Lingua Italiana

Fiorenzo Toso

Fiorenzo Toso (Arenzano, GE, 1962 - ivi 2022) è stato Professore ordinario di Linguistica Generale all'Università di Sassari e ha conseguito la libera docenza in Filologia Italiana all'Università di Saarbrücken, presso la quale collaborò al Lessico Etimologico Italiano fondato da Max Pfister. Specialista del genovese, ha dedicato numerosi saggi ad aspetti della dialettologia, della storia linguistica e letteraria del territorio ligure, approfondendo in particolare il tema del contatto linguistico tra il genovese e diverse lingue nel bacino del Mediterraneo e oltre, e dell'insediamento di varietà liguri fuori dall'area originaria. Altro ambito di specializzazione, quello relativo alle minoranze linguistiche, sia a livello teorico che nella realtà geolinguistica italiana ed europea. Studioso di etimologia, metalinguaggio della linguistica, edizioni di testi; traduttore dallo spagnolo e dal francese e dall'italiano al genovese, lingua quest'ultima nella quale ha esercitato una intensa attività poetica (“E restan forme”, Lavagna, Zona 2015) e narrativa. Tra le sue opere principali, “Lingue d'Europa. La pluralità linguistica dei Paesi europei fra passato e presente”, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2006; “Dizionario etimologico storico tabarchino”, Recco, Le Mani, 2007; “Le minoranze linguistiche in Italia,” Bologna, Il Mulino, 2008; “Linguistica di aree laterali ed estreme. Contatto, interferenza, colonie linguistiche” e ‘isole’ culturali nel Mediterraneo occidentale”, Recco, Le Mani, 2012, “La letteratura ligure in genovese e nei dialetti locali. Profilo storico e antologia”, Recco, Le Mani, 2012; “La Sardegna che non parla sardo. Profilo storico e linguistico delle varietà alloglotte”, Cagliari, CUEC, 2012, “Parole e viaggio. Itinerari nel lessico italiano tra etimologia e storia”, Cagliari, CUEC, 2015; “Piccolo dizionario etimologico ligure”, Lavagna, Zona, 2015. Collaboratore di imprese come “I dialetti italiani” (a c. di M. Cortelazzo e altri, Torino, UTET, 2002) ed “Enciclopedia dell'italiano” (a c. di R. Simone, Roma, Treccani, 2010), ha diretto il progetto DESGEL (“Dizionario Etimologico Storico Genovese e Ligure”).

Pubblicazioni
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Lux (nova et vetera)

Assunta Sànzari Panza

Lux (nova et vetera)

Prefazione di Gualberto Alvino

Illustrazioni di Maura Ragazzoni

Torino, Robin Edizioni, 2022

 

Debbo al prefatore di questo libro la sua conoscenza: la poesia circola sempre più (quando circola) attraverso la rete delle amicizie e delle conoscenze, e sono spesso vie tortuose e casuali. Del resto, si sa, i libri, una volta pubblicati, acquisiscono una vita propria, e il loro modo di viaggiare, di suggestionare i lettori, e anche di contaminarsi reciprocamente, è uno dei più affascinanti misteri di quel mondo a sé che si chiama letteratura. Ma forse è così che deve essere, la “fortuna” di un libro è un gioco di scoperte, di incontri occasionali, di ritrovamenti e di agnizioni che fanno della letteratura un romanzo a più mani, infinito e perenne.

 

L’autrice irpina, così, trova adesso un lettore sulle rive del Mar Ligure per mediazione romana. Dobbiamo essere sinceri, non è facile “leggere tutto” e incontrare ovunque qualità: per un paradosso apparente, in questi tempi di grande comunicazione, il proliferare delle proposte genera una sorta di “cantonalizzazione” della letteratura, un restringimento degli spazi che, al di là dei nomi ricorrenti, rischia spesso di circoscrivere la diffusione dei libri in ambiti territoriali ristretti. Chi è in grado di controllare oggi il flusso continuo di proposte editoriali nel quale ci troviamo coinvolti?

 

Ma per fortuna, appunto, e come in fondo è sempre stato, si legge (e ci si legge) in virtù di una rete più attenta e profonda di quella del web, la rete dei consigli reciproci e dei suggerimenti amicali. E così capita di ritrovarsi tra le mani un libro come questo, sensibilmente illustrato da Maura Ragazzoni, che piace leggere e piace commentare brevemente, perché vi si riconosce un valore intrinseco, a partire dall’intento riepilogativo che connota la sistemazione dei testi, dagli esordi fino alla “svolta” dichiarata dall’autrice, ben annunciata dai titoli delle due sezioni, Nova e Vetera, fino alle prove più recenti.

 

Una svolta forse più radicale di quanto non appaia dai testi così come sono presentati in questa edizione, se Alvino stesso, nella sua prefazione, parla francamente di un «rinnegamento» della prima maniera, e l’autrice di un «radicale cambio di passo», forse meno visibile nel momento in cui i Vetera hanno subito quel «prosciugamento della sintassi», quel «potenziamento del lessico», quell’«affinamento della prosodia» dichiarati dalla Sànzari Panza.

 

Il convincente risultato di questa operazione rende apprezzabile, in ogni caso, la sostanziale unità di fondo della sua poesia, evitando il rischio di una lettura drasticamente polarizzata tra un “prima” e un “dopo”: vero è che si avverte quasi plasticamente un ripudio di «ogni forma di autocompiacimento sentimentale», ancora presente nella sezione più antica, ma il lavoro operato sul proprio linguaggio lascia riconoscere l’autrice nella sua ricerca, scrive ancora Alvino, di un «dettato asciutto, puro, essenziale», di «un ritmo inedito e cangiante» di un «vertiginoso susseguirsi di emblemi visuali, amalgamati dalla quasi totale assenza di punteggiatura»:

 

Weltschmerz

 

Se l’ora si ferma negli orti di guerra

se urla lo sfacelo del balocco perduto

il sandalo ficcato nell’asfalto crepato

il fiocco strappato nel guazzo

frangia di veste stinta impigliata nel pruno

se l’eco di voce sola

colma la quiete delle stanze

immoto il silenzio

attesa d’un lieve sospiro

se narra conti il soffitto

che preme il petto soffoca

se la resa ai rami dispersi

offre lignee impressioni di stasi

se la colpa può farsi misfatto

masso scagliato sfida sanguigna

orde di pensieri ostinati riottosi

sillabano il tempo in minute frazioni

– quando taceranno quando il momento

della loro migrazione? –

se arduo è ammettere la fine

passare oltre dopo tanto di vita e colori

fino all’ombra, senza voltarsi, lasciata andare

se lo strappo dalla cara mano

genera lutto strozzato in gola

l’universo è dannato a inguaribile epifania

d’un progetto rotante feroce.

 

Il coraggio di rinnovarsi, di passare dalla fase tutta letteraria dell’idillio, dell’assenza, della mancanza, a quella del sentimento espresso con forza d’immagini attraverso una lirica «oggettuale, materica, costantemente sul crinale tra arte quale artificio e vita marchiata a fuoco sulla carne viva» (Alvino) connota così le scelte dell’autrice, disegnando un itinerario di crescita che risulta dall’acquisizione di una consapevolezza che è al tempo stesso, evidentemente, dato biografico e maturazione artistica, riflessione interiore e caparbia ricerca di una nuova e più coinvolta musicalità, passaggio dalla fase orfica della creazione a quella di una attenta e complessa opera di rilettura, rimodellazione, auto-analisi, per certi aspetti, «durante la quale», scrive ancora Alvino, «nulla si salva dal rigore correttorio», in una palese continuità tra atto creativo e rielaborazione che è, o dovrebbe essere, la formula più convincente del migliore poetare.

 

La “grecità” evocata come cifra costante e unitaria dal prefatore al di sopra delle due fasi della poesia della Sànzari Panza sta verosimilmente proprio in questo suo saper giocare tra classicità e sperimentazione, anche nella ricerca tematica che conserva ad alcuni snodi ricorrenti un valore testimoniale evidente, nell’attenzione per il paesaggio, nella franca espressione del proprio pensiero, nella più volte proclamata fede nel valore degli affetti:

 

Ecco, si stacca un brano di lei

dilegua piano nel letto dell’esistere.

Segui con gli occhi il cuore che viaggia

la vita che cresce scivola

guizza tra le onde del divenire.

Cerchi da lontano di decifrare il suo fiato

nel silenzio dell’attesa

nella quiete del suo passo lento.

Controvento i tuoi pensieri,

perdi il conto delle parole

che hai disseppellito dal ventre.

Pulsa la cava di emozioni

che s’infiamma e arde.

 

Una poesia intensa, avvolgente, che non lascia indifferenti.

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Garibaldi a cento chilometri da Mariupol’

Abbiamo visto a grandi linee, con un’attenzione focalizzata soprattutto sugli aspetti linguistici, come la storia dei rapporti tra i genovesi e le sponde settentrionali del Mar Nero copra un arco di tempo lunghissimo, che va dal XII secolo ai primi anni dell’Ottocento: con una presenza economico-politica di grande rilievo prima, fino alla seconda metà del Quattrocento, e poi attraverso l’eredità culturale e, la memoria e forse la lunga durata stessa di alcuni insediamenti: da queste circostanze scaturì, come in parte abbiamo già osservato, una sorta di “mito genovese” presso le popolazioni locali, alcune delle quali rivendicano talvolta la loro “parentela”, se non la discendenza, dagli insediamenti liguri sparsi lungo le coste dell’antico “Mare Maggiore”.

 

Eppure, i genovesi non furono sempre particolarmente teneri con le genti di quell’area: furono tra i maggiori responsabili della tratta degli schiavi “bianchi”, slavi e circassi, verso Occidente, che ebbe termine proprio con la caduta dei loro insediamenti orientali. Una conseguenza negativa di ciò fu, secondo gli storici, l’apertura di nuove fonti di approvvigionamento di manodopera a costo zero, particolarmente richiesta nei nuovi territori transoceanici appena scoperti, attraverso lo sfruttamento schiavistico del continente africano.

 

Il “mito genovese” ha comunque assunto nell’area del Mar Nero aspetti talvolta singolari: è quasi un luogo comune ad esempio, come capita di leggere nei siti di divulgazione ma anche su pubblicazioni di maggiore attendibilità, che la produzione della vodka sia nata tra Ucraina, Polonia e Russia in seguito all’importazione, verso la fine del Trecento, di tecniche di distillazione trasmesse da mercanti e missionari genovesi alle popolazioni locali: non esiste che mi risulti prova alcuna di questa vicenda, che pure si trova di frequente menzionata e la cui narrazione ha ormai raggiunto la pubblicistica italiana, testimoniando se non altro la lunga durata e l’indiscutibile appeal della memoria della presenza genovese sul Mar Nero.

 

Nella prima metà dell’Ottocento essa arrivò addirittura a condizionare alcune linee della politica di espansione economica e commerciale europea in quelle regioni: la fondazione del porto di Odessa alla fine del Settecento, per iniziativa russa e col concorso progettuale ed economico di imprenditori italiani, spagnoli e soprattutto francesi, si associava all’idea di “risuscitare” la via terrestre genovese che attraverso la Georgia raggiungeva i mercati dell’Estremo Oriente, in modo da contrastare così lo strapotere marittimo degli Inglesi: essa fu caparbiamente propugnata da un viaggiatore, avventuriero e diplomatico marsigliese d’origine ligure, lo chevalier Gamba, che appoggiò volentieri le sue teorie alla memoria della presenza genovese nel Caucaso, talvolta associata, non senza qualche forzatura, a presunte simpatie francofile delle popolazioni locali.

Alla divulgazione in Occidente delle potenzialità e delle opportunità offerte dallo sfruttamento commerciale dell’area costiera nord-orientale del Mar Nero contribuì probabilmente un’altra figura ancora poco nota e alquanto pittoresca di commerciante e avventuriero genovese, Raffaele Scassi (1788-1840 ca.).

 

Raffaele apparteneva a una famiglia di mercanti originari di Arenzano, presso Genova, alla quale le importanti risorse economiche avevano garantito una rapida ascesa. Suo fratello Onofrio, medico illustre e scienziato, era stato membro del governo costituzionale che aveva tentato inutilmente la restaurazione della Repubblica dopo la caduta di Napoleone e aveva poi accettato di collaborare con la monarchia sabauda all’atto dell’annessione della Liguria al Regno di Sardegna, diventando sindaco di Genova.

 

Raffaele era stato invece fermamente contrario ai piemontesi. Voci ricorrenti gli attribuivano un ruolo di agente segreto presso le corti europee favorevoli all’indipendenza genovese durante la fase preparatoria del Congresso di Vienna, dopo il quale, in seguito al passaggio della Liguria ai Savoia, preferì lasciare il proprio paese mettendosi al servizio di Alessandro II, con l’entourage del quale era entrato in contatto. Lo zar, che all’epoca accoglieva volentieri tecnici, militari e operatori europei, lo nominò Consigliere Imperiale e gli affidò incarichi ufficiali nell’amministrazione russa in Ciscaucasia, col titolo di primo governatore, intorno al 1817, della provincia del Kuban recentemente sottratta agli Ottomani

 

Fondatore del porto di Kerc’ sulla punta orientale della Crimea, suo amministratore, promotore dello sviluppo commerciale di quell’area, Scassi, che non nascose mai le proprie nostalgie per la cessata indipendenza repubblicana di Genova e il proprio disappunto per il fatto che in Europa “la sola povera Liguria resti sotto il dispotismo” piemontese, appare nelle sue corrispondenze animato dalla volontà, “quantunque senza esistenza politica”, di “far risorgere una delle antiche nostre colonie di Mar Nero” e di “veder rinnovare quel gran commercio che ha prodotto tante ricchezze ai genovesi, e di veder risorgere le loro relazioni coll’interno dell’Asia”.

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La misteriosa sopravvivenza dei Genovesi d’Oriente dalla Crimea al Caucaso

 

Ci sono tanti modi per raccontare la lunga storia dei genovesi sulle coste del Mar Nero, e uno di questi consiste, giustamente, nel mettere in evidenza le sopravvivenze archeologiche, architettoniche e artistiche di tale presenza in luoghi che oggi ci appaiono remoti: le mura di Soldaia e di Caffa sono ancora lì, splendide e mute memorie di un lontano passato. Ma vi sono anche altre e consistenti tracce, per quanto immateriali, di queste antiche comunità.

 

Certo, la caduta di Caffa in mano ai turchi rappresentò, il 4 giugno 1475, una specie di replica di quella di Costantinopoli avvenuta ventidue anni prima, e le testimonianze dell’epoca, scritte in varie lingue, danno la misura di questo evento epocale: rapidamente, come in un castello di carte, la corona di stanziamenti genovesi della Tauride si dissolse, e i suoi abitanti seguirono destini diversi.

 

Tra i coloni liguri, alcuni riuscirono a “tornare” fortunosamente in una patria che molti di essi non avevano mai visto, ma una parte consistente subì la deportazione a Istanbul, dove venne loro assegnato un quartiere (Kefeli Mahalle) in cui i caffioti vennero lasciati liberi di riprendere le proprie attività commerciali, allo scopo di favorire lo sviluppo economico della nuova capitale ottomana: questa comunità si confuse progressivamente con i genovesi della Magnifica Comunità di Pera, che nel 1453 avevano accettato a loro volta la dominazione turca ottenendo la “protezione” del sultano. I suoi discendenti vivono ancora intorno alla vecchia torre genovese di Galata, dove costituiscono, insieme ad altri discendenti di europei, la sempre più esigua comunità cattolica “levantina”, oggi di lingua prevalentemente greca e francese.

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Liguria e Crimea

Ci s’ammazza, oggi come ieri, per un pezzo di terra, e se ne rivendica il possesso in nome di atavici diritti “nazionali”. Ci si dimentica spesso, così, che il fluire dei secoli ha visto continui mutamenti nel paesaggio umano di luoghi e di regioni, e che nessun popolo, probabilmente, è davvero autoctono della terra che abita.

 

La Crimea, le coste nord-orientali del Mar Nero. Sono Russe o ucraine? Andando indietro nel tempo, nulla di tutto ciò. La Crimea, ad esempio, ha ancor oggi una significativa minoranza di popolazione tartara, residuo di quella che fu per lunghi secoli la maggioranza degli abitanti del territorio. E da quelle parti, c’erano in un passato relativamente recente, nel tardo medioevo, armeni e greci, goti (sì, goti) ed ebrei; e ci furono a lungo i genovesi.

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El pibe de oro de los Xeneizes

 

Il legame di Maradona con l’Italia è stato, tutti quanti lo sappiamo, fortissimo, e rimane associato in particolare alla militanza partenopea del calciatore. Ma non va dimenticato che molti aspetti della sua leggenda sono strettamente connessi a un’italianità diversa e per certi aspetti più profonda, anteriore all’approdo di Diego alla squadra del Napoli: essi risalgono alla sua stessa origine argentina e al rapporto speciale che la nazione sudamericana, meta per circa un secolo, tra Ottocento e Novecento, di una massiccia immigrazione dall’Italia, intrattiene storicamente col nostro paese.

È ben noto infatti che circa la metà della popolazione ha oggi origini italiane, e che sotto diversi aspetti la cultura argentina nelle sue variegate manifestazioni (dalla lingua all’alimentazione, dalle arti alla musica e alla letteratura) risente in maniera fruttuosa di questo apporto.

In questo contesto, però, anche se Napoli e i Tanos (come vengono localmente definiti i Napoletani) hanno avuto un loro ruolo importante, ancor più significativa è stata l’influenza di un’altra cultura regionale e di un’altra città, Genova, per la elaborazione della cultura popolare della città di Buenos Aires, la metropoli e capitale del paese.

 

Manuel Belgrano e la bandiera biancoazzurra

 

Occorre del resto sottolineare come il peso avuto dall’immigrazione ligure nel paese sudamericano non fu tanto di carattere quantitativo (anche se dalla Riviera di Levante soprattutto presero la via delle America flussi numericamente consistenti di emigranti) quanto dovuto al fatto che i liguri furono i primi tra gli italiani a costituirvi comunità compatte. 

Già alla fine del Settecento in quelle che erano allora le spagnole Province del Plata i liguri erano numerosi, e tra essi figurano i genitori di uno degli eroi nazionali argentini, Manuel Belgrano, ideatore tra l’altro della bandiera biancoazzurra. Lo divennero ancor di più dopo il 1815, quando in molti, in polemica con l'annessione della Repubblica di Genova da parte della monarchia sabauda, abbandonarono il loro paese: sorse così, in particolare, la Boca di Buenos Aires, un sobborgo abitato esclusivamente da marittimi e pescatori liguri, destinato a diventare uno dei luoghi fondativi della cultura popolare rioplatense.

Proprio in relazione a questa presenza, già negli anni Trenta dell'Ottocento le relazioni dei consoli piemontesi sono ricche di riferimenti a «quei genovesi, che ostentavano una completa indifferenza, se non ostilità, verso gli agenti consolari sabaudi», dovuta soprattutto alla loro «antipatia nei confronti di casa Savoia, o al fatto di essere in molti casi criminali o disertori»: si trattava di una vera e propria «società di Genovesi determinati a contrariare la volontà del Governo del Re. Per dare a V.E. un’idea della popolazione genovese che risiede a Buenos Aires, mi sarà sufficiente dire che tra più di 5.000 individui che la compongono, sarà difficile trovare un cancelliere per il Consolato». Anzi, il povero diplomatico era persino costretto, quando li riguardavano, a far «tradurre i propri atti in lingua volgare genovese, per essere compreso» da quei sudditi riottosi.

D’altro canto, le testimonianze sull'uso del genovese nell’Argentina in quegli anni sono piuttosto numerose, e non soltanto alla Boca, dove già nel 1851 un viaggiatore «si sarebbe, per incantesimo illuso, udendo il genovese generalmente usatovi, di vivere sul litorale della solerte Liguria», ma persino lungo le grandi arterie fluviali dell'interno, dove «nei centri più importanti di popolazione […] dopo la lingua del paese, non si parla che in genovese, il quale suona un po’ imbastardito sulla bocca di barcaiuoli, di facchini, di tutta quella gente che si stringe insomma a’ panni del forastiero».

 

Il genovese della Boca

 

E la grande emigrazione doveva ancora cominciare: quando essa si fece più massiccia, nella seconda metà dell’Ottocento, essa arrivò a influenzare significativamente la stessa lingua del paese di adozione, come si rileva dalle numerose parole che lo spagnolo popolare di Buenos Aires (il lunfardo) ha preso in prestito,in particolare, dal genovese della Boca, nel quale era persino scritto un giornale fino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento.

Meno spesso si sente menzionare l’esistenza, accanto al genovese e al lunfardo, di un’altra varietà, la lengua giacumina, una delle forme della commistione tra i due idiomi entrati in contatto: era essenzialmente il risultato del tentativo dei genovesi di parlare a castiggia, ossia lo spagnolo, adeguandolo alla fonetica della loro lingua materna e infarcendolo di parole e locuzioni liguri. Qualcosa di simile fu in seguito il cocoliche nato dal contatto tra lo spagnolo e i dialetti italiani, soprattutto meridionali, di altri immigrati, ma l’antichità e la compattezza della comunità genovese spiega non solo il diverso nome, ma anche la precocità delle attestazioni scritte, al punto che si parla di una «literatura giacumina». Il curioso nome della lengua giacumina è anzi legato proprio alle sue fortune letterarie: si ispira infatti al titolo di un fortunato romanzetto di Ramón Romero, Los amores de Giacumina. Escrita per il hicos dil duoño di la fundita dil Pacarito (1887), che racconta le avventure della vivacissima figlia, appunto, di un immigrato ligure.

 

Il primo pibe fu Ernesto Lazzatti

 

A questo punto in molti si chiederanno cosa c’entrino queste vecchie storie di immigrati e di mescolanze di lingue con Maradona, l’uomo e il mito. Vediamo subito di scoprirlo.

In tanti conoscono, in particolare, il soprannome del calciatore, «El Pibe de oro», ma forse non tutti sono al corrente del significato, “ragazzo d’oro” e soprattutto dell’origine dell’espressione, che risale ai tempi della militanza di Maradona nel Boca Juniors e che Diego ereditò da un altro storico calciatore dell’equipo, Ernesto Lazzatti (1915-1988).

Ora il Boca, si sa, nacque nel 1905 proprio come club sportivo del quartiere genovese di Buenos Aires, tanto che i suoi sostenitori si fanno tuttora un vanto di quell’appellativo, los Xeneizes (“i genovesi”, con grafia un po’ eccentrica). Esso accomuna ormai da tempo i sostenitori della squadra indipendentemente dalla loro origine, ma in passato gli hinchas (tifosi) del Boca erano anzitutto gli argentino-liguri, e la memoria di questa primogenitura è rimasta a tal punto radicata nella memoria collettiva che il sito ufficiale dell’equipo ha avuto i suoi testi (oltre che in spagnolo e in inglese) anche in genovese.

Il rapporto tra lingua e tifoseria, in passato, era fortissimo: quando, anni fa, realizzai un documentario sulle vicende del genovese in America, intervistando proprio alcuni sostenitori del Boca, uno di loro me lo descriveva in questi termini, in un pittoresco miscuglio, ricordando le pittoresche esternazioni del pubblico sugli spalti: «tutta la familia vegniva a veder al Boca e parlà u zeneise; e paròlle ciü belle l’éan belinùn… e quande quarchedün u fava ina mala zügata, belinùn!, ghe gridàvun» (“tutta la famiglia accorreva ad assistere alle partite del Boca per parlare genovese; la parola più gentile [nei confronti dei calciatori] era belinun… e se uno di loro sbagliava il gioco, belinun, gli gridavano”).

 

Quel pivello di Diego Armando

 

Bene, a sua volta pibe, appunto, è riconosciuto da tutti gli studiosi di lessico argentino come un termine d’origine genovese, passato alla lengua giacumina e di qui al lunfardo come abbreviazione di pibete, pebete, adeguamento locale di pivetto che ha tuttora in Liguria valore scherzoso di “ragazzino, pivello”: è successo un po’, insomma, come tra i giovani d’oggi, che amano dire “raga” invece di “ragazzi”.

El pibe de oro, lo storico soprannome di Maradona, altro non è insomma che una delle decine di parole liguri penetrate nella conversazione quotidiana degli argentini e degli uruguayani, esattamente come la fainá e il menestrún sono presenti da tempo sulle loro tavole quali conseguenze di una presenza che, come si anticipava, ha contribuito in maniera significativa alla elaborazione della cultura popolare rioplatense. «Dale Boca, belín!»: dovunque sia ora, e spero finalmente in pace, a Diego Armando questo incitamento risuonerà per sempre nelle orecchie.

 

 

Bibliografia

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Devoto, F., Inventando a los italianos? Imágenes de los primeros inmigrantes en Buenos Aires (1810-1880), in «Anuario del IEHS», 7 (1992), pp. 121-135.

 

Fontanella de Weinberg, M. B., El español bonaerense: cuatro siglos de evolución lingüística (15801980), Buenos Aires, Hachette, 1987.

 

Galiñanes Gallén, M., La comicidad en Los genoveses somos así, in «Theatralia. Revista de poética del teatro», 22 (2020), pp. 269-280.

 

Gobello, J., Diccionario lunfardo, Buenos Aires, Peña Lillo Editor, 1982.

 

Marcato, C. (2009), Italianismi e dialettismi relativi al lessico alimentare in Argentina, in «Plurilinguismo. Contatti di lingue e culture», 16 (2009), pp. 153-160.

 

Meo Zilio, G. (1963-1964), Genovesismos en el español rioplatense, in «Nueva revista de filología hispánica», 17, 3-4 (1963-1964), pp. 245-263.

 

Toso, F.,  Xeneizes. La presenza linguistica ligure in America Meridionale, Recco, Le Mani, 2006.

 

Toso, F., I genovesismi nello spagnolo rioplatense. Alcune osservazioni, in Bombi, R. – Costantini, F. (cur.), Percorsi linguistici e interlinguistici. Studi in onore di Vincenzo Orioles, Udine, Forum, 2018, pp. 687-704.

 

Toso, F., O zeneise in America a-a giornâ d’ancheu. Voxe de l’Argentiña, do Perù e do Cile in «Lumina. Rivista di Linguistica storica e di Letteratura comparata», 3 (2019), fasc. 2-3, pp. 113-138.

 

Toso, F., Il mondo grande. Rotte interlinguistiche e presenze comunitarie del genovese d’oltremare. Dal Mediterraneo al Mar Nero, dall’Atlantico al pacifico, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2020.

 

Immagine: Grafiti de Diego Maradona en el barrio de La Boca, ciudad de Buenos Aires

 

Crediti immagine: Cadaverexquisito, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, attraverso Wikimedia Commons

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La perfetta. Soliloquio infame

 

Gualberto Alvino

La perfetta. Soliloquio infame

con un saggio introduttivo di Dino Villatico

Cosenza, La Mongolfiera, 2021

 

Il tema delle marginalità linguistica e della sua rappresentazione mi ha sempre affascinato, come affascina, credo, l’assoluta maggioranza dei linguisti; e talmente ampio e complesso è l’argomento, che non si può nemmeno sperare di poterlo riassumere nei suoi punti fondamentali, a partire dalla definizione del concetto stesso di marginalità secondo la percezione di chi si occupa di linguaggio.

 

C’è una marginalità diatopica ad esempio, che piace tanto ai dialettologi perché determina il conflitto costante, carico di implicazioni di ogni genere, tra la conservazione che nasce dalla mancata adesione ai modelli del centro motore di dinamismo e l’innovazione provocata dal contatto con l’alterità di codici differenti; c’è una marginalità diafasica, capace poi di assumere un proprio imprescindibile rilievo nello specifico spazio della comunicazione settoriale; c’è una marginalità diamesica che fornisce oggi abbondanti materiali a coloro che indagano sui sempre più labili confini tra oralità e scrittura; e c’è una marginalità diastratica, che può essere rappresentata dalla lingua dei “marginali” per estrazione sociale, ad esempio, o per classe di età, e che a sua volta si pone al centro, per così dire, di processi di identificazione e di auto-riconoscimento.

 

La morale è che ogni forma di marginalità linguistica ha in sé, a sua volta, caratteri di centralità in rapporto ai locutori, agli ascoltatori, al contesto discorsivo e così via: nulla di più marginale delle forme di espressione mediate da supporti elettronici in rapporto alle forme elaborate dell’oralità e della scrittura, ad esempio, ma nulla di più interessante e importante oggi del loro studio, quando si vogliano analizzare aspetti cruciali dell’evoluzione delle nostre esigenze comunicative e pronosticare le strategie destinate a soddisfarle.

 

Queste riflessioni sono (ri)sorte spontanee durante la lettura del «soliloquio infame» La perfetta, drammatizzazione che riprende la struttura monologica di un testo narrativo dello stesso autore, facendosi efficace «mimesi della narrazione», come ha scritto opportunamente Dino Villatico nel saggio introduttivo. E valgono anche in questo caso le avvertenze che Luigi Matt dedicava al romanzo del 2017, quando segnalava che «se il tassonomista della narrativa italiana contemporanea può senz’altro inserire Geco nel filone del romanzo della marginalità (quello che ha come padri putativi il Sanguineti di Capriccio italiano, il Lucentini di Notizie dagli scavi e il Celati di Comiche), dovrà però avere l'avvertenza di registrarvi una diversa resa stilistica, a cui è sostanzialmente estranea la riproduzione del parlato».

 

In La perfetta, infatti, lo sconnesso monologo di E, la protagonista, si svolge in una lingua che rimane sostanzialmente in bilico («in precario equilibrio» direbbe Matt) tra l’accorta costruzione che implica l’adozione del punto di vista dello scrittore e la libertà espressiva che è data dal fluire spontaneo di ricordi, invenzioni, pulsioni in cui l’autore si immerge nel momento in cui decide di dare voce a un personaggio a suo modo estremo, lontano dai convenzionalismi di quella rappresentazione del disagio alla quale ci hanno abituato molta narrativa e molta drammaturgia contemporanee, facili a cadere, se non nella commiserazione, in una rassicurante retorica dell’antiretorica. Tutto ciò implica appunto la centralità forte del linguaggio nella rappresentazione di un mondo (ogni personaggio letterario è un mondo, direbbe Borges) esplicitamente, vocazionalmente marginale.

 

Il fatto è che proprio l’irrinunciabile presenza dell’autore convoglia questo flusso narrativo in un argine ben delimitato, determinando a suo modo una stilizzazione del personaggio e una “trama”, circostanza che se proprio nulla sembra togliere alla veridicità (molto sgradevole, spesso) dell’io narrante, innalza pur sempre E a funzioni in qualche modo archetipiche, cogliendola in un segmento preciso del suo delirio, quello che all’autore interessa mostrare al suo pubblico, sia ciò per esigenza stilistica, per urgenza comunicativa o per soggiacente ambizione pedagogica.

 

Il disagio e la follia descritti nel monologo sono sì, dunque, espressioni di una marginalità di natura linguistica oltre che sociale, ma occorre guardarsi bene dal considerare La perfetta come un tentativo di rappresentazione priva di interpretazione e di interventi diretti, anche contundenti, da parte di chi si è assunto la responsabilità di riorganizzarli all’interno di uno schema narrativo: fa bene Villatico, in tal senso, a evocare Aristotele «quando scrive che la tragedia non è la realtà ma l’invenzione di una realtà possibile», ma mi sentirei di avvicinare a questo riferimento quello, per me non meno incombente, a Cervantes come artefice a sua volta di una follia plausibile e razionalmente concepita.

 

Spie di questo atteggiamento si colgono bene soprattutto nella lingua adottata dall’autore nella sua rappresentazione, per la quale, al di là dei riferimenti in certo qual modo imprescindibili ad alcuni illustri ascendenti (e Villatico cita correttamente Testori, Fo, Pasolini e soprattutto Gadda), occorre ancora una volta richiamarsi alla lettura fornita per Geco da Luigi Matt, nell’evocazione della ricorrente dissociazione tra «la raffinata cultura e l'emergere di modi plebei» quale si presenta, forse più ancora che in scelte lessicali tese a ricomporre efficacemente in senso unitario i cocci di un’esistenza in costante discesa, attraverso la costruzione della frase e del periodo, in cui nulla pare lasciato al caso, anche (o soprattutto?) quando si tratta di mimetizzare accuratamente, attraverso il ricorso a un andamento paratattico, la pur sempre presente sapienza letteraria e autoriale di Alvino.

 

Da qui la sensazione di trovarsi di fronte non solo a un testo sotto ogni aspetto (e va da sé) cólto, ma concepito come deliberata presa di distanza dalla natura “documentaria” che molta narrativa e drammaturgia contemporanee, a torto o a ragione, si arrogano. Soliloquio deliberatamente, provocatoriamente definito «infame», allora, meno per le forme del disagio e per le bassezze della protagonista che non per il suo porsi in alternativa, forse in aperta polemica, con una idea triviale di letteratura che spinge ai margini, appunto, esperienze raffinate come quella che abbiamo di fronte.

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Il genovese di Gibilterra

Con questo contributo sul genovese di Gibilterra si chiude il ciclo dedicato all’“italiano nelle comunità storiche da Gibilterra a Costantinopoli”, orchestrato per Lingua italiana-Treccani.it da Fiorenzo Toso in sedici “movimenti” – è il caso di dire –, da ovest a est, da nord a sud, in Europa, lungo le rive del Mediterraneo fin là dove il mare nostrum, superato prima lo stretto di Dardanelli come Mar di Marmara e poi il Bosforo come Mar Nero, va a cingere la penisola di Crimea. Movimenti che ci hanno consentito di attraversare luoghi vicini e lontani ma anche tempi, vicini e lontani, alla ricerca del segno della presenza linguistica dell’italiano e delle lingue italoromanze e della cultura degli esseri umani che hanno ereditato e diffuso i loro idiomi. Che sono anche nostri.

 

La storia dei genovesi di Gibilterra è un episodio poco noto delle grandi migrazioni nel Mediterraneo, e rimane intimamente legata alla presenza storica di altri nuclei di liguri lungo le coste del Levante spagnolo a partire dal tardo medioevo. Se nei principali porti mercantili tra Valencia e Cadice, già sull’Atlantico, questa presenza aveva riguardato, soprattutto dal Cinquecento, mercanti, armatori e banchieri legati ai grandi uomini d’affari implicati nell’alleanza tra la vecchia Repubblica e l’Impero, un popolamento più discreto e meno vistoso riguardò nel corso del tempo una serie di piccoli approdi e stazioni di pesca dove i rivieraschi si stanziarono all’indomani della reconquista del Regno di Granada.

Gibilterra era uno di questi, e quando ai primi del Settecento, con il trattato di Utrecht, la formidabile roccaforte che controlla l’accesso al Mediterraneo fu occupata dagli inglesi, una piccola comunità ligure era già presente. I nuovi venuti britannici, però, non si fidavano degli abitanti spagnoli della località, che furono costretti ad abbandonare le loro case e a trasferirsi nel retroterra: dovendo ripopolare il presidio, incentivarono proprio l’immigrazione di altri liguri, contando sul fatto che una popolazione civile di provenienza mediterranea e “neutrale” avrebbe potuto contribuire molto meglio di una colonia di anglosassoni o di irlandesi a sostenere il commercio, la pesca e una sparuta agricoltura in quel fazzoletto di terra.

In effetti fu così: nel giro di pochi anni i “genovesi”, per lo più rivieraschi, divennero l’assoluta maggioranza della popolazione, e malgrado i numerosi apporti successivi (di ebrei sefarditi, maltesi, spagnoli, arabi e successivamente immigrati da altre colonie britanniche) rappresentarono la maggioranza della popolazione fino almeno al primo terzo dell’Ottocento. Molti si stanziarono in via definitiva, diventando anche mercanti, fornitori navali o armatori. Altri praticavano una singolare migrazione stagionale, partendo dalla Liguria con le loro barche per praticare nelle acque locali la pesca delle acciughe per la quale fruivano di particolari agevolazioni. È questa in particolare l’origine di villaggio di pescatori, La Caleta, piccola frazione isolata sulla costa orientale dell’esiguo territorio britannico (5 kmq.) dove i visitatori possono vivere la singolare impressione di trovarsi dalle parti di Varigotti o di Laigueglia.

 

Lo yanito, una lingua di bandiera

 

L’emigrazione ligure continuò a lungo, con incrementi notevoli soprattutto nel periodo napoleonico e dopo l’annessione della Repubblica di Genova al Regno di Sardegna, nel 1815. Alcuni villaggi della Riviera di Ponente, come il Portigliolo vicino a Varazze, si spopolarono definitivamente per il trasferimento a Gibilterra dei loro abitanti ancora alla fine dell’Ottocento.

I rapporti con gli inglesi furono sempre buoni: la popolazione civile della colonia si amministrava in maniera autonoma rispetto al presidio militare, e la comunità ligure esprimeva anche una propria polizia, la “Genoese Guard”; tra Sette e Ottocento si ha notizia di ordinanze emesse in inglese, spagnolo e genovese dal governatore del presidio, e di scuole in lingua italiana che garantivano almeno l’alfabetizzazione primaria. L’uso del genovese è molto ben documentato fino ai primi del Novecento, quando diverse testimonianze di viaggiatori e marittimi danno come un fatto scontato e assolutamente normale che la popolazione locale si esprimesse facilmente in tale lingua.

Tuttavia, complice l’istruzione scolastica che divulgava l’inglese, lingua ufficiale e necessaria anche alla comunicazione tra le varie etnie presenti sul territorio, e l’immersione di Gibilterra in un contesto prevalentemente ispanofono, era ormai da tempo in gestazione la singolare parlata che caratterizza oggi la comunità gibilterrana, il cosiddetto “yanito”, una denominazione di volta in volta riferita proprio alla frequenza del nome proprio Gianni (Giovambattista) tra i genovesi, o all’aggettivo spagnolo “llanito” nel senso di ‘lingua semplice, scorrevole’.

Gli “yanis” gibilterrani, come chiamano se stessi, amano affermare orgogliosamente l’originalità di questo idioma, anche per ribadire la propria diversità dagli spagnoli del retroterra, con i quali i rapporti, soprattutto ai tempi della dittatura franchista, non sono mai stati del tutto sereni. La Spagna non ha mai cessato di chiedere la restituzione di Gibilterra, la popolazione ha sempre oscillato tra la fedeltà incondizionata al Regno Unito (dal quale fruisce di molte agevolazioni) e velleità di indipendenza: dopo la Brexit le cose si sono fatte ancora più complicate.

È anche per questo che lo “yanito”, che è fondamentalmente uno spagnolo andaluso con forti tratti dialettali continuamente infarcito di locuzioni e termini inglesi e con una significativa componente lessicale genovese, maltese, araba e italiana, viene insistentemente proposto come “la lingua di Gibilterra”, praticata con orgoglio a livello orale, sui social e nelle trasmissioni locali.

 

La Riviera alla Caleta

 

È difficile stabilire con certezza, invece, quando si sia definitivamente perso l’uso del genovese locale, che aveva (per quel che mi è stato possibile ricostruirlo) una decisa componente varazzese. Un episodio che contribuì alla sua perdita fu, a quanto pare, il trasferimento forzato della popolazione civile gibilterrana nell’isola portoghese di Madeira, durante la Seconda guerra mondiale, per metterla al sicuro dai bombardamenti italiani e tedeschi: fu una specie di trauma collettivo che indebolì molto il tessuto comunitario, anche se si ha notizia che al loro rientro i gibilterrani erano ancora in larga misura in grado di conversare in genovese con i prigionieri di guerra italiani.

Sicuramente, però, alcuni anziani ancora negli anni Ottanta del secolo scorso parlavano genovese alla Caleta, il borgo di pescatori rimasto più fedele alle tradizioni liguri: lì può capitare di mangiare il pesto, il minestrone e il “pandulce” tipici della Riviera, mentre la farinata di ceci, altro cibo ligure per eccellenza, è diventato addirittura una sorta di piatto nazionale gibilterrano col nome di “calentita”, in omaggio al fatto che va consumata bollente.

Indubbiamente la varietà di yanito parlata alla Caleta è quella che conserva meglio una vistosa eredità lessicale ligure: se tutta Gibilterra, esattamente come in Liguria, chiama “carrullo” il vicolo, “camalo” il facchino, “tuco” il sugo di carne, “grita” il granchio, “corba” la cesta” o “lala” e “barba” la zia e lo zio, solo alla Caleta può infatti capitare di sentire i pescatori del posto usare una complessa terminologia nautica che descrive sostanzialmente in genovese le diverse parti della barca, o una nomenclatura dei pesci e degli altri animali marini ancora pressoché identica a quella che si sente tra Varazze e Celle Ligure.

 

Originalità e genovesità

 

A questa componente lessicale gli “yanis” in generale e i “caleteños” in particolare sono molto affezionati come riflesso di un’origine che rivendicano tenacemente anche per sottolineare la propria originalità nei confronti dagli inglesi non meno che dagli andalusi: rispetto ai primi, i gibilterrani si professano volentieri piuttosto “británicos” (dicendolo così, in spagnolo), eredi di un passato imperiale, e lo fanno soprattutto, un po’ paradossalmente, quando portano cognomi dalle inequivocabili assonanze rivierasche come Parody (il primo cognome genovese del posto, ancora al nono posto tra i più diffusi a Gibilterra), Baglietto, Danino, Robba, Ferrari, Porro, Bozano, Cavilla, Rapallo o (mi lusinga dirlo, malgrado l’indebito raddoppiamento consonantico) Tosso.

Quale che sia il destino futuro di quest’ultimo scampolo d’oltremare britannico (l’ultimo territorio coloniale europeo, dicono gli spagnoli, una gemma della corona, sostengono gli inglesi, un posto meravigliosamente unico affermano orgogliosamente gli “yanis”), la genovesità è una componente essenziale, e particolarmente palpabile, della cultura e dell’identità locale, intimamente implicata, anche dal punto di vista linguistico, nella costruzione di una pervicace originalità.

 

Bibliografia

 

ARCHER, E., Gibraltar. Identity and Empire, London-New York, 2006

ARCHER, E. – VALLEJO, E.P. – BENADY, T., Catalan Bay, Gibraltar, 2001

CAVILLA, M., Diccionario Yanito, Gibraltar, 1978

DÍAZ HORMIGA, M.T., La situación intercultural e interlingüística de Gibraltar, in CALVO PÉREZ, J. (cur.), Contacto interlingüístico e intercultural en el mundo hispano, València, 2001, vol. I, pp. 91-112

KRAMER, J., English and Spanish in Gibraltar, Hamburg, 1986

TOSO, F.,  L’onomastica d’origine ligure a Gibilterra, in «Estudis Romànics», 22 (2000), pp. 83-100

TOSO, F., Obsolescenza linguistica e sopravvivenze lessicali: La Caleta a Gibilterra, in «Plurilinguismo. Contatti di lingue e culture», 14 (2007), pp. 295-317

TOSO, F., Linguistica di aree laterali ed estreme. Contatto, interferenza, colonie linguistiche e «isole» culturali nel Mediterraneo occidentale, Recco, 2008

TOSO, F., Il mondo grande. Rotte interlinguistiche e presenze comunitarie del genovese d’oltremare. Dal Mediterraneo al Mar Nero, dall’Atlantico al pacifico, Alessandria, 2020

 

Le puntate del ciclo Europa e Mediterraneo d'Italia. L'italiano nelle comunità storiche da Gibilterra a Costantinopoli, a cura di Fiorenzo Toso.

 

Introduzione: Le lingue d'Italia fuori d'Italia, di Fiorenzo Toso

1. Il monegasco del principato di Monaco, di Fiorenzo Toso

2. Le lingue d’Italia a Nizza e nel Nizzardo, di Fiorenzo Toso

3. L’italiano della Svizzera di lingua italiana, di Laura Baranzini e Matteo Casoni

4. L’italiano nel Cantone dei Grigioni: una duplice minoranza linguistica, di Maria Chiara Janner e Vincenzo Todisco

5. L’italiano in Slovenia, di Anna Rinaldin

6. L’italiano in Istria e Dalmazia, di Anna Rinaldin

7. Italiano lingua di cultura nei Balcani occidentali, di Anna Rinaldin

8. Italiani in Romania. Breve storia, di Elena Pîrvu

9. La Repubblica di San Marino, di Fabio Foresti

10. Gli italiani di Crimea, di Marco Brando

11. I Levantini, la più antica comunità storica italofona all’estero, di Fiorenzo Toso

12. Gli italiani di Tunisia, di Marinette Pendola

13. Bonifacio, un’isola nell’isola, di Fiorenzo Toso

14. La lingua dei còrsi: il volto di un’isola, di Francescu Maria Luneschi

15.L’italiano, lingua ufficiale di Malta per quattro secoli. Europa e Mediterraneo d’Italia. L’italiano nelle comunità storiche da Gibilterra a Costantinopoli, di Giuseppe Brincat

 

Immagine: Boccadasse e Vernazzola viste dallo scoglio dei Mille a Quarto

 

Crediti immagine: GrazianoU, CC BY-SA 3.0 <http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/>, via Wikimedia Commons

 

 

 

 

 

 

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Li sonetti de Shakespeare

Luigi Giuliani

Li sonetti de Shakespeare

Foligno, 101 edizioni, 2020

 

 

Ecco: ste rime mia so’ l’eloquenti

e mmute messaggere de sto petto

che ssanno chiede amore de ppiù e mmejo

de chi dde verzi n’ha ggià ddetti troppi.

 

In tempi difficili “di strade in questi giorni deserte come dovevano esserlo quelle della Londra flagellata dalla peste” alla fine del Cinquecento, Luigi Giuliani, docente di letteratura spagnola all’Università di Perugia, pubblica una traduzione integrale dei sonetti di William Shakespeare in dialetto romanesco (Li sonetti de Shakespeare, Foligno, 101 Edizioni 2020, pp. 329).

La specularità data dalla traduzione, certificata dalla presenza del testo a fronte originale, potrebbe dunque apparire come la metafora di una consonanza tra tempi, luoghi e situazioni, complice la classicità dei testi proposti, che annulla in certo qual modo (nel momento stesso in cui, come diremo, può accentuare l’impressione di straniamento) la distanza cronologica tra la data di composizione e quella di trasposizione.

Tuttavia, in questo caso, il passaggio da un codice all’altro non implica soltanto, come è comune aspirazione del traduttore, un riflesso per quanto possibile fedele delle forme e dei contenuti originali, bensì un gioco di specchi assai più complesso, che è dato dal dialogo a distanza tra due codici – l’inglese elisabettiano e il romanesco contemporaneo – che si collocano per molti aspetti su due piani estremamente diversi.

Tradurre con intendimenti artistici da una lingua dichiaratamente “alta” (o divenuta tale, per lo meno, nella nostra percezione) a una lingua che per usi e tradizione, anche letteraria, si considera connaturatamente “bassa”, pone problemi e rispecchia esigenze diverse da quelli che accompagnano la stessa operazione quando si svolge tra due idiomi che si collocano sullo stesso livello di elaborazione; così del resto l’operazione inversa, come sa bene Giuliani stesso, autore della versione in spagnolo di un’ampia scelta di sonetti belliani.

La traduzione “da lingua a dialetto”, in particolare, non è mai operazione ideologicamente neutrale: lo aveva sottolineato bene Angelico Gazzo, ad esempio, traduttore in genovese della Commedia dantesca (1909), motivando la fatica del tradurre, ad esempio “per un ben inteso orgoglio nazionale, per soddisfazione e diletto. […] Per un lusso, se vuolsi, o per esercizio intellettuale, per provare la grazia e vigoria di un idioma; tanto più quando il si voglia vindicare da immeritati vilipendi, da stolti pregiudizii, e farlo conoscere qual esso è; oppure per ingentilirlo e piegarlo a tutte le concezioni della mente, allenarlo ai più alti voli della fantasia”.

Ma se con questi presupposti il traduttore ligure intendeva proporre una versione tale da confermare il genovese nel suo ruolo di “lingua romanza o neolatina come e quanto le altre, svoltasi secondo la propria indole e vivente di vita propria”, Giuliani sembra piuttosto alla ricerca di una soluzione al dilemma personale di come rendere in una forma coinvolgente degli originali che per la loro stessa natura di “classici” rischiano ormai, nella trasposizione in italiano corrente, di apparirci irrimediabilmente distanti.

Nessun intento nobilitante dell’idioma in cui ha tradotto, allora, si rinviene nel lavoro di Giuliani, quanto l’esigenza di restituire freschezza e nitore a quella di uno dei più bei canzonieri d’amore del Rinascimento europeo, penetrando all’interno di essa, in profondità, per ricavarne l’essenza vitale dalla quale scaturiva allora e ancor oggi scaturisce l’emozione: un’esigenza anche questa, come ben si vede, tutt’altro che inoffensiva.

Va però sgombrato il campo da un equivoco ricorrente, quello dell’espressività come “qualità” consustanziale al dialetto, che Giuliani opportunamente ripudia nel suo rifarsi, certo, all’oralità, a una “miniera di un patrimonio lessicale, morfologico e sintattico ancora in uso”, ma tenendo ben d’occhio “la papale itterizia del Belli (Pasolini dixit), la rocciosità delle ottave di Dell’Arco, la ‘cortellezza d’èsse nisuni’ di Marè”: la tradizione, in sostanza, di quella letterarietà del romanesco che è raffinatissima proprio nella sua capacità di stilizzare il dato espressivo, con una efficacia che va molto al di là delle “eccessive neoplasie gergali” di quello che si sente talvolta definire il romanesco ‘di terza fase’.

Ne consegue un’intensificazione, in molti casi, un aumento della tensione emotiva già presente nei testi originali, che elude tuttavia brillantemente un altro rischio che è tipico, come quello della ipercaratterizzazione nobilitante professata dal Gazzo, nella traduzione in un codice diastraticamente connotato verso il basso: quello della destrutturazione faceta o, peggio, della parodia, tentazione ricorrente persino in quella temperie “neodialettale” i cui esponenti pure ambiscono, come tendenza generale, a superare i limiti nei quali si collocano, o vengono abitualmente collocati, strumenti linguistici dei quali si predica l’inadeguatezza a sostenere, senza scivolare nel ridicolo, contenuti e messaggi dichiaratamente “alti”.

In questo modo, come ha scritto Massimo Arcangeli in una bella recensione al volume (Il Messaggero, 28 dicembre 2020), “il vernacolo scritto da Giuliani, a mezzo tra la finzione artistica e un solido ancoraggio al reale, “spicca per un’ibridata, magmatica, attardata e un po’ artefatta, e pur tuttavia fascinosa, composizione interna”, che accentua, se vogliamo, la componente barocca insita nella lingua di Shakespeare, con ulteriori esiti di attualizzazione. Ad esempio, nel momento in cui lo sforzo di comprimere nell’orizzonte idiomatico prescelto i significati dei testi originali li fa letteralmente esplodere, invece, in un efficacissimo espressivismo sonoro, che dà ragione dell’avvertimento dell’autore di trovarci di fronte a testi “da leggere a voce alta, da recitare prestando un corpo alla voce di un poeta che vive intensamente l’amore, irride beffardo i propri rivali o medita sbigottito sui mali del mondo”:

Co ’na  ‘nticchia d’ajuto tuo galleggio

mentre quello sull’onne va a passeggio;

io, si mme schianto, so’ un relitto scrauso

mentre quello è un vascello de gran preggio.

Ma er peggio è cche ss’io affonno e llui veleggia

st’amore cià la corpa der naufraggio.

 

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Bonifacio, un’isola nell’isola

 

Nel 1768, all’indomani degli accordi di Compiègne, quando cominciarono a circolare le prime voci relative all’imminente “affidamento” della Corsica alla Francia, il Senato genovese si vide recapitare una lettera del Consiglio Comunitativo di Bonifacio con la quale, preoccupati per la notizia “che debbano quanto prima disbarcare in questa isola 22 battaglioni di truppe francese […] e prendere il totale governo del regno”, gli amministratori bonifacini imploravano dal governo della Repubblica la “esclusione di una sì generica determinazione della quale questa fidelissima colonia è ben meritevole, […] sì come non ha avuto né ha niente in comune con i Corsi”.

 

I Bonifacini non si rassegnavano

 

Gli abitanti di Bonifacio si chiamavano fuori dal passaggio della Corsica alla Francia, insomma, sostenendo che la loro “colonia” (così la definivano ancora a seicento anni dalla fondazione!) dovesse considerarsi una sorta di appendice ligure sull’isola, come tale del tutto estranea ai problemi e alle vicende del restante territorio. Gli episodi successivi di resistenza passiva alla presa di possesso da parte dei Francesi non sono meno indicativi dello stato d’animo dei Bonifacini. Portato all’esasperazione, nel 1771 il marchese di Monteynard, responsabile per gli affari di Corsica, era costretto a rivolgersi agli amministratori locali per ribadire come “bisogna che i bonifacini si rassegnino a considerarsi sudditi del re come tutti gli altri abitanti della Corsica, oppure che scelgano di andarsene dall’isola”.

 

Una sorta di città-Stato

 

La storia di questa bellissima cittadina all’estremo sud della Corsica, eretta su una falesia che domina lo stretto delle Bocche di fronte alla Sardegna e che circoscrive il piccolo fiordo che ne ospita il porto è costellata di episodi del genere: le cause del particolarismo bonifacino sono legate alle origini stesse dell’insediamento. Il territorio, già popolato in epoca preistorica, fu occupato nel IX secolo dai Pisani.

Passata a Genova nel 1195, la città fu ampliata e ripopolata con 1200 famiglie di volontari provenienti per lo più dalla Riviera di Levante, alle quali vennero garantiti significativi privilegi e un’ampia autonomia comunale: in virtù di essa i Bonifacini avevano diritto di battere moneta, di eleggere i propri rappresentanti – responsabili direttamente davanti al potere centrale e non al governatore genovese di Corsica – ed erano esentati dai tributi. Fino al 1768 Bonifacio si resse quindi come una sorta di città-stato, una repubblica autonoma che basava la propria economia soprattutto sul commercio e la pesca e poi sull’agricoltura e su altre risorse.

La posizione strategica della città ne fece l’oggetto di memorabili assedi, da parte di Alfonso d’Aragona dal 15 agosto 1420 al 5 gennaio 1421, poi, nel quadro del sostegno dato da quelle potenze ai ribelli còrsi, nel 1523 a opera ancora dei Còrsi, dei Francesi e dei Turchi, che infine la misero a sacco. Caratteristica costante della storia di Bonifacio fu sempre, quindi, la separazione rispetto resto della Corsica. Anche quando nel 1528 una pestilenza ne decimò gli abitanti, che ammontavano allora a forse 5000 unità, Bonifacio fu nuovamente popolata da elementi provenienti dalla Liguria, e fu soprattutto all’inizio dell’Ottocento, quando il centro conobbe un discreto rilancio come porto mercantile e peschereccio, che diverse famiglie d’origine còrsa cominciarono a integrarsi con la popolazione originaria.

Al contempo un discreto apporto demografico, nel quartiere della Marina, venne offerto anche dall’immigrazione di pescatori d’origine italiana meridionale, soprattutto napoletani, ponzesi e siciliani che assunsero rapidamente, a loro volta, la parlata genovese.

 

Il genovese arcaico

 

Oggi Bonifacio ha una popolazione di circa 3000 abitanti e un’economia basata principalmente sul turismo. La popolazione di Bonifacio, anche quella di più recente immigrazione, ha mantenuto una viva coscienza della propria specificità, che si manifesta in numerosi aspetti del folklore, dell’alimentazione, della pratica religiosa e della mentalità collettiva. Sebbene assai meno conflittuali di un tempo, i rapporti con gli abitanti del retroterra permangono così all’insegna di un certo distacco, che si manifesta nella volontà di mantenere per quanto possibile viva la specificità culturale e linguistica della città.

A Bonifacio infatti si è continuato a parlare il genovese arcaico importatovi all’atto del popolamento medievale, solo in parte “aggiornato” per i successivi apporti rivieraschi, per la propria evoluzione interna e per il contatto con le parlate còrse meridionali: si tratta dell’ultimo esempio delle parlate liguri che si praticarono nei principali centri costieri dell’isola, che se hanno lasciato tracce consistenti nel dialetto di Ajaccio e in quello di Calvi si sono per il resto estinte o “confuse” ormai da tempo con i dialetti locali. Il rapporto del bonifacino col panorama linguistico italoromanzo è quindi diverso da quello che, come vedremo, riguarda la lingua còrsa nelle sue varietà: si tratta di un caso di estremo interesse per lo studio delle varietà liguri, ma anche dei fenomeni sociolinguistici che determinano la sopravvivenza di una varietà “trapiantata” al di fuori del suo contesto d’origine, per quanto oggi il dialetto locale appaia sempre più votato a un progressivo declino.

 

Tentativi di rivitalizzazione

 

L’influsso del francese e della stessa varietà còrsa localmente parlata hanno ridotto drasticamente il numero dei locutori, stimati oggi in circa 150 e per lo più anziani, e ciò malgrado le iniziative di recupero che vengono portate avanti nel contesto generale delle attività di promozione e rivitalizzazione del patrimonio linguistico tradizionale della Corsica: fin dagli anni Novanta del secolo scorso, raccogliendo anche l’invito dell’associazione locale “Dighi di scè” due docenti bonifacini dell’Università di Corte, Jean-Marie Comiti e Alain Di Meglio, in particolare, si sono prodigati molto in tal senso, il primo realizzando una grammatica a uso delle scuole locali, il secondo associando all’attività di ricerca una importante opera di divulgazione della tradizione poetica e canora locale, raccogliendo in ciò l’eredità del padre, Cyprien, uno dei primi a fare un uso artistico scritto del bonifacino. Il bonifacino è del resto oggetto di attenzione anche da parte degli studiosi di linguistica ligure e còrsa, ad esempio attraverso il suo inserimento nella rete del “Nouveau Atlas Linguistique de Corse” diretto da Stella Medori.

 

Tra carrugi e ciazze

 

Certo, aggirandosi per i “carrugi” e le “ciazze” del centro storico l’impressione di trovarsi in un angolo della Riviera ligure è dato, più che dalle sonorità di una parlata che si ascolta sempre più di rado, dalle caratteristiche ambientali e architettoniche di questa singolare “isola nell’isola”, ma è viva la consapevolezza che proprio nella lingua si manifesta al meglio l’eredità di una storia singolare, elemento costitutivo dell’unicità locale e al tempo stesso della specificità còrsa nel suo insieme: sensibilizzare la popolazione locale e rafforzare in essa la consapevolezza dell’originalità della parlata, facendone ad esempio uno strumento di comunicazione “visibile” attraverso la toponomastica, la cartellonistica informativa, le proposte artistico-musicali, sembra al momento la strategia più efficace per preservarla, per quanto possibile, almeno dal punto di vista memoriale.

 

Riferimenti bibliografici

 

Comiti, J.-M. (1994), Bunifazziu e a sé lengua, Aiacciu.

 

Dalbera, J.-P. (1987), À propos du dialecte bonifacien et de sa position dans l’aire linguistique ligurienne, in «Études corses», 29, pp. 89-114.

 

Di Meglio, A. (2005), Le bonifacien dans le contexte de la polynomie corse, in «Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata», n.s., 34, pp. 449-462.

 

Mattei, J. (2020), À Bonifacio, le crépuscule de la langue aux «150 locuteurs», in “Le Point”, 20/10/2020.

 

Serpentini, A.-L. (1995), Bonifacio. Une ville génoise aux temps modernes, Ajaccio.

 

Toso, F. (2008a), Linguistica di aree laterali ed estreme. Contatto, interferenza, colonie linguistiche e «isole» culturali nel Mediterraneo occidentale, Recco, 2008.

 

Toso, F. (2008b), Aspetti del bonifacino in diacronia, in «Bollettino di Studi Sardi», 1, pp. 147-177.

 

Le puntate del ciclo Europa e Mediterraneo d'Italia. L'italiano nelle comunità storiche da Gibilterra a Costantinopoli, a cura di Fiorenzo Toso.

 

Introduzione: Le lingue d'Italia fuori d'Italia, di Fiorenzo Toso

1. Il monegasco del principato di Monaco, di Fiorenzo Toso

2. Le lingue d’Italia a Nizza e nel Nizzardo, di Fiorenzo Toso

3. L’italiano della Svizzera di lingua italiana, di Laura Baranzini e Matteo Casoni

4. L’italiano nel Cantone dei Grigioni: una duplice minoranza linguistica, di Maria Chiara Janner e Vincenzo Todisco

5. L’italiano in Slovenia, di Anna Rinaldin

6. L’italiano in Istria e Dalmazia, di Anna Rinaldin

7. Italiano lingua di cultura nei Balcani occidentali, di Anna Rinaldin

8. Italiani in Romania. Breve storia, di Elena Pîrvu

9. La Repubblica di San Marino, di Fabio Foresti

10. Gli italiani di Crimea, di Marco Brando

11. I Levantini, la più antica comunità storica italofona all’estero, di Fiorenzo Toso

12. Gli italiani di Tunisia, di Marinette Pendola

 

Immagine dell’autore

 

 

 

 

 

 

 

 

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I Levantini, la più antica comunità storica italofona all’estero

 

A chi visita Istanbul per turismo o per lavoro può succedere, trovandosi sotto la grandiosa torre genovese che domina il Corno d’Oro dalla collina di Galata, di imbattersi in piccoli gruppi di anziani dall’aria inequivocabilmente «locale» che discorrono tra loro in francese, lingua che capita anche di usare in alcuni negozietti dei dintorni o in qualche locale della Istlikal Caddesi, la vecchia Rue Grande de Péra, arteria centrale di quel settore a se stante della metropoli turca. In qualche caso, attaccando discorso, si passa poi dal francese a un italiano più o meno fluente. Questi turchi «europei» sono gli ultimi rappresentanti della più antica comunità storica italofona esistente all’estero, i Levantini, discendenti più o meno diretti delle comunità mercantili insediatesi già a partire dal XII secolo nella capitale dell’Impero Bizantino e sulle rive del Bosforo.

 

I Genovesi di Pera

 

Più in dettaglio, la storia di questa comunità assunse continuità storica a partire dal 1267, quando, passato sotto il controllo genovese in seguito al trattato del Ninfeo (che escludeva dal commercio nel Mar Nero i Veneziani) il sobborgo di Costantinopoli a nord del Corno d’Oro finì per rappresentare per quasi due secoli un’enclave nel cuore stesso dell’Impero, in cui la popolazione «latina» si governava con statuti propri, in autonomia anche rispetto allo stato genovese. Nel giugno 1453, a pochi giorni dalla capitolazione di Costantinopoli (durante la quale, a differenza della madrepatria, si erano mantenuti neutrali) i Genovesi di Pera, accettando la protezione personale del Sultano, videro confermati i loro privilegi e la libertà di professare il culto cattolico: nasceva così la Magnifica Comunità di Pera, dotata di propri organi deliberativi anche se collocata sotto la giurisdizione di un voivoda ottomano. Le convenzioni furono rinnovate a più riprese fino al 1682, estendendosi gradualmente agli altri Europei che si stabilivano in questo sobborgo cosmopolita, caratterizzato anche dalla presenza di comunità ebraiche, greche, armene, musulmane, destinato col tempo a diventare la sede delle rappresentanze diplomatiche occidentali.

 

La casaccia dei Peroti

 

È difficile dire quanto a lungo l’uso del genovese si sia conservato, considerando che la variegata comunità cattolica andò rapidamente ricomponendosi e rifondendosi in un unico gruppo, i cui membri furono poi conosciuti in Occidente col nome, appunto, di Levantini. È vero però che ambascerie e testimonianze di viaggiatori documentano, nei secc. XVII e XVIII, la sopravvivenza di una specifica componente «genovese»: nel 1618 Pietro Della Valle, sottolineava come a Pera «infin’hora vi sono, delle reliquie loro, alcune famiglie che, se ben d’habito e di costumi grecheggiano, ritengono con tutto ciò infin’hoggi il rito latino della religione e la lingua italiana, insieme con la greca e con la turca, che quasi tutti sanno parlare». Se c’è da chiedersi, naturalmente, cosa si debba intendere qui per «lingua italiana», la tendenza all’ellenizzazione pare confermata qualche anno prima (1610) dall’inglese George Sandys, che parla dei dragomanni (interpreti) peroti come di «Greeke Genoeses»; ma nel 1667 il primo ambasciatore genovese a Istanbul ricevette manifestazioni «affettuosissime» di simpatia dai Peroti, che avrebbero voluto ascriverlo alla loro confraternita, che conservava il titolo genovese di casaccia.

 

«L’or c’est le français, l’argent, l’italien, le bronze, c’est le grec»

 

Il passaggio dal genovese a un utilizzo prevalente dell’italiano come lingua comunitaria e nelle relazioni con l’esterno fu favorito in ogni caso dall’esigenza di disporre di un codice comune all’intera popolazione cattolica latina e dall’importanza che l’italiano stesso, grazie al ruolo di mediazione culturale svolto proprio dai Levantini, andò assumendo nel quadro delle relazioni tra l’Impero Ottomano e l’Occidente fin oltre il Settecento. Storicamente, i Peroti vennero quindi rappresentati come genericamente «italofoni», anche se in epoca più recente i Levantini finirono per praticare prevalentemente il francese nelle relazioni esterne, per l’accresciuto prestigio internazionale di questa lingua, e il greco negli usi quotidiani, pur ritenendolo un idioma dotato di minore prestigio: da qui il detto locale «l’or c’est le français, l’argent, l’italien, le bronze, c’est le grec». Anche nell’Ottocento, secolo che pure vedrà il definitivo consolidarsi del francese come lingua delle relazioni sociali anche all’interno della comunità, l’italiano continuerà a essere praticato, grazie soprattutto ripresa dei contatti con la Penisola. Già all’inizio del secolo infatti, con l’apertura di una sede consolare sabauda (1815), i vecchi Levantini e i nuovi immigrati provenienti dall’Italia cominciarono a percepirsi come un unico gruppo «nazionale»: un’intensa attività di promozione fu svolta in tal senso dal console Ludovico Sauli, di antica famiglia genovese, che si prodigò per il recupero della memoria storia della vecchia comunità perota. Al 1839 risale la fondazione della locale Associazione Commerciale Artigiana di Pietà, il cui statuto è ancora redatto in lingua italiana.

 

De Amicis: «un italiano bastardo»

 

Nel 1877, visitando Costantinopoli, Edmondo De Amicis fu tuttavia sferzante nei confronti delle abitudini linguistiche della comunità: «Un accademico della Crusca che li sentisse, si metterebbe a letto colla terzana. La lingua che formerebbero mescolando il loro italiano un usciere piemontese, un fiaccheraio lombardo e un facchino romagnolo, credo che sarebbe meno sciagurata di quella che si parla in riva al Corno d’Oro. È un italiano già bastardo, screziato d’altre quattro o cinque lingue alla loro volta imbastardite. E il curioso è che, in mezzo agl’infiniti barbarismi, si senton dire di tratto in tratto, da coloro che hanno qualche coltura, delle frasi scelte e delle parole illustri, come dei puote, degli imperocchè, degli a ogni piè sospinto, degli havvi, dei puossi; ricordi di letture d’Antologia, colle quali molti di quei nostri buoni compatrioti cercano, nei ritagli di tempo, di rifarsi la bocca al toscano parlar celeste. […] È lingua, se si può chiamar lingua, quasi esclusivamente parlata, se si può dir parlata […]. Letteratura italiana non ce n’è».

Le valutazioni dell’«umanitario» De Amicis suonano però ingenerose: in realtà, a partire dagli anni ’70 dell’Ottocento (ma soprattutto durante gli anni ’80 e ’90 del secolo) si tentava di rivitalizzare la lingua italiana attraverso l’iniziativa di istituzioni consolari, religiose e private: non a caso le scuole italiane locali, dalla primaria al liceo, sono una realtà tuttora attiva, malgrado le crescenti difficoltà di gestione, e in grado di attrarre anche studenti che appartengono ad altre comunità linguistiche.

 

Galata

 

Nel suo diario di viaggio De Amicis sottolineava poi come a Galata, accanto al francese e all’italiano «da tutte le parti si sente parlar […] genovese. Qui i Genovesi sono quasi in casa propria, e si danno ancora un po’ d’aria di padroni, come quando chiudevano il porto a loro piacimento, e rispondevano col cannone alle minaccie degl’Imperatori». Più che a una sopravvivenza dell’antica parlata perota, però, tale circostanza doveva essere conseguenza della più recente immigrazione dall’Italia e, all’interno di essa, soprattutto nell’ambito mercantile e portuale, di una massiccia presenza ligure legata come altrove (Tunisi, Gibilterra, Buenos Aires) all’emigrazione politica successiva all’annessione al Regno di Sardegna e al rinnovato sviluppo della marineria ligure: già Sauli, 1831 segnalava infatti la presenza di «sei o settecento Genovesi del volgo, facchini, mezzani, intromettentisi in qualsivoglia pasticcio, uomini sfuggiti alla galera, soliti a vivere nelle osterie, nelle bische, ad aggirarsi di giorno e di notte con fine per l’ordinario perverso, né alieni dal mettere la mano nel sangue per rubacchiare e compiere ogni maniera di delitti. Erano il terrore dei quartieri franchi di Galata e di Pera».

 

Il Donizetti del sultano

 

I nuovi venuti, genovesi o d’altra origine (vi furono anche figure di rilievo, come il fratello di Gaetano Donizetti, Giuseppe, musicista di corte del sultano), finivano per fare rapidamente propria un’«identità» levantina largamente condivisa, fatta di memorie, di mitologie, di usi religiosi (le chiese cattoliche, e in particolare la basilica di Sant’Antonio da Padova sono tuttora luoghi importanti di aggregazione) e di consuetudini linguistiche comuni: d’altro canto, soprattutto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, questo afflusso modificò sostanzialmente l’assetto della comunità, rendendo la presenza italiana una realtà dotata di un più definito statuto istituzionale e di una maggiore consapevolezza del proprio legame con la madrepatria, nella ridefinizione di una identità locale in cui i caratteri storici della levantinità andavano stemperandosi in una più generica appartenenza nazionale.

 

La religione cattolica

 

Per questo motivo risulta difficile valutare la sostanza di tradizioni familiari che confondono volentieri un’asserita «genovesità» o «italianità» di antico impianto con gli apporti più recenti, un’affermata discendenza dagli antichi peroti con memorie risorgimentali legate al passaggio di Garibaldi nella città del Corno d’Oro. Quel che è certo comunque, è che nella rappresentazione peraltro insistita della «identità» dei Levantini, nel corso degli ultimi cento-centocinquant’anni l’aspetto linguistico gioca un ruolo sempre più marginale rispetto, ad esempio, alla religione cattolica e a queste rivendicazione di antiche ascendenze; d’altro canto, dopo avere rappresentato una componente visibile e importante della cultura stambuliota, quella levantina è oggi una comunità numericamente esigua anche in seguito alle vicende politiche che caratterizzarono i rapporti con la maggioranza turca nel corso del Novecento.

 

Con Atatürk

 

Guardati con sospetto ai tempi della guerra di Libia (1911-1912) e quando, alla fine della Prima guerra mondiale, l’Italia avanzò insieme alle altre potenze vincitrici diverse rivendicazioni sui territori ottomani, i Levantini furono associati alle altre minoranze etnico-linguistiche e religiose nel quadro delle riforme di forte impronta nazionalista promosse dal governo di Kemal Atatürk: tra le due guerre in particolare andò dispersa anche l’altra importante comunità levantina presente in Turchia, quella di Smirne, a sua volta discendente in larga misura da genovesi dell’antica colonia di Chio, alcuni dei quali si erano visti riconoscere dal Regno d’Italia la doppia cittadinanza e gli antichi titoli nobiliari.

 

Oggi, la comunità italo-levantina di Istanbul

 

Un’ulteriore emigrazione da Istanbul verso l’Italia e l’America si ebbe ancora dopo i disordini del 1955 che, sullo sfondo del sempre latente conflitto greco-turco, provocò l’allontanamento della maggior parte dell’ancora consistente minoranza greca della città, alla quale i Levantini venivano in qualche modo associati. Ancora presente per quanto numericamente esigua (si parla oggi, forse ottimisticamente, di circa 3500 persone), la comunità italo-levantina di Istanbul, con le sue realtà associative, e le sue istituzioni scolastiche e culturali che promuovono una vita intellettuale tutto sommato abbastanza intensa, non rappresenta soltanto un «curioso» retaggio di memorie storiche rivendicate, ma una realtà vitale all’interno del tessuto connettivo che lega l’Italia al mondo mediterraneo.

 

 

Bibliografia

 

E. Banfi, Lingue d’Italia fuori d’Italia. Europa, Mediterraneo e Levante dal Medioevo all’età moderna, Il Mulino, Bologna, 2014.

A. De Gasperis – R. Ferrazza (cur.), Gli italiani di Istanbul. Figure, comunità e istituzioni dalle riforme alla Repubblica. 1839-1923, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2007.

R. Marmara, Pancaldi, quartier levantin du XIXe siècle, Isis, Istanbul, 2004.

R. Marmara, La communauté levantine de Constantinople, Isis, Istanbul, 2012.

L. Missir di Lusignano, Livio. Les anciennes familles italiennes de Turquie, Isis, Istanbul, 2004.

A. Pannuti, Les Italiens d'Istanbul au XXe siècle: entre préservation identitaire et éffacement, Université de Paris III – Sorbonne Nouvelle. Paris, 2004.

A. Pannuti, Istanbul italian levantines among the other non-muslims: a community’s fortune and dissolution despite identity preservation, in «ISIS Journal», 18 (2009), pp. 141-156.

F. Toso, Luoghi, testi e vicende del genovese nel Levante, «Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano», III serie, 38 (2014), pp. 171-195.

F. Zuccolo, Gli italiani all’estero: il caso ottomano, in «Diacronie. Studi di storia contemporanea», 5 (2011), pp. 110-128.

 

Le puntate del ciclo Europa e Mediterraneo d'Italia. L'italiano nelle comunità storiche da Gibilterra a Costantinopoli, a cura di Fiorenzo Toso.

 

Introduzione: Le lingue d'Italia fuori d'Italia, di Fiorenzo Toso

1. Il monegasco del principato di Monaco, di Fiorenzo Toso

2. Le lingue d’Italia a Nizza e nel Nizzardo, di Fiorenzo Toso

3. L’italiano della Svizzera di lingua italiana, di Laura Baranzini e Matteo Casoni

4. L’italiano nel Cantone dei Grigioni: una duplice minoranza linguistica, di Maria Chiara Janner e Vincenzo Todisco

5. L’italiano in Slovenia, di Anna Rinaldin

6. L’italiano in Istria e Dalmazia, di Anna Rinaldin

7. Italiano lingua di cultura nei Balcani occidentali, di Anna Rinaldin

8. Italiani in Romania. Breve storia, di Elena Pîrvu

9. La Repubblica di San Marino, di Fabio Foresti

10. Gli italiani di Crimea, di Marco Brando

 

Immagine: Torre di Galata a Istanbul

 

Crediti immagine: A.Savin (Wikimedia Commons · WikiPhotoSpace) / FAL

 

 

 

 

 

 

 

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La desinenza in -a e le signorine Sguerso

 

Un po’ dappertutto, non soltanto in Italia (che anzi, in Italia son giunte di riflesso), imperversano le polemiche sul “politicamente corretto” negli usi linguistici, e quelle in particolare sulle discriminazioni di genere legate al linguaggio. Se ne discute sui giornali, sulle riviste e ancor più sui social network, dove tutti hanno da dire la loro, immaginando di volta in volta le soluzioni più ingegnose per ovviare a incresciose disparità: la presidente, la presidentessa o addirittura la presidenta? La sindaco, la sindaca o la sindachessa? Ho visto impallidire una mia collega molto sensibile a queste cose, quando, durante un incontro con gli allievi, ai quali si era rivolta correttamente come a gli studenti e le studentesse qui presenti, si è sentita dire da una di loro che a studentesse, appunto, lei avrebbe preferito le studenti. Peccato però che la ragazza abbia usato a sua volta un sonoro professoressa… Ma poi, al cari amici con il quale ci si rivolge a un gruppo è da preferire cari amici e care amiche o care amiche e cari amici? E nell’uso scritto, è auspicabile o no la generalizzazione di forme grafiche come car* tutt*, che certo, ci tolgono dall’imbarazzo, ma che risultano un pochino macchinose?

 

Marito e moglie nelle Alpi liguri

 

Molti stimati e valorosi linguisti si sono espressi su questi temi, e io stesso (come tutti, linguisti e non solo) mi sono fatto un’opinione, che tuttavia eviterò accuratamente di formulare in questa sede. Da umile dialettologo quale sono, mi piace soltanto ricordare un singolare uso linguistico in voga in alcuni dialetti liguri alpini, almeno fino a qualche tempo fa: nell’ambito delle relazioni coniugali, ci si riferiva al consorte secondo la poeticissima formula noi-lui, usata dalla donna, o noi-lei, usata dall’uomo. Si dice(va) quindi “nui-er u l’è andau a travagliar” (mio marito è andato a lavorare), “nui-ela a l’è aprövu a travagliar” (mia moglie sta lavorando), ma anche “nui u l’è partiu” (noi – cioè lui, il marito – è partito), “nui a l’è partia” (noi – cioè lei, la moglie – è partita), e così via, disinnescando il conflitto di genere, almeno nello spazio delle mura domestiche, con la serena constatazione del vincolo d’amore che unisce (o dovrebbe unire) due persone che si percepiscono come uguali all’interno della coppia: è questa una delle tante piccole sorprese (e grandi gioie) che incontra chi è solito frequentare le lingue d’Italia nella loro variegata e salutare molteplicità.

Proprio dalla lessicografia locale mi giunge l’appiglio per gli appunti che seguono, in cui il tema della discriminazione di genere non riguarda tanto la lingua in sé, quanto l’organizzazione che della lingua siamo soliti presentare, noi linguisti, in quanto “tecnici” della materia: alle volte, infatti, gli spesso deprecati “cultori” ci superano – consciamente o meno – per la loro sensibilità su determinati aspetti.

 

I quadernetti di Anita e Rosa

 

Mi riferisco in particolare a un volumetto pubblicato nell’ormai lontano 1985 dalla benemerita associazione “A Campanassa”, il Compendio di voci ed espressioni del dialetto savonese di Anita e Rosa Sguerso, due simpatiche ottuagenarie (all’epoca) che con passione ed amore avevano raccolto per anni su certi quadernetti, prima di darlo alle stampe, il fiore della lingua da loro abitualmente praticata. Ebbene, le due anziane signorine, nella loro raccolta, ci offrono con olimpica semplicità, per oltre 160 pagine su due colonne, esempi lampanti di trasgressione a una norma ampiamente codificata dalla lessicografia non soltanto ligure, italiana, romanza ed europea, ma oserei dire universale:

 

inguersia ‘accecata’, pl. inguersie; m. inguersiu, m. pl. inguersii.

ingûgia ‘aggomitolata, avvolta’; pl. ingûgie; m. ingûgiu, m. pl. ingûgii.

ingurdia ‘ingorgata, ostruita’; pl. ingurdie; m. ingurdiu, m. pl. ingurdii.

inranghia ‘azzoppata’; pl. inranghie; m. inranghiu, m. pl. inranghii.

inscia ‘gonfia’; pl. inscie; m. insciu, m. pl. insci.

 

Addirittura, stante l’omofonia che esiste in genovese tra le forme dell’infinito della prima coniugazione e quelle del participio passato femminile, e tra il maschile e femminile plurale del participio stesso, ci ritroviamo sistematicamente di fronte anche ad esempi di questo tipo:

 

innamuâ ‘innamorare’; ‘innamorata’. m. innamuoù, pl. m. e f. innamuê.

 

Non saprei dire, onestamente, se esistono altri esempi lessicografici del genere, ma la disarmante tranquillità con la quale le due autrici, in quanto donne, percepivano e presentavano la propria lingua anzitutto al femminile, mi ha fatto spesso pensare alle molte dichiarazioni di benemeriti linguisti, intellettuali, scrittori, giornalisti e altre categorie “abilitate”, intorno alla opportunità – per non dire necessità – di aggiornare la lingua alle esigenze suggerite dall’evoluzione dei tempi in materia di parità di genere: gli endorsement a favore di sindaca o ministra sono in fondo, vorrei dire, ben poca cosa rispetto a questa acquisita coscienza dell’importanza del lato femminile del linguaggio, che si appoggia del resto, giova dirlo, a uno dei principi fondanti della lessicografia tradizionale: l’intangibilità dell’ordine alfabetico.

 

L’ordine alfabetico nei dizionari

 

Sì, perché in genovese come in italiano, la forma femminile dei nomi, dei pronomi, degli aggettivi e dei participi passati, sotto questo punto di vista, dovrebbe oggettivamente venire prima di quella maschile: amiga / amigo e amica / amico, gianca / gianco e bianca / bianco, locciâ / locciou e scossa / scosso…, esattamente come in spagnolo, ad esempio, e a differenza del francese con la serie ami / amie, blanc / blanche, secoué / secouée.

Dobbiamo quindi concluderne che l’organizzazione delle voci nelle opere lessicografiche correnti riflette da sempre (almeno in genovese, italiano, spagnolo…) un’attitudine marcatamente sessista: insomma, c’è una ragione logica che giustifichi – all’interno di un repertorio organizzato in ordine alfabetico, come lo Zingarelli, ad esempio – una voce come

 

brutto agg. ‘che per aspetto esteriore o per caratteristiche intrinseche suscita impressioni sgradevoli’,

 

se la forma femminile brutta dovrebbe essere posta coerentemente all’apice del lemma? Il fatto è che tutti i nomi dotati di forme per i due generi, e tutti i pronomi, aggettivi e participi passati presenti nei vocabolari vengono inequivocabilmente lemmatizzati a partire dalla forma maschile, salvo rarissime eccezioni, come nel caso di incinta, il cui maschile incinto si trova nel corpo del lemma e viene qualificato come termine ‘scherzoso’.

Merita quindi una menzione anche l’aureo manuale per stranieri di Roberto Tartaglione, Grammatica Italiana, Firenze, Alma Edizioni 1997, unico caso a me noto in cui gli esempi al femminile di alcune regole della lingua compaiano prima di quelli al maschile: per illustrare le forme del passato prossimo (io sono andata/o, tu sei andata/oloro sono andate/i), del condizionale composto (io sarei arrivata/o … noi saremmo arrivate/o, ecc.), del periodo ipotetico (avessi avuto tempo sarei andata/o al cinema) e così via.

Questo insieme di circostanze dovrebbe fare riflettere quegli stessi linguisti che si dichiarano, giustamente, infastiditi o perplessi da alcuni aspetti che riflettono l’attitudine sessista della lingua (la prevalenza del maschile nelle forme collettive, l’uso di desinenze “femminili” a vario titolo discriminanti, ecc.), ma che non hanno mai proposto o promosso correttivi a forme così evidenti di discriminazione lessicografica.

 

Cominciare dall’editoria

 

Si obbietterà che la lessicografia “al maschile” vanta una tradizione secolare che legittima l’intangibilità della sua prassi. Vero, ma anche la lingua è tradizione, e millenaria: e ciò malgrado si discute seriamente e opportunamente, non da oggi, della maniera di modificarne alcuni aspetti per assicurare una più corretta rappresentanza di genere; aggiungiamo anche la considerazione che mentre operare sulla lingua per ridimensionarne l’attitudine sessista è impresa non facile, dagli esiti niente affatto scontati (i correttivi “dall’alto”, ci insegna la storia, solo eccezionalmente hanno scardinato abitudini consolidate, e per un autista che l’ha vinta su chauffeur ci son decine di mescite e cialdini che nulla hanno potuto contro bar e cachet), operare per una progressiva “femminilizzazione” dei vocabolari, dei prontuari grammaticali, degli esercizi scolastici e quant’altro, è operazione (come ben mostra l’esempio di Tartaglione) tecnicamente agevole: certo, occorrerebbe assicurarsi la disponibilità delle categorie più direttamente implicate nella elaborazione dei testi, a partire dai lessicografi e dai grammatici, avviando una campagna di sensibilizzazione e di persuasione in tal senso; attuare un’altrettanto opportuna opera di convincimento presso gli editori, naturalmente, ed educare infine il pubblico alle nuove modalità di consultazione che questa piccola rivoluzione indiscutibilmente presuppone. Ma certo è più facile immaginare, ora come ora, un dizionario con le desinenze in -a ordinatamente elencate prima di quelle in -o, che non una intera società che si abitui senza resistenze (dettate prima dall’abitudine, forse, che dalla mancata adesione ideologica) a non ritenere “scorrette” forme femminili divergenti da una consolidata tradizione, o altri usi che presuppongano il ricorso a costrutti percepiti come “innaturali”. Con una battuta che vuol essere anche un piccolo e affettuoso omaggio postumo, mi sento quindi di sostenere che la lessicografia (italiana, e non solo) potrebbe avere qualcosa da imparare da Anita e Rosa Sguerso.

 

 

Immagine:  La difesa di Saragozza

 

Crediti immagine: David Wilkie [Public domain]

 

 

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Europa e Mediterraneo d'Italia. L'italiano nelle comunità storiche da Gibilterra a Costantinopoli - 2. Le lingue d’Italia a Nizza e nel Nizzardo

 

La cessione volontaria di Nizza e del suo territorio alla Francia, col Trattato di Torino del 24 marzo 1860, ratificato poi da un plebiscito celebratosi il 15-16 aprile, è un episodio controverso del Risorgimento italiano, il “male minore” attraverso il quale i Savoia ebbero il via libera da parte di Napoleone III per portare a termine il processo di unificazione della Penisola. Certo è che Nizza era all’epoca, e almeno già dal Cinquecento, una città di cultura prevalentemente italiana, per quanto il francese vi fosse molto diffuso, e che una cultura di lingua italiana continuò ad esprimervisi per diversi decenni, fornendo indirettamente una base d’appoggio alle rivendicazioni dell’irredentismo fascista sull’antica Contea e sui territori fino al Varo, assunto a “confine naturale” tra l’Italia e la Francia.

 

Una varietà di provenzale

 

“Cultura italiana”, però, non significa automaticamente “lingua italiana”, soprattutto a livello di usi parlati tradizionali: in italiano a Nizza si scrisse, e molto, e certamente vi fu una componente italofona attiva ancora dopo l’annessione (o unione, a seconda dei punti di vista) alla Francia, ma la parlata locale, per quanto non priva di influenze piemontesi e genovesi, è inequivocabilmente di tipo occitanico, e rappresenta una varietà di provenzale che, insieme ad altri dialetti dello stesso ceppo, è parlata sul territorio di gran parte dell’attuale dipartimento delle Alpi Marittime.

Ai tempi in cui Mussolini sognava di “riprendersi” la città, così, il mite glottologo Matteo Bartoli, interpellato in proposito, dovette risolversi a utilizzare la salomonica formula secondo cui indiscutibilmente «il nizzardo è più provenzale che ligure» ma è nondimeno «più italiano che francese», volendo segnalare con ciò un (peraltro ormai discutibile, all’epoca) orientamento della parlata locale verso modelli culturali, più che strettamente linguistici, di provenienza cisalpina.

 

Il roiasco

 

Vero è però che una parte dei territori passati alla Francia nel 1860 parla (o parlava) effettivamente dialetti liguri: sono i comuni della media val Roia, ossia Saorgio / Saorge, Breglio / Breil-sur-Roya, Fontano / Fontan, a loro volta storicamente legati alla Contea di Nizza. Qui si parla una varietà, il roiasco appunto, che ha caratteristiche arcaiche e peculiari nel contesto delle parlate liguri, alle quali però è inequivocabilmente legata. A questi comuni si aggiunsero nel 1947, in seguito ai trattati di pace e dopo un altro discusso plebiscito, i comuni altrettanto liguri dal punto di vista dialettale di Briga e Tenda, facenti parte in precedenza della provincia di Cuneo (oltre ad alcuni villaggi lungo il confine col Piemonte), e le frazioni di Piena e Libri del comune di Olivetta San Michele, per il resto tuttora in provincia di Imperia.

 

Linguistica e politica: il triste caso di Marcel Firpo

 

Inoltre, nel 1860 erano passate alla Francia anche alcune località che, appartenenti in precedenza al Nizzardo e al Regno di Sardegna, si caratterizzano per dialetti sulla cui classificazione non vi è piena unanimità, essendo considerati da alcuni linguisti (con ottime ragioni) di tipo prevalentemente ligure e da altri di tipo prevalentemente occitano: sono le parlate di Mentone e Roccabruna, che dopo aver fatto parte del Principato di Monaco fino al 1848 si erano proclamate in quell’anno “città libere” votando successivamente la propria annessione al Regno di Sardegna (che le cedette poi, appunto, alla Francia, generando una discreta sensazione di “tradimento”), e di alcuni piccoli comuni del retroterra, come Castillon / Castiglione, Castelar / Castellar, Sainte-Agnès / Sant’Agnese, Gorbio. Non a caso il fascismo tradizionalmente “dialettofobo” in patria si impegnò molto, al momento dell’occupazione italiana di Mentone, a promuovere l’uso scritto del dialetto locale per affermare l’italianità della cittadina, e a farne le spese fu un innocuo poeta mentonasco, Marcel Firpo, finito in galera per collaborazionismo alla fine della guerra, proprio quando i suoi amici ventimigliesi e sanremaschi si stavano dando un gran daffare, al di là del confine, per affermare anche attraverso presunte affinità dialettali un orientamento francofilo dell’estremo Ponente ligure. Tristi esempi, tutti questi, di come linguistica e politica qualche volta si intreccino inestricabilmente.

 

Liguri per la Francia, "occitani" per l'Italia

 

In ogni caso, oggi come oggi, il risultato di una serie di vicende così complesse rende difficile percepire in senso unitario questi scampoli di “Liguria francese”, dove pure le parlate sono ancora praticate (soprattutto a Briga e Tenda, qui accanto a un uso residuale dell’italiano presso le generazioni più anziane): se la Francia ne riconosce formalmente l’esistenza, sono gli stessi parlanti a non avere, in molti casi, una percezione netta della propria appartenenza linguistica distinta da quella dei comuni di dialetto nizzardo o gavot. In questa difficoltà ad auto-rappresentarsi si è inserito inoltre, a complicare le cose, l’atteggiamento mistificatorio di alcune amministrazioni comunali che in Italia, per sfruttare i “benefici” della legge 482/1999 in materia di minoranze linguistiche storiche, hanno dichiarato indebitamente il carattere “occitano” delle parlate diffuse sul loro territorio: trattandosi in sostanza di quel che resta del vecchio comune di Briga Marittima (attuale comune di Briga Alta e parte dell’attuale comune di Triora con la frazione di Realdo) e del nucleo del comune di Olivetta San Michele, la confusione generata da questi atteggiamenti ha creato il paradosso di dialetti pressoché identici che sono considerati liguri in Francia e “occitani” in Italia, con tutti gli equivoci che si possono immaginare.

 

Vestivano i bleu de Gênes

 

D’altro canto, una “presenza” linguistica ligure (e a Nizza, anche piemontese) nella Francia meridionale è documentata storicamente e appare legata ad antichi fenomeni migratori: parlava genovese, ad esempio, una parte significativa della marineria nizzarda dell’Ottocento (compresa la famiglia Garibaldi oriunda del Chiavarese), che introdusse nel dialetto locale non pochi ligurismi, tra i quali il nome della farinata di ceci, piatto tipico locale di origine genovese, conosciuto come la “soca”, dall’aggettivo “sciòcco” (ossia ‘soffice’) col quale la si denomina talvolta anche a Genova; ma furono di dialetto ligure, in qualche caso ancora fino ai primi del Novecento e oltre, alcuni villaggi della Provenza interna, nel dipartimento del Varo, ripopolati nel corso del Quattrocento da famiglie provenienti dalla diocesi di Albenga: tra gli altri Biot, Vallauris, Mons ed Escragnolles, le cui parlate, attraverso i rari usi scritti, sono state studiate dai dialettologi fornendo informazioni preziose sulla storia linguistica della Liguria occidentale in età medievale. Ancora, compatte e numerose colonie portuali liguri erano insediate nell’Ottocento a Marsiglia e a Tolone, dove i “Bachin” (corruzione di “Baciccin”, nome topico dei genovesi), prima dell’arrivo di altre componenti immigratorie, avevano anche dato vita a una “fiorente” malavita, immortalata in molta letteratura regionale. Anche a Nîmes, l’importazione della tela “bleu de Gênes” (blujeans), successivamente introdotta negli Stati Uniti, diede origine a una delle denominazioni commerciali con la quale essa è nota, il “denim” (de Nîmes).

 

Il mito della "Bella Nissa"

 

C’è ancora, oggi, una Francia meridionale che parla le lingue d’Italia? Sì e no, come si vede, perché al di là delle affinità culturali, a livello dialettale le “sopravvivenze” appaiono precarie e limitate alla fascia di confine, mentre l’italiano standard si sente, a Nizza e sulla Costa Azzurra, più come conseguenza di un recente flusso turistico-residenziale che non in continuità con l’epoca, tra il Cinque e l’Ottocento, in cui esso fu a tutti gli effetti lingua di cultura e dell’amministrazione della città e del suo comprensorio.

Certamente la storia passata e la pur fatiscente realtà dialettale odierna andrebbero meglio studiate, promosse e conosciute, aggirando però i rischi di un antistorico “irredentismo” che di quando in quando compare in alcuni ambienti italiani senza trovare a quel che sembra una sponda efficace al di là del confine, dove ha acquisito semmai una qualche visibilità un regionalismo basato essenzialmente sul mito della “Bella Nissa” e sulla specificità della parlata rispetto allo stesso provenzale. La storia della lingua e della letteratura italiana nelle Alpi Marittime, soprattutto nelle fasi più recenti, sono state in larga misura rimosse anche a livello di cultura locale, e la percezione dell’italiano è attualmente quella di una lingua a tutti gli effetti straniera, per quanto più diffusa di altre per la vicinanza territoriale e per l’immigrazione, anche di carattere frontaliero, che coinvolge il comprensorio.

Quanto alla realtà dialettale roiasca e mentonasca, gli sforzi di rivitalizzazione, che si appoggiano facilmente alle analoghe iniziative che si verificano in territorio italiano e nel Principato di Monaco, non sembrano aver generato un’inversione di tendenza rispetto al progredire della lingua nazionale francese ai più diversi livelli.

 

 

Bibliografia

 

G.G. Amoretti, La città fedele. Letteratura di lingua italiana a Nizza da Emanuele Filiberto a Vittorio Emanuele II, Genova, Istituto Internazionale di Studi Liguri, 1998

 

J.-P. Dalbera, Les parlers des Alpes-Maritimes. Étude comparative. Essai de reconstruction, London, Institut d’Estudis Occitans 1994

 

J.-P. Dalbera, Les Ilots Liguriens de France, in Les Langues de France sous la direction de B. Cerquiglini. Textes rassemblés par M. Alessio et J. Sibille, publié avec le concours du Ministère de la Culture et de la Communication – Délégation générale à la langue française et aux langues de France, Paris, Presses Universitaires de France 2003, p. 125-136

 

W. Forner, Fra Costa Azzurra e Riviera: Tre lingue in contatto, in V. Orioles / F. Toso (cur.), Il Mediterraneo plurilingue. Miscellanea di studi, Udine, Centro Internazionale sul Plurilinguismo 2008, p. 65-90

 

M. Mauviel, La lingua italiana a Nizza dall’annessione (1860) alla prima guerra mondiale, in «Il Nido d’aquila», 37, Giugno-dicembre 2001, pp. 31-34

 

M. Mauviel, Henri Sappia et l’Annexion de Nice à la France en 1860, in Personnalités et familles du Comté de Nice face à l’annexion de 1860 à la France, textes réunis par C. Bourrier-Raynaud et O. Vernier, ASPEAM , Nice, 2010, pp. 201-212

 

F. Toso, L’occitanizzazione delle Alpi Liguri e il caso del brigasco: un episodio di glottofagia, in Albina Malerba (cur.), Quem tu probe meministi. Studi e interventi in memoria di Gianrenzo P. Clivio. Atti dell’incontro (Torino, Archivio di Stato, 15-16 febbraio 2008), Torino, Centro Studi Piemontesi, 2009, pp. 177-248

 

F. Toso, Les bachin à Marseille.notes d’étymologie et d’histoire linguistique, in «La France latine. Revue d’études d’oc», n.s., 151 (2010), pp. 5-44

 

F. Toso, Le parlate liguri della Provenza. Il dialetto «figun» tra storia e memoria, Ventimiglia, Philobiblon, 2014

 

G. Vignoli, Storie e letterature italiane di Nizza e del Nizzardo (e di Briga e di Tenda e del Principato di Monaco), Settecolori, Lamezia Terme, 2011

 

Le puntate del ciclo Europa e Mediterraneo d'Italia. L'italiano nelle comunità storiche da Gibilterra a Costantinopoli (a cura di Fiorenzo Toso)

1. Le lingue d'Italia fuori d'Italia, di Fiorenzo Toso (link)

2. Il monegasco del Principato di Monaco di Fiorenzo Toso (link)

 

Immagine: Aeroporto di Nizza

 

Crediti immagine: Lafrance [CC BY-SA 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/)]

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Europa2.html

Europa e Mediterraneo d'Italia. L'italiano nelle comunità storiche da Gibilterra a Costantinopoli - 2. Il monegasco del Principato di Monaco

 

Scendendo dall’autostrada sulla costa, l’impercettibile frontiera tra la Francia e Monaco è segnalata dal cartello bilingue che recita “Principauté de Monaco – Principatu de Munegu”. È un sintomo a suo modo vistoso, questo, dell’identità linguistica del piccolo paese, ulteriormente certificata da un’insistente presenza della “lenga munegasca” nella toponomastica, nei nomi di esercizi commerciali e in altre circostanze in cui il suo uso scritto si aggiunge a quello predominante del francese. Il monegasco non è infatti la lingua ufficiale del Principato, ma ne è, questo sì, la lingua nazionale, che ricorre ad esempio nel testo del rutilante inno di stato e nella formula conclusiva “viva u nostru Munegu”, con la quale il sovrano regnante, Alberto II,  conclude i suoi interventi pubblici.

 

Un "dialetto" come lingua istituzionale

 

Unico caso di varietà italoromanza dotata di prerogative paragonabili, dal 1976 il monegasco, smentendo clamorosamente con la sua posizione gli atteggiamenti passatisti presenti in alcuni ambienti accademici del nostro paese intorno al ruolo e alle possibilità di utilizzo dei “dialetti” in contesti pubblici e istituzionali, viene inoltre insegnato obbligatoriamente nelle scuole del Principato, è ammesso nel sistema universitario francese ed è oggetto delle cure di un apposito “Cumitau Naçiunale”; a quest’ultimo si aggiunge dal 1982, sempre per iniziativa del governo locale, un’attiva “Académie des Langues Dialectales”, attualmente diretta da Claude Passet, che ha funzioni di studio, attraverso i suoi convegni biennali, della lingua monegasca nel confronto con altre varietà parlate nei territori circostanti.

Proprio l’ultimo di questi convegni, dedicato qualche settimana fa a “La langue génoise, expression de la terre et de la mer, langue d’ici et langue d’ailleurs”, ha ribadito il diretto rapporto di filiazione del monegasco dal genovese e i suoi rapporti con l’area ligure, in seguito al ripopolamento medievale del paese, quando, nel 1297, il fuoriuscito guelfo Francesco Grimaldi si impadronì con uno stratagemma della fortezza, dando vita a una signoria indipendente fortunosamente sopravvissuta, sempre sotto l’egida del suo casato, fino ai giorni nostri.

 

Figlia del genovese

 

Il monegasco è dunque a tutti gli effetti un varietà genovese, ben riconoscibile nelle sue caratteristiche fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali, anche se i secoli dell’esposizione al contatto col dialetto nizzardo di matrice provenzale (mai parlato però sul territorio monegasco), con l’italiano in passato lingua ufficiale, con lo spagnolo nelle fasi del protettorato imperiale, e da ultimo col francese, ne hanno modificato i caratteri, facendo di esso un tipo dialettale originale nel contesto ligure, assimilabile in ogni caso più alle parlate arcaizzanti della Riviera di Ponente che al genovese cittadino: del resto la stessa emigrazione dalla Liguria occidentale, a partire dalla metà del sec. XIX, ha a sua volta contribuito ad assicurare la piena intercomprensione tra monegaschi e ventimigliesi, ad esempio, e sanremaschi.

Monaco fu per secoli una piccola realtà appartata nel contesto internazionale, molto diversa dall’immagine di centro mondano e cosmopolita che la circonda attualmente. Vissuto per secoli all’ombra di Genova e del sistema politico che faceva capo alla Spagna, transitato poi nell’orbita francese e sabauda, il Principato vide poi cambiare il proprio destino alla metà dell’Ottocento. In quell’epoca, in seguito alla perdita di Mentone e Roccabruna, proclamatesi città libere e annesse al Regno di Sardegna (che le cedette in seguito alla Francia insieme a Nizza), il Principato si vide ridotto a un fazzoletto di terra di poco più di un chilometro quadrato di superficie, costituito dalla città vecchia (a Roca de Munegu) e da un breve tratto costiero dove, a partire dal 1858, si sviluppò il quartiere di Montecarlo, così chiamato in onore del sovrano allora regnante.

 

Montecarlo: da quartiere a Principato

 

Allo sviluppo di quest’ultima località come centro di villeggiatura elegante, agli albori del turismo internazionale, si devono le successive fortune del Principato, divenuto ben presto una delle mete più frequentate dal jet set internazionale, anche se Monaco non è – e non è mai stata – soltanto un luogo di mondanità e di divertimento, vantando tra i suoi sovrani uno scienziato illustre come Alberto I e un abile statista come Ranieri III: quest’ultimo in particolare, forte anche del suo prestigio personale, seppe assicurare al paese un rinnovato ruolo internazionale, affermandone in più occasioni la sovranità rispetto all’incombente vicinato francese.

Proprio nel quadro dell’affermazione sempre più decisa della propria autonomia dalla Francia (con la quale si verificarono a varie riprese, durante il Novecento, contenziosi di varia natura), il recupero dell’identità linguistica del Principato divenne nel secolo scorso un elemento importante della politica culturale monegasca.

 

Da Notari a Ranieri III

 

Già negli anni Venti, per iniziativa di Luì Notari, autore del poema nazionale A legenda de Santa Devota (1927) aveva preso avvio un processo di recupero della parlata locale, già all’epoca in grave crisi, anche attraverso il raccordo con le iniziative di promozione delle parlate liguri d’oltreconfine; ma fu proprio Ranieri III a incentivare queste dinamiche, sostenendo nel 1982, all’atto della costituzione dell’Accademia, che «le fait d’enseigner notre langue aux jeunes monégasques est l’un des plus sûrs moyens de sauvegarde de notre Identité et non pas comme, hélas, beaucoup le pensent encore, l’expression d’un chauvinisme passéiste et naïf», e che «Laisser mourir une langue, c’est ternir à jamais l’âme profonde d’un peuple, c’est renoncer pour toujours à l’un des legs les plus précieux de son passé». In tal modo, le iniziative a favore del monegasco crebbero ulteriormente, anche grazie al contributo di studiosi locali, tra i quali spiccano la figura del canonico Giorgi Franzi e quella del diplomatico René Novella.

Oggi il monegasco, dopo gli studi scientifici di Raymond Arveiller pubblicati nel 1967 (in un’epoca in cui si temeva addirittura l’imminente estinzione dell’idioma), dispone di una grammatica, di un dizionario normativi (opera di Louis Frolla) e di materiali didattici aggiornati, mentre la produzione letteraria è in aumento accanto a un crescente utilizzo pubblico.

 

Poco più del 20 per cento lo parla

 

Tutti questi aspetti a vario titolo positivi non debbono peraltro suscitare un soverchio entusiasmo sul futuro del monegasco: se si pensa che su 36.000 abitanti complessivi, i 7.600 cittadini monegaschi, pochi dei quali conservano l’uso della lingua, sono una minoranza all’interno del loro stesso paese (poco più del 20%), dove la restante popolazione appartiene a  oltre 100 nazionalità differenti (francesi per il 28%, italiani al 19%, inglesi al 7% e così via), ci si rende conto della difficoltà di mantenere in vita una lingua così fortemente localizzata: essa deve competere non solo con l’ufficialità del francese, ma anche con l’internazionalità dell’inglese e con la stessa presenza dell’italiano, che pur senza disporre di uno status ufficiale è molto diffuso a Monaco anche per la presenza di numerosi lavoratori frontalieri.

 

Il destino tra salvaguardia e volontà

 

Il destino del monegasco appare quindi legato, in particolare, alle scelte del governo locale, che peraltro sembra orientato a continuare la politica di salvaguardia del patrimonio culturale del Principato, proprio per assicurarne la specificità in un contesto in cui la globalizzazione da un lato, e la pressione francese dall’altro rischiano di mettere in discussione l’originalità stessa della secolare esperienza monegasca: secondo processi che hanno visto nel tempo, in Europa e altrove, l’emergere di altre “piccole” lingue rappresentative di sovranità nazionali fortemente localizzate (come nel caso ad esempio del lussemburghese, e in precedenza del maltese, peraltro caratterizzati da una più consistente base demografica), il futuro del monegasco passa, oltre che attraverso la volontà della popolazione (fortemente sensibile a questi temi) proprio attraverso la continuità di decisioni improntate a una seria volontà istituzionale.

 

Bibliografia essenziale

 

Raymond Arveiller, Étude sur le parler monégasque, Monaco, Comité National des Traditions Monégasques, 1967

 

Louis Frolla, Dictionnaire monégasque-français, Monaco, Ministère d’État, 1967

 

Louis Frolla, Grammaire monégasque, Monaco, Comité National des Traditions Monégasques, 1998

 

Claude Passet, Bibliographie de l’écrit en monégasque et des études relatives à la langue monégasque, Monaco, Académie des Langues Dialectales, 2019-11-23

 

Fiorenzo Toso, Nota sul monegasco, in «Plurilinguismo. Contatti di lingue e culture», 7 (2000), pp. 239-249

 

Sito dell’Accademia (link)

 

Sito del Cumitau Naçiunale dë Tradiçiue Munegasche (link)

 

 

Le puntate del ciclo Europa e Mediterraneo d'Italia. L'italiano nelle comunità storiche da Gibilterra a Costantinopoli (a cura di Fiorenzo Toso)

1. Le lingue d'Italia fuori d'Italia, di Fiorenzo Toso (link)

 

Immagine: Vista panoramica del Principato di Monaco sempre da Levante

 

Crediti immagine: Diego Delso [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]

 

 

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Europa e Mediterraneo d'Italia. L'italiano nelle comunità storiche da Gibilterra a Costantinopoli - 1. Le lingue d'Italia fuori d'Italia

 

Un viaggio nel tempo e nello spazio alla ricerca delle "Italie" e degli "italiani" (varietà di lingua e generazioni di persone) che sono esistiti e in parte esistono ancor oggi fuori dei confini nazionali: questo è il tema al centro della serie di interventi che, con cadenza mensile, pubblicheremo per la cura di Fiorenzo Toso, già ideatore e organizzatore per noi del ciclo in 17 puntate "Lingue sotto il tetto d'Italia", dedicato alle "minoranze alloglotte da Bolzano a Carloforte". Questa volta, come scrive Toso nell'intervento di apertura, i lettori verranno guidati per vie più e meno battute, maestre o laterali, nella civiltà plurisecolare europea e mediterranea, dal Medioevo ai giorni nostri, sfiorando Tunisi, rasentando l'Asia, veleggiando lungo le coste dalmate e istriane, toccando la Francia meridionale, San Marino, il Canton Ticino e il Cantone dei Grigioni in Svizzera, la Croazia e, nel continente, la Romania e la Moldavia. Alla scoperta di tracce spesso sorprendenti e affascinanti di italiano e di italianità di varia origine, storia e consistenza.

 

 

Negli ultimi tempi è cresciuto molto l’interesse per l’italiano all’estero, testimoniato anche dalla fortuna di ricorrenti fake news come quella secondo il quale esso sarebbe addirittura la quarta lingua più studiata al mondo: una sonora bufala, purtroppo, nata da una lettura distorta del dato secondo cui si tratta, in realtà, della lingua che viene scelta per quarta da chi ne sta studiando altre tre: se ne deduce che l’italiano “piace”, è vero, ma meno come lingua di comunicazione (e quindi oggetto di studio) che come veicolo di promozione, ad esempio, per i prodotti ispirati a una certa immagine del Paese. Il numero dei discenti in realtà ne risente, e si fa sempre più fatica a reggere la “concorrenza” di grandi lingue internazionali quali l’inglese, lo spagnolo o il cinese.

Anche per questo, gli osservatori seguono con attenzione le statistiche, non sempre confortanti, sulla presenza della lingua nell’insegnamento universitario e superiore negli altri Paesi, e guardano con giusta preoccupazione al fatto che nelle comunità di emigrati, ad esempio in quelle degli Stati Uniti, la sua conoscenza sia in progressiva diminuzione.

 

Non solo emigrazione

 

L’emigrazione di massa degli ultimi cento-centocinquant’anni, d’altronde, non è l’unica causa della presenza di un’italianità linguistica al di fuori dei confini nazionali: a volte ci si dimentica un po’ che le lingue d’Italia (non soltanto quella nazionale, ma anche varietà regionali che ebbero in passato un ruolo importante nella circolazione linguistica in area europea e mediterranea) sono state diffuse fino a tempi recenti, e a volte lo sono tuttora, in diversi contesti europei e mediterranei attraverso la permanenza di comunità “storiche”, talvolta esigue, talvolta anche numericamente significative, le cui vicende sono il riflesso di situazioni assai diverse tra loro.

Un conto è infatti parlare, ad esempio, della continuità linguistica che delinea i contorni di una Svizzera Italiana (e di dialetto lombardo) verso nord, un conto dei residui di antichissime presenze commerciali a Costantinopoli o in Tunisia; e la dialettalità veneta su cui si appoggia l’italianità ancora viva lungo le coste dell’Istria e della Dalmazia è altra cosa dai tradizionali orientamenti culturali della semitica (e anglofona) Malta verso la Sicilia, e così via.

 

Fino a ieri e fino a oggi, tra discrepanze ed eredità secolari

 

Ci proponiamo così, in una serie di articoli affidati di volta in volta a studiosi competenti, di esaminare in dettaglio le fortune, ma anche le sfortune, delle lingue d’Italia fuori d’Italia, prendendo in considerazione le situazioni in cui la loro presenza fino ad oggi (o fino a un “ieri” circoscritto almeno nell’ambito del secolo da poco trascorso) sia la conseguenza di un insediamento storico, innato o ascrivibile a vicende remote: come risultato di una discrepanza (a volte secolare, a volte frutto di avvenimenti non troppo lontani da noi) tra “confini” politici e confini linguistici, ad esempio, o come eredità di un passato in cui il toscano, il veneziano, il genovese, il siciliano e altri idiomi italoromanzi avevano conosciuto una loro espansione – spesso insospettabile per i non addetti ai lavori – in ambiti geografici ampi,  talvolta in contesti e con funzioni di rilievo internazionale, messe bene in luce da studiosi come, tra gli altri, Francesco Bruni ed Emanuele Banfi, ai quali si debbono importanti approfondimenti e fondamentali contributi bibliografici.

 

Il Principato che parla il ligure, il liceo italiano di Istanbul

 

Si tratta di situazioni che variano nel tempo e nello spazio, determinando anche una diversa percezione del senso di appartenenza legato alla condivisione di una o più lingue d’Italia. Perché ad esempio i venetofoni della Croazia e della Slovenia si dichiarano pervicacemente “italiani” a differenza di quegli isolani che, parlando dialetti ai quali Tommaseo conferiva il titolo di “più italiani dell’italiano”, hanno costruito la propria identità sull’orgogliosa affermazione di una lingua còrsa? Perché il ligure monegasco è considerato di fatto la lingua nazionale del Principato mentre il dialetto romagnolo di San Marino non ha mai avuto storicamente accesso, neppure lontanamente, alle stanze del potere della piccola repubblica appenninica? Perché la corposa identità dialettale lombarda del Ticino e dei Grigioni non inficia un senso forte di appartenenza della Svizzera meridionale alla comunità linguistica e culturale (ma certo non a quella nazionale!) italiana, mentre i dialetti retoromanci sono assurti al rango di quarta lingua ufficiale della Confederazione? Perché i levantini di Istanbul, che parlano greco e francese, si proclamano discendenti di genovesi e veneziani e frequentano il liceo italiano della capitale turca? Perché in Romania viene riservato un seggio al parlamento per la rappresentanza di una “minoranza italiana” la cui consistenza appare in realtà alquanto labile? Come si manifesta oggi la genovesità degli abitanti di Gibilterra, colonia inglese in territorio spagnolo la cui popolazione è costituita in larga misura da discendenti di liguri?

 

Un viaggio nelle Italie d'oltreconfine

 

A queste e ad altre domande cercheremo di dare qualche risposta tracciando un panorama per quanto possibile esaustivo di realtà in molti casi poco conosciute, in altri assai meglio note, il cui denominatore comune è l’utilizzo, o almeno la memoria recente dell’utilizzo di una o più varietà italoromanze al di fuori dello Stato italiano: senza che si possa in certi casi (come in Svizzera o a San Marino) parlare di “minoranze” italofone, mentre altrove questa condizione appare di volta in volta associata a un riconoscimento formale, a una rivendicazione in tal senso o, al contrario, alla negazione o rimozione dell’appartenenza “italiana” di fronte a un riconoscimento più o meno esplicito di forme diverse di “italianità”.

Con un viaggio che ci impegnerà per diversi mesi andremo insomma ad evocare storie note e meno note di lingue e di persone, di dialetti e di comunità che ci sono straordinariamente vicini: un piccolo contributo di divulgazione e di conoscenza ma anche, in fondo, un tributo di attenzione e di affetto a tante e variegate “Italie” d’oltreconfine.

 

 

Bibliografia

 

Audenino, Patrizia. Migrazioni italiane. Mondadori. Milano, 2008

 

Caffarelli, Enzo – Grassi, Tiziana – Capussi, Mina – Licata, Delfina – Perego, Gian Carlo (cur.), Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo, Roma, Società Editrice Romana, 2014

 

Emanuele Banfi, Lingue d’Italia fuori d’Italia. Europa, Mediterraneo e Levante dal Medioevo all’età moderna. Bologna, Il Mulino, 2014

 

Emanuele Banfi, Italiano e altre varietà italo-romanze in Europa e nel Mediterraneo nel secolo XIX. Firenze, Franco Cesati, 2017

 

Francesco Bruni, L’italiano fuori d’Italia. Firenze, Franco Cesati, 2013

 

Franzina, Emilio, Storia dell’emigrazione italiana. Donzelli Editore. Roma, 2002

 

Toso, Fiorenzo, Lingue d’Europa. La diversità linguistica dei paesi europei fra passato e presente. Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2006

 

Toso, Fiorenzo Linguistica di aree laterali ed estreme. Contatto, interferenza, colonie linguistiche e «isole» culturali nel Mediterraneo occidentale. Recco, Le Mani (Udine, Centro Internazionale sul Plurilinguismo), 2008.

 

Immagine: Europa

 

Crediti immagine: Abraham Ortelius (1527-1598) [Public domain]

 

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Storia linguistica e storia della lingua. A due anni dalla mostra sul genovese

 

Due anni fa, il 4 settembre 2017, veniva inaugurata all’Archivio di Stato di Genova la mostra “Il genovese. Storia di una lingua”, rimasta aperta fino al dicembre successivo con una serie di eventi collaterali e iniziative collegate. Coronata da un lusinghiero successo di pubblico e di critica, la mostra, ideata da un linguista specialista dell’area ligure e da un’archivista, storica di formazione, come Giustina Olgiati, ha rappresentato un evento per certi aspetti unico nel panorama culturale italiano, puntando a ricostruire attraverso l’esposizione e il commento di un centinaio di “pezzi” (testi documentari e letterari manoscritti e a stampa, spesso esposti per la prima volta) la storia della lingua regionale e la storia linguistica della regione, secondo un progetto originale che ha guidato i visitatori lungo gli oltre ottocento anni che ci separano dalle prime attestazioni del volgare in Liguria.

 

Il genovese e la Liguria

 

Storia della lingua e storia linguistica, dunque, e non si tratta di sinonimi: la prima può definire di volta in volta l’evoluzione interna di un idioma (i mutamenti fonetici e morfologici che ne contraddistinguono le varie fasi) ed esterna nel suo specifico rapporto con la società e la cultura di cui è espressione. La storia linguistica riguarda invece, in una prospettiva più generale, i rapporti dinamici che tra lingue diverse si instaurano su un determinato territorio o all’interno di un gruppo sociale: la storia della lingua italiana, francese, catalana, è quindi altra cosa rispetto alla storia linguistica dell’Italia, della Francia o della Catalogna. Pur intersecandosi in maniera spesso inestricabile, gli sviluppi che partono dai due punti di vista presuppongono quindi approcci differenti: la scommessa, in occasione della mostra genovese, consisteva proprio nel tentativo di approdare a una sintesi convincente tra la storia del genovese e la storia linguistica della Liguria, una regione nella quale (come del resto in qualsiasi altro territorio) l’insieme della varietà locali (il “genovese” in senso esteso) non fu mai l’unico strumento di comunicazione orale e scritta.

I documenti selezionati, operando scelte “esemplari” nell’ambito di una mole enorme di testi, avevano così lo scopo di evidenziare, da un lato, la progressione delle vicende del genovese in sé, lingua caratterizzata non solo da una significativa produzione scritta, ma anche da un’interessante proiezione extralocale, mediterranea ed atlantica, e, dall’altro, le tappe del suo confronto con altri idiomi, dal latino cancelleresco al toscano, nella progressione che avrebbe condotto alla determinazione della realtà linguistica ligure contemporanea, caratterizzata dall’affermazione dell’italiano e dalla sua dinamica coesistenza con i dialetti liguri e non solo con essi.

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Lingue sotto il tetto d'Italia. Le minoranze alloglotte da Bolzano a Carloforte - 17. Un viaggio nella ricchezza linguistica italiana

 

Abbiamo concluso, con la puntata precedente, un lungo viaggio fra le “alloglossie” presenti in Italia, ossia tra le lingue che per la particolare “distanza” dal contesto in cui sono praticate, rappresentano una soltanto delle categorie di cui si compone il patrimonio linguistico nazionale: la maggior parte di esse (pur con clamorose esclusioni, come nel caso del romanì, della galloitalico di Sicilia e del tabarchino) è oggi formalmente tutelata da una discussa legge in materia, la 482/1999, che anche a essere ottimisti ha rivelato tutti i limiti di impostazione dei pur lodevoli propositi di valorizzazione della diversità linguistica nel nostro paese. La verità è che tale “diversità”, ricomprendendo anche le altre lingue d’Italia (di volta in volta definite “dialetti”, “varietà locali”, “lingue regionali” e così via), e i più recenti apporti legati all’immigrazione, disegna un panorama notevolmente complesso di “minoranze” di persone che parlano, oltre all’italiano, almeno un altro idioma nativo.

Il nostro va dunque considerato come un itinerario ragionato all’interno della ricchezza culturale del paese, basato su una soltanto delle possibili “mappe” che la determinano: e se è vero che a molte componenti della categoria di lingue presa fin qui in esame può aver senso attribuire forme specifiche di tutela, legate alle particolari condizioni storiche e geografiche che le contraddistinguono, non meno vera è la constatazione che l’intero patrimonio linguistico italiano meriterebbe una maggiore attenzione e valorizzazione, superando anche prevenzioni e diffidenze che fanno parte per certi aspetti della "tradizione" culturale di questo paese.

 

Pregiudizi su dialetti e alloglossie

 

Affermare ad esempio che i “dialetti” (e quindi anche le alloglossie) sono tuttora un ostacolo all’unità nazionale, o peggio, come capita, un elemento di arretratezza e una concausa dell’analfabetismo di ritorno è più che altro un segnale di incomprensione della realtà in cui viviamo. Basti considerare il fatto che affermazioni del genere implicano il paradosso secondo il quale “si parlava meglio italiano” in un passato in cui le lingue locali erano decisamente più vive e vitali di oggi! Il fatto è che mentre l’ipotesi di una società monolingue si rivela impraticabile e di fatto utopistica (la linguistica insegna che non esistono società perfettamente omogenee sotto il punto di vista della comunicazione), la tutela dei patrimoni linguistici appartiene ormai da tempo alla prassi dei paesi a democrazia avanzata, e la considerazione del bi- e del plurilinguismo come fattori di ricchezza culturale, ma anche di potenziamento delle abilità cognitive, fa parte da tempo delle acquisizioni della ricerca scientifica.

D’altro canto, la conservazione e la promozione delle diverse componenti del patrimonio linguistico di un paese non può essere imposta dall’alto, e la stessa esistenza di un atteggiamento non sfavorevole da parte delle istituzioni (il caso italiano lo dimostra clamorosamente) non è sufficiente ad assicurare un futuro a tradizioni linguistiche secolari: la volontà dei parlanti, come singoli e come comunità, è l’unico vero antidoto a una persistenza che non si risolva in una più o meno volontaristica “rappresentazione” della specificità locale fatta a suon di cartelli stradali e altri espedienti per “marcare” il territorio, magari a fini turistici prima ancora che culturali.

 

La legge e le realtà sociolinguistiche locali

 

Abbiamo visto come del resto, all’interno della categoria che è stata presa in esame in questa serie di articoli, la diversità delle situazioni sia anche il riflesso di esigenze e sensibilità diverse da parte delle popolazioni implicate: la compatta “identità” tirolese, che si appoggia a un uso del tedesco standard più ancora che sull’indubbia vitalità delle parlate locali, collide ad esempio col carattere pre-agonico di molte comunità germanofone “minori”, mentre la vitalità del tabarchino, lingua fortemente localizzata e priva per di più di ogni forma di tutela, contrasta col sostanziale arretramento nell’uso della “grande” alloglossia sarda in cui si trova incuneata; il francese in Valle d’Aosta “giustifica” in certo qual modo l’autonomia regionale ma risulta quasi privo di una pratica effettiva, mentre nel caso ladino dolomitico la manifestazione simbolica dell’idioma si accompagna a una solida e pervicace fedeltà all’uso parlato, come la si ritrova ad esempio presso alcune comunità albanofone del Meridione di contro ad altre della stessa origine, in cui l’abbandono è pressoché totale.

Anche questa riflessione induce a trarre qualche conclusione, che si collega alle ricorrenti critiche che hanno riguardato la legislazione in materia: ben vengano i riconoscimenti e le indicazioni generali, ma ogni realtà linguistica minoritaria, che appartenga o meno alla categoria delle varietà alloglotte, richiede poi, perché si attui una seria “politica” di tutela, un’attenzione diversificata alla realtà sociolinguistica e allo specifico locale.

 

Il rilancio delle lingue vive d'Italia

 

Importante è quindi promuovere la conoscenza dei patrimoni linguistici e la sensibilità nei loro confronti, sia che lo si faccia sul piano della ricerca scientifica di natura più strettamente specialistica, sia, come abbiamo cercato di fare in questo caso, attraverso una divulgazione che favorisca l’acquisizione di una sensibilità diffusa: sono anche queste forme concrete di sostegno a iniziative che partendo “dal basso” e dall’interno delle comunità dei parlanti possono contribuire (o almeno, così è nelle intenzioni) a pratiche effettive di rilancio delle lingue d’Italia, non come reperti da esporre in un ideale “museo” delle identità e delle identificazioni, ma come strumenti vivi, destinati a convivere in un contesto salutarmente plurale perché adeguati a esigenze diverse, in una realtà contemporanea in continua evoluzione anche sul piano della comunicazione.

 

La prima puntata: Il bel paese là dove 'l “sì” suona. E anche l’“ô”, lo “ja”, lo “scì”… (Fiorenzo Toso, curatore del ciclo)

La seconda puntata: Il francese e il francoprovenzale (Matteo Rivoira)

La terza puntata: Alto Adige – Südtirol (Sudtirolo) (Marco Caria)

La quarta puntata: Lo sloveno (Franco Finco)

La quinta puntata: L’occitano cisalpino (Matteo Rivoira)

La sesta puntata: Il friulano (Franco Finco)

La settima puntata: I Ladini delle Dolomiti (Marco Forni)

L’ottava puntata: Il sardo (Fiorenzo Toso)

La nona puntata: Il catalano di Alghero (Marco Caria)

La decima puntata: Le isole linguistiche germanofone minori (Marco Caria)

L’undicesima puntata: La minoranza linguistica italo-albanese (arbëreshe) (Monica Genesin e Joachim Matzinger)

La dodicesima puntata: Le isole grecofone in Calabria e in Puglia (Domenica Minniti Gònias)

La tredicesima puntata: Isole linguistiche: la comunità degli Slavi del Molise (Antonietta Marra)

La quattordicesima puntata: Le colonie linguistiche galloromanze di Guardia Piemontese, Faeto e Celle San Vito (Irene Micali)

La quindicesima puntata: Il romanes, la lingua dei sinti e dei rom (Massimo Aresu)

La sedicesima puntata: Il tabarchino della Sardegna e altri casi di minoranze discriminate (Fiorenzo Toso)

 

Immagine: Lago Gover, Gressoney-Saint-Jean, Valle d’Aosta  

 

Crediti immagine: Rinina25 [CC BY-SA 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/)]

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Toso16.html

Lingue sotto il tetto d'Italia. Le minoranze alloglotte da Bolzano a Carloforte - 16. Il tabarchino della Sardegna e altri casi di minoranze discriminate

 

L’approvazione della L.N. 482/1999 sulle minoranze ha evidenziato numerosi problemi relativi all’impostazione di una corretta politica linguistica nel nostro paese: tra gli altri, l’inaccettabile sperequazione che si è creata fra le minoranze ammesse a tutela e alcuni gruppi rimasti esclusi: rilevante in tal senso è il caso delle varietà italoromanze trapiantate fuori dalla loro area d’origine, escluse dai benefici della 482 in ragione di criteri classificatori e di valutazioni politico-culturali incoerenti con gli intendimenti stessi della legge. Rimane evidente infatti come questi gruppi, appartenenti alla tipologia della eteroglossie, non siano semplicisticamente omologabili alle realtà linguistiche regionali italiane, a loro volta, sia chiaro, meritevoli di tutela.

 

I dialetti "galloitalici" in Sicilia e in Basilicata

 

Un caso di particolare rilievo è quello dei cosiddetti dialetti “galloitalici” trapiantati nei secc. XII-XIII in Sicilia e in Basilicata, come conseguenza dell’immigrazione di genti provenienti dall’area di confine tra Liguria e Piemonte: se in territorio lucano questa componente linguistica (presente ad esempio a Tito, Picerno, Vaglio, Trecchina, Nemoli e nella stessa Potenza) ha perso col tempo molti elementi specifici dell’originaria alterità linguistica e culturale rispetto al panorama regionale, i cosiddetti “lombardi” (ossia “settentrionali”) di Sicilia, parlati da circa 60.000 persone, presentano ancora forme di riconosciuta e riconoscibile specificità rispetto alla lingua e alla cultura delle popolazioni contermini, ad esempio a Nicosia, Piazza Armerina e Aidone in provincia di Enna, a San Fratello, Novara di Sicilia e Montalbano Elicona in quella di Messina, a Ferla in provincia di Siracusa, e così via.

 

Il tabarchino di Sardegna

 

Nel caso poi più rilevante, quello del tabarchino di Sardegna, anche diversi fattori di carattere sociolinguistico assumono un ruolo centrale per la riflessione sul concetto di alterità linguistica e culturale. Carloforte e Calasetta, dove si parla questa lingua, rappresentano un’eredità significativa della presenza genovese nel Mediterraneo, conseguenza dell’espansione economica dell’antica Repubblica. Ma nel caso dei Tabarchini, il mantenimento del genovese come lingua comunitaria si appoggia anche a motivazioni più complesse, date dalla diversa specializzazione economica rispetto al resto della Sardegna, dalla micro-insularità del territorio e dall’inserzione dei due centri all’interno di un sistema economico e commerciale facente capo a Genova e alla Liguria.

La popolazione conservò quindi il genovese come elemento costitutivo di un’identità assai complessa, oggi profondamente diversa da quella dell’originario nucleo di coloni che nella prima metà del sec. XVI si trasferì a Tabarca, un isolotto lungo le coste della Tunisia, per passare poi nel sec. XVIII, a ondate successive, sulle due isole sarde di San Pietro e Sant’Antioco. Il tabarchino, per quanto sia rimasto fondamentalmente fedele all’originaria impronta genovese, si è arricchito col tempo, a sua volta, di elementi lessicali che sono il riflesso dei diversi contatti intrattenuti: pochi ma significativi gli arabismi e turchismi, abbastanza numerosi i sardismi, per quanto limitati ad alcuni ambiti semantici; significativi i sicilianismi, legati alla pratica della tonnara, caratteristici i francesismi che riflettono anche la continuità dei rapporti con la Tunisia coloniale.

 

I pescatori di corallo a Tabarca

 

L’identità tabarchina, non soltanto dal punto di vista linguistico, è insomma il frutto di una costruzione secolare, anche se in essa entra senz’altro in gioco in primo luogo la vicenda dei pescatori di corallo originari della Riviera di Ponente trasferitisi a Tabarca per rendere economicamente proficuo l’insediamento militare voluto da Carlo V per il controllo della costa magrebina, finanziato dalla famiglia genovese dei Lomellini. Tabarca mantenne sempre questa originaria vocazione, ma ad essa si affiancò ben presto una redditizia gestione dei traffici tra l’Africa settentrionale e la sponda europea, in un’epoca caratterizzata dalla teorica incomunicabilità tra il mondo islamico e quello cristiano. Unica enclave europea stabilmente impiantata sulla costa africana, Tabarca divenne così un emporio importante, una realtà extraterritoriale nella quale passavano merci e capitali ingenti. Essa prosperò fino a quando la sua esistenza convenne alle potenze interessate a questo singolare mercato. La crisi economica che conseguì all’alterarsi del fragile equilibrio che aveva consentito a lungo la sopravvivenza della colonia, indusse alcuni maggiorenti del luogo a negoziare il trasferimento di una parte della popolazione in Sardegna, dove la monarchia sabauda incentivava l’impianto di colonie destinate a ripopolare la fascia costiera. Nel 1738 Carloforte nacque da un progetto pianificato di insediamento, gestito da imprenditori tabarchini e genovesi sulla base di un’accurata ricognizione delle potenzialità economiche e commerciali dell’area.

 

Lo sviluppo economico e commerciale nell'Ottocento

 

I Tabarchini rimasti in Africa ebbero a scontare l’occupazione, la deportazione, il riscatto a più riprese, episodi che portarono a una diaspora protrattasi per alcuni decenni: alcuni si riunirono ai compatrioti carlofortini; altri si dispersero lungo la costa tunisina mantenendo la lingua originaria e la fede cristiana, e assumendo col tempo la condizione di minoranza etnico-religiosa tutelata in base alle consuetudini turche; altri ancora, riscattati dal re di Spagna, fondarono nel 1769 Nueva Tabarca su un isolotto nei pressi di Alicante (dove la lingua si estinse ai primi del Novecento); un ultimo nucleo infine popolò l’anno successivo la punta nord-occidentale dell’isola di Sant’Antioco, fondandovi Calasetta in diretta continuità con l’esperienza carlofortina.

La storia dei tabarchini nell’Ottocento, dopo l’episodio della deportazione della popolazione carlofortina in Tunisia (1798) e l’effimera occupazione da parte dei rivoluzionari francesi, è caratterizzata da un grandioso sviluppo economico e commerciale: se Calasetta sviluppò una vocazione agricola attraverso la monocultura della vite, Carloforte mise a frutto la propria posizione geografica, rimanendo a lungo il principale porto mercantile della Sardegna dopo Cagliari. A parte le attività tradizionali (pesca del corallo, tonnare, saline), il centro divenne così il punto d’imbarco dei prodotti minerari del Sulcis. Il trasferimento del minerale richiamò una forte immigrazione da varie aree del Mediterraneo e rappresentò fino a dopo la seconda guerra mondiale una risorsa importantissima per il paese, anche se le dure condizioni di lavoro suscitarono periodiche tensioni sociali, che contribuirono alla maturazione civile delle comunità tabarchine.

 

Turismo, dal secondo Novecento

 

Quest’epoca d’oro entrò in crisi soprattutto nel secondo dopoguerra, con l’esaurirsi a Carloforte delle attività legate alla movimentazione del minerale, per il diverso orientamento dei flussi commerciali che interessavano la Sardegna, per lo stesso ridimensionamento dell’economia vitivinicola calasettana. Lo sviluppo turistico dei due centri rappresenta oggi un nuovo elemento di scarto rispetto a un retroterra sardo che non è ancora decollato da questo punto di vista, e rappresenta quindi, ancora una volta, un elemento di alterità tale da contribuire per certi aspetti al mantenimento di una specificità rispetto al resto della Sardegna. Al tempo stesso, i flussi turistici non sono ancora tali da minacciare seriamente il tessuto comunitario e l’originalità culturale e linguistica di Carloforte e Calasetta, dove i rilevamenti statistici confermano negli ultimi decenni una forte tenuta dell’uso della lingua locale, con percentuali di particolare rilievo a Carloforte, dove il tabarchino risulta parlato da quasi il 90% della popolazione.

 

Una cultura minoritaria non regressiva

 

Questa succinta panoramica aiuta a capire i motivi da un lato della conservazione della lingua tabarchina, capace di integrare una popolazione d’origine eterogenea chiamata a riconoscere in essa un elemento di peculiarità non solo idiomatica ma anche economica e sociale; dall’altro, le ragioni della profonda originalità culturale della comunità tabarchine, che fanno dei circa diecimila abitanti di Carloforte e Calasetta un caso forse unico in Italia e in Europa di cultura minoritaria non regressiva o in fase preagonica ma in grado al contrario di sostenere e promuovere la propria specificità: anche in reazione alla mancata tutela infatti, sono fiorite negli ultimi anni le iniziative e i progetti autogestiti a livello comunitario, che hanno portato alla fissazione di uno standard ortografico e di una grammatica, all’avvio di iniziative didattiche, alla realizzazione di strumenti utili alla diffusione e alla conoscenza in tutte le fasce di età di un idioma che vive anche, oggi, attraverso una rilevante produzione canora e letteraria.

 

Un caso di discriminazione

 

Si capisce allora come l’esclusione della minoranza tabarchina (come tale riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale) dai benefici di tutela e promozione della lingua e della cultura locali previsti dalla legge nazionale rappresenti una discriminazione palese, contraria al principio costituzionale dell’eguaglianza, e come essa abbia suscitato prese di posizione delle istituzioni locali, del mondo intellettuale e delle associazioni rappresentative dei linguisti italiani, anche con l’avvio di iniziative di legge atte a ovviare a questa incresciosa sperequazione, che hanno riguardato spesso, estensivamente, anche il caso delle varietà altoitaliane della Sicilia. Il paradosso di una lingua minoritaria riconosciuta a livello regionale ma non a livello nazionale si associa per di più a quello, non meno assurdo, di una regione in cui i due soli comuni di Carloforte e Calasetta non hanno formalmente diritto ad accedere ai benefici della legge nazionale.

Se vale da un lato la considerazione che i tabarchini non hanno certamente bisogno, per continuare sulla strada della valorizzazione della propria specificità linguistica, del riconoscimento legislativo, resta il fatto che l’esclusione di questo gruppo dal novero delle minoranze linguistiche storiche ammesse a tutela mette in luce tutti i difetti dell’impostazione reazionaria ed etnicista che soggiace alla “politica linguistica” sviluppatasi in Italia in questi ultimi anni, in cui alla mancata considerazione della tipologia sociolinguistica si accompagna una sopravvalutazione della discriminante genealogica come criterio-guida nella scelta dei gruppi ammessi a beneficiare della legge: tali scelte finiscono per svuotare il provvedimento dei principi ideali in nome dei quali è stato emanato, ossia la “tutela” dei diritti linguistici di settori significativi della popolazione italiana in ottemperanza al dettato costituzionale.

 

 

Bibliografia

 

Insularità linguistica e culturale. Il caso dei Tabarchini di Sardegna. Documenti del Convegno internazionale di studi (Calasetta, 23-24 settembre 2000), a cura di Vincenzo Orioles e Fiorenzo Toso, Recco, Le Mani (Udine, Centro Internazionale sul Plurilinguismo), 2001

 

Le eteroglossie interne. Aspetti e problemi (a cura di Vincenzo Orioles e Fiorenzo Toso), Numero tematico di “Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata”, n.s. 34, 2005

 

Toso, Fiorenzo, I Tabarchini della Sardegna. Aspetti linguistici ed etnografici di una comunità ligure d’oltremare, Recco, Le Mani, 2003

 

 Toso, Fiorenzo, Il tabarchino. Strutture, evoluzione storica, aspetti sociolinguistici, in Il bilinguismo tra conservazione e minaccia. Esempi e presupposti per interventi di politica linguistica e di educazione bilingue a cura di A. Carli, Franco Angeli, Milano, 2004 (pp. 21–232).

 

Toso, Fiorenzo,  Le minoranze linguistiche in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008

 

Toso, Fiorenzo, La Sardegna che non parla sardo, CUEC, Cagliari, 2012

 

Trovato, S.C., I dialetti galloitalici di Sicilia. Status attuale e progetti di ricerca, in G. Holtus, M. Metzeltin e M. Pfister (a cura di), La dialettologia italiana oggi. Studi offerti a Manlio Cortelazzo, Tübingen 1989, pp. 359-371

 

Trovato, S.C., I dialetti galloitalici della Sicilia: bilancio e prospettive, in Migrazioni interne: i dialetti galloitalici della Sicilia, in “Atti del XVII Convegno per gli Studi dialettali italiani (Nicosia-Sperlinga, 14-17 settembre 1987)”, Padova 1994, pp. 243-271

 

Trovato, S.C., I dialetti galloitalici della Sicilia, in Holtus, G., Metzeltin, M., Schmitt, C. “Lexicon der romanistischen Linguistik”, VII, Kontakt, Migration und Kunstsprachen. Kontrastivität und Typologie, Tübingen 1998, pp. 538-549

 

 

La prima puntata: Il bel paese là dove 'l “sì” suona. E anche l’“ô”, lo “ja”, lo “scì”…(Fiorenzo Toso, curatore del ciclo)

La seconda puntata: Il francese e il francoprovenzale (Matteo Rivoira)

La terza puntata: Alto Adige – Südtirol (Sudtirolo) (Marco Caria)

La quarta puntata: Lo sloveno (Franco Finco)

La quinta puntata: L’occitano cisalpino (Matteo Rivoira)

La sesta puntata: Il friulano (Franco Finco)

La settima puntata: I Ladini delle Dolomiti (Marco Forni)

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La nona puntata: Il catalano di Alghero (Marco Caria)

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L’undicesima puntata: La minoranza linguistica italo-albanese (arbëreshe) (Monica Genesin e Joachim Matzinger)

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La tredicesima puntata: Isole linguistiche: la comunità degli Slavi del Molise (Antonietta Marra)

La quattordicesima puntata: Le colonie linguistiche galloromanze di Guardia Piemontese, Faeto e Celle San Vito (Irene Micali)

La quindicesima puntata: Il romanes, la lingua dei sinti e dei rom (Massimo Aresu)

 

Immagine: Carloforte, Isola di San Pietro, Carbonia-Iglesias, Sardegna, Italia

 

Crediti immagine: trolvag [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)]

/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Genovese.html

Lavori in corso: il Dizionario Etimologico Storico Genovese e Ligure

 

L’interesse per la dialettologia storica e per il lessico delle varietà regionali è sempre stato vivo, anche in relazione all’apporto delle diverse aree alla “costruzione” della lingua comune: dai Dialettismi nell’italiano di A. Prati (1954) a Le parole dialettali di P. Zolli (1986) e al capitolo sui Dialettismi dell’italiano di F. Avolio per la Storia della lingua einaudiana (1994), fino a quanto si può ricavare da grandi sintesi come il LEI (Lessico etimologico italiano fondato da M. Pfister) o il GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso diretto da T. De Mauro), questa prospettiva ha prodotto risultati importanti, arricchendo la riflessione sul rapporto tra la lingua nazionale e quelle regionali. Un’attenzione più mirata su queste ultime ha a sua volta implicato, ancora di recente, sintesi di carattere etimologico (Repertorio etimologico piemontese diretto da A. Cornagliotti) e progetti di largo respiro basati sulla documentazione scritta (Vocabolario del romanesco contemporaneo di P. D’Achille e C. Giovanardi; Dizionario etimologico storico napoletano già illustrato tempo fa da N. De Blasi; cliccare qui).

 

Continuità e compattezza della documentazione

 

In Liguria, già nel 2002 era uscito il Vocabolario ligure storico bibliografico di S. Aprosio, basato sullo spoglio selettivo della documentazione latino-medievale e volgare. Tale realizzazione ha sollecitato l’esigenza di ulteriori approfondimenti, sfociati nel progetto di un Dizionario etimologico storico genovese e ligure per il quale è stato recentemente completata la raccolta dei materiali (già disponibili, a richiesta, per ricerche mirate di studiosi che ne facciano domanda) in vista della redazione di un’opera che vedrà la luce sia su supporto informatico che (in forma ridotta) in volume.

L’iniziativa promossa dalla cattedra di Linguistica del Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali dell’Università di Sassari nasce dalla constatazione che in Liguria, mentre andava esaurendosi l’interesse della ricerca accademica sulle varietà locali, sono aumentate negli ultimi anni le iniziative legate alla ricerca dei testi e sui testi, al loro studio, all’edizione, alla sistemazione critica: questi materiali collocano originalmente l’area ligure all’interno degli studi romanzi, e l’interesse nei loro confronti intercetta al contempo il diffuso interesse di un pubblico che, nel quadro della “riscoperta” (a tratti contraddittoria, ma in ogni caso effettiva) dei patrimoni linguistici tradizionali, presta volentieri attenzione anche al loro passato storico-linguistico. Il progetto è nato anche dalla considerazione che la documentazione storica sul genovese si caratterizza per continuità e compattezza, dai primi documenti volgari fino ad oggi, senza effettive cesure o soluzioni di continuità. Al tempo stesso, per quanto imponente, essa non è tale da risultare insondabile, presentando il vantaggio di essere in gran parte nota e reperibile almeno nei testi fondamentali, al di là di sempre possibili rinvenimenti e di “giacimenti” ancora meritevoli di ricognizione.

 

Spoglio completo delle fonti dalle origini al 1815

 

Considerata anche l’importanza storica di quella che fu una lingua di grande circolazione nel bacino del Mediterraneo, in continuo contatto con altri idiomi, espressione di una cultura “pratica” che fu per secoli “luogo” di elaborazione, ricezione e distribuzione di quote importanti di lessico, soprattutto in ambito marinaresco e mercantile, è nata quindi l’idea di procedere allo spoglio completo di tutte le fonti edite ed inedite dalle origini al 1815, e di ordinarne i risultati in una banca-dati che offra, oltre alle attestazioni, una discussione accurata dell’etimologia e della storia dei singoli termini: il discrimine cronologico ha una valenza storico-culturale e linguistica precisa, coincidendo con la definitiva cessazione dell’indipendenza ligure (che ebbe conseguenze rilevanti nella percezione stessa del genovese e nel ridimensionamento delle sue funzioni parlate e scritte) e con la visibile affermazione, nell’uso grafico, di marche fonetiche, morfologiche e lessicali che segnano il transito dalla fase che viene convenzionalmente definita “classica” a quella moderna. Il thesaurus copre quindi un arco cronologico di oltre seicento anni.

Lo spoglio di diverse centinaia di fonti è stato effettuato nell’arco di alcuni anni. Oggi la banca-dati DESGEL raccoglie e ordina le attestazioni di ogni voce presente, di tradizione diretta e indiretta, di origine forestiera o locale, offrendo un quadro completo della sua storia: un computo esatto dei lemmi non è stato effettuato, ma essi si aggirano verosimilmente intorno alle 30.000 unità, con diverse centinaia di migliaia di attestazioni. Queste ultime arrivano alla piena esaustività nel caso dei termini più interessanti, dei quali è stata censita ogni occorrenza, e a una selezione comunque molto ampia anche per i lemmi di maggiore frequenza.

 

Il contesto fraseologico

 

La classificazione dei materiali è estremamente semplice: per favorirne la reperibilità, la documentazione di ogni voce è raccolta sotto un apice di lemma basato sulla forma del genovese moderno (o sulla variante più recente nel caso in cui il termine non sia più attestato dopo il 1815); a loro volta, le voci ancora vive in dialetti liguri diversi dal genovese sono raccolte sotto le forme attuali di questi ultimi. Le attestazioni sono organizzate in ordine cronologico sotto i significati di volta in volta descritti, e contrassegnate da una sigla alfabetica della fonte, così citata assieme alla datazione e all’indicazione del punto (pagina, carta, ecc.) in cui si rinviene il termine; nessuna indicazione geografica viene menzionata per le fonti genovesi, assolutamente maggioritarie per il periodo preso in esame, mentre la località d’origine del testo o dell’autore viene menzionata in tutti gli altri casi; il simbolo ° premesso alla citazione ne indica l’appartenenza a testi definibili, dopo il 1528, come di italiano regionale. Le forme, presentate nel loro contesto fraseologico e con particolare riguardo alla presenza in espressioni idiomatiche, in piena aderenza grafica alle fonti di volta in volta citate, sono attinte dalle edizioni più attendibili per quanto possibile, o direttamente dai manoscritti per i testi inediti. Quest’ultima circostanza ha comportato anche una valutazione critica preliminare, che costituisce in molti casi un utile punto di partenza per future edizioni.

 

Cartaceo, digitale, palestra

 

I primi sondaggi stanno intanto fornendo interessanti informazioni anche sulla storia di voci passate dal genovese all’italiano e ad altre lingue e dialetti, precisando in molti casi, ma addirittura spesso sovvertendo, con la precocità e la tipicità delle attestazioni, ipotesi consolidate sull’origine e l’irradiazione di termini legati al mondo della marineria, della pesca, del commercio e così via.

Oltre al riordinamento dei materiali, nella fase attuale si sta procedendo alla elaborazione della parte etimologica di ciascun lemma, per il momento estremamente sintetica, soprattutto nei casi acclarati: sono inoltre allo studio i criteri redazionali destinati a ottimizzare la presentazione di quello che, una volta ultimata la sistemazione, si configurerà probabilmente come uno dei più completi repertori storico-etimologici del panorama romanzo; va considerato che l’edizione cartacea non esaurirà le possibilità di aggiornamento dell’impresa, che nella versione digitale si configurerà come un costante work in progress, potenzialmente ampliabile in futuro anche attraverso lo spoglio della documentazione otto-novecentesca. In tal modo il lessico ligure disporrà di una banca-dati completa, come stimolo per ulteriori approfondimenti, palestra per la formazione di nuove generazioni di ricercatori, fonte per la riflessione sulla storia linguistica e letteraria della Liguria e strumento per l’interpretazione di un rilevante patrimonio documentario.

 

Gli studiosi che siano interessati ad accedere, attraverso la mediazione del curatore, ai materiali del DESGEL, possono farne richiesta all’indirizzo ftoso@niss.it

 

Alcune schede della banca-dati già ordinate: Nasello (385) Nassa (386) Nevo, Neo (387) Nettezza (388) Nio (389) Noxe2 (391) Nespoa (392)

 

Immagine: Veduta di Genova nell'anno 1481 di Cristofaro Grasso

 

Crediti immagine: Galata - Museo del mare [Public domain]

 

 

/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/Diniegato.html

Diniegato: una parola di troppo

Per ‘negare qualcosa, non accettarlo’, esiste in italiano un non comune verbo denegare che conosce l’ancor meno frequente variante dinegare con l’antiquato diniegare. Da quest’ultima forma deriva per retroformazione il ben più comune diniego ‘negazione, rifiuto, ripulsa’, che capita di sentire soprattutto nel linguaggio burocratico o giuridico, in espressioni quali opporre un fermo diniego a una domanda, gli è stato risposto con un deciso diniego, e così via.

Confesso che la relativa familiarità col sostantivo non mi aveva mai fatto riflettere sull’esistenza del verbo che lo implica, che è raro incontrare in testi non specialistici e ancor più, come dicevo, nella conversazione corrente.

 

Prince Jerry

 

Anche per questo motivo, alcuni giorni fa, quando mi ci sono imbattuto, leggendo un post su facebook, l’impressione che ne ho tratto è stata particolarmente sgradevole. Nell’asciutta prosa di un sacerdote genovese riportata in quel testo, il participio passato mi è suonato lì per lì incongruo rispetto alla drammatica notizia che stavo leggendo: "Uno dei nostri ragazzi di Multedo, Prince Jerry, dopo essere stato diniegato prima di Natale e scoprendo che non avrebbe potuto contare neppure sul permesso umanitario che è stato annullato dal recente Decreto, si è tolto la vita buttandosi sotto un treno".

Sono, per quanto indegnamente, un professionista di studi sul linguaggio, e nel bene o nel male le parole sono il mio pane quotidiano. Al di là del senso di tristezza che la notizia mi provocava, mi sono messo dunque a riflettere su quel diniegato e sul suo significato. Lì per lì, confesso che ho pensato a una creazione estemporanea rifatta su diniego, dettata dalla fretta o dall’emozione dello scrivente; dopo di che, l’automatica associazione al caso dell’aggettivo esodato mi ha indotto ad approfondire e, come tutti ormai facciamo, prima ancora che sui libri e sui vocabolari sono andato a cercare in rete.

 

Il progetto di Parlare Civile

 

Qui ho scoperto che l’informatissimo sito parlarecivile.it redatto da Raffaella Cosentino, Federica Dolente e Giorgia Serughetti dedica a “diniegato” un’intera pagina. Parlare civile è un progetto “volto a fornire un aiuto pratico a giornalisti e comunicatori per trattare con linguaggio corretto temi sensibili e a rischio di discriminazione”: nasce dal libro omonimo curato da Redattore sociale e, avvalendosi della consulenza scientifica di Francesco Carchedi, Giovanni Mottura e Enrico Pugliese, fornisce un ausilio veramente prezioso a quanti intendono liberamente fruirne.

Riguardo a diniegato ho imparato proprio qui come il termine si riferisca “alla persona a cui è stato negato lo status di rifugiato. Si tratta di un cittadino straniero che ha ricevuto il rigetto della sua domanda di asilo dopo l’audizione presso la Commissione Territoriale in quanto ritenuto non in possesso dei requisiti per il riconoscimento dello status, previsti dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra. Il diniegato è tenuto a lasciare il territorio nazionale, salvo che gli sia stato concesso un permesso di soggiorno per motivi umanitari o che non faccia ricorso contro la decisione”.

Citando la ricerca “Presenze trasparenti” Ricerca sulle condizioni e i bisogni delle persone a cui è stato negato la status di rifugiato, promossa dai centri di volontariato Cesv e Spes (2007), la scheda relativa al termine chiarisce come “non si tratti di rifugiati e non più di richiedenti asilo, né di immigrati economici o per altre cause, ma di persone che temendo per la propria incolumità hanno lasciato il paese di origine ed hanno chiesto asilo in Italia, trovandosi ora a vivere una situazione di precarietà o di vera e propria irregolarità rispetto al permesso di soggiorno”.

Ho appreso anche, dalla documentazione messa a disposizione nel sito, come “tra il 21 aprile 2005 e il 2 novembre 2007 su un totale di 27.295 domande presentate sono stati riconosciuti 2.203 rifugiati, 11.634 persone hanno ricevuto il diniego dello status di rifugiato, ma hanno avuto la protezione umanitaria e ben 10.020 richiedenti hanno ricevuto diniego senza protezione umanitaria”.

In sostanza quindi, migliaia di persone vivono in Italia la condizione di “diniegati”, circostanza che li rende di fatto invisibili, in uno status ancor più precario di quello di rifugiati e richiedenti asilo, alla mercè delle più inumane condizioni di sfruttamento e con tutti i rischi di marginalizzazione che ne possono derivare. Nel mondo di paria che sta crescendo inesorabilmente all’interno della nostra società, essere “diniegati” significa in pratica scendere al gradino più basso di una scala il cui punto di arrivo sprofonda in un inferno senza via d’uscita.

 

Vergogna collettiva

 

Ho letto poi, nelle ore e nei giorni successivi, vari tentativi di motivare il suicidio di Prince Jerry come conseguenza di un malessere più generico, come se la presunta “goccia” che ha fatto traboccare il vaso della sua angoscia non dovesse essere una ragione più che sufficiente per portarlo all’estremo del suo gesto. Mi sono convinto che non sia stato così. Le testimonianze concordano nel dire che Prince Jerry era un ragazzo in gamba, con un buon titolo di studio, bene integrato nel centro in cui era ospitato, disponibile verso gli altri e sinceramente animato dalla volontà di inserirsi nel paese che lo stava accogliendo.

Al termine di sofferenze indicibili, Prince Jerry aveva avuto qualcosa, non molto, pochissimo in realtà, ma era qualcosa, un barlume di futuro. Gli è stato tolto anche questo. “Il diniegato è tenuto a lasciare il territorio nazionale”, e lui lo ha fatto, per nostra vergogna collettiva.

 

Il linguista, la parola, il mondo

 

Ora, si dice che il linguista debba mantenere un atteggiamento di asettica indifferenza nel momento in cui registra (scopre) il nuovo – almeno per lui – valore semantico di una parola. Sarà. Io debbo ammettere invece che la frase “dopo essere stato diniegato prima di Natale” è stata per me contundente. Forse, anche perché erano i giorni in cui ferveva l’inutile polemica sull’uso di sedere, uscire, entrare e così via, che ha fatto spendere alquante chiacchiere a vuoto non soltanto al “pubblico” ampio, ma anche all’interno del più ristretto ambito della categoria di studiosi ai quali umilmente appartengo: sarà per questo che la circostanza secondo la quale un ragazzo abbia potuto “essere diniegato” mi è suonata particolarmente oscena, mi ha fatto trovare ridicole e, sì, inopportune, le disquisizioni sul valore transitivo o intransitivo di questo o quel verbo.

Infatti, anche interrogarsi sul peso delle parole fa, o dovrebbe far parte, di questo mestiere. Parlare civile sostiene, e con ragione, che “l’uso di questo termine tecnico è troppo poco diffuso sui media”. E io mi chiedo, ma dovremmo, ma potremmo davvero abituarci a questo termine osceno? Nella discussione nata sui social, la collega e amica Piera Molinelli mi ha fatto osservare, giustamente, come “senza scomodare ipotesi di determinismo linguistico, dobbiamo però sapere che la lingua passa messaggi che diventano ‘normali’ proprio perché denominati”. Ovviamente, ha ragione. Ma allora la domanda che ho formulato or ora si allarga: in che misura possiamo, dobbiamo abituarci a questa normalità? Non abbiamo forse il diritto, e il dovere, di opporci civilmente a questa normalità?

 

Al servizio dell’uomo

 

Il linguista può davvero limitarsi a registrare asetticamente questa nuova accezione per l’edizione aggiornata di un vocabolario? A riflettere su come un termine obsoleto quale diniegare generi una retroformazione che si riverbera su di esso attualizzandolo col nuovo valore di ‘escludere da ogni forma di riconoscimento giuridico un profugo’? Deve davvero limitarsi a dissertare dottamente sul conflitto tra “antilingua” e “politicamente corretto”, accontentandosi al più di stigmatizzare un termine così crudo, o di criticare l’ipocrisia che cela dietro questo poco comprensibile e al tempo stesso tremendo diniegato, termini espliciti come rifiutato, umiliato, calpestato?

Ne nasce un senso di frustrazione e di impotenza, perché, è vero, il linguista non ha neppure la prerogativa di incidere sull’uso di ciò che studia, tanto potente è invece la Parola. Ma altrettanto vero è che la Parola è al servizio dell’uomo, determinando la sua capacità di proporsi come animale sociale. E anche il linguista è uomo, e animale sociale. Non abdicare mai alla capacità di andare oltre le parole, indignarsi per ciò che significano (ma anche, quando è il caso, gioirne) dà senso compiuto alla ricerca del linguista, caricandola di un valore civile e di una dimensione etica.

 

 

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Lingue sotto il tetto d'Italia. Le minoranze alloglotte da Bolzano a Carloforte - 8. Il sardo

 

La Sardegna è dopo la Sicilia la più vasta isola dello stato italiano, ma con una popolazione di poco più di 1.600.000 abitanti rappresenta una delle regioni meno densamente abitate. Popolata nell’antichità dalle genti che vi diedero vita alla cultura nuragica, fu colonizzata lungo la costa sud-occidentale anche da gruppi fenici e cartaginesi, che vi stabilirono importanti insediamenti.

La conquista romana (238 a.C.), sovrappose al sostrato paleosardo l’elemento linguistico latino anche nelle zone più interne, dove esso si mantenne durante l’effimera occupazione vandalica (456-534) e la riconquista bizantina, che diede ai Sardi le strutture politiche e giuridiche sulle quali si basò la precoce indipendenza dell’isola: nell’alto medioevo (IX sec.) troviamo la Sardegna organizzata in Giudicati indipendenti. L’indipendenza sarda, tuttavia, venne ben presto messa in discussione dall’intervento di Pisani e Genovesi, che divisero la Sardegna in sfere d’influenza.

 

Dalla dominazione catalano-aragonese alla Grande guerra

 

L’intervento dei Catalano-aragonesi, iniziato nel 1323, rappresentò l’avvio di una nuova fase di dominazione straniera. Consolidata la loro presenza, gli Aragonesi dotarono l’isola di un governo vicereale e di un parlamento (Istamentos). Le leggi fondamentali dell’isola (Cartas de Logu emesse dalla giudicessa Eleonora d’Arborea nel 1395) vennero conservate, ma all’uso ufficiale del sardo venne preferito quello del catalano. Nel 1479, con l’unione delle corone di Aragona e di Castiglia, la Sardegna passò sotto il dominio spagnolo, e la lingua castigliana si sostituì progressivamente al catalano negli usi pubblici. L’isola passò poi all’Austria (1713) e nel 1718 ai Savoia, con la proclamazione del Regno di Sardegna. Il governo di Torino, pur attuando alcune riforme, inaugurò nell’isola una politica di pressione fiscale e di sfruttamento delle risorse economiche, affermando al contempo (1764) l’uso dell’italiano come lingua ufficiale. Con l’Ottocento i Savoia continuarono la loro politica di sfruttamento delle risorse della Sardegna: tra il 1847 e il 1861, anno della proclamazione del Regno d’Italia, la Sardegna perse la residua autonomia e piombò in una crisi economica e sociale destinata a durare fino alla fine della Prima guerra mondiale.

 

L’autonomismo

 

L’autonomismo sardo nacque immediatamente dopo il conflitto come espressione dei movimento dei reduci di guerra che avevano viste disattese le promesse di una più equa distribuzione della terra. Agli inizi tuttavia il sardismo non ebbe precisi caratteri di rivendicazione etnica, anche perché la lingua e la cultura sarda erano percepiti come simboli del sottosviluppo della regione: gli stessi usi scritti, malgrado i tentativi di eruditi sette e ottocenteschi come M. Madau e G. Spano di dotare il sardo di una koinè letteraria rinnovata, non si erano ancora sollevati da un livello vernacolare. Lo statuto del 1948, che concedeva alcune prerogative alla regione, fu però una risposta inadeguata ai gravi problemi economici, sociali e culturali della Sardegna: nel dopoguerra così, con la crescita della coscienza autonomista, anche i temi del riconoscimento della specificità linguistica e culturale della Sardegna hanno cominciato a entrare nei programmi dei partiti presenti sull’isola, anche in seguito alle sollecitazioni provenienti, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, da nuovi movimenti a carattere indipendentista e rivoluzionario.

 

L’originalità linguistica dell’insieme sardo

 

Il sardo rappresenta un insieme dialettale fortemente originale nel contesto delle varietà neolatine e nettamente differenziato rispetto alla tipologia italoromanza, e la sua originalità come gruppo a sé stante nell’ambito romanzo è fuori discussione. Tra le caratteristiche salienti del sardo, tenendo in considerazione soprattutto le tipologie più arcaiche e specifiche, vanno ricordati il sistema a cinque vocali originate dall’annullamento della distinzione tra lunghe e brevi in latino; la conservazione del suono velare di c e g davanti a e ed i (chentu ‘cento’, chimbe ‘cinque’, ghelare ‘gelare’); la conservazione dei nessi cl-, pl-, gl-, bl-e fl- (per lo più nelle forme kr-, pr- ecc: kramare ‘chiamare’, krae ‘chiave’, pranghere ‘piangere’); il passaggio di qu- a b- (battoro ‘quattro’); la forma degli articoli derivati da ipsum (su, sa, sos, sas); l’uso del plurale in -s (muros, feminas, omines); la presenza nel lessico di voci specifiche spesso corrispondenti a parole latine che non continuano in italiano (domo ‘casa’, chitto ‘presto’, crai ‘domani’ ecc.).

I dialetti sardi rappresentano dunque una varietà caratterizzata da tipologie arcaiche, il cui mantenimento fu favorito dalle condizioni di insularità del territorio, anche se questa caratteristica appare controbilanciata da una notevole dinamica di fattori evolutivi interni e dall’apporto di elementi, di natura prevalentemente lessicale, da parte delle lingue di prestigio (italiano, genovese, catalano, castigliano ecc.) che si succedettero sull’isola durante le diverse dominazioni da essa subite.

 

Le principali aree dialettali

 

Un aspetto rilevante della realtà linguistica sarda è dato poi dalla frammentazione dialettale, che consente di individuare alcune aree principali (logudorese e nuorese, più arcaiche, campidanese caratterizzata da fenomeni di evoluzione talora convergenti con quelli che caratterizzano alcune varietà italiane meridionali), all’interno delle quali si riscontrano ulteriori elementi di differenziazione corrispondenti alla tradizionale frammentazione amministrativa del territorio isolano. In termini strettamente linguistici il sardo non si configura quindi come una lingua minoritaria bensì come un gruppo di parlate estranee al sistema dei dialetti italiani ma tradizionalmente privo di una lingua-tetto di riferimento diversa dall’italiano letterario. Il continuatore più diretto del volgare sardo illustre che ebbe vitalità e funzioni di prestigio in epoca medievale viene identificato col tipo logudorese, che ha goduto in passato di una certa circolazione come lingua letteraria anche al di fuori dell’area in cui viene tradizionalmente parlato, ma che oggi non viene percepito, soprattutto nell’area meridionale di dialetto campidanese, come rappresentativo della specificità complessiva della sardofonia.

Quanto alla vitalità nell’uso, una indagine sociolinguistica ha accertato nel 2007 che se nel quadro del plurilinguismo sardo le diverse lingue minoritarie (non solo il sardo quindi, ma anche le varietà alloglotte) sono parlate nell’insieme dal 68,4 % della popolazione e comprese da un altro 29%, le competenze attiva e passiva passano rispettivamente al 76 e al 21,9% per l’area del logudorese (con punte del 94% di competenza attiva nelle aree interne del Logudoro nord-occidentale) e al 68,9 e al 27,7% per l’area del campidanese, ma che tra i bambini dai 6 ai 14 anni solo il 42,9% parla le varietà minoritarie e un altro 36,4% è in grado di comprenderle.

 

Diglossia, dilemmi e vitalità culturale

 

L’italiano sta dunque guadagnando ulteriormente terreno rispetto a varietà tradizionali peraltro ancora vitali in molte aree, e sul rapporto diglossico tra italiano e sardo, anche alla luce delle statistiche, si può tuttora sottoscrivere la valutazione di Tullio Telmon (1992), per il quale sull’isola «[…] l’italiano continua a giocare un ruolo di grande importanza, non soltanto in quanto lingua dello stato, ma anche per l’atteggiamento fortemente utilitaristico che i sardi hanno assunto nei suoi confronti. […] Malgrado gli sforzi di numerosi intellettuali di estendere il sardo a domini ed a funzioni generalmente di competenza del solo italiano, la generalità della popolazione continua a distinguere diglossicamente in modo netto i campi di applicazione dei due codici, confinando il sardo alla comunicazione quotidiana ed affidando all’italiano il compito di assolvere alla comunicazione formale».

Ciò pone evidenti dilemmi in merito alle iniziative, a varie riprese promosse anche dall’amministrazione regionale, di avviare la standardizzazione di una limba sarda unificada (lingua sarda unificata) o comuna (comune) sulla quale costruire l’ipotesi di un bilinguismo istituzionale con l’italiano e un più deciso inserimento nell’uso didattico: se il 57,7% degli intervistati si è dichiarato in linea di principio favorevole all’adozione del sardo con prerogative istituzionali, il dilemma che si pone tra i cultori e gli studiosi attenti ai problemi di glottopolitica e di ecologia linguistica è proprio tra la proposta insistente di un modello di sardo comune (ipotesi cara soprattutto alla militanza culturale), e la presa d’atto che la varietà dialettale, nella quale si riconosce la maggioranza dei parlanti, rappresenta l’orizzonte idiomatico che i Sardi stessi vorrebbero vedere tutelato e valorizzato. Alla luce di queste difficoltà molti progetti di promozione e valorizzazione del patrimonio linguistico isolano sono spesso rimasti lettera morta, malgrado le iniziative promosse in particolare dalla Regione Autonoma, che affianca all’inquadramento del sardo fra le varietà tutelate in base alla L.N. 482/1999 un’importante produzione legislativa.

I problemi inerenti alla gestione istituzionale della specificità linguistica sarda non hanno del resto impedito alla cultura minoritaria di trovare in questi ultimi decenni forme di espressione notevoli e vistose, dall’incremento della produzione letteraria alla valorizzazione del vastissimo patrimonio folkloristico di canti e danze, dall’acquisizione di spazi solitamente preclusi alle espressioni minoritarie (pubblicistica, mezzi di comunicazione, didattica) al coinvolgimento e alla sensibilizzazione in tema di salvaguardia e promozione del patrimonio idiomatico regionale di settori significativi dell’opinione pubblica, senza dimenticare il livello raggiunto dagli studi scientifici sul sardo.

 

Le varietà sardocorse

 

L’orizzonte linguistico tradizionale non si esaurisce sull’isola coi dialetti appartenenti al sistema linguistico sardo. Oltre al catalano algherese e al ligure tabarchino, due varietà alle quali verrà dato adeguato spazio in altre puntate del nostro viaggio tra le alloglossie, in un’ampia area settentrionale i dialetti presentano caratteri di specificità che si debbono alla decisa affinità con quelli della Corsica meridionale e centro-occidentale: questa continuità attraverso le Bocche di Bonifacio si spiega essenzialmente col massiccio afflusso di Corsi in età tardo-medievale, verso ovest, in particolare, durante il periodo della supremazia politica di Genova sul Turritano; in Gallura questo ripopolamento continuò ancora fino al XVIII sec. determinando il costante regresso delle parlate logudoresi.

Nell’ambito delle varietà sardocorse occorre distinguere in primo luogo il sassarese, affine al dialetto della zona di Ajaccio e parlato, oltre che a Sassari e nel contado della Nurra, anche a Porto Torres, Sorso e Stintino, qui con un più forte influsso ligure. Il dialetto di Castelsardo e quello di Sedini segnano la transizione tra il sassarese e il gallurese, più vicino alla parlata corsa della regione di Sartene e diffuso oggi nelle varietà tempiese e aggese in tutta la regione storica della Gallura e nell’Anglona nord-orientale. Ha infine caratteri propri il dialetto dell’isola della Maddalena, popolata soprattutto dal sec. XVIII da abitanti corsi dell’entroterra rurale di Bonifacio, che vi importarono il loro dialetto corso meridionale fortemente interferito con la varietà ligure del capoluogo, e ulteriormente influenzato dal genovese nel corso dell’Ottocento. 

I dialetti sardocorsi sono parlati complessivamente da circa 200.000 persone, pari al 12% della popolazione complessiva della Sardegna, e interessano con Sassari il secondo centro urbano dell’isola. Un problema posto dalla vitalità di queste parlate è quello del riconoscimento della loro specificità rispetto al sardo, ammesso in linea di principio dalla legislazione regionale, mentre non è chiaro se la L.N. 482/1999, parlando del sardo, intenda escludere queste varietà dai benefici previsti, o considerarle arbitrariamente come parte di una «lingua sarda» diffusa su tutta l’isola tranne che ad Alghero e presso le comunità tabarchine. Da parte loro, le amministrazioni locali hanno spesso optato per un’adesione «tecnica» alla specificità linguistica sarda, anche se non mancano iniziative volte a promuovere il riconoscimento di una originale identità sardocorsa, basata, oltre che sulle peculiarità linguistiche, sul senso di autonomia della cultura sassarese e soprattutto gallurese nel contesto isolano.

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Lingue sotto il tetto d'Italia. Le minoranze alloglotte da Bolzano a Carloforte - 1

 

Questa è la prima puntata di una serie di interventi con cadenza mensile dedicati alla restituzione di un quadro sintetico e aggiornato della realtà delle minoranze alloglotte in Italia. Il ciclo, curato da Fiorenzo Toso, cui si deve anche l’intervento di apertura che qui pubblichiamo, si fonda sulla definizione di alloglotte come attributo di «quelle lingue che per la loro origine non latina o per la loro notevole distanza tipologica dall’italiano letterario non appartengono, insieme ad esso, al sistema italoromanzo». Insomma, nel quadro più generale e generico delle “minoranze linguistiche”, le alloglossie possono essere tenute distinte dai dialetti che si parlano in Italia. Il quadro che emergerà dal viaggio che stiamo per intraprendere mostrerà una realtà lontana dalla retorica polverosa del folclorismo, viva e dinamica nella relazione con i dialetti e la lingua italiana, ma anche problematica rispetto alle norme giuridiche nazionali e locali.

 

Il bel paese là dove 'l “sì” suona. E anche l’“ô”, lo “ja”, lo “scì”…

di Fiorenzo Toso

 

Come tutti gli stati d’Europa (e del mondo) l’Italia è un paese linguisticamente plurale, che si caratterizza, in virtù di ben noti motivi geografici e storico-culturali, per un’innata vocazione al policentrismo. All’interno del panorama italiano, sotto il “tetto” della lingua nazionale, frutto del processo secolare di affermazione del fiorentino letterario, si integra così un’estrema varietà di situazioni linguistiche.

I “dialetti italiani”, autonomi sviluppi del latino parlato nei diversi territori (da non considerare pertanto “dialetti dell’italiano”, ma conseguenza attuale di lunghi e originali processi evolutivi) hanno rappresentato spesso lingue letterarie dotate di importanti tradizioni culturali, e godono ancora, in diverse regioni, di una notevole vitalità e di una crescita d’interesse da parte del pubblico. Contrapporli alla lingua nazionale immaginando quest’ultima come una sorta di fortino assediato dalle espressioni vernacole “dal basso” e dall’inglese lingua internazionale “dall’alto”, come ha fatto di recente, ad esempio, Vittorio Coletti, è operazione arrischiata, che contraddice, in nome di una visione statica della storia linguistica nazionale, la tradizionale vocazione di un paese in cui il plurilinguismo è da sempre, per citare ancora Arcangeli, un “motivo di vanto … del quale non dobbiamo mai dimenticarci”.

Accanto alle “lingue d’Italia”, nella realtà plurilingue italiana in continua evoluzione (pensiamo soltanto alla continua “trasfusione” di lingue immigrate, dall’arabo al romeno, dall’albanese allo spagnolo sudamericano…), si integrano anche le lingue cosiddette minoritarie, frutto di antiche immigrazioni o dell’inevitabile discrepanza tra confini linguistici (questi ultimi sempre relativi e opinabili) e confini politici. In realtà, secondo una lunga tradizione di studi, ben riassunta da Tullio Telmon in un fondamentale articolo della Storia della lingua italiana di Serianni e Trifone (1994), per “minoritario” si dovrebbe intendere qualsiasi gruppo di parlanti che praticano un idioma diverso da quello ufficiale, e quindi anche i dialettofoni: tale è l’interpretazione che dell’articolo 6 della Costituzione (“la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”) era solito dare Tullio De Mauro, ricordando il compito della Repubblica di “rimuovere gli ostacoli” che impediscano la piena realizzazione dell’uguaglianza ‘formale’ di tutti “senza distinzione […] di lingua”; e quindi, come scriveva già nel 1992 Giovanni Ruffino, “anche ogni idioma parlato sul territorio della Repubblica” stessa.

Più corretto sarebbe quindi distinguere tra “minoranze linguistiche” e “alloglossie”, due concetti che non sono sinonimi, perché col secondo si pone l’accento soprattutto sulla differente appartenenza “genetica” degli idiomi in questione. “Alloglotte” sono infatti quelle lingue che per la loro origine non latina o per la loro notevole distanza tipologica dall’italiano letterario non appartengono, insieme ad esso, al sistema italoromanzo: in parziale applicazione del dettato costituzionale, proprio alle varietà alloglotte parlate in Italia, e ad esse soltanto, la Repubblica riconosce almeno in via teorica specifiche forme di tutela, previste dalla L.N. 482/1999.  

Con l’avvicinarsi del ventesimo anniversario della promulgazione di questo discusso provvedimento, un “viaggio” ideale tra le alloglossie storicamente presenti in Italia ci consentirà, nei mesi che seguono, di verificarne la geografia, la storia, la vitalità nell’uso, la ricchezza di manifestazioni, dalla compatta “maggioranza etnica” sudtirolese ai superstiti isolotti di dialetto greco del Salento e dell’Aspromonte, da contesti territoriali e demografici significativi come quello friulano all’esigua realtà dei tre comuni “croati” del Molise, dal catalano unicamente praticato nella città sarda di Alghero all’albanese diffuso in una sessantina di località dell’Italia meridionale e della Sicilia.

Si tratta insomma di un panorama multiforme ed estremamente variegato, circostanza che propone, tra l’altro, qualche riflessione sui forti limiti di applicazione della legge in materia. Ottima nei principi e nelle intenzioni, la 482 non ha ritenuto di valorizzare queste differenze, proponendo forme di salvaguardia fondamentalmente identiche per tutte le varietà ammesse (con alcune clamorose “dimenticanze”) a tutela, e senza tener conto delle diverse storie e delle diverse realtà territoriali e sociali: come se, per intenderci, i superstiti dialetti walser della Valle d’Aosta e del Piemonte, parlati ormai da poche centinaia di persone, fossero paragonabili allo hochdeutsch praticato a livello ufficiale, in virtù di accordi internazionali, nella Provincia di Bolzano; o come se la popolazione della Sardegna potesse riconoscersi dal giorno alla notte, senza un processo condiviso di accettazione, in una lingua sarda comune destinata ad affiancarsi, come previsto dalla legge, all’uso ufficiale dell’italiano.

Su aspetti come questi si basa la constatazione del sostanziale “fallimento” della politica sulle alloglossie in Italia, la cui gestione non di rado volontaristica ha prodotto in qualche caso altri fenomeni discutibili, ad esempio quello, certamente il più vistoso, delle false ascrizioni: per fruire dei benefici (peraltro sempre più risicati in termini economici) della 482, decine di comuni hanno dichiarato strumentalmente un’inesistente appartenenza alle aree linguistiche minoritarie. Se il caso forse più divertente fu quello (per fortuna rientrato) dei comuni dell’isola d’Ischia che cercarono di dichiarare la propria appartenenza alla minoranza… germanica, non meno estremo è quello dei comuni di lingua “occitana”, passati in Piemonte dai circa 75 riconosciuti dai linguisti ai 112 “autoproclamati”, compresi quelli di Olivetta San Michele e Triora (per le frazioni di Realdo e Verdeggia) in Liguria, una regione che si è ritrovata così, di punto in bianco e col comprensibile disappunto della popolazione, dotata di una “minoranza linguistica” fantasma.

D’altro canto, il processo di tutela e rivitalizzazione delle lingue minoritarie, riflesso di una sensibilità ormai diffusa a livello continentale e internazionale (come ben sottolineato tra gli altri, per i paesi di tradizione romanza, da Francisco Fernández Rei) sembra fatalmente destinato a passare anche attraverso le storture dell’etnobusiness, triste conseguenza di esigenze indotte dai processi di globalizzazione: la crescente “domanda” di identità, se gestita da piccole élite di militanti più o meno in buona fede, rischia spesso di convertirsi in un fenomeno di marketing che poco o nulla ha a che fare con le genuine spinte “dal basso” a favore di un effettivo rilancio dei patrimoni linguistici. Perché se è vero che conta, e molto, il riconoscimento formale del diritto alla differenza, altrettanto importante è che questi processi intercettino una realtà sincera e largamente condivisa delle popolazioni coinvolte, tale da restituire un’effettiva funzionalità a quelle che sono, anzitutto, forme di comunicazione, e quindi di incontro e di scambio tra persone e comunità, e solo in seconda battuta forme di riconoscimento collettivo e di “costruzione” identitaria.

 

Riferimenti bibliografici

V. Coletti, Povera lingua italiana, assediata dai dialetti dal basso e dall’inglese

T. De Mauro, Premessa, in V. Orioles e F. Toso (cur.), Insularità linguistica e culturale. Il caso dei Tabarchini di Sardegna, Recco, Le Mani, 2001

F. Fernández Rei, Plurilingüismo y contacto de lenguas en la Romania europea, in J.E. Gargallo Gil e M. Reína Bastardas (cur.), Manual de lingüística románica, Barcelona, Ariel, 2007

G. Ruffino, Scuola Dialetto Minoranze linguistiche. L’attività legislativa in Sicilia (1946-1992), Palermo, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, 1992

T. Telmon, Aspetti sociolinguistici delle eteroglossie in Italia, in: L. Serianni e P. Trifone (cur.), Storia della lingua italiana. Vol. 3: Le altre lingue, Torino, Einaudi, 1994, 923-950

T. Telmon, La sociolinguistica e le leggi di tutela delle minoranze linguistiche, in Lingue e idiomi d’Italia, 1 (2006), pp. 38-47

F. Toso, Lingue d’Europa. La pluralità linguistica dei Paesi europei fra passato e presente, Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2006

F. Toso, Le minoranze linguistiche in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008

F. Toso, Le minoranze linguistiche, in L. Cavalli Sforza (cur.) La cultura italiana, Vol. 2, Lingue e linguaggi a cura di G.L. Beccaria, Torino, UTET, 2009, pp. 335-409.

 

Immagine: da Totò, Peppino e la... malafemmina (1956), regia di Camillo Mastrocinque