che io ho sempre avuto senza dubbio.

4. La parola che la fa volare.

Natura.

5. La parola che la amareggia.

Inciviltà.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Un prezioso aiuto, quindi leggero pur nella sua stazza, come certe persone molto in carne e molto simpatiche.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Eliminerei tutti gli inglesismi. Parlerei in italiano con vocaboli italiani. Anzi, proteggerei ancora di più i dialetti.

8. Chi sono i padroni della lingua?

C’è sempre un qualche padrone occulto che noi magari neanche conosciamo. Mi piace pensare che lo scrivere sia un dono divino, come saper suonare o dipingere, e che allora i padroni della parola, pardon! della lingua, siano non solo i grandi scrittori, ma proprio i grandi raccontatori, i cantastorie. Difatti per me il padrone della lingua lo è soprattutto perché usa le parole in dialetto, se possibile.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Ansioso.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Ipocrita.

11. L’emoji con cui si identifica.

La faccetta che fa l’occhiolino.

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

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Libertà di parole

Undici domande a Paolo Calabresi, tra lingua e vita

 

Autobiografia  in un tweet

Nasce nel 1964, come la Nutella. Quarto di cinque fratelli, cresce perennemente distratto. Solo una minuta tata sarda, Lucia detta “ia”, riesce a catturarne le attenzioni viziandolo esageratamente. Molto dinoccolato, inizia a fare l’attore dopo 3 anni di giurisprudenza e 17 esami dati. Non si laureò più, e per coerenza ha rifiutato tutti i ruoli da avvocato. Oggi è pieno di figli (4) e oscilla come un gibbone tra cinema, teatro e tv.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Recitare, quando ho capito che significa cercare la verità.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

Quello che amo
mi ha detto
che ha bisogno di me.
Per questo
ho cura di me stessa
guardo dove cammino e
temo che ogni goccia di pioggia
mi possa uccidere.

Bertolt Brecht (1898 - 1956) Da leggere il mattino e la sera

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Limortanguerieri. È un’edulcorazione del più violento mortaccitua. Non è usato come epiteto verso qualcuno, ma in generale nei confronti della vita, der monno ‘nfame insomma.

4. La parola che la fa volare.

Coraggio.

5. La parola che la amareggia.

Corruzione.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Possesso, perché uccide la relazione con il mondo.

Dipendenza, perché uccide la libertà personale.

Appartenenza, perché uccide il discernimento individuale.

8. Chi sono i padroni della lingua?

I bambini. Possono permettersi di distruggerla e ricrearla.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Curioso.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Ipocrita.

11. L’emoji con cui si identifica.

Le due mani giunte in preghiera.

emoji2

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

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Parole ostili. Dieci racconti


 

 

AA.VV.

Parole ostili. Dieci racconti

(a cura di) Loredana Lipperini

Bari, Laterza, 2018

 

Quanto pesa una parola astiosa, acre, malevola, perlopiù pronunciata in Rete? E se il peso di quel tipo di parola potesse essere misurato con oggettività? E se le conseguenze dell’uso di quella determinata parola fossero calcolabili al pari della traiettoria di un sasso lanciato in aria o dell’effetto di una pietra in uno stagno? E se in una frase non si potesse superare un certo peso stabilito a priori da una commissione “etica”? Ebbene, se succedesse una cosa del genere, ci troveremmo in un libro o in un film di fantascienza, forse nemmeno troppo entusiasmante.

Niente a che vedere con lo splendido romanzo di Henrik Stangerup (L’uomo che voleva essere colpevole, Iperborea, 1990, traduzione dal danese di Anna Cambieri), dove Torben, il protagonista, lavora in un ufficio statale in cui la lingua viene ripulita dalle componenti negative, sostituite sostanzialmente da eufemismi, per arrivare ad una semplificazione del linguaggio, coronata dalla realizzazione di «un nuovo vocabolario autorizzato, distribuito gratuitamente in ogni casa, nel quale tutte le parole sarebbero state suddivise in due soli gruppi: parole positive e parole negative».

Certo, non siamo ancora arrivati a tanto, ma fa riflettere il lavoro svolto per conto di Facebook da chi ripulisce il peggio che l’umanità è in grado di produrre: esistono decine di migliaia di persone nel mondo che setacciano milioni di contenuti ogni giorno. «Mentre gli algoritmi intervengono in autonomia quando individuano un testo, un video o un’immagine sospetta, qui si entra in azione su segnalazione degli utenti e si giudica solo il contenuto senza saper nulla del profilo di chi lo ha pubblicato». Jaime D’Alessandro, “Noi, guardiani contro l’odio su Facebook”, Repubblica.it

È evidente quindi che il dibattito sul linguaggio e sulla comunicazione consapevole è sempre più acceso e attuale, anche per la risonanza che possono avere i messaggi che lanciamo attraverso la cassa armonica delle reti sociali virtuali, specchio del mondo in cui viviamo.

Chi non ricorda il famoso attacco ai social pronunciato da Umberto Eco nel 2015 durante la cerimonia per il conferimento di una laurea honoris causa? «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». In fin dei conti, che si tratti di imbecilli o di uomini (o donne) comuni, è innegabile che fino a non molti anni fa esternare una cattiveria tra le quattro pareti domestiche aveva conseguenze meno rilevanti di un’esternazione fatta oggi sulla bacheca di Facebook o con 280 cinguettii, soprattutto nell’era della social-politica, quando attraverso i social network si possono determinare anche le sorti di un Paese.

Nel luglio del 2017 nasce a Trieste Parole O_Stili, un’associazione non profit, attraverso la quale oltre 300 esperti comunicatori, blogger, influencer si impegnano a diffondere pratiche virtuose per «rendere la Rete un luogo migliore, meno violento, più rispettoso e civile». Stilano un decalogo, il Manifesto della comunicazione non ostile: dallo stile al non ostile, un terreno fertile nel quale ci si augura possa nascere e svilupparsi il seme di cui si prendono cura i «contadini digitali» (Vera Gheno e Bruno Mastroianni, Tienilo acceso. Milano, Longanesi, 2018), ben consapevoli del fatto che comunicare non significa alzare muri ma creare ponti.

Parole ostili. 10 racconti nasce così, sulla base di «un’inedita alleanza, che unisce il sostegno del Miur, la convinta adesione del Salone Internazionale del Libro di Torino e della casa editrice Laterza, l’associazione Parole O_Stili, la curatrice e i dieci autori che hanno accettato la sfida di lavorare sui principi del manifesto» (p. 170).

Non possono esserci solo la censura, la polizia postale o le punizioni esemplari per dissuadere gli odiatori, deve essere rilanciata la cultura della parola giusta, mite, serena e chi, meglio di uno scrittore, può farlo? «Pochi, sull’uso delle parole, si interrogano più di quanto non facciano ogni giorno gli scrittori» (Nicola Lagioia, Prefazione, p. VII). 

  1. (Virtuale è reale). Tommaso Pincio, Il bianco e il nero (racconto in quattro momenti).
  2. (Si è ciò che si comunica). Giordano Meacci, Io sono il diavolo.
  3. (Le parole danno forma al pensiero). Giuseppe Genna, Gli ultimi giorni dell’umanità.
  4. (Prima di parlare bisogna ascoltare). Diego De Silva, Lievitazione.
  5. (Le parole sono un ponte). Helena Janeczek, Castelli e ponti.
  6. (Le parole hanno conseguenze). Alessandra Sarchi, Estensioni.
  7. (Condividere è una responsabilità). Fabio Geda, Pizzagate.
  8. (Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare). Nadia Terranova, La felicità sconosciuta.
  9. (Gli insulti non sono argomenti). Christian Raimo, Bifida.
  10. (Anche il silenzio comunica). Simona Vinci, Dead End.

Dieci autori di rilievo, dieci storie diverse, dieci ispirazioni, dieci universi letterari perché «se oltre all’uso della lingua ciò che ci distingue dalle altre specie è il possesso del libero arbitrio […], allora usare le parole per evolverci o tornare ad essere dei bruti è il nostro banco di prova quotidiano» (p. VIII).

 

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Libertà di parole

Undici domande a Gianni Minà, tra lingua e vita

 

Autobiografia  in un tweet

«Gianni Minà, giornalista, scrittore, conduttore televisivo». Dicono. Ma, soprattutto, tifoso del Toro.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Quando da ragazzino prendevo alla radio i tempi del giro d’Italia e del Tour de France e, ancor prima di conoscere l’ordine d’arrivo e la classifica ufficiale, li passavo ai miei amici del cortile.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«La vita è l’arte dell’incontro». Lo affermava Vinicius de Moraes a Ungaretti, nelle lunghe serate passate alla trattoria del Moro insieme a Chico Buarque e Toquinho, esuli in Italia per scampare al Brasile della dittatura.

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Dugna culu (‘mostra il di dietro’) lo usava sempre mia nonna materna, messinese, quando si imbatteva in una malalingua che poteva ferire.

4. La parola che la fa volare.

Amicizia. Nei momenti più bui, ma anche in quelli più edificanti, ho sempre condiviso con i tanti amici che ho nel mondo.

5. La parola che la amareggia.

Razzismo. Le inutili divisioni di razza fatte per ignoranza e stupidità. Alcuni bambini intervistati su questo tema hanno risposto che l’unica divisione è quella fra simpatici e antipatici. Sono d’accordo.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Sfruttamento, padroni e servi. Purtroppo sono ancora di moda.

8. Chi sono i padroni della lingua?

Chi usa le parole in malafede. Su questo, faccio mio un pensiero di Pier Paolo Pasolini, il mio profeta laico, sempre attuale: «L'Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il ritorno del fascismo».

9. L’aggettivo che più le si addice.

Orgoglioso.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Sleale.

11. L’emoji con cui si identifica.

 

emoji2

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

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Libertà di parole

Undici domande a Valerio Piccioni, tra lingua e vita

 

Autobiografia  in un tweet

Ex maratoneta di estrazione berlingueriana, innamorato dei libri e della città di Buenos Aires. Giornalista sportivo.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Amore (tardi).

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«I russi, i russi, gli americani / No lacrime non fermarti fino a domani» (Futura, Lucio Dalla).

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Porca pupazza. Mio padre usava spesso questa espressione. La tirava fuori però quando era stupito o sorpreso, non quando si arrabbiava. Insomma, paradossalmente, porca pupazza diventava un’espressione rassicurante.

4. La parola che la fa volare.

Mappamondo.

5. La parola che la amareggia.

Muro. Per anni ho pensato di dover vedere quelli che cadevano, a Berlino e altrove. E invece ne sono stati alzati di nuovi, ancora più odiosi e assurdi.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Leggero. Il vocabolario è come la coperta per Linus. Un’isola dove sbarcare in mezzo alle grandi onde della confusione lessicale, di parole violentate da un uso improprio o condite con le immancabili virgolette. Quando penso al vocabolario, oggi penso soprattutto ai gialli di Markaris e alle continue fughe del commissario Charitos verso il prezioso Dimitrakos. Dunque, il vocabolario non è un peso. Al contrario, rappresenta un modo per approfondire semplificando, alleggerendo appunto.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Scorrazzare  (perché la scrivevo da ragazzo sempre con una sola 'r' e non riusciva proprio a entrarmi dentro); fare (perché è troppo generico, contiene troppe cose. Qui il copyright è di mia madre); razionalizzazione (perché preannuncia sempre tanti guai).

8. Chi sono i padroni della lingua?

I social network (purtroppo), il posto dove ogni divergenza diventa un conflitto irreparabile. E in cui tutto deve essere estremo, viscerale, nemico.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Disordinato.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Insensibile.

11. L’emoji con cui si identifica.

Nessuno, non li uso mai.

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

Marino Sinibaldi

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Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello


 

 

Vera Gheno e Bruno Mastroianni

Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello

Milano, Longanesi, 2018

 

Tienilo acceso. Che cosa? Il cellulare, sembrerebbe indicare la copertina di questo libro, tanto più che la frase è scritta sul display di uno smartphone. Scorrendo la pagina, si capisce che l'indicazione riguarda senz’altro il cervello. Il sottotitolo sembra poi dissipare ogni dubbio: Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello. Un’indicazione che andrebbe seguita in ogni àmbito dell’agire umano, ma Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione, e Bruno Mastroianni, filosofo della comunicazione e giornalista, con questo libro si concentrano sul mondo delle reti sociali virtuali, provando a darci indicazioni su come gestire nel miglior modo la nostra vita iperconnessa.

Quindi, sì, teniamo acceso il cervello ma anche lo strumento attraverso il quale operiamo nel web (computer, smartphone, tablet e via discorrendo), perché spegnere, chiudere porte e finestre e barricarsi in casa per evitare il “nemico”, non è la soluzione adeguata. Sempre che si tratti di un “nemico”, appunto. La rete può trasformarsi in elemento ostile se non siamo in grado di gestirla. «Spegnendo gli smartphone abbiamo la sensazione di poter controllare la dimensione online […]. Forse possiamo tenerci temporaneamente lontani dalla connessione e dai suoi pericoli, ma farlo non ci aiuterà a trovare risposte per confrontarci con ciò che accade quando siamo connessi». E ancora: «come educhiamo e ci educhiamo a stare in rete? È la risposta a questa domanda che sintetizza la vera priorità di educazione alla comunicazione di oggi: possiamo farci usare dalla tecnologia o usarla noi al meglio» (p. 41).

Oggi, più che mai, è importante sapere che cosa è la rete, quali sono i pericoli, quali le conseguenze dei nostri gesti e come si articola o potrebbe articolarsi la vita online, nostra e dei nostri figli: non bastano leggi e divieti, non ci si può affidare solo alle regole imposte o alla polizia postale, occorre conoscere e comprendere le dinamiche della rete per far sì che essa sia una risorsa e non si trasformi invece in una trappola.

Non si può continuare a rimandare: il futuro è presente. Come sottolineano gli autori: «Bisogna affrettarsi a costruire una cultura delle relazioni digitali, perché siamo in ritardo» (p. 44).

Partendo dal presupposto che la «vera alfabetizzazione digitale, di cui si parla spesso, non può ridursi […] a una serie di conoscenze tecniche, pure importanti, relative al mezzo, ma deve occuparsi del modo con cui usiamo le parole attraverso quel mezzo: le nostre competenze di comunicazione» (p. 8).

Protagoniste sono sempre loro, le parole, ciò che ci rende umani anche se talvolta ci comportiamo da somari, iene o serpi (e non se ne abbiamo a male le povere bestiole tirate in ballo). «Anche in una società sovraccarica di immagini, schermi e contenuti che stimolano e coinvolgono i cinque sensi nel loro complesso, sono ancora e sempre loro [le parole] a dare significato a tutto» (p. 7).

È fondamentale essere consapevoli della risonanza che le nostre parole possono avere quando esterniamo pensieri, concetti o riflessioni più o meno interessanti, così come è necessario comprendere sin dove possono arrivare le conseguenze dei nostri commenti a una notizia, le nostre opinioni o le nostre critiche. Viene da associare le parole alle palle di neve che, rotolando giù per un pendio, possono trasformarsi in vere e proprie valanghe.

Internet, non bisogna dimenticarlo, è un potente amplificatore delle nostre parole, soprattutto se possiamo contare solo su di esse per esprimerci e non, per esempio, su sguardi, smorfie o gesti che ci supportano quando parliamo ad una persona avendola davanti a noi. «Le parole sono il nostro biglietto da visita, spesso danno la prima impressione di ciò che siamo o vogliamo apparire. Tutto questo è ancora più vero nel contesto dei social, in cui non possiamo completare la comunicazione con le espressioni del viso, il tono di voce o la postura che assumiamo» (p. 59).

La metafora stradale che gli autori suggeriscono nelle prime pagine del libro rende perfettamente l’idea: «internet è un’automobile potentissima e la maggior parte di noi non è ancora abbastanza esperta per padroneggiarla. Siamo come neopatentati alla guida di una Ferrari. […] La combinazione di inesperienza e potenza può diventare molto pericolosa» (p. 11).

La strada che gli autori ci indicano per raggiungere una «vita felice e connessa» è fatta di quattro tappe (1. Parole al centro; 2. Parlare di me stesso; 3. Parlare di ciò che succede; 4. Parlare con gli altri): un percorso alla ricerca soprattutto di consapevolezza, competenza e conoscenza.

Per maggiore chiarezza, alla fine di ciascun capitolo, c’è uno specchietto (inscritto in uno smartphone) in cui si riassumono i punti principali esposti nelle pagine precedenti.

Ciò che colpisce di queste pagine, oltre alla qualità e quantità di informazioni (moltissimi anche gli esempi pertinenti e illuminanti, come L’effetto triceratopo – p. 125/8, e L’effetto tinello – p. 128-32), sono il modo equilibrato di esporre, spesso divertente, leggero e profondo al tempo stesso, e l’orizzontalità degli autori rispetto ai lettori: non si muovono dall’alto verso il basso, non ci sono docenti e discenti, c’è un terreno comune, c’è una grande dose di esperienza da trasmettere e l’idea che tutti noi facciamo parte e abbiamo costruito – ciascuno apportando il proprio contributo – un mondo non sempre immediatamente decifrabile, ma dal quale non è giusto né possibile fuggire. 

In una recente intervista di Concetto Vecchio a Rossana Rossanda («La Repubblica», 30 ottobre 2018), viene chiesto alla giornalista e scrittrice se è presente sui social. La risposta, oltre a suscitare in chi scrive un sentimento di vicinanza e profonda tenerezza, è probabilmente comprensibile: «Li detesto. Voglio passare all’altro mondo senza aver dato un solo euro a Zuckerberg».

Forse a 94 anni si può e si deve rimanere lontani dai social, forse a 94 anni è legittimo non avere più voglia di intraprendere altre battaglie in un terreno insidioso, scivoloso e talvolta oscuro, forse a 94 anni non si ha più voglia di mettersi alla guida di una Ferrari. Forse.

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Libertà di parole

Undici domande a Federico Moccia, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Centoquaranta non è il mio numero. Non è la mia altezza, non sono i miei anni e per fortuna nemmeno il mio peso. Io non entro in un tweet.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Amare e le sue sfumature. Me ne sono accorto alle elementari, quando la maestra ci chiese di scrivere un pensiero su un luogo che ci piaceva e dove andavamo spesso. Io pensai subito mare. È lì che ho sempre trascorso le mie vacanze fin da piccolissimo. Lo amo e amo nuotare. Mi misi a scrivere e dopo qualche riga mi fermai. Mi accorsi che la parola mare era contenuta in un'altra, amare. L'amare conteneva il mare? Ma era fantastico. Fu una specie di illuminazione. Mentre guardavo il foglio, stava diventando una specie di filastrocca, «mare amare...». Allora decisi che il tema sarebbe stato dedicato alla parola amare, proprio come fosse una geografia. E lo descrissi fatto di onde, correnti, tempeste, calma e colori. Non ne sapevo certo molto allora. Ma paradossalmente non sono mai riuscito a farlo meglio di quella volta. Nemmeno da grande e dopo molti libri.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«La felicità non è il punto d'arrivo, ma uno stile di vita». Me la ripeto da anni, soprattutto nei momenti più complicati. Mi ricorda che la felicità è una specie di allenamento quotidiano. A questa aggiungo praticamente tutte le canzoni di Battisti, le cui parole mi accompagnano da sempre. Trovo che siano senza tempo perché si adattano a quasi tutte le situazioni della vita che più o meno tutti noi viviamo.

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Non è una parola o un'espressione, è un tono, quello con cui rispondo ad alcune telefonate. Mi piace che sia la voce a dire qualcosa che non voglio definire. Dico: «Pronto!» in quel particolare modo se a cercarmi è una persona che amo, a cui tengo molto o un carissimo amico. E così quella persona sa che sono felice. Somiglia un po' a uno scherzo, a una piccola presa di giro, ma dentro ci sono moltissimo affetto e sorpresa. Perché sono felice di quella chiamata. Poi quando quelle stesse persone mi chiedono: «Come va?», dico sempre: «Bene ora che ti sento».

4. La parola che la fa volare.

Coraggio. Ovvero l'aprirsi all'incerto. Quante volte pensiamo di aver raggiunto quelli che pensavamo essere i nostri orizzonti e obiettivi? Quante volte ci sentivamo al sicuro e definitivi? Poi invece arriva la vita e ti dice: «No, aspetta, c'è tutto un altro mondo da vivere». E la sfida sta lì. Felicità è un lampo fortissimo, un balzo in avanti, qualcosa di preciso che arriva e ti sconvolge. Si tratta di un puntino, non di una linea intera. La serenità somiglia più a uno stato duraturo. Puoi lavorare al tuo approccio alla vita per trasformare ogni giorno in una serie di puntini felici che andranno a formare la linea della tua esistenza. Ma essere felici sempre significherebbe vivere solo gli estremi, sarebbe come dire che il dolore è una costante che si smorza mai. Sono proprio i fatti che ti costringono a questo, a crescere, e crescere significa saper ridimensionare quello che ci accade e che lì per lì ci sembra impossibile da sopportare. Bisogna continuare a vivere perché domani, guardandoci indietro, molto di ciò che ci sembrava tragedia sarà tornato normalità, e le vere tragedie avranno il sapore (anche se amaro) dell'esperienza. Dato che la vita spesso non ci risparmia il dolore, è importante saperlo riconoscere per quello che è, né troppo né poco, senza amplificarlo o minimizzarlo. Conoscerlo nella sua reale dimensione. Sapendo che poi, andando avanti, ogni elemento negativo della nostra esistenza somiglierà a un punto sempre più lontano dell'orizzonte. Come sfilare via a gran velocità in moto e, guardando indietro, vedere tutto che si rimpicciolisce.

5. La parola che la amareggia.

Razzismo. Mi spaventa e mi ferisce. Siamo tutti espressione di umanità e bellezza e nessuno può arrogarsi il diritto di discriminare qualcuno perché lo ritiene diverso (e dunque peggiore). A questa ne aggiungo un'altra, altrettanto pericolosa: tolleranza. Tollerare è la faccia buonista di chi finge di non essere razzista, ma è sinonimo di sopportare. Non c'entra nulla con l'accogliere. Accoglienza è conoscenza, mettersi in gioco, provare a capirsi mischiando mondi. Sopportare non è accettare, è trascinarsi dietro un peso, è fingere per apparenza e comodo. La vita non addita, non esclude, non etichetta. Perché dovremmo farlo noi? La diversità è ricchezza. Non livella, non accorpa, non snatura. Ci insegna la complicità.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Enorme, direi. E per fortuna. È un contenitore che non ha a che vedere coi chili. Non è scomodo. Non va portato in giro, perché è lui a portare te ovunque vuoi. Dentro le radici di una parola, in una connessione tra due termini che pensavi lontani, attraverso un significato che ti accende all'improvviso. Il dizionario è una mongolfiera. Il suo pallone in nylon contiene mille possibilità. L'aria calda che lo gonfia e lo solleva è la nostra curiosità. Senza quella il pallone resta a terra, raggrinzito e inutile.  Tramite le parole noi viaggiamo. E sappiamo che la mongolfiera per volare deve lasciare a terra le zavorre. Quelle che per me sono pregiudizi e cattive convinzioni. Di questa mongolfiera, che è ogni dizionario che sfoglieremo nella vita, noi siamo anche i piloti. E non c'è timone per scegliere la direzione. I bravi piloti per viaggiare si basano sulla direzione del vento alle diverse quote. Le parole sono quel vento. Noi possiamo essere bravi piloti se impariamo a riconoscerle.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Nessuno. Perché ogni parola, anche quella che richiama i significati più odiosi e terribili, deve essere conosciuta a fondo. E oggi, per la situazione che viviamo, violenza, vigliaccheria e irresponsabilità sono tre dinamiche per le quali non dobbiamo mai abbassare la guardia. E per farlo dobbiamo comprendere bene il loro significato. Perché nessuno possa mai usare la nostra ignoranza come scusa per farci credere quel che non è.

8. Chi sono i padroni della lingua?

Coloro che la tradiscono e la manomettono per i loro scopi personali. Chi non la rispetta e la svilisce. La lingua non vuole padroni. Vuole genitori e figli. Chi la genera e chi la eredita. E lo fa con rispetto, amandola e  dedicandosi a lei in ogni occasione e momento della giornata.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Curioso. Perché deriva da cura. E rimanda a tutto ciò che va curato, coltivato e chiede la nostra attenzione costante. Chi si prende cura di qualcosa lo protegge, ma non lo soffoca. Lo aiuta a crescere ed essere autonomo. È una tensione positiva verso quello che accade, il nuovo e  anche ciò che è stato. È un'attitudine che mi spinge continuamente a pensare, fare, tentare, a dimenticarmi l'età intesa come ostacolo per viverla come esperienza. Sono curioso dei miei figli, di ciò che vorranno e potranno essere, curioso di ciò che sanno già insegnarmi adesso, nella riscoperta di aspetti di me bambino che avevo dimenticato e nello sguardo che hanno verso ciò che li circonda. Informarsi, conoscere, capire i nessi, alimentare dubbi perché così nasceranno nuove domande e si arriverà ad altre informazioni, chiedere sempre agli altri, confrontare, mai pensare di avere in tasca la verità assoluta. Esiste forse un senso più grande per la vita dell'uomo? E mi ritrovo a pensarla come Einstein: «Non ho particolari talenti, sono soltanto appassionatamente curioso».

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Irresponsabile. La responsabilità per me è fondamentale. Mi piace il suo etimo, respònsus, participio passato del verbo respòndere, ‘rispondere’. Chi non risponde di ciò che fa o dice non è degno di stima. Specialmente quando rispondere è davvero difficile. Vorrei che questa attitudine mi venisse sempre riconosciuta. Non parlo di risposte forzate o ironiche, date quasi come colpi da infliggere all'avversario. Parlo di risposte profonde, reazioni ragionate a quello che accade, senza vigliaccheria.

11. L’emoji con cui si identifica.

Mi fa sorridere quella che penso si trascriva così: smiling face with smiling eyes, il sorriso con gli occhietti chiusi che mi dà il senso di positività e serenità.

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

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Libertà di parole

Undici domande a Giorgio Moretti, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Fiorentino, ventotto anni. Laurea in legge, postlaurea e altre disgrazie. Una moglie, una figlia, troppi cani. Scrivo. Autore del sito unaparolaalgiorno.it. Moralista, sensitivo.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Direi alle superiori, in terza. Non era più di un’intuizione, ma iniziai ad appuntarmi in modo sistematico le parole di chi pensava e parlava meglio di me, giusto per cominciare a mettere fieno in cascina.

2. Un modo di dire, un proverbio, una frase, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

Perché l’altrui misura / ciascun dal proprio core [Pietro Metastasio 1698-1782, ndr].

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Mia nonna chiamava me e mio fratello brindelloni. A Firenze il brindellone è la persona alta e dinoccolata – a immagine del primo Brindellone, l’alto carro carico di petardi dello Scoppio del carro di Pasqua, che prende il suo nome da alti più antichi carri celebrativi, al sommo dei quali stavano figuranti vestiti come il patrono, San Giovanni Battista, quindi con abiti tutti sbrindellati. Nessuno ci chiama più così.

4. La parola che la fa volare.

Entusiasmo. Un significato e un etimo che accendono sopra ogni altro.

5. La parola che la amareggia.

Buonista. L’ho sempre sentita in discorsi che mi rammaricano.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante, ma con l’esercizio diventa leggero.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Genetliaco, perché nel suo tentativo di essere ricercato si mostra dozzinale, e ha un suono orrendo che rovina il momento piacevole del compleanno. Sarò allergico.

Glamour, perché non vuol dire assolutamente niente, è un’evocazione scontornata e maligna, che serve solo a ingannare – spesso anche chi la pronuncia.

Utilizzare, perché è stato pervertito a un livello tale che la soppressione sarebbe pietosa: significa ‘rendere utile’, non ‘usare’. Posso utilizzare una bicicletta per tenere aperta una porta, non la posso utilizzare per spostarmi: per quello è già utile, è stata pensata apposta.

8. Chi sono i padroni della lingua?

I mercanti e gli scrittori. Il padrone sarebbe il popolo, ma costoro hanno il bastone ipnotizzante di Jafar.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Bellissimo, ça va sans dire.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Scortese.

11. L’emoji con cui si identifica.

emoji2

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

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La parola braccata. Dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico


 

 

Valerio Magrelli

La parola braccata. Dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico

Bologna, Il Mulino, 2018

 

«Solo tre giorni e due notti dell’inverno del 1782 occorsero a William Beckford per redigere la tragica storia del suo califfo [si tratta del racconto Vathek, ndr]. La scrisse in francese; Henley la tradusse in inglese nel 1785. L’originale è infedele alla traduzione» (Altre inquisizioni, José Luis Borges, 1952, trad. it. di Francesco Tentori Montalto). Affermare in modo iperbolico che «el original es infiel a la traducción» può voler dire molte cose, soprattutto quando a pronunciare una simile frase è Borges. Senza addentrarsi nella genialità interpretativa dello scrittore e poeta argentino, c’è da dire che la traduzione è uno dei temi più sviscerati e presenti nell’opera di Borges.

Eppure, alla professione del traduttore, in Italia, non si dà ancora il giusto rilievo. «È raro che un traduttore veda riconosciuto il suo lavoro. Ed è vero, le traduzioni in Italia vengono pagate poco, cosa che non consente al traduttore di lavorare con la dovuta calma. Se una traduzione è sottopagata, il primo a farne le spese è l’autore, e però si danneggiano anche sia la lingua italiana sia il rapporto tra due culture». A parlare così è Ilide Carmignani, traduttrice di grandi della letteratura come Bolaño, lo stesso Borges, Neruda o García Márquez, in un’intervista a cura di Giuseppe Culicchia (Il mio fine è essere invisibile, «La Stampa», 11/07/2017).

Quella del traduttore è una mediazione fondamentale, sottopagata e poco considerata; tuttavia, chi ama la letteratura e ne fa uso, sa che: «Gli autori di un libro tradotto sono inevitabilmente (almeno) due» (Simona Mambrini, Nella traduzione di… Recensire romanzi tradotti, in Speciale Treccani Tradurre le opere, leggere le traduzioni). E aggiunge Carmignani: «di solito il lettore non si rende conto, leggendo, che il traduttore è a sua volta autore, benché invisibile. Non a caso chi traduce viene pagato in diritti d’autore». 

In questo saggio La parola braccata. Dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico è Valerio Magrelli, dopo 40 anni di lavoro come traduttore, direttore di collane di traduzioni, insegnante di traduzioni, oltre che autore tradotto, ad esplorare il «continente della traduzione» da una prospettiva di grande rilievo: «quanto ho scritto vorrebbe contribuire all’immenso cantiere che va sorgendo dall’applicazione delle scienze cognitive al problema della traduzione. Insomma l’ingenua ipotesi (o piuttosto il banalissimo sogno) di vedere in futuro realizzata una mappatura neurale capace di riprodurre i procedimenti attivati nel corso della pratica traduttoria, ormai sta diventando realtà» (pp. 9-10).

La prima parte del volume si propone come «una minima fenomenologia della traduzione», la seconda è dedicata «all’analisi di sei specifici aspetti della traduzione nella forma di altrettanti esercizi: esercizi di capo (acrostici), di coda (rime), di verso (metro), di cifra (indovinelli), di segno (calligrammi) e di tempo (sottotitoli)» (p. 19).

Nel primo capitolo, con Freud, Lurija, Quignard e Terracini, Magrelli prova a mostrare «affinità tra l’atto traduttorio e alcune forme di attività mnestica, a cavallo fra competenze linguistiche e procedure attivate nell’atto del ricordo» (p. 16). L’ossessione della ricerca accomuna i soggetti indagati che, senza requie, provano a richiamare alla mente la parola smarrita. Il concetto è quello della «traduzione come rammemorazione»: lo sforzo che compie il traduttore è simile a quello di chi ha smarrito un nome. Non a caso il saggio Il nome sulla punta della lingua (1995) di Pascal Quignard «costituisce un contributo prezioso ai fini di quella analisi della rammemorazione che stiamo perseguendo» (p. 48) e «non sarebbe eccessivo definire la punta della lingua come l’altare su cui viene officiato il segreto della traduzione» (p.74).

Ma le fatiche di Ercole (divinità sulla quale torneremo) non finiscono qui. C’è un altro sforzo che compie il traduttore e che è molto simile a quello dei solutori di anagrammi: «può esistere un rapporto tra questa pratica e quella della traduzione, ossia fra la ricombinazione di alcune lettere e l’individuazione dell’espressione corrispondente a quella di un originale straniero, magari da cercare con lo stesso sforzo di chi ha dimenticato una parola?» (p. 18).

Il traduttore è un soggetto attivo, una persona chiamata in continuazione a prendere decisioni, a scegliere una strada piuttosto che un’altra, a sforzarsi per ‘portare oltre’ chi gli si affida. Forse non è di immediata interpretazione, ma la copertina di questo sorprendente saggio rappresenta un Ercole al bivio tardo cinquecentesco di Paolo Veronese. Il mito del giovane Ercole, semidio figlio dell’immortale Zeus e della mortale Alcmena che dovette scegliere tra Vizio e Virtù, porta Magrelli ad affiancare scherzosamente (forse non tanto) a san Girolamo, santo e traduttore, un «nuovo protettore della categoria». «Il nuovo campione […] verrebbe indicato in un semidio spiccatamente portato alle “fatiche” […] sarebbe prescelto per la maniera mitica e paradigmatica con cui nel corso dei millenni, sostando davanti a un bivio, seppe rappresentare, come forse nessun altro, la funzione stessa del de-cidere».

 

                       

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Libertà di parole

Undici domande a Emanuele Giovannini, tra lingua e vita

 

La sua vita in un tweet

Autore televisivo da trent'anni giusti giusti. Da più di venti,  autore di riferimento di Carlo Conti. Tra i programmi con la mia firma: I migliori anni, Tale e Quale Show, tre Festival di Sanremo, L'Eredità.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Famiglia. L'ho capito da subito per la gentilezza eroica di mio padre, la forza e la fragilità di mia madre e poi quando ho formato la mia, con mia moglie: un progetto inconsapevole in continua evoluzione.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«Gnommero e ‘n ago, ricominciamo da capo»: lo dicevano i miei nonni e poi mia madre:  il senso dell'infinita pazienza nel ricucire continuamente gli sbagli della propria vita e del mondo che ci circonda.

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Scialla (grazie alle figlie l'abbiamo acquisita tutti).

4. La parola che la fa volare.

Viaggio (il sogno, il progetto, la sorpresa della sua realizzazione, il trasferimento per un tempo breve e sospeso in una realtà totalmente diversa).

5. La parola che la amareggia.

Ignoranza.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Ha il peso delle cose importanti e la leggerezza di ciò che ti diverte.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Nessuno, perché tutte le parole hanno diritto di esistere (fatta eccezione per petaloso).

8. Chi sono i padroni della lingua?

Siamo noi.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Curioso (e anche pigro).

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Prolisso.

11. L’emoji con cui si identifica.

Nessuno. Non li amo. Sono un altro artificio che sottrae parole alla nostra vita.

 

a cura di Margherita Sermonti

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

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Pietro Sermonti

Maurizio Ruggeri

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Giulio Marcon

Eraldo Affinati

Domenico Iannacone

 

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Libertà di parole

Undici domande a Domenico Iannacone, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Sono nato in Molise (che esiste) nel 1962, ho iniziato a fare tv più di vent’anni fa, rimanendo quasi sempre in Rai. Prima ho lavorato per riviste letterarie e giornali. Conduco da 6 anni I dieci Comandamenti, un programma di inchieste (morali) in onda su Raitre. Vivo a Roma, ma mi piacerebbe vivere in provincia.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Verità. Da ragazzino qualche volta ho omesso di dirla per tornaconto e per farla franca. La sentivo opprimente e sempre pronta a bacchettarmi. Poi ad un certo punto della mia vita ha cambiato pelle ed ha vissuto sempre dentro di me. La trovo una parola essenziale per garantire lealmente il rapporto con gli altri e soprattutto con se stessi.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

Vola alta, parola, cresci in profondità /[…] però non separarti / da me, non arrivare, / ti prego, a quel celestiale appuntamento / da sola, senza il caldo di me / o almeno il mio ricordo, sii / luce non disabitata trasparenza… […] (Vola alta, parola, Mario Luzi)

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Il sazio non crede al digiuno.

4. La parola che la fa volare.

Rivoluzione.

5. La parola che la amareggia.

Indifferenza.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Bello pesante.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Potere (per non farlo esercitare sugli altri), condanna (per non giudicare sommariamente) e mito (per poterne sfatare tanti).

8. Chi sono i padroni della lingua?

I poeti perché la cercano tutta la vita e, quasi mai, la tradiscono.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Maniacale.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Corrotto.

11. L’emoji con cui si identifica.

Dita incrociate.

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

 

Marino Sinibaldi

Frediana Biasutti

Pietro Sermonti

Maurizio Ruggeri

Gaia Manzini

Giulio Marcon

Eraldo Affinati

 

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La sinistra che verrà. Le parole chiave per cambiare


 

 

(a cura di) Giuliano Battiston e Giulio Marcon

La sinistra che verrà. Le parole chiave per cambiare

Roma, Minimum fax, 2018

 

Che cosa hanno in comune capitalismo, cooperazione, decrescita, democrazia, disuguaglianza, ecologia, Europa, femminismo, giustizia, globalizzazione, lavoro, libertà, migrazioni, movimenti, pace, politica, precariato, produzione, reddito di base, sud, terra e welfare?

In questo libro rappresentano i lemmi individuati come punto di partenza per affrontare una riflessione collettiva sulle parole utili a comporre (o a ricomporre) un linguaggio che si presti alla ridefinizione di «una cultura politica che deve essere aggiornata e ricostruita. E a questa si deve accompagnare un lessico nuovo. Perché le parole contano» (Giulio Marcon, Introduzione, p. 14).

Le parole contano anche quando riescono a creare quell’effetto di straniamento utile a stimolare un atteggiamento critico e analitico, talvolta narcotizzato dall’abuso di certi termini.

Le parole non sono solo «veicoli del pensiero e strumenti di azione. Non solo descrivono il mondo, ma contribuiscono a trasformarlo […]. Proprio perché il linguaggio è l’uso che ne facciamo, e da quest’uso deriva il modo di intendere il mondo e la possibilità di trasformarlo, ogni tanto è utile una manutenzione straordinaria delle parole. È quello che ci siamo proposti di fare con questo libro a più voci: togliere la patina depositata su alcune parole, tornare a riempire di significati puntuali quelle che sono diventate gusci lessicali vuoti» (Giuliano Battiston, p. 244-45).

Le 22 voci raccolte nel volume La sinistra che verrà, elaborate da altrettanti autori (docenti, giornalisti, sociologi) con la curatela di Giuliano Battiston e Giulio Marcon, sono indicate nel sottotitolo come le Parole chiave per cambiare. Un saggio polifonico con al centro lo sforzo di gettare nuova luce in un panorama in cui, per forza di cose, anche i significati di alcune parole usurate sono mutati insieme con i mutamenti epocali degli ultimi decenni.

Gli autori dei lemmi hanno in comune un contesto ideologico (la sinistra) e il «non accettare il “meramente esistente” e i modi consolidati per interpretarlo» (p. 245).

Così, per esempio, Precariato, come fa notare Guy Standing, travalica la dimensione di fenomeno, condizione, categoria o insieme di lavoratori diventando classe sociale: «Ci si intende poco sulla definizione di precariato, tanto che qualcuno nega perfino che si tratti di una classe sociale ben definita» (p. 181).

E poi, che cos’è la democrazia? Lo sappiamo, non ce lo chiediamo più, diamo per scontato che sia una «forma di governo che si basa sulla sovranità popolare esercitata per mezzo di rappresentanze elettive, e che garantisce a ogni cittadino la partecipazione, su base di uguaglianza, all’esercizio del potere pubblico» Vocabolario on line Treccani

Luigi Ferrajoli osserva, tuttavia, che «questa nozione puramente formale o  procedurale, che identifica la “democrazia” sulla base soltanto delle forme delle decisioni, cioè del “chi” (il popolo o suoi rappresentanti) e del “come” (la regola della maggioranza)», è sì necessaria per definire la democrazia politica ma non sufficiente a dar conto della democrazia costituzionale. E definisce un modello multidimensionale di democrazia «articolato su quattro dimensioni corrispondenti a quattro tipi di diritti […]: i diritti politici, i diritti civili, i diritti di libertà e i diritti sociali» (p. 46).

In quanto alla «cura della polis», Giulio Marcon sottolinea come la mutazione del contesto abbia finito con l’alterare anche il significato della politica che, fino a qualche anno fa possedeva «un quadro di riferimento definito, quello dello stato nazionale […]. Con la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia gli stati nazionali hanno perso peso e ruolo […] e sono stati in parte svuotati delle antiche funzioni». La democrazia nazionale si è trasformata in un «puro involucro formale e le politiche nazionali sono state sovradeterminate dai contesti dei nuovi poteri finanziari privati e dalle nuove architetture sovranazionali […]» (p.172).

Lontano da atteggiamenti pessimistici, è importante ricordare che «la crisi in cui siamo immersi è anche, in senso etimologico, un’occasione per “distinguere”, “giudicare” (krinein) e ripensare i meccanismi che regolano la nostra società» (Battiston, p. 248).

Aggiungerei che viviamo in una società in cui le parole devono senz’altro essere mantenute, ripensate, rianimate attraverso manovre di respirazione bocca a bocca, ma devono anche essere difese e restaurate per contrastare quella che Vittorio Zucconi definisce la «truculenta neo-lingua [che] oggi invade il discorso pubblico».

«Oggi le male parole pubbliche sono la nuova forma di comunicazione e di non dialogo, costruiti per escludere gli impuri e compattare i clienti al banco del bar dell’odio» Vittorio Zucconi, Sta vincendo la neo-lingua da spogliatoio, «La Repubblica», 9 agosto 2018.

Questo libro è dedicato ad Alessandro Leogrande.

                                                                   

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Libertà di parole

Undici domande a Eraldo Affinati, tra lingua e vita

 

Autobiografia  in un tweet 

Nato a Roma nel 1956. Insegnante-scrittore. Sposato con Anna Luce Lenzi, conosciuta attraverso Silvio D’Arzo, autore di Penny Wirton e sua madre.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

A otto anni quando, entrando in classe, vidi che i miei compagni si alzarono in piedi per applaudirmi. Il maestro stava leggendo il tema che avevo svolto.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«Gli uomini nel benessere non capiscono, sono come bestie destinate al macello». (Salmo 49)

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare“

«Daje professò!», pronunciata da Romoletto.

4. La parola che la fa volare.

Futuro.

5. La parola che la amareggia.

Invidia.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Leggerissimo, dentro lo smartphone.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Vorrei tenermi tutto, comprese le parolacce.

8. Chi sono i padroni della lingua?

I nostri pensieri: non padroni, ma predoni d’emozioni da esprimere.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Romantico, in senso tradizionale.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Polivalente.

11. L’emoji con cui si identifica.

Il cuore rosso che batte forte.

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

 

Marino Sinibaldi

Frediana Biasutti

Pietro Sermonti

Maurizio Ruggeri

Gaia Manzini

Giulio Marcon

 

 

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Libertà di parole

Undici domande a Giulio Marcon, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Attivista politico in gioventù e operatore sociale da adulto, responsabile nel corso del tempo di diverse organizzazioni non profit e di volontariato, infine responsabile di una piccola casa editrice; da ultimo – incidentalmente – deputato della Repubblica nella XVII legislatura.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?


Alle assemblee studentesche e ai collettivi di scuola negli anni '70.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.


Dipende dai momenti. Oggi direi: «Fai quel che devi, accada quel che può» (Gaetano Salvemini).

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.


Xe pezo el tacon del sbrego. È un modo di dire del dialetto veneto e della Venezia Giulia (da cui proviene la mia famiglia), utilizzato anche in altre parti d'Italia: "la toppa è peggio del buco", anche se sbrego significa 'strappo, lacerazione'. L'ho sentito spesso in famiglia, ma soprattutto ne ho avuto conferma nella mia vita: certi rimedi, quando sono provvisori e posticci, peggiorano gli errori che fai o i mali che vuoi curare. Meglio andare alla radice.

4. La parola che la fa volare.


Solidarietà.

5. La parola che la amareggia.


Indifferenza.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Leggero.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.


Conformismo (perché è una sorta di viltà), narcisismo (perché da peccato individuale è diventato negli ultimi trent'anni una patologia sociale infestante), violenza (che ci mette un gradino sotto gli animali).

8. Chi sono i padroni della lingua?


In teoria, tutti noi. In pratica le élites, le conventicole accademiche e i potenti – e i lori servi – che la usano per narcotizzare, condizionare, asservire ed escludere.

9. L’aggettivo che più le si addice.


Concreto.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Arrogante.

11. L’emoji con cui si identifica.


Il bacio, poiché è l'ultima domanda.

 

a cura di Margherita Sermonti

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

 

Marino Sinibaldi

Frediana Biasutti

Pietro Sermonti

Maurizio Ruggeri

Gaia Manzini

 

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Libertà di parole

Undici domande a Gaia Manzini, tra lingua e vita

 

Autobiografia  in un tweet

Sono nata nel 1974 a Milano. E poi sono rinata quando ho pubblicato il mio primo libro nel 2009. S’intitolava Nudo di famiglia. Rinasco ancora, ogni volta che ho l’occasione di scrivere per i giornali con cui collaboro, ogni volta che c’è da pensare a una nuova storia da raccontare.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Volontà. Per tutta l’adolescenza ho pensato di non avere nessuna vera dote. Poi, studiando all’università, ho capito che mi veniva facile fare un passo alla volta, con metodo e capacità di resistere. Avevo scoperto di avere un talento, quello della volontà.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

Parafraso una riflessione di Edgar Morin che mi è capitato di leggere in questi mesi: progettare, andare avanti, ponendoci di continuo delle domande, le domande dei bambini, ma con la consapevolezza degli adulti. Mi sembra una prospettiva bellissima.

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Non esisti solo tu.

4. La parola che la fa volare.

Scrivere.

5. La parola che la amareggia.

Violenza.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante e leggero, a seconda del contesto.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Frontiera (non è più qualcosa da raggiungere, ma rappresenta oggi la divisione tra gli uomini). Scetticismo (perché mi sembra che in questo momento storico ci sia molto bisogno dell’esatto contrario). Aridità (c’è necessità di terreni e di menti fertili. Solo se continuiamo ad avere idee, solo se continuiamo a provare emozioni possiamo avere la possibilità di cambiare qualcosa intorno a noi).

8. Chi sono i padroni della lingua?

Chiunque parli quella lingua.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Sognatrice.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associata.

Superficiale.

11. L’emoji con cui si identifica.

Il cuore con dentro altri cuori. Quello che ho ribattezzato cuore matrioska.

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

 

Marino Sinibaldi

Frediana Biasutti

Pietro Sermonti

Maurizio Ruggeri

 

/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_102.html

La lingua è un'orchestra. Piccola grammatica per traduttori (e scriventi)


 

 

Mariarosa Bricchi

La lingua è un’orchestra.

Piccola grammatica per traduttori (e scriventi)

Milano, il Saggiatore, 2018

 

 

La prospettiva che ci offre Mariarosa Bricchi, con il suo importante contributo orientato a fare chiarezza nell’oscura selva dell’italiano (italiano dell’uso medio, o italiano neo-standard, italiano senza aggettivi o italiano normale), è sicuramente inusuale, quanto meno per il modo di trattare la materia e per il garbato atteggiamento “orizzontale” di chi non intende insegnare dall’alto, in modo “verticale”, ma contribuire alla formazione di uno dei pilastri della conoscenza: la consapevolezza.

Intanto il titolo, La lingua è un’orchestra, ci indirizza verso la lingua  precisa di cui si occupa questa Piccola grammatica per traduttori (e scriventi), cioè una lingua plurale, polifonica, plurivocale, corale, perché «l’italiano non è uno, ma tanti».

Prendere atto della complessità della nostra lingua significa anche comprendere appieno la metafora dell’orchestra, partendo dal presupposto che «Le varietà dell’italiano hanno […] a che fare con la storia […], con la geografia […]; con lo strato, o gruppo sociale e culturale di chi usa la lingua […]; con la situazione comunicativa nella quale la lingua viene usata […]. E con il canale […]: allo scritto e al parlato si affiancano oggi quelle che sono state definite le varietà trasmesse, cioè il parlato a distanza (radio, televisione, telefono, skype) e lo scritto del social media» (p. 24).

Mariarosa Bricchi, oltre che storica della lingua italiana ed editor, è esperta di prosa letteraria dell’Ottocento e del Novecento e di lingua delle traduzioni. Le questioni della grammatica italiana sono esemplificate – con grande accuratezza –, attraverso brani di scrittori italiani dall’Ottocento fino ai nostri giorni, costruendo una sorta di «grammatica in pratica, cioè un continuo confronto con chi, l’italiano, lo ha scritto bene» (p.13).

Si tratta di un aspetto rilevante, un elemento che arricchisce questo manuale, un po’ perché si dimostra costantemente che si può imparare da tutta la sostanza formata dalla lingua – il discorso letterario è probabilmente un punto di osservazione privilegiato –, non solo applicando le pur utili regole delle grammatiche o attraverso lo studio dei lemmi dei vocabolari («senza i quali la vita perde colore»: altra perla preziosa il capitolo IV, ottima guida all’uso e alla conoscenza di dizionari e vocabolari). La lingua letteraria, oggi, non è più una lingua distante, scritta e compresa da pochi eletti («“17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi”: questa era l’Italia appena unificata in una celebre definizione dello storico Pasquale Villari», p. 22); anzi non è nemmeno più una lingua monolitica: è una lingua che si muove e si evolve in continuazione, si nutre dei contesti in cui cresce, «assimila registri e linguaggi da una miriade di fonti disparate. Questa situazione, che lo studioso russo Michail Bachtin ha definito pluridiscorsività, mette a frutto, sul piano letterario, la molteplicità che è propria di ogni lingua. Italiano incluso […]» (p. 27)

La lingua è un’orchestra mette a disposizione utilissimi strumenti a un tipo di scrivente (non solo al traduttore) che vuole capire, conoscere come è fatto l’italiano che parla, perché si è trasformato e in che modo sono mutate le sue strutture.

A dispetto del sottotitolo, come già sottolineato, questo manuale si propone più come una guida piuttosto che come una ingessata grammatica. Senza inutili snobismi, l’italiano o lo domini o ti domina, non c’è verso. «Possediamo oggi una lingua plastica e adulta, che è bene e bello maneggiare con consapevolezza» (Introduzione). Una lingua complessa in cui l’errore, di cui si indagano ragioni e radici, viene qui sdrammatizzato, per lasciare spazio all’analisi e all’approfondimento. Come, per esempio, l’uso scorretto o, peggio ancora, l’abuso del congiuntivo, cui viene dedicato un intero capitolo, il VI: L’italiano è ammalato (non grave) di congiuntivite. Anche qui la prospettiva è felice: l’autrice ci fa comprendere, che, al di là degli annunci drammatici della morte o della rinascita del congiuntivo, il problema vero non è tanto la carenza quanto l’eccesso di congiuntivo: troppo, quindi, non troppo poco. Ci sono regole, talvolta disattese, per il corretto uso del congiuntivo ma la paura di macchiarsi con l’infamia di non sapere usare il modo che, a detta di molti, misura la temperatura del «ben parlare», porta ad effetti ben più pericolosi. Gli esempi abbondano (purtroppo) in tanti contesti, anche insospettabili. In un opuscolo ministeriale, pubblicato in occasione degli Stati generali della lingua italiana del mondo 2016, si legge (il corsivo è dell’autrice): «La lingua italiana è infatti la seconda più utilizzata nel panorama delle insegne commerciali in tutto il mondo […]. Questo dimostra che, soprattutto in alcuni paesi, l’italiano sia considerato una lingua che piace e fa tendenza …» (p. 168).

Probabilmente figlia anch’essa del complesso di inferiorità di alcuni parlanti, un’altra malattia si estende a macchia d’olio: «Parlare artificiale» (cap. V). «Parlare affettato è un vizio con due facce: ci sono le scelte pompose e impennacchiate di chi, credendo di innalzare il registro, in verità lo abbassa, denunciando null’altro che insicurezza e disagio; e le parole della burocrazia, polverosi materiali di quel deposito che Italo Calvino ha battezzato antilingua» (p. 131)

In questo volume, l’autrice si sforza in continuazione di sottolineare quanto sia necessario pensare all’universo della grammatica non solo come un mondo bianco o nero, giusto o sbagliato, dove l’errore non può solo essere segnato in rosso, ma deve essere compreso, spiegato e talvolta tollerato.

«Tutti i parlanti acquisiscono la lingua materna per diritto di nascita. Ma accanto all’aspetto del diritto, c’è quello, anche più interessante, del dovere. Le risorse comuni – culturali, naturali, ambientali – vanno rispettate e tutelate. Così anche la lingua: parlare e scrivere bene, cioè comunicare in modo chiaro ed efficace; e capire correttamente i discorsi degli altri, anche quelli complessi, sono competenze che si sviluppano e si affinano» (p. 14).                                                              

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Libertà di parole

Undici domande a Maurizio Ruggeri, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Maurizio Ruggeri Fasciani. Roma 1956. Giornalista. Conduttore della trasmissione Zona Cesarini su Radio1 Rai. Ha scritto di ciclismo, atletica, tennis e boxe.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Quando ho incontrato il mio amico che scriveva poesie. Avevo vent’anni e cominciai a riempire le mie agende per immortalare i momenti della giornata. È da lì che ho cominciato a far attenzione alle parole. Non ho mai smesso di avere un’agenda.

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

La frase di Joseph Conrad: «E il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d’ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche le regioni della prima gioventù».

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Lessico familiare: lo usavamo nella casa dove sono nato. Abitavamo con i nonni abruzzesi che spesso, soprattutto quando perdevano le staffe, usavano il dialetto. Ancora oggi, quando torno laggiù, mi piace parlarlo. Uno che faceva scena, o non era attendibile, per mia nonna era un mossante. E poi adoravamo le paparàzz, li rusciùl, e le tll… (con l'accento sulla elle): le vongole, le triglie e le telline.

4. La parola che la fa volare.

Vento.

5. La parola che la amareggia.

Uno dei sostantivi che mi respingono è ideologia. Pensare ai movimenti politici e religiosi mi fa venire voglia di allontanarmi in mare aperto. Vorrei che tutto fosse privo di connotazione ideologica per non scadere nel cattivo gusto. In primis la scrittura.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante, per portarmelo su un’isola e passarci il tempo. Non mi annoierebbe mai.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Social, perché non lo sono e non mi piace nemmeno il suono. Tronista, perché trovo orripilanti quei programmi. Entratura, perché non capisco le persone che non si sforzano per parlare meglio.

8. Chi sono i padroni della lingua?

Dipende cosa s’intende. Se proprietari, tutti gli intellettuali che la governano e che la padroneggiano da sempre. Ci vuole talento, oltre che applicazione. E anche dei buoni insegnanti (i genitori). Insomma, essere padroni della lingua è come parlare una lingua straniera già da piccoli.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Indecifrabile.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Rinunciatario.

11. L’emoji con cui si identifica.

Faccina che fa l’occhietto.

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

 

Marino Sinibaldi

Frediana Biasutti

Pietro Sermonti

 

 

 

 

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Libertà di parole

Undici domande a Pietro Sermonti, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Nome: Pietro; cognome: Sermonti; nato in città eterna; attualmente nel mezzo del cammin di mia vita; attore (ma è una copertura); destinato ad una folgorante calvizie.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Giocare: guardando Tardelli sfigurato dalla gioia dopo il secondo goal contro la Germania (11/7/1982 alle 21:24), ho capito irrimediabilmente che giocare sarebbe diventato il mio mestiere. Non mi sbagliavo.

2. Un modo di dire, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«Ascolta come mi batte forte il tuo cuore» di Wisława  Szymborska (me la sono tatuata sul costato).

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

‘Cci tua!: amo questa espressione perché mi è sempre sembrata uno starnuto.

4. La parola che la fa volare.

Gioventù (rigorosamente in latino!).

5. La parola che la amareggia.

Tolleranza: perché è una parola verticale, che presume una gerarchia, che cala dall’alto come una concessione. (Per intenderci: rispetto, invece, è una parola orizzontale).

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Per me il dizionario è letteralmente una poderosa sostanza stupefacente.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Carino; rottamare; femminicidio (perché, prima o poi, verrà accolto dai dizionari).

8. Chi sono i padroni della lingua?

A bruciapelo e con peloso buonsenso, direi che I Padroni della Lingua – ammesso, e non concesso, che esistano – sono i lettori (possibilmente avidi).

9. L’aggettivo che più le si addice.

Malinconico.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Vigliacco.

11. L’emoji con cui si identifica.

Non c’è ancora, lo sto brevettando. Ciò detto, con una pistola alla tempia, direi questo: emoji2

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

Marino Sinibaldi

Frediana Biasutti

 

 

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Liberta_di_parole2.html

Libertà di parole

Undici domande a Frediana Biasutti, tra lingua e vita

 

Autobiografia in un tweet

Nasco a Como, vivo a Roma, radici tra Napoli e Venezia, giornalista, mamma, rompiscatole. Leggo e viaggio accanitamente.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito.

A 6 anni, in prima elementare, quando ho dovuto accettare che si scrivesse la vasca e non l’avasca come invece credevo fermamente. Dopo ore sprecate a difendere strenuamente la forma sbagliata, all’uscita di scuola mi dovetti arrendere: sia Mamma, sia Maestra – massime autorità dell’epoca – confermarono il mio errore. Ma resto convinta che la vasca non sia lo stesso oggetto dell’avasca (che è chiaramente un elemento di arredo-bagno sparito nell’ottobre 1976).

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

«Vivere vorrei addormentato/ entro il dolce rumore della vita»,  una poesia di Sandro Penna.

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Spass’e via, tribol’e casa, un modo di dire napoletano usato per descrivere persone molto divertenti in compagnia e impossibili tra le mura domestiche, e da sempre usato per definire l’atroce carattere di un membro della famiglia. Poi mettere la tavola e togliere la tavola al posto di apparecchiare e sparecchiare (ho scoperto solo intorno ai 30 anni che erano forme dialettali napoletane e non purissimo italiano).

4. La parola che la fa volare.

Libertà. Una parola che vola e mi fa volare per significato e significante (quella labiale e poi l’eco della parola librarsi e quell’accentata finale, che è un atterraggio sicuro).

5. La parola che la amareggia.

Ingiustizia.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante! È un oggetto stanziale (da casa, da ufficio; al massimo lo si porta a scuola per i compiti in classe), allora che sia più pieno di parole e informazioni possibile.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Verificare nel senso di ‘accadere’, perché credo si sia affermato per via dell’ignoranza di molti giornalisti e per me resta sbagliato; sindaca, perché mi pare inutilmente mostruoso (non credo che il femminismo si affermi così; se avessimo il genere neutro allora sì, lo troverei calzante, non mi interessa il sesso di chi fa il sindaco, il magistrato, il presidente della Camera, mi interessa come esercita la funzione); piezoelettrico, perché mi ha fatto perdere una gara da spiaggia di parole crociate.

8. Chi sono i padroni della lingua?

Tutti quelli che la usano, soprattutto quelli che la parlano, assai meno quelli che la scrivono.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Indipendente. Ma mi imbarazza questa domanda!

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associata.

Corrotto.

11. L’emoji con cui si identifica.

emoji

 

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

 

Le interviste già pubblicate

Marino Sinibaldi 

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Breve storia della questione della lingua


 

 

Claudio Marazzini
Breve storia della questione della lingua

Roma, Carocci editore, 2018

 

«L’atto di nascita della lingua italiana viene tradizionalmente collocato nel 960, l’anno del Placito capuano, antico verbale notarile a cui si attribuisce in maniera più o meno convenzionale il titolo di “primo documento” del nostro idioma». Pertanto «la nostra lingua è entrata […] nel suo secondo millennio di vita» (p. 117).

Di conseguenza, la Breve storia (della questione della lingua) si riferisce a un arco di tempo talmente grande che una sintesi asciutta, lucida ed efficace di un tema che accompagna e accompagnerà gli italofoni da e per moltissimo tempo non poteva che essere condotta da Claudio Marazzini, studioso esperto e attento osservatore della nostra lingua, presidente dell’Accademia della Crusca e ordinario di Storia della lingua italiana all’Università del Piemonte orientale.

Un’idea che l’autore sottolinea sin da subito: la questione della lingua, lungi dal rappresentare un ozio letterario,dovrebbe rivelare la sua centralità nella cultura italiana. Occuparsi dell’italiano di ieri e di oggi significa anche comprendere che il destino della nostra lingua, inteso come bene comune ed espressione di una comunità, è nelle nostre mani.

«Per contrastare l’interpretazione riduttiva dellaquestione della lingua, considerata come un dibattito sulle varie denominazioni fiorentino, toscano, lingua comune o italiano, cioè equiparata a un’oziosa disputa nominalistica, si può ricordare il parere di Antonio Gramsci: Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale (Quaderni del carcere, Quaderno 29, § 3)» Claudio Marazzini, Enciclopedia dell’italiano, Treccani.it

Che cosa si intende esattamente con l’espressione questione della lingua? E poi, la questione è sempre stata la stessa nel corso dei secoli? Possiamo ancora oggi parlare di questione della lingua? E in che termini? Domande che sorgono spontanee e alle quali troviamo risposte in questo validissimo compendio.

Procediamo con ordine. «Sotto il nome di “questione della lingua” si indicano tutte le discussioni e le polemiche svoltesi da Dante ai nostri tempi relative alla norma linguistica e ai temi connessi. All’inizio, nel Medioevo e durante l’Umanesimo, si trattò di riconoscere e rivendicare la dignità del volgare, o di negarla, in nome della superiorità del latino. Nel Cinquecento si discusse a lungo sul nome da attribuire all’idioma letterario, se dovesse essere detto toscano, fiorentino, lingua comune o lingua italiana» (p. 9). Certo è che la nostra lingua è nata, cresciuta e si è modellata sui tempi di cui è stata espressione. Così, «dopo il 1861 emerse anche il problema del valore “nazionale” della lingua, intesa come simbolo dell’unità spirituale del paese».

L’autore, dopo aver illustrato La questione della lingua da Dante al Rinascimento (capitolo I), Il “primato” fiorentino (capitolo II), le Idee storico-linguistiche del Settecento (capitolo III), L’Ottocento: puristi, classicisti e romantici (capitolo IV), Lingua e nazione (capitolo V), Regno, Impero e Repubblica (capitolo VI) giunge a La questione della lingua nell’Italia del secondo millennio (capitolo VII), specificando quei punti critici «che sembrano costituire una sorta di nuovissima questione della lingua». Proprio per sottolineare come non sia più possibile rimanere indifferenti, in quanto figli e genitori di una lingua sulla quale è necessario riflettere, non come distanti spettatori ma attivi e responsabili attori del nostro tempo.

In quanto all’attualità del dibattito, Marazzini non usa mezzi termini: «[…] la questione della “norma” che sta alla base della questione della lingua può rinascere e riapparire in forme assolutamente inaspettate» (p.10). Come per esempio la portata dell’uso e abuso dei forestierismi, soprattutto dell’inglese, la svalutazione della lingua nazionale, l’italiano nella scuola.

«Le ragioni per le quali in Italia si è tanto propensi al forestierismo mi paiono le seguenti: manca troppo spesso il senso di identità collettiva che rende uno stato saldo nella coscienza dei cittadini, manca una buona conoscenza della propria storia e della propria lingua tale da restituire il senso di appartenenza alla cultura nazionale». Claudio Marazzini, Il problema dell’italiano? Non lo amiamo abbastanza, Famiglia cristiana.it

Sarebbe forse opportuno partire anche dalla lingua per fare una riflessione più generale su chi sia il vero “nemico” che impedisce o rende più difficile  il mantenimento dell’identità nazionale: lo cerchiamo fuori dai confini, proviamo a bloccarlo con i muri, ma forse dovremmo capire che questo “nemico” sta dentro di noi, che non sempre siamo capaci di prenderci cura di ciò che abbiamo, dalla lingua al patrimonio culturale.

 

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Libertà di parole

Undici domande a Marino Sinibaldi, tra lingua e vita

 

 

Autobiografia in un tweet

Nato biologicamente nel 1954, culturalmente nel 1968, professionalmente nel 1977 quando ha iniziato a fare il bibliotecario e nel 1999 quando è diventato prima vicedirettore e poi direttore di Radio3. Tutto in uno spicchio di mondo (Roma) che ama ma non idolatra.

 

1. La parola al centro della sua vita: quando lo ha capito?

Parlare. Ho capito presto che era la cosa che più  mi piaceva  fare, l’ho fatto per passione e per lavoro, perfino da solo (ma più spesso con altri e per altri, fortunatamente) fino a fare mia la massima di Don Milani: «Essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell'arte del parlare».

2. Un modo di dire, una frase, un proverbio, il verso di una poesia o di una canzone che le ritorna in mente.

Cambiano rapidamente, specie le canzoni che tornano in memoria. Ora più spesso di tutte una che dice, tra l’altro, «ad un futuro che ha già in mano».

3. Una parola o espressione, anche dialettale, del suo lessico familiare.

Chi ha il pane non ha i denti.

4. La parola che la fa volare.

Radio.

5. La parola che la amareggia.

Paura.

6. Il dizionario: pesante o leggero?

Pesante quanto basta.

7. Tre lemmi che eliminerebbe dal dizionario e perché.

Obbligo (perché preferisco la libera scelta), servitù (perché preferisco il suo contrario), sicurezza (perché così saremmo costretti a cercare sinonimi meno equivoci).

8. Chi sono i padroni della lingua?

I parlanti.

9. L’aggettivo che più le si addice.

Curioso.

10. Quello al quale non vorrebbe mai essere associato.

Potente.

11. L’emoji con cui si identifica.

L’arcobaleno.

 

Illustrazione di Stefano Navarrini

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Testi che parlano. Il tono di voce nei testi aziendali


 

 

Valentina Falcinelli
Testi che parlano. Il tono di voce nei testi aziendali

Firenze, Franco Cesati Editore, 2018

 

Un evidenziatore rosa fucsia, senza cappuccio, campeggia sulla copertina di Testi che parlano (il titolo è scritto nella stessa tonalità di fucsia del pennarello). Dalla punta a feltro largo, scaturiscono lettere di dimensioni diverse, che formano una specie di nuvoletta.

Ecco come l’idea centrale del libro, catturata e riproposta in copertina con estrema efficacia dall’ufficio grafico della Franco Cesati Editore, ci guida nella lettura di un testo che affronta un argomento indubbiamente nuovo e originale, legato alla scrittura nel variopinto mondo del marketing, e che, più in generale, ha a che fare con la temperatura emotiva delle parole scritte.

Al suo primo libro, Valentina Falcinelli, copywriter ed esperta di linguaggio pubblicitario, fondatrice della «boutique della comunicazione» Pennamontata, ci accompagna nell’universo del Tone of Voice o ToV, in «un viaggio nel cuore della scrittura fatto di tappe, bivi, fermate, scelte che man mano ci avvicinano alle persone che desideriamo coinvolgere, convincere, emozionare» (Luisa Carrada, Prefazione).

 

La domanda sorge spontanea: come fa un’entità silenziosa come la parola scritta ad avere un tono e perlopiù di voce? Il presupposto dal quale si parte è che «un testo dice sempre qualcosa, e lo dice sempre in qualche modo. Con la sua voce. O, per meglio dire, con quella che l’autore, attraverso una serie di artifici studiati ad arte – pause, punteggiatura, scelte lessicali e stilistiche –, gli ha conferito» (p. 11).

L’impresa non è facile, ancor più se dalla temperatura emotiva e dal tono di voce di ciò che si scrive può anche dipendere la fortuna di un marchio o di un prodotto. In un mondo dominato dalle leggi del mercato si parla anche di «emozioni nel marketing». Sì, perché se le emozioni non hanno prezzo, nelle strategie di vendita le emozioni, sempre quelle senza prezzo, sono fondamentali per invogliare il consumatore ad esprimere una preferenza verso un marchio piuttosto che un altro.

 

Ci fa notare l’autrice che, dal 1990 ad oggi, siamo passati dal «marketing tradizionale, basato sul consumo di tipo razionale, al marketing esperienziale». In buona sostanza, le strategie di commercializzazione non si plasmano più sul prodotto ma sul cliente.

«Il marketing esperienziale è avvolto dal sensuale velluto dell’edonismo e del piacere, strizza l’occhio alle esperienze olistiche, ai desideri più che ai meri bisogni e intesse relazioni bidirezionali e interattive con l’homo ludens. Quest’ultimo è il consumatore postmoderno» (p.13).

Ci si inclina verso chi decreta la qualità o esprime semplicemente il proprio gradimento per ciò che viene pubblicizzato e ci si concentra sulla dimensione affettivo-emozionale, promuovendo una politica aziendale che «parla al cuore dei clienti». Il brand diventa emozionale, cioè «capace di dismettere i panni di azienda per indossare quelli di persona» (p.15).

 

Cambia tutto, anche il tono di voce, cioè il «modo con cui l’azienda regola la sua voce nei vari contesti e canali. Esattamente come facciamo tutti noi come persone ogni giorno, nella nostra quotidianità» (p. 34).

Limitandoci a un àmbito strettamente linguistico, il tono di voce non è altro che «il modo con cui confezioniamo i nostri testi, è la somma di tutte le scelte stilistiche, semantiche e linguistiche che facciamo, parola dopo parola» (p. 35).

È molto interessante seguire i passaggi creativi dell’autrice, osservare gli strumenti che utilizza, le regole che segue, i pericoli che schiva, i numerosissimi esempi che riporta (ToV colloquiali, colorati, aggressivi, ironici e molto altro), perché esprimersi consapevolmente è sempre possibile, esercitandosi di continuo e seguendo tutte le strade utili, anche osservando un mondo che apparentemente può sembrare distante dal nostro. L’importante, però, è conoscere e saper modulare il giusto tono di voce in ogni occasione.

 

                                                                    

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Giorgio Moretti: la meraviglia quotidiana delle parole

 

Capita, a volte, di non riuscire a trovare le parole adatte per esprimere un sentimento, un’emozione, uno stato d’animo o per descrivere un paesaggio straordinario, un dipinto commovente, un’armonia travolgente o semplicemente (sempre che sia possibile associare questo avverbio a un concetto così immenso) di non trovare il modo di parlare d’amore, quello con la A maiuscola. E più grande e infinito è ciò che si prova, più difficoltà si ha nel recuperare le parole giuste, che vadano dritte al bersaglio, come se d’improvviso fossimo catapultati nell’universo dell’ineffabile, travolti da una nuvola densa e opaca, che ci impedisce quasi di parlare.

Poi c’è la vita di tutti i giorni, dove le parole ci sovvengono (più o meno sempre) svelte e diligenti, quando lavoriamo, conversiamo con gli amici o interveniamo in un’assemblea di condominio. In questi àmbiti è tutto più facile, non ci sono i sentimenti a disturbare il segnale, conta una comunicazione corretta, di qualità, per dire in modo appropriato ciò che pensiamo.

Negli ultimi tempi si alzano i toni un po’ dappertutto, è una moda quella di urlare e di accanirsi contro qualcuno o qualcosa. Così anche il dibattito sulla lingua, sulla correttezza di certe espressioni, parole o costrutti travalica il mondo dell’accademia e talvolta il limite della buona educazione. Tutti (troppi) hanno da dire qualcosa, sono in atto battaglie sulla liceità di alcune espressioni, guerre interne sfiniscono i parlanti, un purismo di massa pervade la società, i social media, le rubriche della carta stampata e riempie gli scaffali delle librerie, convivendo, non troppo paradossalmente, con un’anarchia di comportamenti pratici, talvolta rivendicati con orgoglio aggressivo.

Tutti scrivono e nessuno legge, molti parlano e pochi ascoltano: sarebbe forse il caso di ritornare alla basilare lezione dell’anatomia umana e ricordare che un motivo ci sarà se abbiamo una sola bocca e due orecchie.

Tuttavia parlare di lingua, in modo garbato e avvincente, è ancora possibile. Ce lo insegna, ma non dalla cattedra, Giorgio Moretti, che nella sua rubrica La lingua ci tocca su fanpage.it si presenta così: «Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito Una parola al giorno, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro Parole di giornata (Il Mulino, 2015)».

Non è un linguista accademico e si è ritagliato uno spazio importante e autorevole nel microcosmo degli appassionati della lingua.

Brillante, garbato e preciso, Moretti, giovane innamorato della lingua – e senza dubbio da essa  ricambiato – nella sua rubrica, ha il pregio, tra gli altri, di prendere spunto da un aspetto generale (attualità, cronaca, politica, ecc.) per poi approfondirne gli aspetti prettamente linguistici. Dal lessico delle canzoni di Sanremo ai significati della Pasqua, dal significato di suffragio ai paladini del “modo che congiunge”, la cui «nevrosi per il congiuntivo trova in Di Maio uno dei parafulmini più amati».

Ci immergiamo nelle questioni linguistiche senza nemmeno accorgercene, facendo un giro largo, proprio perché entriamo dalla porta della vita di tutti i giorni.

Ad esempio, per quanto riguarda i programmi elettorali, fa riflettere la prospettiva “linguistica” che Moretti propone in un articolo nel quale candidamente illustra «un metodo banale ed essenziale, davvero alla portata di chiunque, per compiere una prima valutazione nel determinare se una dichiarazione ha significato oppure non ce l'ha. Una tattica logica da applicare alle frasi che ci vengono proclamate addosso».

Basta prendere un punto del programma e trasformarlo. «Esistono delle dichiarazioni che, se negate, non hanno più senso, o lo perdono quasi del tutto. Altre, invece, anche con una negazione mantengono un senso corposo, per quanto opposto. Le prime sono da considerarsi prive di significato. Facciamo qualche esempio: "Noi vogliamo sostenere le famiglie" "Ci impegneremo nel contrasto alla criminalità organizzata e al terrorismo" "Valorizzeremo il nostro patrimonio storico e naturale" "Creeremo nuovi posti di lavoro". Volte in negativo, sono politicamente prive di significato, di un paradosso che fa ridere: "Non vogliamo sostenere le famiglie" "Non ci impegneremo nel contrasto alla criminalità organizzata e al terrorismo" "Non valorizzeremo il nostro patrimonio storico e naturale" "Non creeremo nuovi posti di lavoro"». Una semplice tattica per capire se una dichiarazione elettorale è vuota oppure no (27 gennaio 2018).

Una parola al giorno è un progetto ambizioso, che «nasce a Firenze nel 2010, dall'idea di due giovani poco più che ventenni, con l'intento di riscoprire parole belle e poco conosciute, parole che usiamo nel quotidiano ma di cui ignoriamo il potenziale originale, parole, insomma, che ci permettano di arricchire di sfumature la tavolozza di colori che abbiamo a disposizione per comunicare». Oltre all’idea brillante e democraticamente divulgativa, senza pensare alla mole di lavoro che c’è dietro un’iniziativa del genere, è molto evidente (e lodevole) il desiderio di costruire e condividere i contenuti, per giungere «alla poesia della naturale meraviglia che si nasconde nelle parole».  I dieci punti del manifesto illustrano con precisione la filosofia di questo “servizio”.

Tutte le mattine, iscrivendosi, si riceve la parola del giorno all’indirizzo di posta elettronica indicato. Le stesse parole sono anche raggiungibili dal sito. La struttura del lemma è semplice ed efficace: significato, etimo e un percorso sempre sorpreso e sorprendente nell’alchimia del significato. In tutta franchezza, è molto piacevole viaggiare nelle meraviglie delle parole prima di intraprendere la giornata (a me arrivano alle 5:21!).

Il sito vuole essere anche una palestra per utenti più o meno esperti, con quiz per mettersi alla prova, concorsi, rubriche dove le parole sono anche “illustrate” e un ponte utile per esplorare il nostro patrimonio letterario.

Con Torna a casa, lessico si passa alla parola parlata: un attore, Ludovico Fededegni, legge ventiquattro episodi di circa venti minuti l'uno, scritti da Giorgio Moretti e prodotti da Audible. «Ci sono episodi più classici su latinismi, antonomasie, parole del mito; ci sono episodi su famiglie di parole dal profumo complesso di giardino – come le parole della parmigiana di melanzane; ci sono dei veri e propri racconti in cui si aprono squarci sulle parole – dai pirati al cielo notturno». Sentire per credere.

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L'italiano della canzone


 

Luca Zuliani

L’italiano della canzone

Roma, Carocci editore, 2018

 

Wolfgang Amadeus Mozart e Pietro Metastasio condivisero parte del XVIII secolo (26 anni), morirono entrambi a Vienna (il poeta nel 1782, il musicista qualche anno dopo, nel 1791) e si dedicarono, da diverse prospettive (e con diversa fortuna), alla musica.

Solo che Mozart era un musicista e dava voce alle melodie che aveva nell’anima scrivendole attraverso le note musicali. Era lui l’attore protagonista della composizione, e non, per esempio, Lorenzo Da Ponte, come nel caso delle bellissime opere in italiano (Nozze di Figaro, 1786; Don Giovanni, 1787; Così fan tutte, 1790). Da Ponte era “semplicemente” un librettista.

Pietro Metastasio, invece, «era un poeta in senso proprio e ognuno dei suoi libretti d’opera (dei suoi “drammi per musica”, si diceva ai tempi) veniva musicato da molte decine di compositori, che erano ritenuti meno importanti dell’autore dei versi e spesso vennero subito dimenticati» (p. 121).

Sia come sia, associare l’italiano alla musica viene spontaneo in tutto il mondo. Vuoi perché molte opere importanti sono scritte in italiano (basti pensare a quelle di Vincenzo Bellini, Gioacchino Rossini, Gaetano Donizetti, Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini), vuoi perché, in numerose lingue, le parole che hanno a che fare con la musica «sono di origine italiana. Alcune indicano strumenti musicali come il violino, il violoncello, il pianoforte (inventato da un italiano). Altre parole indicano generi di musica o di canto: per esempio aria, capriccio, fantasia, fuga, sinfonia. Sono italiane anche le parole che indicano i tempi musicali, come adagio, allegro, presto. Infine, sono italiane le parole che indicano i tipi di cantanti lirici, come per esempio il tenore o il soprano». Giuseppe Patota, L`italiano lingua della musica, Rai cultura.

Italiano e musica, un binomio che sembrerebbe indissolubile. Anche quando è cantato? Pare che l’italica favella non sia così musicale, così adattabile alla melodia. Senza troppi giri di parole: «usare l’italiano in musica “non è una sfida: è proprio una sfiga” (Ligabue)» o, in modo meno esplicito, «scrivere canzoni in italiano è difficile tecnicamente (Fabrizio De André)», p. 7.

Getta nuova luce su questo aspetto della nostra lingua Luca Zuliani nel suo accuratissimo L’italiano nella canzone, analizzando in maniera fluida e rigorosa i rapporti tra lingua e musica nel moderno italiano e i problemi che derivano dal fatto che «spesso per diventare musica l’italiano deve forzare la propria struttura e selezionare drasticamente le parole; ma il risultato finale funziona bene, specie se si bada al suono piuttosto che al significato» (p. 7).

L’autore ci aiuta anche a comprendere quanto sia mutato il ruolo della canzone nella società attuale e, al contempo, quanto invece la poesia contemporanea occupi ormai «una nicchia poco frequentata».

Al contrario «alcuni fra i testi delle moderne canzoni mostrano ormai da decenni di aspirare ai gradini più alti della gerarchia letteraria», anche se, come aggiunge Zuliani, «è arduo analizzare questo mutamento: il nuovo ruolo della canzone fa parte del tipo di fenomeni graduali che è difficile percepire per coloro che vi sono immersi» (p. 8), chissà che sarà di noi, lo scopriremo solo vivendo.

Al centro del libro rimane l’analisi degli aspetti tecnici della moderna canzone italiana, anche con uno sguardo alla tradizione: dal madrigale (medievale prima e rinascimentale poi) al melodramma, al ruolo del musicista rispetto al librettista, che si trasforma successivamente in paroliere, «un titolo spesso poco amato da chi svolge questo compito; ma va considerato che la connotazione diminutiva che si associa al termine (“non è un poeta: è solo un paroliere”) è la conseguenza linguistica di questo rovesciamento di priorità [«oggi, quasi sempre, prima nasce la melodia e poi arrivano le parole»] che […] ha finito per cambiare anche l’italiano per musica» (p. 122).

Rivestire di parole una melodia, come l’autore definisce con un buon grado di poeticità l’atto di scrivere un testo per una canzone, non è un’impresa facile, per i fatti di forma analizzati o per i limiti imposti dalla musica, anche perché «quelle delle canzoni […] sono parole speciali: parole che spesso portiamo dentro di noi; parole che restano così, nel cuore della gente», Giuseppe Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone, 2010.

Quindi, no, non Sono solo canzonette (1980, Edoardo Bennato), per niente.

 

 

                                                                       Margherita Sermonti

 

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Grammatica in tasca. Per scrivere, parlare, leggere, digitare


 

 

Lorenza Alessandri

Grammatica in tasca. Per scrivere, parlare, leggere, digitare

Firenze, Franco Cesati Editore, 2018

 

Come parleremo nel 2050. Tra nuove tecnologie, migrazioni, demografia e contaminazioni: nel gennaio del 2017, Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca e professore di Storia della lingua italiana all’Università del Piemonte Orientale, durante un’interessantissima conferenza, analizzava numerose questioni relative alla lingua italiana, cercando di capire come muteranno le nostre abitudini linguistiche tra qualche decennio. La profezia, basata evidentemente non sull’osservazione di una sfera di cristallo, ci riconduce a un italiano sempre più in balìa dei forestierismi, in cui spariranno, per esempio, parole come abnegazione, adepto o acconcio. Con ogni probabilità, i parlanti del 2050 utilizzeranno una lingua in cui, anche per la tendenza a banalizzare, una parola come location sterminerà almeno tre parole italiane, come luogo, sito, posto.

Nel corso della conferenza, Marazzini osservava anche che «la debolezza culturale della popolazione che emerge in questi dati [Dati Piac 2013 ndr] è una delle cause della scarsa reattività degli italiani dal momento in cui entra in crisi, viene aggredita la loro lingua». L’aggressione proviene da molte parti, dal cosiddetto basic english, dai cosiddetti nuovi media e da molti altri fattori che, oggi, si sviluppano ad una velocità enorme e che portano a trasformazioni di ogni genere.

Si capisce quindi che, contribuire a fare chiarezza sui punti più bui o meno illuminati dell’italiano, diventa sempre più necessario. Così come si comprende il proliferare di dubbi, incertezze e domande: verso quale lingua stiamo andando? Che cosa è giusto e cosa, invece, è sbagliato? Nel mare agitato, anche se ci si sente esperti nuotatori, è sempre utile tenere a portata di mano un salvagente. O una Grammatica in tasca per fugare i dubbi più comuni ed imparare «un metodo di lettura, studio e organizzazione del pensiero». Lorenza Alessandri che, tra le numerose attività, insegna italiano in una scuola superiore, propone un agile manualetto per dissipare le incertezze, un prontuario per evitare gli errori più comuni, stracolmo di consigli per ottenere una corretta composizione scritta.

Interessante l’idea di partire dalla macrostruttura testo per scendere via via, come se utilizzassimo un microscopio, alle microstrutture che lo compongono: Il testo, Dal testo alla frase, Prontuario di ortografia.

«Continuiamo il nostro viaggio nel testo analizzandolo più nel dettaglio. Dal periodo passeremo a concentrarci sulle singole frasi e sui loro elementi costitutivi. Il nostro, quindi, è uno sguardo che va dal panorama più vasto al singolo elemento» (p. 73).

L’impianto è schematico e molto chiaro. La grafica aiuta a fissare i concetti principali, gli esempi, giusti () o sbagliati (X), corredano ogni paragrafo, a scanso di equivoci.

I box Lo sbagli anche tu? arricchiscono il libro, proponendo spunti intelligenti e casi comuni, anche per mettersi alla prova e vedere quanto e come conosciamo la nostra lingua.

«Usi del verbo scaturire.

I pensieri hanno scaturito all’improvviso

Da quella teoria sono scaturite idee in abbondanza

Questi due esempi presentano due errori di frequenza crescente nell’utilizzo del verbo scaturire. […] Nel primo esempio l’errore è grammaticale, ed è piuttosto grave: scaturire è un verbo intransitivo […]. Nel secondo caso l’errore – meno grave, ma da segnalare – è nel significato […]. Per questo uno dei consigli è quello di cercare prima la parola precisa, più adatta; in un secondo momento, se quella parola non ci soddisfa, possiamo scegliere il significato figurato di un verbo che padroneggiamo meglio. Questo sforzo arricchirà il nostro vocabolario e ci renderà parlanti e scrittori più accurati» (p. 79-80).

I primi destinatari della Grammatica in tasca sono probabilmente gli studenti, coloro per i quali l’italiano è ancora una materia scolastica (o universitaria), più o meno ostica. Ma dalla lettura di questo libro potrà trarre beneficio chiunque voglia fissare concetti e nozioni che magari non rispolvera dai tempi passati sui banchi o chi voglia trovare risposte a domande che non sa più a chi porre.

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Corso di enigmistica. Tecniche e segreti per ideare e risolvere rebus, anagrammi, cruciverba e altri giochi di parole


 

 

Ennio Peres

Corso di enigmistica. Tecniche e segreti per ideare e risolvere rebus, anagrammi, cruciverba e altri giochi di parole

Roma, Carocci editore, 2018

 

Giocare serve. A tante cose. Attraverso il gioco, i più piccoli conoscono il mondo che li circonda, lo esplorano, lo assaggiano, si misurano con esso. Senza bisogno di citare gli studi clinici più recenti, realizzati da importanti università, è intuitivo per tutti considerare l’attività ludica, nei bambini, ma non solo, come un sano e proficuo modo di crescere. Meno scontato, o per lo meno non immediato, risulta invece considerare il gioco linguistico come strumento didattico universalmente riconosciuto. «Uno dei più grandi equivoci cui può andare incontro chi fonda una parte del suo insegnamento sui giochi linguistici è il luogo comune che identifica questa strategia come qualcosa di troppo libero, anarchico, che non porta a “sapere” le cose, quindi in contrasto con quella che dovrebbe essere – secondo questo punto di vista – la missione principe della scuola» (Simone Fornara e Francesco Giudici, Giocare con le parole, Carocci editore, 2015). Tuttavia, già verso la fine degli anni Ottanta del Novecento, Ersilia Zamponi, insegnante di scuola media, convinta assertrice dell’utilità dei giochi di parole, organizzava corsi complementari per i suoi alunni. Questi Giochi di parole vennero raccolti poi in un’opera fondamentale per molti ludolinguisti, I Draghi locopei (come no, anagramma di “giochi di parole”).

Sempre Fornara e Giudici, in Giocare con le parole, si esprimono in modo molto netto sul valore del gioco nella didattica, perché «destrutturare non significa distruggere; piuttosto, vuol dire dare la possibilità a chi apprende di costruire o ricostruire, secondo un atteggiamento di scoperta e ricerca che è il solo modo per educare i giovani e giovanissimi […] a servirsi del proprio intelletto in maniera autonoma, senza la guida altrui, per sviluppare la propria capacità di pensare».

Ennio Peres, di formazione matematico, è giocologo per passione e di professione ed ha elaborato questo Corso di enigmistica per fornire gli strumenti, a chi ne avesse voglia, per «comporre o risolvere questioni ambigue e oscure» (p. 15).

Il gioco stimola attivamente il cervello (nel libro si riportano dati scientifici) dei bambini e degli adulti, non solo quello degli autori  ma anche, com’è ovvio, quello dei solutori. «Un cultore di giochi enigmistici che non intenda limitarsi al ruolo di solutore, ma desideri sperimentare anche quello di autore, avrà l’opportunità di stimolare entrambi i propri emisferi cerebrali» (p. 12).

Ecco quindi una guida approfondita per scoprire come nascono, che cosa sono e come funzionano i giochi enigmistici, che poi si voglia creare sciarade, rebus, lipogrammi, palindromi o cruciverba o semplicemente provare a risolverli, è comunque importante conoscerne i segreti.

Certo, l’affascinante mondo dell’enigmistica, arte che nasce con la storia dell’umanità, propone, se non infinite, numerosissime prospettive dalle quali osservare la nostra lingua, anche per ripensarla e riscoprirla.

Nell’epoca attuale, gli enigmi non si tingono più di tragedia, non ci sono più figure come la Sfinge che si uccidono per disperazione se personaggi come Edipo risolvono indovinelli, poi passati alla storia, come il celeberrimo «Qual è l’animale che al mattino cammina con quattro zampe, a mezzogiorno con due e alla sera con tre?» (se siete interessati, la soluzione è a pagina 16).

Con ogni probabilità, non ci sono più sacerdoti come il prete sardo Giambattista Agnesi che, nel XVIII secolo, immaginò (era cieco) più di mille anagrammi di Ave Maria¸gratia plena.

Oggi, però, è necessario sottolineare che «nelle sue manifestazioni più vulgate, l’enigmistica si rivolge a un pubblico non intellettuale, di alfabetizzazione recente, funzionando come passatempo ma anche come test sulle proprie competenze lessicali ed enciclopediche. Per molti parlanti l’attività enigmistica, anche solo passiva, ha costituito e costituisce, dopo l’uscita dalla scuola, l’unica forma di esperienza metalinguistica della propria vita». Stefano Bartezzaghi, Enigmistica, Enciclopedia dell’Italiano.

Conoscere, quindi, creare, reinventare e risolvere: così la lingua sembra davvero sempre nuova, oltreché, a volte molto divertente. Ne sono un esempio i falsi neologismi (p. 146), ideati da Pietro Gorini: Abate-jour = Lampada a forma di abate, Autoimmobilismo = Sinonimo di ingorgo o Damiciana = Grosso contenitore per il trasporto dei gatti. Più complessi i metagrammi, un gioco ideato da Lewis Carroll che in inglese si chiamava doublets. «Consiste nel cercare di unire due determinate parole, di uguale lunghezza, mediante una catena di altre parole di senso compiuto ottenute cambiando una sola lettera per volta […] SOLE - SALE - SALA - SANA - LANA - LUNA; GATTO - PATTO - PETTO - PÉSTO -  PÈSTE - ?» (la soluzione è a p. 142).

Se il gioco e l’enigmistica, come espressione dell’attività ludica, fanno parte della nostra vita, senz’altro è utile ricordare le parole di Paolo Romano, in un articolo dal titolo molto esplicito Elogio della Settimana enigmistica, che ci fa compagnia da ben 85 anni! («Huffpost», 18 agosto 2016), «la Settimana Enigmistica è, di fatto, un faro per la conservazione della lingua italiana e delle regole logiche che ne presidiano il (complicato) funzionamento. Incastri sillabici, bifronti, anagrammi e l'arte definitoria dei lemmi sono custodi severissimi del pensare bene e del saper leggere con attenzione prima di rispondere. Un punto fermo nel "bla bla" che, per fretta e costrizione dei tempi, impone di avere opinioni e scriverle il prima possibile, magari sui social. Fatto che, senza prosopopea, dovrebbe far riflettere su cosa si vuole intendere per modernità e cosa, sull'altare del tutto e subito, si è disposti a sacrificare della propria identità linguistica».

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Come non scrivere. Consigli ed esempi da seguire, trappole e scemenze da evitare quando si scrive in italiano


 

 

Claudio Giunta

Come non scrivere. Consigli ed esempi da seguire, trappole e scemenze da evitare quando si scrive in italiano

Torino, UTET, 2018

 

«Molti italiani, quando scrivono […] complicano inutilmente il discorso, si creano inutilmente delle difficoltà, vanno a caccia della forma elegante finendo per risultare incomprensibili e ridicoli» (p. 41).

Se vi considerate tra quegli italiani e pensate di avere tra le mani un manuale per imparare a scrivere, avete sbagliato libro. Nella Premessa è l’autore stesso a mettere in guardia il lettore: «Non s’impara a scrivere leggendo un libro sulla scrittura, così come non s’impara a sciare leggendo un libro sullo sci».

Ed è proprio vero. Però, prima di scoraggiarsi e di chiudere mestamente il volume (non senza aver chiamato prima il maestro di sci), consoliamoci con l’idea che comprendere i propri limiti è già molto, e mettersi in discussione (nella scrittura come nella vita) significa avere la possibilità di crescere da un punto di vista qualitativo. Questo è l’atteggiamento giusto per affrontare le 328 pagine che compongono il libro e gustarvele, uscendone vivi, con la consapevolezza che non siete (o siamo) soli. Un buon punto di partenza è quindi sapere che cosa non fare, tenendo presente che i «consigli […] riguardano la cosiddetta ‘scrittura argomentativa’ (relazioni, temi, tesi, articoli), non quella creativa» (p. 11).

Come non scrivere, quindi. Claudio Giunta, docente di Letteratura italiana all’Università di Trento, cerca di svelarci i segreti di una lingua pulita ed efficace, e molti dei tranelli in cui è possibile cadere  quando siamo di fronte a un foglio bianco, reale o virtuale che sia. E lo fa senza penna rossa né bacchetta ma con la grazia e l’acume di chi sa e vuole condividere un viaggio al centro della lingua, ricchissimo, pieno di esempi (buoni e cattivi), modelli da seguire, strade da non prendere, idee e suggerimenti dai quali partire anche per una riflessione importante sulle storture dell’uso dell’italiano, nostre e altrui.

Come invece scrivere dipenderà soprattutto da noi, dalla nostra frequentazione della lingua, dalla nostra capacità di assorbire da chi ne sa più di noi, e da quanto tempo dedichiamo alla lettura. Ripartiamo da Italo Calvino e da Primo Levi, dalla loro visione della lingua trasparente, comprensibile, diretta e, aggiungerei, anche democratica.

Siamo tutti potenziali abitanti della calviniana (di Italo) antilingua, «la lingua nemica della chiarezza e della concretezza» (p. 38), basta saperlo e ripartire da lì, anche se «Il problema dell’antilingua è molto più serio di quanto il tono scherzoso di questo articolo [Italo Calvino, L’Antilingua] lascerebbe immaginare perché, come osserva più avanti Calvino, questa lingua artificiale, fasulla, è il sintomo di un rapporto sbagliato non solo con il linguaggio ma con la vita e con se stessi» (p. 38).

Molti secoli prima, anche Galileo, nelle sue Considerazioni al Tasso, dava alla trasparenza semantica un valore fondamentale, ricordando che «parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi».

Prima di addentrarsi nei capitoli dedicati alle buone maniere della scrittura, alla forma e al contenuto, alla punteggiatura, ai consigli sulla sintassi e su alcune questioni grammaticali, alle citazioni, ai cliché e alle scemenze da evitare, bisogna avere ben chiare le tre “leggi” che l’autore enuncia all’inizio del volume, ispirandosi a un notissimo tennista degli anni Settanta, a un personaggio di una serie televisiva e al famoso retore.

La prima, la Legge di Borg, riguarda la necessità di impegnarsi, di essere scrupolosi ed accurati (sempre e comunque, quindi anche nella scrittura): «“La impegna più un set con Lendl o un set con McEnroe?” […]. Rispose Borg: “Mi impegna tutto, anche un set con mio nonno”») (p. 14). La Legge di Silvio Dante (personaggio della nota serie statunitense I Soprano) si riferisce alla chiarezza e prende spunto dall’esasperazione di Silvio Dante, appunto, di fronte a un mafioso con cui è seduto in un ristorante, che dice e non dice, parlando in modo incomprensibile: perciò scrivete chiaro (p. 15), se non altro per non irritare Silvio Dante. La Legge di Catone si ispira ad una massima latina e al suo probabile autore: «per scrivere bene di una cosa, bisogna averla studiata seriamente». Sembra ovvio ma credo sia utile ribadire che «se conosciamo bene un argomento, troveremo anche le parole per spiegarlo» (p. 16).

È un buon inizio, anzi ottimo. Un solido salvagente al quale aggrapparsi per non aver paura di navigare nel mare insidioso della scrittura, pur avendo una barchetta poco attrezzata. La partenza è stimolante, chiara, incisiva: «Questo libro non insegna a scrivere» (p. 11), anche se poi non è proprio così, perché non insegnare è un modo per insegnare senza sedersi in cattedra. L’autore si “sporca” le mani, i lettori (o i discenti: il libro è la «messa in bella» di corsi di non scrittura tenuti all’Università di Trento») si inoltrano nei labirinti della «lingua disonesta» con una segnaletica stradale di prim’ordine, senza rischio di perdersi. Anzi, con la certezza che si uscirà dal labirinto sapendone molto di più.

E mi auguro di aver mantenuto l’equilibrio raccomandato nel box Le buone maniere. Non parlate troppo bene di una cosa. Ma neanche troppo male (p. 203).

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Breve dizionario di retorica e stilistica


 

 

Gianfranca Lavezzi

Breve dizionario di retorica e stilistica
Roma, Carocci editore, 2017

Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole / mentre il sole fa l’amore con la luna (F. De Gregori, Alice, 1974) p. 17.

Io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai (F. De André, Amore che vieni amore che vai, 1968) p. 24.

Fa piacere citare canzoni così belle per presentare il Breve dizionario di retorica e stilistica, di Gianfranca Lavezzi, che insegna Letteratura e Metrica e stilistica all'Università Pavia.

Perché l’“arte del dire” è di tutti e tutti, consapevoli o meno, sono in grado di dire meglio e in maniera adeguata.

La storia della Retorica è lunga: si sviluppa nella Grecia antica inizialmente come tecnica per costruire un discorso efficace a supporto di oratori, politici o avvocati, e giunge fino ai nostri giorni, meno pragmatica e più legata all’estetica del parlare e dello scrivere.

Il lavoro della studiosa appare assai efficace. Infatti, la nuova edizione del Breve Dizionario è stata ampliata, grazie anche ad un «significativo “ricambio” e aggiornamento degli esempi […]: accanto agli esempi classici tratti da vari autori della letteratura italiana e straniera, il lettore ne troverà molti altri presi dai campi più disparati, da Internet alla finanza, dalla pubblicità alla musica, dal cinema ai fumetti», p. 5.

È importante infatti coinvolgere il lettore per fargli comprendere i significati dei lemmi, magari rivelandogli che il mondo delle figure retoriche e della stilistica non è così ostico né distante, al contrario si trova a portata di mano. Come si afferma nella Premessa, i destinatari di questo breve dizionario sono proprio gli studenti (universitari e della scuola secondaria superiore, insieme con i loro insegnanti) e i lettori appassionati. Non si tratta quindi di un’enciclopedia, ma di un agile strumento «che vuole dare una conoscenza essenziale, ma solida, della retorica e della stilistica» (p.6).

I lemmi sono sinteticamente definiti, in modo conciso e rigoroso. In essi è presente l’etimologia e un’ampia esemplificazione, «tratta, come si è detto, dai testi classici della letteratura ma anche da una cultura più vasta e immediatamente riconoscibile» (p. 5). La riconoscibilità, ovvero il tentativo di far comprendere che la lingua, con i suoi ornamenti, è uno strumento alla portata di tutti e non solo di eletti rètori o della letteratura del passato, credo sia un preciso obiettivo di questo prezioso dizionario.

Torniamo ai “padri” della canzone d’autore italiana. Così, l'anadiplosi («Ripetizione di una parola alla fine di un segmento sintattico e all’inizio di quello successivo» p.17) sarà forse più chiara grazie all’aiuto del cantautore romano e alla sua celeberrima Alice. Anche Fabrizio De André potrà orientarci nei meandri dell’antitesi: «Contrapposizione di due o più concetti attuata attraverso la corrispondenza di parole o segmenti di frase di significato opposto, ossia di antonimi».

Uno studente delle scuole superiori si sentirà certamente più motivato e spronato a comprendere l’ossimoro, scoprendo che questa figura retorica («sintagma che unisce due elementi semanticamente contraddittori» p. 88) si trova anche nel testo di J-Ax e Fedez Assenzio, 2016: Ho scelto la beatitudine dell’eterna dannazione. Così come un insegnante, partendo da un esempio del genere, potrà fare colpo sugli alunni sfoggiando una cultura musicale vicina ai ragazzi, per poi spostare il discorso su Leopardi, magari sull’immenso verso v. 15 dell’Infinito: e il naufragar m’è dolce in questo mare. Strano ma vero, Fedez e Leopardi uniti dall’ossimoro.

«E si può anche passeggiare tra le voci cercando l’ossimoro culturale, l’incontro fra la letteratura più alta e la cultura – in senso lato – di oggi: un incontro che non “svendendo” la poesia per cercare la modernità a ogni costo, ma neppure guardando quest’ultima attraverso un velo di sterile sufficienza, ho voluto rendere democratico e accattivante».

Come a dire: c’è posto per tutti nella nostra lingua e nella nostra cultura.

A pagina 79, la metafora, la figura retorica forse più diffusa, viene esemplificata ad ogni livello linguistico ed è sorprendente trovare Crozza, Petrarca e Battisti nello stesso lemma, per non parlare della nota marca di uno yogurt (Müller, fate l’amore con il sapore – p. 80).

Chi non ricorda Massimo Troisi nel film Il postino, diretto da Michael Radford nel 1994 ed ispirato al romanzo Ardiente paciencia (1985; trad. it. 1986), più noto con il titolo El cartero de Neruda, del cileno Antonio Skàrmeta?

Mario scopre un’altra dimensione delle parole e quindi delle cose, scopre la metafora e si sente un po’ poeta, in riva al mare, insieme con Pablo Neruda. Leggendo qua e là le voci del Breve dizionario, forse non ci sentiremo poeti, ma certamente saremo in grado di scoprire quanto la bellezza della lingua e dell’esprimersi sia nascosta ovunque. Ed è possibile trovarla.

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Pinocchio in Emojitaliano


 

 

Francesca Chiusaroli, Johanna Monti, Federico Sangati

Pinocchio in Emojitaliano

Sesto Fiorentino (FI), Apice libri, 2017

 

Maneggiando per la prima volta Pinocchio in Emojitaliano si è colti da stupore. Che cosa sono tutte quelle faccine adagiate sulle pagine a numerazione pari del libro? Che cosa c’entra il burattino nazionale? Saremo mai in grado di comprenderne il significato?

Sì, niente panico: non si tratta di un test di intelligenza né di una giocosa trasposizione del testo collodiano: siamo di fronte ad un importante esperimento linguistico, condotto da Francesca Chiusaroli, docente di Linguistica generale e applicata e di Linguistica dei media all’Università di Macerata, Johanna Monti, docente di Traduttologia e Traduzione specialistica all’Università di Napoli “L’Orientale” e dal ricercatore indipendente Federico Sangati.

Forse la sorpresa è data dal fatto che siamo abituati a vedere le (o gli) emoji – «termine giapponese (lett. "pittogramma") con cui si designa una serie di simboli raffiguranti oggetti, animali e faccine in grado di rappresentare concetti ed emozioni, introdotti dall’operatore nipponico NTT DoCoMo nel 1999» (emoji, Enciclopedie online) – “a servizio” o “a integrazione” delle parole e non assemblate in una lunga sequenza interrotta solo da alcuni segni, come se le stesse emoji fossero state promosse alla categoria di parole.

Suscita un certo spaesamento anche vedere stampate su carta pagine e pagine di qualcosa che siamo abituati a vedere sullo schermo dei nostri dispositivi digitali (la dimensione digitale è tuttora disponibile sul blog Scritture brevi o su Telegram).

Il nuovo provoca sempre sorpresa, che poi essa si traduca in gradimento o rifiuto dipende da altri fattori che non ci interessa analizzare in questa sede.

L’«Emojitaliano è, concretamente, la “grammatica” più il “glossario” di Pinocchio in Emojitaliano, ovvero il set di regole predefinite e il repertorio di corrispondenze italiano-emoji concordate nel corso della traduzione» (p. 9). Una traduzione collettiva e creativa, iniziata nei primi mesi del 2016 su Twitter: «Ogni giorno per otto mesi ho scritto [Francesca Chiusaroli, ndr] un tweet con una frase di Pinocchio, e durante il giorno arrivavano proposte di traduzione. A fine giornata le valutavamo e creavamo una traduzione ufficiale che veniva riversata nel bot. Negli ultimi due mesi di lavoro i tweet erano praticamente tutti uguali, perché si era venuto a creare un codice di riferimento al quale tutti aderivano». (Eugenio Giannetta, Emoji. La nuova frontiera linguistica «Avvenire», (Agorà) 30 novembre 2017).

Il primo esperimento di questo tipo in Italia, «un esperimento di riscrittura creativa che consiste nell’allestimento di un repertorio a base semantica, con corrispondenze istituite tra i segni della tastiera emoji (quelli accolti dal Consorzio Unicode) e la lingua» (p. 10).

Le novità del progetto è che non solo esso ha riguardato un’opera letteraria italiana, rispetto, per esempio, ad altri precedenti esperimenti in area anglofona, ma che ha configurato un vero e proprio codice standardizzato, l’Emojitaliano appunto.

«Rispetto a iniziative analoghe già svolte (Emojidick, Wonderland, Neverland, Pleasureland o il più recente Biblemoji), vi è, con Pinocchio in Emojitaliano, innanzi tutto la novità di proporre, in versione integrale, una fonte letteraria italiana, un testo che, per altro, gode di fama mondiale e conosce numerosissime traduzioni in lingue straniere, agevolando così la prospettiva interlinguistica. Obiettivo ulteriore rispetto al livello lessicale è, infatti, di costruire un codice condiviso fondato su una struttura morfo-sintattica imposta, artificiale, capace di consentire l’individuazione delle unità minime distintive e delle funzioni degli elementi nella frase e conseguentemente la lettura, non soltanto in italiano» (Francesca Chiusaroli, Tradurre Pinocchio in emoji, Treccani. it, La lingua italiana, speciale La parola si mette in gioco, a cura di Silverio Novelli).

È importante sottolineare che «l’operazione proposta non intende corroborare il “mito” dell’universalità vagheggiato nelle argomentazioni sul ruolo dei pittogrammi nella comunicazione internazionale, ma neanche fermarsi alle rigide, quanto indiscusse, conclusioni relativiste. Al contrario, l’esperimento ha inteso superare la prospettiva particolarista riaffermando l’importanza del piano della convenzione per il funzionamento di ogni linguaggio, o sistema di segni, anche (o soprattutto) nel caso di un codice a base pittografica» (p. 15).

C’è però da interrogarsi quanto ci sia, in qualsiasi essere umano, il sogno di Lejzer Ludwig Zamenhof, padre dell’esperanto, con la sua vita spesa a costruire «una lingua universale che accomunasse il mondo intero» (Paolo Di Stefano, Quell’oculista col pallino delle lingue che creò l’Esperanto, «Corriere della sera», 14 aprile 2017).

Certamente il desiderio di superare i muri dell’incomunicabilità, reali o immaginari che siano, è sempre forte e presente in ognuno di noi. Nonostante la storia dell’umanità a volte ci dia torto.

«La filosofa Simone Weil descrive il modo in cui due prigionieri rinchiusi in celle attigue imparino, in un lungo arco di tempo, a comunicare tra loro battendo contro il muro. “Il muro è ciò che li separa ma anche quello che permette loro di comunicare”, scrive» Stephen Grosz, Una storia che non possiamo raccontare, Mondadori, 2013.

Ben vengano, dunque, esperimenti di questo tipo, che, al di là della specificità di ognuno di essi (lingue artificiali, traduzioni, codici condivisi), favoriscono lo scambio comunicativo e contribuiscono ad abbattere, o quanto meno scalfire, ogni tipo di muro.

 

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Vita. Storia di una parola


 

 

Giuseppe Patota
Vita. Storia di una parola

Sesto Fiorentino (FI), Apice libri, 2017

 

Ognuno di noi, pensando ad alcune parole, oltre all’accezione universalmente conosciuta e condivisa, richiama un significato specifico, privato e quasi intimo. Soffermiamoci ad esempio sull’aggettivo blu: ‘Azzurro scuro, turchino scuro, nelle sue varie sfumature. Indica le gradazioni più intense del colore che dai chimici e fisici è designato genericamente con azzurro’. (Blu, vocabolario on line, Treccani.it). Immaginando un tubetto di tempera blu, spremuto sulla tavolozza di un pittore, ciascuno ha in mente la propria tonalità di colore (blu elettrico?, blu marino?, blu pavone?). Senza considerare poi l’esperienza che ciascuno associa a questo colore: il mare, il cielo, la notte, lo zaffiro o chissà cos’altro.

E parlando di paesaggio a che cosa pensiamo? Ne conosciamo sicuramente l’accezione più immediata, ‘veduta, panorama; parte di territorio che si abbraccia con lo sguardo da un punto determinato’ (paesaggio, vocabolario on line, Treccani.it), ma qual è il nostro paesaggio? È campestre, marino o montuoso? Triste, ridente o melanconico? E poi: è quello della casa dei nonni che ricordiamo sin da bambini? O quel che resta di un viaggio recente?

Le parole possiedono una loro vita segreta e misteriosa, che trascende la loro “veste ufficiale”. Stanno lì ad indicare una specifica cosa, che più o meno tutti conoscono, ma poi «quando parli di parole lo fai con le parole e questo vortice ti travolge, le parole non stanno immobili in grassetto nelle pagine dei dizionari, le parole sono dispettose, appunto, ci giocano, ci mettono in gioco» Michele Smargiassi, È nel gioco l’intelligenza segreta delle parole, Repubblica.it.

Ed ecco la storia di una parola irrequieta, che non riesce a star ferma ed imbalsamata in un vocabolario e condensa «significati e sfumature di significato» davvero sorprendenti, su cui vale la pena di soffermarsi. Di vita ci parla, da linguista, Giuseppe Patota, professore di Linguistica italiana e accademico della Crusca – tra le altre cose –, nel breve ma intenso saggio intitolato appunto Vita. Storia di una parola.

Innanzitutto bisogna far ordine, perché «La parola vita, da sola o in combinazione con altri termini (con cui converge a formare voci polirematiche: insiemi di parole che contano come una parola sola), ha molti significati e sfumature di significato» (p. 9).

Dopo aver consultato sei tra i maggiori vocabolari dell’italiano contemporaneo, l’autore descrive le più importanti accezioni di vita, che sono fondamentalmente tre. «La prima accezione è di ordine biologico. […] La seconda accezione è di ordine cronologico. […] La terza accezione descrive la vita come ‘modo di vivere’ o anche ‘esistenza’». Le prime attestazioni dei tre principali significati vengono poi retrodatate, cioè si nota e si documenta che la vita, nell’area linguistica italiana, prende vita prima di quanto invece si dica: «[…] la consultazione del Tesoro della Lingua Italiana delle Origini consente di individuare tre frammenti provenienti da altrettanti testi medievali italiani […] che obbligano a retrodatare tutte e tre le accezioni».

Dalla nascita della vita, si esaminano «in modo dettagliato i contesti in cui ricorrono le attestazioni più remote delle prime tre accezioni» (p.16), scoprendo, per esempio, che «Il motivo dell’associazione-opposizione tra la vita e la morte pervade la nostra letteratura fin dai primordi» (p.19).

Illuminante la riflessione sui primi versi del «più gran libro scritto da un cristiano»: «La vita è rincorsa dalla morte, ben più drammaticamente che nei versi di Giacomo e dei suoi colleghi, in quelli che aprono la Commedia dantesca. Poche parole – una quarantina soltanto – separano l’una dall’altra:

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

che la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte,

che nel pensier rinova la paura:

tant’è amara che poco è più morte

 

Oltre ai riferimenti alla storia remota della nostra letteratura, Patota approfondisce alcune tra le principali polirematiche che contengono vita, come albero della vita, arco della vita, qualità della vita o speranza di vita, ci ricorda (Nei proverbi - p. 52) che «La vita comincia a quarant’anni», rammenta (Nome e cognome - p. 53) che con il romanzo Vita, Melania Mazzucco vinse lo Strega nel 2003 (parlandoci, da linguista, degli antroponimi che evocano la vita).

Sapevate poi che la missione spaziale 52/53, che ha visto Paolo Nespoli per la terza volta nello spazio, è stata chiamata VITA e perché? Ricordavate nella Tosca di Puccini quanto Mario Cavaradossi, pronto a morire, amasse la vita?

Dopo aver ricostruito minuziosamente la storia più antica dei primi tre significati di vita, lo studioso azzarda con modestia, sottolineando che «a me – a me beninteso, non certo in quanto aspirante scienziato o filosofo, ma in quanto linguista, e soprattutto in quanto parlante comune, sembra che la parola, quando è riferita all’uomo, assuma spesso un senso più largo, che comprende e contemporaneamente trascende i tre presentati all’inizio» (p. 61).

Così, se pensavate di avere familiarità con questa parola, dopo un simile viaggio al centro della vita, potrete comprendere che la vostra era solo una conoscenza, non una vera amicizia.

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Sgrammaticando. Salviamo l'italiano dalla rete


 

 

Fiorella Atzori

Sgrammaticando. Salviamo l’italiano dalla rete

Milano, Centauria, 2017

Se un marziano bibliofilo scegliesse di atterrare con la sua navicella spaziale proprio sulla nostra Penisola, se poi si imbattesse in una fornitissima libreria specializzata in linguistica, e se, una volta entrato nell’esercizio commerciale, davanti a uno scaffale, decidesse di contare i volumi dedicati all’uso (ma soprattutto al cattivo uso) della nostra lingua, penserebbe immediatamente che gli abitanti di quel lembo del pianeta vivono tormentati dai dubbi. Se avvenisse una cosa del genere, il còlto extraterrestre, oltre a riflettere sulle sue logiche deduzioni,  dovrebbe anche fare i conti con lo sconcerto più totale e il dilagare del panico tra i clienti della libreria.

L’uso delle nuove tecnologie ha indubbiamente contribuito alla trasformazione di molti aspetti della vita delle persone. Non ultimo il linguaggio, soprattutto quello giovanile e in special modo quello scritto: le nuove forme di comunicazione sono parte integrante del mondo dei giovani e addirittura incidono sul loro modo di costruire i rapporti.

In riferimento alla nostra lingua, si parla spesso di impoverimento:  il lessico si riduce, le strutture grammaticali si indeboliscono, la sintassi stenta. Senza entrare nel merito, c’è da dire che il dibattito che si crea intorno a tali trasformazioni, belle o brutte che siano, che ci piacciano o meno, quello sì, si arricchisce in continuazione.

Prova ne sia l’incessante pubblicazione di libri (alcuni di grande successo) che affrontano i problemi o semplicemente le difficoltà di molti italofoni, con l’intento di sciogliere dubbi di ogni genere: dal lessico all’ortografia, dalla costruzione delle frasi all’uso della punteggiatura.

Sgrammaticando. Salviamo l’italiano dalla rete nasce dalla passione per l’italiano dell’autrice, Fiorella Atzori che, pur non essendo un’italianista, come lei stessa tiene a precisare, per anni ha ideato e girato video-pillole sulla lingua italiana, caricandole sul canale YouTube Sgrammaticando. Video lezioni di grammatica e lingua italiana.

Il tipo di utenza di un libro che è la naturale “proiezione” sulla carta di video che girano sulla piattaforma più popolare tra adolescenti e ragazzi è presto individuato. Anche solo dando un’occhiata all’indice (Apo’strofi, Fermate il bullismo verso il congiuntivo, Ci vediamo alla prossima sono solo tre di 49 titoli di capitoli), si capisce subito la fascia di lettori cui è rivolto il volume. Inoltre, l’autrice stessa, nativa digitale, sa bene che «tra scuola e università (e quindi compiti scritti), email, documenti, relazioni per lavoro, stati Facebook e messaggi su WhatsApp, la forma scritta è parte integrante della nostra comunicazione quotidiana» (p.11) e grazie ai nuovi luoghi telematici in molti si cimentano con una spinta comunicativa che, appena vent’anni fa, sarebbe stata impensabile.

L’universo delle questioni affrontate è molto vasto, e spazia dall’uso dei tempi verbali all’ortografia, dagli apostrofi fino alla pronuncia. I riferimenti al mondo dei giovani sono moltissimi, a partire da quelli letterari. E non poteva mancare l’intramontato Moccia: «[…] Io e te, tre metri sopra il cielo. Un’eccezione alla regola, permessa e accettata: Io e te invece di Tu e io. In questo caso quindi può passare… ma ricordiamoci che Io e te è l’unica eccezione e che non sempre l’amore vince sulla grammatica. In tutte le altre circostanze non bisogna dare del te al tu!» (p.35).

Per quanto riguarda gli scivoloni in rete, le esperienze prese in considerazione sono più spesso quelle degli infratrentenni (per lo meno sarebbe auspicabile nel caso qui di seguito illustrato): «la triste storia di questo orrore grammaticale diventato leggenda [#escile ndr] inizia sulla pagina Facebook della modella Emily Ratajkowski, dove masse di educatissimi miei connazionali hanno inventato questo hashtag per invitare la bellissima donna a mostrare pubblicamente le sue grazie senza veli» (p. 49). A seguire, troviamo una rinfrescata sui verbi transitivi e intransitivi.

I capitoli sono semplici, i nodi da sciogliere sono i più frequenti, gli approfondimenti sono brevi e chiari, insomma friendly, per dirla con un gergo informatico caro ai più giovani. Non mancano i riferimenti ai social più utilizzati, quasi per far sentire a casa la fascia di lettori che forse ha più bisogno di essere sostenuta: «Anglicismi come chattare, WhatsAppare o neologismi come messaggiare, o l’ormai ironicamente arcaico smsare […] hanno ormai quasi sostituito la famosa chiacchiera [si parla dell’ortografia di questo vocabolo ndr] faccia a faccia […]. Possiamo sperare di “vederci a fare due chiacchiere” ormai solo tra amici che abitano nella stessa città […]. Quanto a “sentirci per fare due chiacchiere” ormai possiamo scordarcelo: se va bene skyperemo» (p. 80).

Nel frattempo, il  nostro marziano, stanco, preoccupato e sorpreso dalle reazioni – a suo dire “fuori luogo” – dei clienti della libreria, dal trambusto creato dalla sua innocente curiosità, per la fretta di andarsene si è dematerializzato, abbandonando peraltro la sua navetta, e si è rifugiato nel pianeta delle certezze linguistiche, quello del silenzio.

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Il dimenticatoio. Dizionario delle parole perdute


 

 

Il dimenticatoio. Dizionario delle parole perdute

Firenze, Franco Cesati editore, 2016

 

Dove vanno a finire le cose che hanno smesso di passare e ripassare per il nostro cuore, quelle cioè che non ricordiamo più (‘ricordare’ viene dal latino recŏrdāri, a sua volta formato da re- ‘indietro’ e cor, cordis ‘cuore’, organo ritenuto anticamente sede della memoria)?

C’è un grande luogo immaginario dove si accatastano pensieri, idee, sensazioni e sentimenti, profumi, colori e sapori, dolori e gioie (e tanto altro) che, volontariamente o involontariamente, abbiamo deciso di affidare all’oblio: il dimenticatoio.

Tuttavia, per quanto riguarda il bagaglio lessicale della lingua italiana, qualcuno si è preso la briga di riportare alla luce o, in alcuni casi, di spolverare quasi «2.000 parole tra quelle di basso uso, letterarie, con qualche incursione nelle obsolete».

Per vari mesi, e animate dall’amore verso la nostra lingua, le redattrici della Franco Casati Editore hanno scovato, selezionato e conservato i vocaboli che trovavano nei testi sui quali lavoravano. Così è nato Il dimenticatoio. Dizionario delle parole perdute, un libro collettivo, un progetto corale («allo scorso Salone del Libro di Torino, armate di lavagna ed entusiasmo, abbiamo chiesto a moltissime persone di appuntare, e in qualche modo consegnarci, le loro “parole dimenticate”», p.7), utile anche a farci comprendere che la lingua italiana offre la possibilità a chi la usa con cura e attenzione di esprimersi con estrema precisione.

L’entusiasmo con il quale è stato concepito questo libro-quaderno trapela perfino dalla veste grafica: i caratteri utilizzati simulano la scrittura a mano, le illustrazioni sono piene di grazia e humour, le sottolineature spiritose ed efficaci, divertenti i rimandi e le frecce, scherzosi e brillanti i disegnini, acuti i box di approfondimento e le curiosità, garbate le foto, utili i consigli letterari. Una sorta di diario in ordine alfabetico, redatto con passione ed esuberanza per non dimenticare, tornare ad utilizzare – e magari tramandare vocaboli – abbandonati alla dimenticanza talvolta solo per indolenza.  

Non stupitevi se, dopo averla definita fardona, la vostra amica vi metterà il broncio: a p. 87 scoprirete che significa ‘donna esageratamente truccata’. Però, dopo aver letto il box per approfondire, potreste spiegarle che con questa parola, usata da Pier Paolo Pasolini (1922-1975) in Ragazzi di vita (1955), in verità ci si riferiva a una bella ragazza.

«“Che te guardi?”, faceva, oppure, secondo i tipi o la corsa del tranve: “A capò, sto attaccato ar tranve, embè?”, e gli mostrava interrogativo la mano con le dita strette; o s’era un giovanotto: “Che me ’i presti te, du’ scudi, a moré?” E se poi era una fardona: “Quanto sei bbona”, e preso dall’entusiasmo ricominciava a cantare più forte».

Non avrete scampo invece con lampascione (p.129): infatti,  lampascione, oltre ad indicare una pianta di cui si utilizza il bulbo nella cucina dell’Italia meridionale, significa ‘sciocco, persona stupida e ingenua’.

Il dimenticatoio è un agile dizionarietto che, peraltro, non spaventa, non incute il timore che invece potrebbe derivare anche solo dal peso (in ettogrammi) di un vocabolario diciamo più tradizionale: può attrarre anche chi non ha molta familiarità con i libri, i cosiddetti “lettori deboli”, ovvero coloro che leggono al massimo tre libri in un anno. È facile e divertente da consultare, per ogni lemma c’è una breve spiegazione letterale o figurata, talvolta, come abbiamo visto, citazioni letterarie, esempi d’uso e sinonimi.

Per molti dei “lettori forti” (almeno un libro al mese), i libri sono oggetti quasi sacri, immacolati contenitori di scienza e sapienza, e pertanto non devono essere insudiciati, tanto meno sottolineati, o spiegazzati. L’orecchia, poi, quell’odiosa (per alcuni) piegatura che può sostituire il segnalibro, è da esposto in procura. Eppure, alcuni libri, come Il dimenticatoio, lasciano spazio anche ai lettori, uno spazio vero e proprio, reale, tangibile, che permette loro di trasformarsi in co-autori, partecipi e attivi redattori di un libro che va oltre l’ultimo foglio stampato.

Le pagine che chiudono questo volume sono fogli bianchi, anzi color crema, così introdotti: «La caccia alle parole finite nel dimenticatoio potrebbe non concludersi mai! Per questo abbiamo deciso di lasciare un po’ di spazio per te, per aggiungere le tue parole perdute a questo dizionario o tenere da parte quelle che più ti hanno affascinato e pensi userai molto presto».

In una sala d’attesa, china sui fogli bianchi e concentrata sui vocaboli che mi avevano colpito di più, riempivo anch’io la mia lista privata delle parole da non dimenticare (Il mio dimenticatoio - p. 216), quando un bambino di poco più di 6 anni, piacevolmente sorpreso e probabilmente attratto dalla copertina colorata del volume, mi ha domandato: “Stai scrivendo un libro?” “No, tesoro, sto scrivendo su un libro”. A matita, però.

 

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L'italiano alla prova dell'internazionalizzazione


 

 

(a cura di) Maria Agostina Cabiddu

L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione

Prefazione di Francesco Sabatini
Milano, edizioni Angelo Guerini e associati, 2017

 

Per capire come nasce questo libro, è necessario tornare indietro di circa 5 anni, quando il Senato accademico del Politecnico di Milano, con delibera del 21 maggio 2012, decideva di attivare, a partire dal 2014, corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca esclusivamente in lingua inglese. Numerosi docenti di quello stesso Ateneo, indignati e preoccupati, presentarono un ricorso al Tar della Lombardia, che annullò la decisione del Senato accademico (sentenza 23 maggio 2013, n. 1348). La battaglia proseguì con un appello al Consiglio di Stato, presentato dal Politecnico di Milano e dal Miur.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                

Il Consiglio di Stato si rivolse poi alla Corte costituzionale, «chiamata a giudicare la legittimità di un breve passo della riforma universitaria comunemente chiamata “legge Gelmini” (Claudio Marazzini, p. 82)».  La Corte si pronunciò con Decisione del 21 febbraio 2017 (sentenza n. 42), salvando la legge ma dichiarando illegittima la scelta di utilizzare l’inglese come lingua esclusiva  per corsi e dottorati.

Bisognerebbe leggersela per intero questa sentenza (è presente alla fine del volume, p. 138): le argomentazioni ivi contenute, ritenute dall’Accademia della Crusca «di grande significato», hanno aperto un acceso confronto su temi che, lungi dal riguardare solo il capoluogo lombardo ed uno dei maggiori atenei italiani, hanno a che fare, tra le altre cose, con il modo di concepire la nostra lingua, con il modello culturale italiano, con la politica linguistica e la didattica e con l’ambiguo significato dell’internazionalizzazione delle università italiane.

Si esprimono al riguardo, attraverso notevolissimi saggi, analisi e contributi  Francesco Sabatini (prefazione), Maria Agostina Cabiddu, Maria Luisa Villa, Michele Gazzola, Claudio Marazzini (PARTE I – Manifesto per una politica linguistica), Nicoletta Maraschio, Luca Serianni, Alessandro Masi, Lucilla Pizzoli, Paolo Caretti e Giancarlo Consonni (PARTE II – Lingua madre: decadenza o rinascita?).

Uno degli aspetti più interessanti di questo libro, oltre ovviamente al prestigio di autori ed autrici e al loro punto di vista, è che la sua lettura non fornisce solo risposte ma stimolanti spunti di riflessione.

Il dibattito, «a tratti furioso […] interessa molto il linguista, sia per il contenuto, sia perché l’interpretazione poggia sull’esatto significato di una congiunzione, “anche”, che poteva essere intesa in due modi: come l’esclusione dell’italiano, o come aggiunta dell’inglese all’italiano, senza abolire quest’ultimo. La Corte ha deciso per l’aggiunta, non per l’esclusione» (Claudio Marazzini, p. 82).

Come ricorda la curatrice Maria Agostina Cabiddu (p. 38), non tutti i mali vengono per nuocere. Infatti, grazie alla controversa decisione accademica del 2012 e alla conseguente vicenda giurisdizionale,  la «questione della (nostra) lingua o meglio il fenomeno della sua progressiva omologazione e mortificazione è diventata oggetto […] anche di un dibattito pubblico, che si interroga – finalmente senza tabù – sulla necessità di una politica linguistica attiva e democratica: l’astuzia della ragione genera sogni!»

Anche Luca Serianni si riferisce ai sogni, ricordando che «Se vogliamo alimentare un sogno, questo sogno non può essere quello del monolinguismo o di una diglossia in cui ci sia una lingua di prestigio (nella fattispecie l’inglese) e le lingue nazionali siano ad essa subordinate; bensì quello di una intercomprensione reciproca in cui, nel commercio intellettuale, ciascuno usi la propria lingua, contando sulla competenza passiva di quella lingua da parte dell’interlocutore» (p. 117)

In Fuori l’italiano dall’università (Editori Laterza), nato da un convegno organizzato dall’Accademia della Crusca  in seguito all'annuncio dato dal rettore del Politecnico di Milano, « tra decine di interventi di cattedratici e intellettuali – generalmente contrari a una decisione considerata troppo drastica e unilaterale – spiccava l’intervento dello scrittore Claudio Magris che immaginava un “redivivo Alberto Sordi” che, smessi i panni dell’attore e indossati quelli paludati del rettore universitario, replicava la memorabile scenetta del romano de Roma. Nel film Un americano a Roma Alberto Sordi cercava invano di sostituire gli spaghetti e i vini dei Castelli con hamburger e Coca-Cola. E Claudio Magris commentava: “L’idea di fare, nell’università italiana, dell’inglese la lingua unica e obbligatoria dell’insegnamento è una gag come quella scenetta di Sordi e ignora il monito della canzone di Carosone ma si nato in Italy”» (Enrico Pedemonte, Insegnare in inglese non è anti-italiano, «Pagina 99», 12 marzo 2017).

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L'etimologia

 

 

Daniele Baglioni
L’etimologia
Carocci editore, 2016

 



Negli ultimi tempi, le ricerche anagrafiche e genealogiche hanno risvegliato l’interesse di moltissimi italiani.

Si cerca di ricostruire la propria identità attraverso la storia personale o famigliare, per i motivi più diversi, che vanno dalla semplice curiosità (sempre che la curiosità sia semplice) alla riscoperta delle radici, del passato individuale o collettivo.

A dimostrazione di questo rinnovato interesse, basti pensare alla proliferazione di siti e portali dedicati alle ricerche genealogiche. Tra i più autorevoli, vorrei citare il Portale Antenati. Gli archivi per la ricerca anagrafica, promosso dalla Direzione generale archivi – Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, che permette agli studiosi o ai semplici curiosi di sfogliare a video milioni di immagini (più di 50 milioni allo stato attuale) di registri di anagrafe e di stato civile provenienti da 47 Archivi di Stato.

Sembra poi che, parallelamente all’interesse per le radici anagrafiche, si stia diffondendo anche l’interesse per un altro tipo di radice, quella della parola.

Come se in un momento storico in cui tutto è così labile e precario, ci si debba afferrare a qualcosa di solido e di certo. Si cercano le basi, gli inizi, le fondamenta del nostro esistere, della nostra famiglia e così anche della nostra lingua, anch’essa così intima.

Nel suo breve ma sostanzioso volumetto, L’etimologia, Daniele Baglioni, che insegna Linguistica italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ci racconta le complesse vicende delle parole nel tempo. Prima di tutto facendo un po’ di ordine, anche per restituire a questa disciplina il suo rango e la sua nobiltà.

Da molti considerata come «un accumulo caotico di suggestioni», l’etimologia è invece «una disciplina rigorosa con un passato glorioso e un presente che, per quanto il suo prestigio si sia un po’ appannato, resta comunque di tutto rispetto» (p. 9).

Il libroè nato in forma di dispense per gli studenti di un corso tenuto da Baglioni all’Università di Venezia nel 2015, ma poi si è voluto aprire anche a «tutti quei lettori che sono interessati alla storia delle parole e desiderano sapere in che modo, con quali metodi, tecniche e strumenti i linguisti riescano (o per lo meno provino) a risalire alla loro origine e a ripercorrerne le vicende nel corso dei secoli» (p. 9).

Dopo alcune Questioni preliminari, su cos’è l’etimologia, a cosa si applica e se è o meno una scienza, si attraversa Un po’ di storia (dall’antichità al Novecento), poi ci si occupa di Come cambiano le parole (cambiamento formale e semantico, interazione tra i due cambiamenti), di Come si fa una ricerca etimologica (acquisizione della documentazione, ipotesi e proposte), per concludere con una rassegna dei Dizionari etimologici. Accurata e indispensabile la Bibliografia.

Tutto inizia con la gianna (Gianna o Giannetta), un vento freddo che soffia a Roma, su questo non c’è dubbio. Dubbiosa invece o addirittura ignota l’etimologia. Baglioni parte da un articolo di giornale comparso in un quotidiano romano nel 2015 proprio per dimostrare l’interesse diffuso sull’origine delle parole, purtroppo non sempre accompagnato dal dovuto rigore scientifico, quanto piuttosto da uno scoraggiante pressapochismo.

Gli esempi non mancano e sono uno degli aspetti più interessanti, anche e soprattutto per dilettare e coinvolgere i non addetti ai lavori. In alcuni casi, essi stravolgono le convinzioni più superficiali – ma non per questo meno radicate – e servono a chiarire ulteriormente il piano teorico (non dimentichiamo com’è nato il libro).

L’apparenza inganna. Teniamolo a mente per non cadere in facili trappole.

Ottimo e chiaro esempio ne è la parola stravizio ‘sregolatezza, eccesso nel mangiare, nel bere, nei piaceri dei sensi’, che pare proprio un derivato di vizio + il prefisso stra-. Non è così. Smontiamo e rimontiamo tutto. Infatti, «è sufficiente osservare che stra- si applica ad aggettivi e a verbi (stragrande, stravecchio, straparlare, stravedere ecc.) e non è solitamente attestato in combinazione con sostantivi» (p. 59).

In verità, si tratta di un prestito dal croato zdravica ‘brindisi’ o ‘sfida al bere’ «penetrato dapprima nel dialetto veneziano di fine Quattrocento come sdraviza, che riproduce fedelmente la forma della parola croata; nel diffondersi in italiano è stato poi gradualmene riaccostato dapprima al prefisso stra- [...] e poi anche a vizio con il risultato che oggi la sua origine straniera appare completamente oscurata» (p. 20).

 

Nel paragrafo I processi morfologici (p. 58), si evidenzia che «il controllo della plausibilità del processo di derivazione diventa uno strumento prezioso per distinguere tra l’origine reale di una parola e quella ricostruita dai parlanti per etimologia popolare». Subito dopo un illuminante esempio che chiarisce ampiamente questa affermazione: l’aggettivo e sostantivo fico (figo, variante settentrionale), usato dai giovani per dire ‘piacevole, bello’ (come aggettivo: “è stato un concerto veramente f.”), o ‘bel ragazzo’ o ‘di successo’ (come sostantivo: “Jacopo è un proprio unf.”).

«Generalmente si suppone una derivazione di fico da fica ‘organo genitale femminile’ e quindi, per traslato ‘bella ragazza’» (p. 59). Non sembrerebbe così e, anche se la discussione intorno a questa parola rimane aperta, «occorre tuttavia riconoscere, con Loporcaro [...], che la trafila che da efficace porta al romanesco ficaccio e per retroformazione a fico “comporta passaggi che, motivati dal punto di vista formale e semantico, sono inoltre in accordo con la documentazione disponibile non solo per l’italiano ma anche in ambito dialettale”, ciò che invece non può essere detto per l’ipotesi tradizionale della derivazione di fico da fica».

Nel blog una parola al giorno.it, la definizione di etimologia si chiude in maniera quasi poetica, come se questa disciplina e il suo studio rappresentassero una sorta di filosofia di vita: è un percorso di ponderazione elegante che migliora decisamente la qualità dei pensieri, della comunicazione, e quindi, della vita.

Potrebbe funzionare.

 

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La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco

 

 

 

Andrea Marcolongo
La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco

Laterza, 2016

 

 


Per l’anno scolastico 2017-2018, secondo i dati del Ministero dell’istruzione,le studentesse e gli studenti italiani della scuola media (o i loro genitori) preferiscono nettamente gli indirizzi liceali (scelti dal 54,6% delle ragazze e dei ragazzi). Degli altri, il 30,3% ha optato per un istituto tecnico, mentre il 15,1% delle nuove iscritte e dei nuovi iscritti ha scelto un istituto professionale.

Il liceo scientifico (fra indirizzo “tradizionale”, opzione scienze applicate e sezione sportiva) resta in testa alle preferenze: è scelto dal 25,1% delle studentesse e degli studenti (erano il 24,5% lo scorso anno). Tuttavia, il dato interessante è che, di questa grande torta che riguarda il futuro dei nostri ragazzi, una fetta leggermente maggiore rispetto all’anno scorso spetta al liceo classico: il 6,6% a fronte del 6,1% del 2016. Sembrerebbe una scelta in controtendenza, ma a detta di molti il liceo classico e lo studio del latino e del greco contribuirebbero, tra le altre cose, a modellare una forma mentis che aiuterebbe l’individuo ad affrontare meglio e con maggiori strumenti molti indirizzi di studio universitari, se non tutti.

Così, forse, non c’è nemmeno da stupirsi che La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco della grecista Andrea Marcolongo abbia raggiunto la quattordicesima edizione in pochissimo tempo e sarà tradotto in francese, olandese, spagnolo, tedesco e greco moderno.

Del resto non si tratta di un libro per specialisti, di un manuale per studenti o di un testo per appassionati eruditi, perché «questo libro, prima di tutto, parla di amore: verso una lingua, ma soprattutto verso gli esseri umani che la parlano – o, se nessuno la parla più, verso coloro che la studiano perché costretti o irrimediabilmente attratti» (p. X).«È un resoconto letterario (e non letterale) di alcune particolarità di una lingua magnifica ed elegante come il greco antico – quel suo modo di esprimere in modo fulmineo, sintetico, ironico, aperto di cui – siamo sinceri – proviamo un’inconsapevole nostalgia» (p. XIII).

Nell’introduzione, prima di enucleare le nove ragioni per amare o amare nuovamente il greco, a seconda che lo si abbia studiato o meno, l’autrice avverte: «Non importa che abbiate frequentato il liceo classico. Se no, meglio. Se sarò stata in grado di guidarvi nel labirinto del greco con la mia fantasia, arriverete alla fine del cammino con nuovi modi per pensare il mondo e la vostra vita, in qualunque lingua la esprimiate a parole. Se sì ancora meglio» (p. X).

Siamo di fronte a un ambizioso tentativo di avvicinare o avvicinare di nuovo il greco a chi lo ha conosciuto e odiato o a chi non ha provato nemmeno a conoscerlo perché sapeva che lo avrebbe odiato. La responsabilità (e la Marcolongo non fa sconti) è di un sistema scolastico non propriamente friendly («uno dei più retrogradi e ottusi del mondo») e di come è strutturato il liceo classico. Poi, nonostante tutto e tutti, ci sono insegnanti che riescono a cantare fuori dal coro, capaci di far accendere la scintilla e di fare breccia nel cuore dei discenti, ma questo è un altro discorso.

Il saggio è strutturato in capitoli che affrontano alcune questioni fondamentali della lingua greca. Come per esempio, il tempo. Nemico e amico, tiranno della società dei consumi della modernità liquida, frammentato come in un quadro puntinista «né ciclico né lineare, come normalmente era nelle altre società della storia moderna o premoderna», a detta del sociologo polacco recentemente scomparso Zygmunt Bauman.

Per i Greci il tempo non era una categoria fondamentale. Difficile ma non impossibile farlo capire: «Il greco antico al tempo badava poco, o punto. I Greci si esprimevano in un modo che considerava l’effetto delle azioni sui parlanti. Loro, liberi, si chiedevano sempre come. Noi, prigionieri, ci chiediamo sempre quando [...]. Non il tempo ma l’aspetto. L’aspetto è una categoria della lingua greca antica che si riferisce alla qualità dell’azione, senza collocarla nel passato nel presente nel futuro» (p. 3). Suggestivo il titoletto del paragrafo in cui si fa chiarezza sul duale: «Io, noi due, noi. Il duale», così come poetico e vitale lo sforzo per spiegare questa categoria grammaticale.

Si parte sempre dalla lingua come sistema espressivo di un popolo che pensa, perché «vengono prima gli uomini, poi le lingue [...]. Per questo ogni lingua è unica ed eccezionale: perché unico ed eccezionale il popolo che la parla per dire se stesso» (Andrea Marcolongo, «Corriere della Sera», 9 marzo 2017) .

Poi, via via, con esempi particolareggiati e spiegazioni sempre più verticali, si approfondiscono aspetti che, talvolta, da grammaticali diventano filosofici. Ne è un esempio la concisa descrizione del neutro: «Le cose della vita erano classificate grammaticalmente tra quelle con osenz’anima».

Argomenti complessi, grande passione e competenza per spiegarli, e riferimenti dell’io narrante ai patimenti di quella che fu una studentessa liceale: un efficace richiamo costante al passato per sdrammatizzarlo, per dimostrare che la bellezza e l’amore di e per qualcosa possono illuminare le tenebre di un metodo che allontana dalla grecità e, talvolta,  ne fa perdere i legami con il presente. Come se si trattasse di una materia di studio e basta, di una disciplina avulsa dalla realtà.

E il libro è intriso di questo slancio appassionato verso la lingua geniale. Pur trattandosi di una lettura complessa e impegnativa, nonostante la forma piacevole, spiritosa, piena di notazioni colorate e amorevoli, si procede con soddisfazione. Anche grazie ai box, ricchissimi approfondimenti che spaziano dai tabù linguistici a una breve rassegna dei dizionari di greco, dalle etimologie delle parole alla visione dei colori degli antichi Greci, al vino e al suo significato.

Una sfida, dunque, un saggio che lascia aperte molte questioni e che, senza pretese di essere esaustivo, ci ricorda ancora una volta che «in quest’epoca in cui si è perennemente connessi a qualcosa, mai a qualcuno, in cui abbiamo a disposizione migliaia di canali per comunicare, spesso ci si dimentica che cosa si comunica e come. E questa lingua [il greco antico, ndr] permette di fermarsi a pensare a quello che si dice; consente di dire cose in più, anche grazie alle nove particolarità che ho descritto nel libro e che l’italiano non ha». (Intervista ad Andrea Marcolongo di Antonella De Gregorio, «Corriere della Sera» 19 novembre 2016)

                                                                       

 

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Parole di giornata


 
 

 

Edoardo Lombardi Vallauri
Giorgio Moretti

Parole di giornata
Bologna, Il Mulino, 2015

 

 

Di primo ac.chì.to (p. 22), sembrerebbe che di parole, in questo in.tri.gàn.te (p. 132) quanto i.cà.sti.co (p. 123) volumetto, ce ne siano a biz.zèf.fe (p. 51). Tuttavia è necessario con.si.de.rà.re (p. 74) che lo smisurato sol.lùc.che.ro (p. 225) provocato dalla lettura ordinata (o disordinata) delle descrizioni dei vocaboli italiani ivi contenuti è basato più che altro sulla se.ren.di.pi.tà (p. 216) e non tanto sulla quantità se.squi.pe.dà.le (p. 218) di essi.

Assemblate con poca grazia da chi scrive e disposte in modo volutamente pe.dìs.se.quo (p. 173), ecco alcune delle 264 Parole di giornata, scelte e descritte da Edoardo Lombardi Vallauri (che insegna Linguistica generale nell'Università Roma tre) e Giorgio Moretti (che tiene un blog sulle parole ed è laureato in Giurisprudenza) in un incredibile «racconto di parole».

Lontano dall'asetticità di un dizionario, questo libro serve a godersi le parole, a scoprirle con meraviglia. Ve ne sono per tutti i gusti, dalle più semplici e comuni, alle infrequenti e complesse, aggraziate o spettacolari, ma tutte, proprio tutte, nascondono una prospettiva diversa dalla quale osservarle. Anche perché per evitare figuracce, o pesantezze linguistiche o goffaggini espressive, oltre ad amarle, le parole bisogna conoscerle. E «formandosi un’idea di quello che accade in un certo numero di parole significative, si impara come le parole sono strutturate e funzionano in generale: insomma, si diventa buoni indagatori e maneggiatori di tutte le altre» (p. 15).

L'ispirazione del volume nasce dall'esperienza del blog di Moretti unaparolaalgiorno.it e dal felice incontro tra Moretti, «un innamorato delle parole, che si lascerebbe andare a inni lisergici  […]» e Lombardi Vallauri «specialista preciso e a volte pedante, che vorrebbe veder sopravvivere sulla pagina scritta solo ciò che ha il carattere della verità» (p. 20-21).

Il viaggio all'interno del «piccolo evento quotidiano» costituito dalla parola,  porta d'accesso attraverso la quale passiamo per conoscere il mondo e, di conseguenza, noi stessi, è un percorso ricco e sorprendente, che inizieremo con alcune certezze e che concluderemo con altre convinzioni, perché «non solo impareremo parole nuove che non conoscevamo prima, ma anche quelle che credevamo di conoscere riveleranno pieghe nuove, e le conosceremo meglio» (p. 17).

Bisogna solo lasciarsi condurre per mano, animati da curiosità.

Incontreremo parole delicate e quasi timide, che dall'essenza dei fiori acquistano la loro bellezza; è il caso di liliale (p. 139), dal suono soave: «significa ciò che è proprio del giglio, prende il significato di candido, puro, e anche ingenuo, e casto».

Parole «belle e rare» come locupletare (p. 142), da conoscere ed usare con la giusta misura: «Dal latino locupletare, derivato da locuples 'ricco', composto di locus 'terra' e ples 'pieno'. Pieno di terre. […] significa arricchire, e caratterizza questo significato a partire dall'immagine più atavica della ricchezza, cioè la terra».

Parole dall'origine agghiacciante, come tirapiedi (p. 238) «servile aiutante di persone di una certa importanza […]», che prende il nome dalla fatale azione compiuta dall'aiutante del boia per rendere più rapido il trapasso dell'impiccato.

Parole dall'origine inaspettata come lapalissiano (p. 136) («evidente, ovvio, scontato, palese»), che deriva dal nome di Jacques de La Palice, Maresciallo di Francia al quale, dopo la morte, i suoi soldati dedicarono un canto celebrativo, un vero e proprio inno all'ovvietà: Un quart d'heure avant sa mort il était encore en vie ('Un quarto d'ora prima della sua morte era ancora in vita').

Sul finire dell'anno è buona (o cattiva) abitudine fare bilanci, di tutti i tipi. Qui ci interessano quelli riferiti alla lingua, al suo continuo mutare e crescere. Si fa a gara con i sondaggi di ogni genere tra i lettori più appassionati di lingua italiana: Quale di queste parole ti piace di più? Quale ha caratterizzato maggiormente l'anno in corso? Quale conserverai nel cassetto per tuoi pronipoti? Si cerca in tutti i modi di designare la più bella reginetta dell'anno, augurandole lunga e nobile vita (trattasi appunto di regine).

Forse petaloso o ciaone riusciranno a guadagnare il trono, acclamate a furor di popolo. Tuttavia, si sa, la bellezza è effimera, così come i subitanei innamoramenti, che talvolta si spengono come le fiamme troppo deboli al primo soffio di vento. Bisogna essere un po' speciali per rimanere nel cuore di qualcuno.

Dopo la nuova luce sotto la quale abbiamo conosciuto queste 264 affascinanti reginette, senza dubbio le ameremo e non le dimenticheremo più.

 

 

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Giocare con le parole


 
 

 

Simone Fornara e Francesco Giudici
Giocare con le parole
Roma, Carocci editore, 2015

 

 

Nei suoi Colloquia (apparsi incompleti nel 1519), che nel 1522 raggiunsero niente di meno che 25 edizioni, da Parigi a Vienna, da Cracovia a Magonza, Erasmo da Rotterdam sosteneva con decisione che gli insegnamenti della grammatica (latina) fossero ardui per molti (Multis amara sunt grammatices praecepta) e che si apprende meglio se si impara giocando (Et haud scio an quidquam discitur felicius, quam quod ludendo discitur).

 

Gioco e apprendimento sono due concetti strettamente collegati fra loro: soprattutto, in età infantile, il gioco costituisce un potente stimolo all’apprendimento perché, tra le altre cose, è divertente, perché spesso l’azione del giocare è più importante del risultato ottenuto, perché il rischio dell’insuccesso è vissuto in una dimensione che non necessariamente comporta un fallimento “reale”. Inoltre, lo sguardo verso la realtà cambia, si sposta, permette un’osservazione nuova e stimolante.

È giocando che i bambini si affacciano al mondo, lo scoprono e “lo” imparano un pezzettino per volta.

Giocando ci si rilassa, si è più motivati e attenti, si socializza. Senza dimenticare che la dimensione ludica non appartiene solo all’età infantile ma anche all’età adulta.

Sir Romeo Nanfa e Sir Ciccio da Funge, autori di Parlare con ecologie (edito da Cartoccio dei Re), lo sanno bene.

Anagrammi a parte (si veda l’Attività 1 del paragrafo 3.2 Anagramma p. 38), ci riferiamo ovviamente a Simone Fornara, professore di Didattica dell’italiano presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi), e a Francesco Giudici, docente di scuola primaria a Vezia, Canton Ticino, ed enigmista (o viceversa) e del loro sorprendente volumetto Giocare con le parole (Carocci editore).

 

Quando i due autori si sono incontrati in àmbito professionale (in un corso di aggiornamento, uno docente e l’altro discente, o come essi stessi si definiscono nella premessa aggiornante e aggiornando) hanno scoperto di avere in comune grandi passioni: l’enigmistica, la lingua italiana e l’insegnamento.

Da qui è nata l’esperienza di questo libro.

«Giocare con le parole significa avere [...] qualche carta in più per raggiungere un uso consapevole e critico della lingua, o comunque per aprire nuovi spiragli di consapevolezza anche in chi ne resta abitualmente (cioè con un approccio scolastico tradizionale) escluso» (p. 12).

Non tutti la pensano così, perché «sui giochi linguistici a scuola esistono ancora troppi pregiudizi, che ne minano la credibilità [...]: almeno fino alla pubblicazione del manuale Ludolinguistica e Glottodidattica (Mollica, 2010) [...]. I giochi linguistici non sono affatto il potenziale regno dell’anarchia didattica: al contrario, sono un terreno sul quale è possibile camminare entro certi schemi prestabiliti, gli stessi che stanno alla base delle trasformazioni linguistiche su cui si basano» (p. 12-13).

 

Facciamo un passo indietro. Vediamo quando nasce ufficialmente la ludolinguistica proprio dalle parole del professore emerito alla Brock University (Canada), Antony Mollica, considerato il “padre” di questa disciplina, in un’intervista che compare nel sito del Centro Linguistico Ateneo (Università di Verona) https://cla.univr.it/intervista-al-prof.-anthony-mollica.html.

«La voce "ludolinguistica" non è certo accettata da tutti. Stefano Bartezzaghi, per esempio, preferisce "giochi di parole". Vittorio Coletti dell’Università di Genova, in una recensione per il mio Ludolinguistica e Glottododattica apparsa sulla rivista Indice, concorda con Bartezzaghi nell’affermare che "pesante è solo il titolo". Giuseppe Aldo Rossi, autore del Dizionario di Enigmistica e Ludolinguistica (Zanichelli), in un’intervista accordatami il 26 gennaio del 2013 [...], mi conferma che è stato lui a coniare la voce che, secondo Giampaolo Dossena, appare per la prima volta nello Zingarelli nell’edizione del 1998».

Tuttavia, il pregio di Giocare con le parole non sta solo nel voler contribuire allo sdoganamento di questa disciplina, ma anche e soprattutto nel proporre (capp. 2-5 e cap. 6) un compendio di divertenti quanto serie schede di giochi – alcune nate sui banchi della scuola primaria dove per più di quarant’anni ha insegnato Francesco Giudici, ed altre create ex novo e derivanti da pratiche didattiche sperimentate dai due autori.

Gli esercizi presentati nel libro sono tutti collaudati, e si nota. Per ciascuna attività sono specificati i destinatari e abbondano le proposte, oltre alle necessarie definizioni degli interventi che ci si appresta a fare.

Prendiamo, per esempio, il logogrifo, che non è un animale, ma «un gioco enigmistico che consiste nel prelevare una parte delle lettere di una parola allo scopo di ottenere altre parole» (p. 37): a partire da CASTELLO si possono individuare parole di lunghezza diversa (2, 3, 4 ... lettere), da la, le, a sol, oca, fino a scatole o casello.

Un fascino evergreen costituisce di sicuro l’anagramma (p. 38), senza parlare delle sorprese che nasconde l’acrostico – usato anche Eugenio Montale per svelare il nome della donna amata nel suo componimento Da un lago svizzero (p. 58) – o il suo contrario, il telestico (p. 68).

Sono moltissimi gli spunti offerti da questo indispensabile libro, che emana passione da ogni parola, cura e amore per i discenti da ogni frase, strategie e suggerimenti accurati per chi da docente intende insegnare giocando. E poi, oltre che molto piacevole, la lettura è divertente, cosa niente affatto scontata.

Per concludere con le parole di Antony Mollica, al quale si è chiesto (http://www.informalingua.com/index.php/item/177-come-creare-un-atmosfera-di-successo-nella-classe-di-italiano-per-stranieri-con-la-ludolinguistica) come si può convincere un insegnante refrattario all’uso della ludolinguistica nelle attività glottodidattiche: «Mi limiterei a ricordargli che Umberto Eco mette il gioco al quarto posto tra i bisogni fondamentali dell'uomo dopo il nutrimento, il sonno, l'affetto e prima di chiedersi il perché. Qualcuno ha suggerito che l'homo ludens è nato prima dell'homo sapiens».

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Scrivere bene. Dieci regole e qualche consiglio


 

 

Bianca Barattelli
Scrivere bene. Dieci regole e qualche consiglio
Bologna, Il Mulino, 2015

 

 


Se ogni volta che dovete uscire di casa avete dubbi su quali abiti indossare e in quali occasioni, se talvolta vi capita di osservare con sguardo assente gli indumenti che penzolano nel vostro armadio o vi scervellate per lunghi minuti davanti a quelli riposti nei vani della cassettiera, allora questo manualetto fa decisamente al caso vostro.

Attenzione, però: con abito ci si riferisce alla scrittura e alla sua forma che, innanzitutto, «deve rispondere a caratteristiche ben precise e differenziate a seconda della circostanza» (p. 9).

Non ci si occuperà  esclusivamente di vestiti da cerimonia (e cioè di quegli abiti più impolverati e usati solo per le occasioni importanti), ma si cercherà di superare le esitazioni e le incertezze che ci affaticano quando dobbiamo affrontare i numerosi appuntamenti della vita quotidiana, fatta di jeans, maglioni o scarpe da ginnastica.

L’importante è sapere cosa mettersi in ogni momento. Perché in questo caso l’abito fa il monaco.

Bianca Barattelli, insegnante di italiano e latino nei licei e autrice di Scrivere Bene. Dieci regole e qualche consiglio, ci spiega il concetto di adeguatezza della lingua al contesto, attraverso la metafora dell’abbigliamento: «nessuno – pena la censura sociale o il ridicolo – andrebbe a una cerimonia in tuta da lavoro, o si presenterebbe in smoking in un rifugio sulle Dolomiti. Potremmo allora dire che questo libretto si rivolge a chi tiene a indossare sempre l’abito giusto nelle diverse occasioni in cui si presenta in società con un testo scritto» (p. 9-10).

C’è di più: «al di là di quello che decidiamo di mettere, tutti partiamo dal presupposto che, se non vogliamo beccarci una denuncia, non possiamo comparire in pubblico senza niente addosso» (p. 10).

Luca Serianni, rifacendosi all'idea di pudore morale, definiva il pudore linguistico come «percezione della correttezza linguistica da parte dei parlanti e conseguente reattività nei casi di violazione di norme comunemente condivise» (Prima lezione di grammatica - Roma-Bari, Laterza, 2006).

Stefano Bartezzaghi, nelle ultime pagine del suo allegro ed efficace Come dire. Galateo della Comunicazione (Milano, Mondadori, 2011), sottolinea che «Ognuno ha il diritto di apparire ignorante, sciatto, volgare, snob, ricercato, tamarro, pedante, infantile. È il vecchio paragone con l’abbigliamento: nessuno vi proibisce di andare a laurearvi con le infradito. A me preme solo assicurarvi che c’è una relazione fra il linguaggio che usate e l’ambiente e la circostanza in cui lo usate. È meglio saperlo, è meglio tenerne conto». In buona sostanza siate ciò che volete, basta che ne siate consapevoli.

Vediamo quindi come vestirci adeguatamente o, fuor di metafora, cosa, secondo Bianca Barattelli, dobbiamo (o dovremmo) sapere per scrivere bene.

Nel sottotitolo del volume (Dieci regole e qualche consiglio), l’autrice indica la struttura del suo scritto: i dieci comandamenti della buona scrittura sono suddivisi in altrettanti capitoli. L’incoraggiamento iniziale è che «a scrivere bene si può imparare», senza però dimenticare che «presuppone una certa conoscenza della lingua italiana e richiede sistematicità, pazienza e applicazione» (p.13). Anche se, subito dopo, si rileva che «il primo requisito per scrivere bene è leggere tanto: questo aiuta a immagazzinare temi, parole e schemi espositivi da riutilizzare autonomamente in altre occasioni» (p. 14). E non è confortante in un Paese come il nostro con indici di lettura bassissimi, dove «quasi una famiglia su dieci (9,8%) non ha alcun libro in casa; il 63,5% ne ha al massimo 100»; e dove i «lettori forti, cioè le persone che leggono in media almeno un libro al mese, sono il 14,3% dei lettori, una categoria sostanzialmente stabile nel tempo».

(Produzione e lettura dei libri in Italia, dati Istat del 15 gennaio 2015 http://www.istat.it/it/archivio/145294)

 

Sfogliamo il decalogo.

1.     «[…] per scrivere bene ci vogliono strumenti, tempo, impegno e una buona dose di umiltà» (p. 14).

2.     «[…] prima di occuparvi delle parole che userete per rivestirlo, costruite il vostro testo badando alla solidità e alla tenuta» (p. 33).

3.     «[…] quando parliamo di noi, possiamo decidere se ci conviene essere in prima fila o dietro le quinte; quando riportiamo quello che è stato detto da qualcun altro, dobbiamo rispettare la coerenza e la correttezza, in tutti i sensi» (p. 63).

4.     «[…] la prima forma di rispetto è rispettare le forme» (p. 77).

5.     «[…] l’espressività è come le spezie: dosata nel modo giusto aggiunge quel tocco in più, ma se si eccede rovina il sapore» (p. 103).

6.     «[…] per esprimere un significato, le parole “vere” non sono l’unico strumento. Ce ne sono altri, meno espliciti e proprio per questo a volte più efficaci» (p. 117).

7.     «[…] le parole sono la parte più visibile del vostro testo e vi rappresentano, quindi non sceglietele a caso né per seguire le mode » (p. 135).

8.     «[…] mai avventurarsi in terra straniera senza sapere che cosa si va a visitare» (p. 150).

9.     «[…] aggiungete valore al testo che avete scritto presentandolo nel modo migliore possibile» (p. 161).

10. «[…] guardatevi dai cattivi maestri» (p. 175).

 

Dopo aver capito cosa abbiamo intenzione di dire (sembra banale, ma non è così), per una corretta scansione della materia da trattare, occorre redigere una scaletta o un indice dettagliato. Si rischia di perdere il filo se si vuol dire troppo, infilando parole o concetti in sovrappiù (da tenere sempre presente il principio guida dell’architetto Mies van der Rohe: Less is more ‘meno è più’ – p. 15).

Fondamentale diventa poi individuare il destinatario cui ci si rivolge, soprattutto per determinare priorità, gerarchie del dire e, di conseguenza, il taglio da dare. Imporsi delle scadenze è poi un buon modo per evitare di dover tralasciare l’ultima – e non per questo meno importante –  fase della scrittura: la revisione, che può essere eseguita dall’autore stesso, da eventuali lettori-cavie, o da entrambi. L’importante è far sedimentare il testo e rileggerlo con un po’ di distanza, sia emotiva sia temporale.

Si affrontano numerosi contesti dello scrivere: dai più formali, come l’insidioso curriculum vitae, dalle mail fino agli SMS, passando per la comunicazione epistolare fino alla presentazione in PowerPoint. Non mancano consigli, citazioni ed esempi interessanti e puntuali, sparsi qua e là, così come approfondimenti di grammatica e di sintassi, puntualizzazioni su lessico, sinonimi, uso dei forestierismi e molto altro. Il nono capitolo, Anche l’occhio vuole la sua parte, dedica spazio anche alla veste dello scritto (e ci risiamo con l’abito), con tanto di box di approfondimento sui tipi di caratteri tipografici.

Tuttavia, non bisogna trascurare il precetto più importante, che diceva Primo Levi a un aspirante scrittore (citato dalla stessa Barattelli a p. 19): dopo aver snocciolato una serie di preziosi consigli, in ultimo (last but not least) con la disinvoltura del gesto teatrale, Levi ricorda: «Dimenticavo di dirLe che, per scrivere, bisogna avere qualcosa da scrivere».

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L'arte di riassumere. Introduzione alla scrittura breve


 
 

 

Ugo Cardinale
L’arte di riassumere. Introduzione alla scrittura breve
Bologna, Il Mulino, 2015

 

 


Siamo «inondati dalla scrittura», è un dato di fatto. Si tratta con ogni probabilità di un’occasione importante per una vigorosa crescita intellettuale. Con cautela, però. Ugo Cardinale, ne L’arte di riassumere. Introduzione alla scrittura breve mette subito in chiaro che «le nuove tecnologie, usate compulsivamente, potrebbero deformarne la funzione [della scrittura], esaltando la velocità di esecuzione a scapito della complessità della riflessione» (p. 7).

Succede un po’ in tutti gli ambiti della produzione culturale: quasi sempre una maggiore velocità corrisponde ad una minore qualità del prodotto e, purtroppo, non mancano gli esempi, basta dare un’occhiata ai quotidiani online. Ma qui si tratta di altro. Non parliamo di qualità dell’esprimere, non solo almeno, ma di qualità del comprendere.

Per non correre il rischio di essere travolti da onde gonfie di parole e di annegare senza nemmeno essere stati capaci di decifrarle, diventa sempre più urgente capire quanto sia utile (e necessaria) l’arte della sintesi.

Riassumere è un’arte? Sì, in un certo senso. Come l’arte di scrivere o di leggere. A tale proposito, mi piace ricordare il godibilissimo compendio di osservazioni e ricordi raccolti dal poeta e narratore svedese Olof Lagercrantz nel suo L’arte di leggere e scrivere, pubblicato in Italia nel 1987 per i tipi di Marietti.

Un’arte, quella del riassumere, che fonde quattro azioni: leggere, comprendere, pensare e pianificare. E non è cosa da poco. Forse siamo capaci di sintetizzare un pensiero nei 140 caratteri di un tweet (bisogna anche vedere come) ma conosciamo davvero l’arte di riassumere?

Se così non fosse, utilissima diventa l’ottima guida di Ugo Cardinale, che ci conduce passo passo nell’intricato bosco della sintesi, dimostrandocene al tempo stesso l’assoluta utilità.

Partiamo dal presupposto che la contrazione e la sintesi del testo possono essere apprese, che non sono “qualità innate”. Bisogna conformarsi a una tecnica precisa, perché il riassunto non è, ricordiamolo, «una parafrasi, non è la trasformazione biunivoca di ogni frase attinta dal testo, ottenuta sostituendo ogni termine con un sinonimo o un’espressione sinonimica. Non è neppure una semplice riduzione del testo originario, per mezzo della soppressione di alcuni dettagli e della ricopiatura di parti integrali di esso. È il risultato, invece, di una lettura e di un’analisi intelligente, che rivelano la comprensione del testo» (p.32).

Dopo il primo capitolo, dedicato alle operazioni cognitive del leggere e dello scrivere e alla loro interrelazione (Dalla lettura alla scrittura), si procede all’enunciazione di macroregole di base per operare sul testo, e di tutta una serie di regole pratiche da seguire con scrupolo se si vuole ottenere un buon prodotto (cap. II - La riduzione dei testi). Nel capitolo III, si passano in rassegna alcune tipologie di testo (La classificazione delle tipologie testuali ai fini della sintesi). Nei capitoli successivi, per ciascuna categoria individuata (testi narrativi, giornalistici, informativi, descrittivi, argomentativi), si mettono le mani in pasta e si lavora sui testi, seguendo una lettura guidata e una serie di proposte di esercizi. L’Appendice presenta veri e propri esempi di riassunto sulla base dei testi analizzati in precedenza. Ci si può esercitare seguendo le numerose  proposte: riassunti in 1a o in 3a persona, in 100 parole, in 1.800-2.000 caratteri, o in 15-20, 30 o 40 righe, nella forma di articolo divulgativo o con riorganizzazione dei blocchi informativi. Una bella palestra. E come se non bastasse, un ricco apparato di 78 pagine per esercitarsi e per comprendere più a fondo teoria e pratica è liberamente scaricabile in formato pdf nella scheda del libro, presente nel sito della casa editrice all’indirizzo https://www.mulino.it/isbn/9788815257123.

 

Dunque, se si è capaci di contrarre in maniera appropriata un testo, significa banalmente che ci è chiaro il significato di ciò che abbiamo letto e siamo quindi in grado di ridirlo. Non smette mai di ribadirlo anche Luca Serianni: il  riassunto è  «pratica salutare, in quanto misura la capacità di capire un testo dato, di coglierne la salienza informativa, di renderlo in forma linguisticamente efficace» (L'ora di italiano. Scuola e materie umanistiche - Laterza, 2010; p. 40). «Non c’è esercizio più adatto per stimolare nei ragazzi la gerarchizzazione delle notizie, educare alla sintesi e così correggere la verbosità imperante. Con il riassunto, poi, si può verificare la padronanza linguistica e la comprensione di testi via via sempre più complessi. Per questo dovrebbe accompagnare gli studenti fino alla fine delle superiori» («Corriere della sera» 6 marzo 2014).

Anche Cardinale sottolinea che, un riassunto, per lessico e sintassi totalmente diverso dal testo originario potrebbe anche «permettere, con buon margine di predittività, la valutazione di capacità e competenze degli studenti o dei professionisti della scrittura: la comprensione di testi, l’attitudine all’analisi, la coerenza logica, la padronanza linguistica» (p. 31).

A detta dell’autore, sarebbe anche auspicabile che il riassunto diventasse una delle opzioni della prova di italiano dell’esame di Stato: «E se ancora oggi tale pagina bianca può produrre angoscia nello studente che non è informato sull’argomento di cui dovrebbe parlare, se questo vuoto di indicazioni rischia di alimentare i luoghi comuni e le banalità che si riscontrano per lo più nei temi di carattere generale, presenti nella cosiddetta tipologia D, un’alternativa degna di attenzione potrebbe essere la scrittura di sintesi e contrazione di un testo dato, culturalmente rilevante» (p. 8). Così anche quegli insegnanti che considerano il riassunto una pratica desueta ed inutile potrebbero rivalutarne l’efficacia e, volenti o nolenti, sarebbero costretti a riportarlo sui banchi di scuola.

In questo tempo che ci è toccato vivere, in cui i messaggi si moltiplicano vorticosamente, attraverso strumenti fino a poco fa impensabili, un tempo che esalta il contenitore a scapito del contenuto, in cui sembrano mancare tempo e concentrazione per soffermarsi sulle parole (mai per produrne in enormi quantità), diventa quasi necessario ripensare la scrittura breve.

 

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«QdR Didattica e letteratura» 2. Raccontare la scuola. Testi, autori e forme del secondo Novecento

 
 

Cinzia Ruozzi
«QdR Didattica e letteratura» 2
Raccontare la scuola. Testi, autori e forme del secondo Novecento

Torino, Loescher editore, 2014

 

«QdR Didattica e letteratura» (Loescher editore) è una nuova collana diretta da Natascia Tonelli e Simone Giusti che, come si evince dal titolo, intende riflettere su una disciplina ancora giovane come la didattica della letteratura.

Il primo quaderno è il saggio di Jean-Marie Schaeffer, Piccola ecologia degli studi letterari. Come e perché studiare la letteratura? A cosa servono gli studi letterari e come bisogna porsi rispetto alla «triplice crisi [...] che coinvolge allo stesso tempo la trasmissione dei valori letterari, lo studio cognitivo delle attività letterarie e la formazione degli studenti in letteratura»? (p. 10)

Il secondo quaderno, Raccontare la scuola. Testi, autori e forme del secondo Novecento, a cura di Cinzia Ruozzi, riguarda specificamente il cosiddetto “racconto di scuola”, un genere letterario assai giovane e ancora poco definito che, tuttavia, «si configura ormai come un genere letterario specifico. Al suo interno è possibile distinguere personaggi e luoghi topici, stili e forme che si ripetono nel tempo, declinazioni diverse degli stessi motivi. [...] È un genere o un sottogenere, comunque lo si voglia definire, prossimo ad altri come il romanzo di formazione, il romanzo del lavoro, l’autobiografia, il diario, e non a caso ha attirato l’attenzione di alcuni critici, come Lidia De Federicis, che considera la scuola un luogo centrale del romanzesco moderno per le sue caratteristiche di “contenitore materiale e simbolico, di società in miniatura che riproduce, enfatizzandoli, comportamenti e gerarchie della società in grande”» (p. 219).

L’attento e interessantissimo lavoro condotto mira a «ricostruire attraverso la contestualizzazione storica, il richiamo alle fonti legislative e soprattutto i testi letterari, la dimensione reale e simbolica della figura dell’insegnante e della scuola nella società, considerando in particolare gli ultimi trent’anni».

Ne esce un quadro davvero interessante che, lungi dall’essere esaustivo, delinea e descrive le trasformazioni del nostro Paese, partendo appunto da quella società in miniatura che è la scuola. Una scuola raccontata dall’interno, scritta da quelli che la scuola la fanno, o la hanno fatta, insieme ai ragazzi: gli insegnanti. Il periodo analizzato si riferisce, come già detto, agli ultimi trent’anni a partire dalle opere di Domenico Starnone, senza però dimenticare le pietre miliari del genere, come ad esempio Cuore (1886) e Il romanzo di un maestro (1890).

I testi presi in considerazione sono solo quelli nei quali il tema della scuola si trova al centro della narrazione e non sullo sfondo.

I sei capitoli (1. Il diario scolastico da Starnone a Onofri. Percorsi letterari tra passato e presente; 2. Il racconto della speranza, il racconto del disincanto; 3. Insegnare agli ultimi; 4. La scuola dei professori erranti; 5. Piani di lavoro; 6. Forme, stili e stilemi del racconto di scuola) costituiscono un appassionante racconto che riguarda in maniera profonda tutti noi, con i nostri ruoli diversi nella società e quindi anche rispetto alla scuola.

Ognuno di noi può vedersi riflesso in questo romanzo del racconto di scuola, può cogliere una sfumatura, può provare un’emozione, può richiamare alla memoria un pezzo della propria storia individuale oltreché collettiva. Di certo, dopo aver letto l’ultima pagina di questo quaderno, la 253, non sarà più lecito pensare alla scuola come a un universo lontano, che magari, per motivi personali o anagrafici, si percepisce ormai distante o come una tappa conclusa della propria vita; non ci si potrà più girare dall’altra parte leggendo i titoli dei quotidiani, in questo periodo di grandi movimenti all’interno del mondo scolastico. Si saprà quanto c’è dietro e all’interno della scuola fatta da dentro. E si scoprirà che il senso profondo dell’essere educatori non è andato perduto.

Sono numerosissime e splendide le citazioni tratte dai testi presi in considerazione, ed è un peccato non poter citare tutti gli autori. Uno per tutti. E nessuno se ne abbia a male. Sandro Onofri, insegnante, giornalista e romanziere, coglie moltissimo dei nostri ragazzi, della loro infelicità, della loro incapacità ad esprimersi, a partire dalla morte del dialetto che «non riesce neanche più a offrire il gusto della trasgressione». (p. 60).

Onofri ci restituisce con la brutalità che solo la verità possiede un ritratto della noia, un tempo base fondamentale delle grandi scoperte dell’adolescenza, oggi, stato d’animo rassicurante: «L’entusiasmo o la disperazione, in modo diversi, sembrano terrorizzarli. Non li sanno gestire. Diventano nevrastenici nel primo caso, violenti nel secondo. Solo della noia sembrano padroni. Questa è l’ossessione di ogni insegnante, qui. E il suo alibi» (p. 60).