Lingua Italiana

Antonio Vinciguerra

Antonio Vinciguerra è attualmente ricercatore in Linguistica italiana presso l’Università di Firenze. Dal 2009 al 2011 ha prestato servizio come docente di lingua e cultura italiana all’Istituto italiano di cultura di Madrid. Nel 2014 ha conseguito il dottorato di ricerca in Filologia e Linguistica e ha poi svolto attività di assegnista di ricerca e di docente presso l’Università di Firenze e l’Università di Siena. Collabora con l’Accademia della Crusca ed è redattore del “Lessico Etimologico Italiano” (LEI). Ha pubblicato saggi, articoli, monografie e ha partecipato a convegni in Italia e all’estero su temi relativi alla lessicografia italiana e dialettale, all’italiano regionale, alla questione della lingua, alla lingua della politica e alla paremiologia.

Pubblicazioni
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Dal nome personale al soprannome etnico: baciccia (e altri casi)

 

Soprannomi etnici (o blasoni popolari)

L’uso di imporre un particolare soprannome collettivo ai membri di una certa comunità territoriale o etnica – che si tratti di un intero popolo o degli abitanti di un piccolo villaggio – è un fenomeno noto in tutti i tempi e pressoché dovunque.

A Reggio Calabria i messinesi sono motteggiati con l’epiteto di buddàci, dal nome dialettale dello sciarrano, un pesce dalla bocca grande e che abbocca facilmente all’amo, in quanto vengono giudicati dai loro dirimpettai dello Stretto come dei fanfaroni o dei creduloni buoni a nulla (il nomignolo è documentato già nell’Ottocento). I nisseni hanno ricevuto dai loro vicini sancataldesi l’appellativo di maunzisi, nel senso di ‘traditori’ (derivato dal nome del personaggio Gano di Maganza, o Magonza, il traditore della Chanson de Roland, nota in Sicilia anche a livello popolare grazie all’opera dei pupi), con riferimento a un preciso episodio storico avvenuto durante i moti antiborbonici del 1820-21 (cfr. Burgio 2009, pp. 122-123). Dall’altro capo dello Stivale, in Trentino, gli abitanti di Tuenno e quelli di Malè sono detti rispettivamente orsi e magnalampade, i primi «per la loro presunta rozzezza, dovuta anche a una forma di dialetto particolare», i secondi perché si narra che, ai tempi di Napoleone, «per pagare i debiti di guerra si vendettero perfino le lampade della chiesa» (cfr. Caffarelli 2019, pp. 58-59). Per non limitare gli esempi all’ambito delle dispute e delle rivalità campaniliste, possiamo ricordare come l’associazione tra l’italianità e il cibo, e in particolare la pasta, abbia portato nel mondo alla formazione di termini quali makaroniarz (in Polonia), macaronì (in Belgio e Francia), Spaghettifresser (letteralmente ‘divora-spaghetti’, nei paesi tedescofoni), i quali stanno o stavano a indicare, con intenti e valori più o meno dispregiativi, gli italiani, e soprattutto gli emigranti italiani.

Queste particolari forme onomastiche rientrano nella categoria dei cosiddetti «soprannomi etnici» (cfr. Migliorini 1929; Castiglione-Burgio 2011) o, più tradizionalmente, «blasoni popolari», i quali – come si è detto all’inizio – da sempre e ovunque sono coniati e utilizzati per denominare, in maniera per lo più (ma non necessariamente) ironico-denigratoria, gli “stranieri”, vicini o lontani che essi siano, sulla base specialmente della constatazione di una loro qualità specifica, di una loro caratteristica peculiare (fisica, culturale, linguistica, ecc.), reale o immaginaria, o anche prendendo spunto da aneddoti e fatti storici o supposti tali. Si può dire che i soprannomi etnici servano, fondamentalmente, all’identificazione e alla distinzione dei “gruppi”, e che la loro motivazione profonda sia da ricercarsi nell’atavica contrapposizione tra “noi” e “loro” (si pensi a terroni e polentoni). Essi costituiscono perciò molto spesso il riflesso linguistico di stereotipi, pregiudizi, sentimenti di diffidenza, inimicizia o intolleranza nei confronti dell’“altro”.

La lingua (come pure il cibo) è un elemento che ha sempre contribuito in modo determinante all’identificazione di un popolo ed è per questo che i soprannomi etnici di origine delocutiva, ovvero derivati da espressioni tipiche delle genti soprannominate, sono fra i più frequenti. Dall’interiezione francese dis donc ‘ehi’, ‘senti’ (usata per attirare l’attenzione), ad esempio, si è ricavato diverse volte e in diversi momenti un blasone per i francesi, come il didón (plur. didones) usato in Spagna in epoca napoleonica, il titò adoperato a Napoli nell’Ottocento, il didon del turco popolare, il deedonk utilizzato dalle truppe americane durante la Grande Guerra, divenuto didoni o anche, con storpiatura scherzosa, bidoni, presso i soldati italiani.

Inoltre, come ha puntualmente rilevato Bruno Migliorini nel suo pionieristico e magistrale lavoro Dal nome proprio al nome comune (1927), anche un nome proprio di persona, specialmente se tipico e molto diffuso presso una data popolazione, può essere scelto per designare tutti i membri  di questa.

 

Baciccia

Il caso forse più noto di passaggio dal nome proprio di persona a un generico etnonimo popolare è quello di Bacìccia, ipocoristico ligure di (Giovanni) Battista, molto comune a Genova nei secoli passati, essendo San Giovanni Battista il patrono della città. È significativa, al riguardo, la testimonianza di Charles Dickens, che nei suoi Pictures from Italy (1846) notava come a Genova «great numbers of the common people are christened Giovanni Baptista, which latter name is pronounced in the Genoese patois “Batcheetcha”, like a sneeze» (trad.: «Un gran numero di persone viene battezzato con il nome di Giovanni Battista, che nel dialetto genovese si pronuncia “Batcheetcha”, come uno starnuto»).

Come ha ricostruito Fiorenzo Toso (2012), proprio la frequenza e la tipicità di tale ipocoristico hanno favorito, almeno dal XVII secolo, un processo di identificazione collettiva dei genovesi col nome personale Baciccia, che è stato quindi adottato, a cominciare dalle vicine popolazioni del Piemonte, per designare tutti gli abitanti di Genova (o più in generale i liguri), fino al punto che «in Italia settentrionale Baciccia vuol dire ormai ‘genovese’» (Plomteux 1975, p. 158).

Il GRADIT, s. v. baciccia, marca in effetti questa voce come regionale settentrionale, datandola al 1887 (senza indicazione della fonte), e registra, oltre all’accezione di «appellativo che si dà ai genovesi», anche quella di «persona grassa e pigra», la quale dipende però evidentemente dall’accostamento alla parola ciccia (cfr. anche GDLI, s. v. baciccia, che tuttavia non adduce attestazioni). È quasi certo che la datazione proposta dal GRADIT si riferisca in realtà a questa seconda accezione, che troviamo registrata nel primo volume del Nòvo dizionàrio universale della lingua italiana di Policarpo Petrocchi, uscito appunto nel 1887. Petrocchi pone la voce baciccia sotto il rigo, cioè tra quelle «fuori d’uso», perché limitata, in Toscana, alla parlata della Montagna pistoiese, la quale l’ha verosimilmente ripresa dai dialetti settentrionali, dove il tipo lessicale baciccia risulta abbastanza documentato anche in accezioni quali quelle di ‘babbeo, sciocco, uomo da poco’, che dipenderanno in particolare dal suo valore fonosimbolico (cfr. LEI, vol. IV, col. 1104).

L’uso di baciccia come soprannome etnico pare invece documentabile nel volume La Francia e i Francesi nel secolo XX osservati da un italiano (Milano, 1913) di Giuseppe Prezzolini, il quale, nel deprecare l’immagine molto spesso stereotipata che gli stranieri hanno dell’Italia, menziona l’usanza dei «baciccia della riviera» di tuffarsi in mare «per chiappare il soldino» lanciato da qualche turista forestiero (e poco più avanti scrive: «i baciccia [non] credevano che il nuotar bene potesse diventare una professione lucrosa finché una coppia tedesca in viaggio di nozze non distrasse i propri ozi col gioco del soldino fatto balenare in fondo a tre metri di acqua» [p. 2]). Possiamo immaginare che Prezzolini si riferisca qui alla Riviera per antonomasia, ovvero alla Riviera ligure (cfr. anche GDLI, s. v. riviera, § 3: «Per anton. La costa della Liguria»), e che quindi chiami i baciccia i genovesi o i liguri.

 

I bachin(s) di Marsiglia

È interessante notare che, nell’Ottocento, anche a Marsiglia, sede di una compatta e numerosa comunità portuale ligure, si diffuse l’uso di denominare le persone provenienti da Genova e da altri comuni liguri les bachin(s) (da Baciccin, diminutivo di Baciccia altrettanto tipico fra i genovesi), termine connotato però molto negativamente perché, nella città francese, i lavoratori liguri, «inizialmente poco integrati nell’ambiente locale, spesso implicati nei traffici loschi e nel contrabbando portuale, percepiti come una minaccia alle tradizioni e allo stesso linguaggio dei marseillais pur sang», accusati di sottrarre opportunità lavorative alla popolazione locale, non godevano affatto di una buona reputazione; tanto che il loro appellativo divenne rapidamente «una sorta di insulto» (Toso 2012, p. 80).

Louis Méry, per esempio, sul periodico Lou Tambourinaire et le Menestrel del 17 aprile 1841, fa un ritratto collettivo molto poco lusinghiero dei bachin, in cui i toni e gli argomenti razzisti tipici della rappresentazione dell’“altro” finiscono per estendersi anche agli emigranti italiani di altra provenienza: «L’ouvrier Marseillais éprouve une haine instinctive contre le Bachin […]. Le Bachin pullule dans les fabriques de savon, dans les raffineries de sucre, dans les chantiers de construction; il est presque toujours né à Port Maurice ou à San-Remo […]. Mais par extension, le nom de Bachin est donné à tous les habitants de la péninsule italienne, depuis les Alpes jusqu’au cap Spartivento» (cit. da Toso 2010, pp. 11-12; trad.: «L’operaio marsigliese ha un odio istintivo per il Bachin. Il Bachin pullula nelle fabbriche di sapone, negli zuccherifici, nei cantieri; nasce quasi sempre a Porto Maurizio o a San Remo [...]. Ma per estensione, il nome Bachin è dato a tutti gli abitanti della penisola italiana, dalle Alpi a Capo Spartivento»).

 

I bachichas del Sudamerica

Dove tuttavia il nomignolo identificativo dei genovesi risulta essersi particolarmente acclimatato è nell’America latina, un’area verso cui l’emigrazione ligure è stata precoce, oltre che consistente. Dalla fine dell’Ottocento, nella zona rioplatense come in altre parti del Sudamerica ispanofono, la parola bachicha (con la variante bachiche) è stata infatti adoperata dapprima per denominare in maniera colloquiale e/o dispregiativa gli emigranti liguri, in particolare genovesi (in Cile esiste anche la locuzione bachicha de la esquina che vale ‘bottegaio, droghiere’, letteralmente ‘bottegaio dell’angolo’, perché un tempo, in quel paese, le rivendite all’ingrosso, ma soprattutto al dettaglio, erano appannaggio dei liguri), e poi per indicare, per antonomasia, l’emigrante italiano (come pure i suoi discendenti e i suoi connazionali: los bachichas).

Già il Diccionario de peruanismos di Juan de Arona (Buenos Aires, 1884) riporta che la «plebe peruana» chiama gringos gli inglesi così come chiama bachiches gli italiani (pp. 251-253). Il vocabolario di Neologismos y americanismos di Ricardo Palma (Lima, 1896) registra la forma bachicha come appellativo imposto agli italiani di «bassa condizione». Anche il Diccionario de chilenismos di Manuel Antonio Román (Santiago de Chile, 1901-1908), s. v. bachicha, spiega che si tratta di un «apodo» – un soprannome – «che se da en Chile á toda persona italiana», e aggiunge che è anche un termine dispregiativo con cui si designa la lingua italiana. Il Diccionario della Real Academia Española ci informa che la parola bachicha (maschile e femminile), connotata in senso colloquiale e peggiorativo, è tuttora usata in Argentina, Cile e Uruguay col valore di ‘emigrante italiano’ (https://dle.rae.es/bachicha). Nella Pampa argentina, tale appellativo è stato esteso inoltre agli emigranti turchi di bassa condizione (cfr. Díaz 1945). E nello spagnolo gergale del Messico esiste addirittura il verbo embachichar che vuol dire ‘rubare’.

Vale la pena di riportare le osservazioni di Domingo Faustino Sarmiento (una delle figure più rilevanti nella storia politica e letteraria argentina del XIX secolo) riguardo all’analogia fra l’ispano-americano bachicha ‘italiano’ e l’anglo-americano paddy ‘irlandese’ (da Patrick), che rivelano come il fenomeno linguistico di cui ci occupiamo in questa sede non conosca, di fatto, limiti spaziali, oltre che temporali: «En Norte América, los irlandeses sobreabundan como aqui los italianos, y […] se les llama paddy, es decir, Patricio, del santo de su devocion […]. Entre el vulgo italiano es frecuente el nombre de Juan Bautista, y abreviado como paddy de Patricio, se ha hecho bachicha» (Sarmiento 1900, p. 385; trad.: «Nell’America del Nord gli irlandesi abbondano come qui gli italiani, e [...] sono chiamati paddy, cioè Patrizio, dal loro santo patrono [...]. Tra il volgo italiano è frequente il nome di Giovanni Battista, che, abbreviato come paddy da Patricio, è diventato bachicha»).

 

Altri casi più o meno analoghi

Un altro esempio notevole è senz’altro quello della voce italiana facchino, che, come ha dimostrato Alessandro Parenti (2019), non è un arabismo (come si è a lungo ritenuto), ma proviene dall’antroponimo bergamasco Fachino, ipocoristico di Lanfranco, attraverso il suo uso, fra Quattro e Cinquecento, dapprima come nome etnico col valore di ‘della Bergamasca’, presto tipicamente associato ai portatori originari di quella terra e poi esteso ai portatori in genere.

In Friuli ùcio (plur. ùci) è il ‘triestino’, dal nome personale Ucio, diminutivo di Ferruccio, un tempo abbastanza diffuso a Trieste (cfr. Marcato 2009, p. 203).

Gabriele Quattromani, autore di un travestimento in dialetto napoletano delle Odi di Orazio, riporta che a Napoli, nell’Ottocento, era in uso chiamare «gl’Inglesi Giorgio, nome comunissimo tra questi» e «i Tedeschi ed in generale tutti i Settentrionali Giovanni per la stessa ragione» (Quattromani 1870, pp. 517-518). Nel vocabolario napoletano di Emmanuele Rocco è registrata inoltre la voce mustafà (antroponimo molto comune nel mondo islamico) con l’accezione etnica di ‘turco’ e, per facile traslato, di ‘miscredente’ (cfr. Rocco 2018, s. v. mustafà, con esempi ricavati da opere settecentesche).

Un po’ diverso è invece il caso del sostantivo e aggettivo italiano meneghino ‘milanese’, che si fa risalire al nome della maschera popolare di Milano Meneghin(o) (diminutivo di Menego ‘Domenico’), introdotta alla fine del Seicento da Carlo Maria Maggi e resa poi famosa da Carlo Porta; tuttavia, va notato con Carlo Tenca che «Talora ‘meneghit’ è detto dal Maggi per milanese, il che proverebbe che il ‘Meneghin’ in primo luogo non era una maschera, un tipo speciale del milanese, ma il milanese in genere» (cit. da GDLI, s. v. meneghino, § 2).

 

Nomi personali passati a indicare una “classe” di abitanti di un luogo

Il GRADIT registra la voce brambilla (da Brambilla, cognome tipico di Milano) con l’accezione di «rappresentante della piccola e media borghesia imprenditoriale milanese e lombarda, attivo e soddisfatto del proprio ruolo»: in questo caso c’è stato un evidente restringimento sociale del significato etnico.

Nel già citato volume di Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, sono riportate altre voci dello stesso genere che pure mostrano un restringimento semantico, come catalina (da Caterina), voce usata in passato in Emilia per indicare generalmente le contadine modenesi (fra le quali tale nome era appunto frequentissimo), come mostra Alessandro Tassoni nel suo poema eroicomico La Secchia rapita (1622): «Fêr poi le Cataline il loro invito / su l’erba fresca d’un fiorito prato» (canto I, ottava 61).

Notevole è anche il caso del milanese tognìtt, usato nell’Ottocento come soprannome dei soldati austriaci del Lombardo-Veneto: si tratta di un diminutivo di Togn ‘Antonio’, ma in questo caso il soprannome ha origine dal significato di ‘stupido’ che il nome personale Antonio (con le sue varianti e i suoi ipocoristici dialettali) ha ricevuto negli usi popolari, per un processo di «degradazione socionomastica» (vedi Caffarelli 1996, p. 221: «i nomi di gran voga si logorano e dove è accentuata la segmentazione sociale, sono rifiutati dalle classi elevate e confinati presso quelle inferiori, assumendo “sfumature spregiative” e dunque funzione di soprannome»). Con la Grande Guerra il nomignolo passò ai soldati austriaci in genere, chiamati tognini da quelli italiani, e, successivamente, ad altre “categorie” di austriaci e tedeschi, come gli sportivi (si veda l’esempio riportato dal GDLI, s. v. tognino, tratto da La Repubblica del 9.1.1990: «Il trio tedesco [dell’Inter] ha fatto faville: e meglio fra tutti i tognini hanno brillato Matthaeus, che ha offerto a Berti il destro di segnare»; l’articolo è di Gianni Brera, che anche altrove chiama tognini i calciatori tedeschi). Va detto che, durante la prima guerra mondiale, sono state create anche altrove diverse di queste denominazioni, come, ad esempio, le voci francesi tommy (plur. tommies) per ‘soldato inglese’ e fritz per ‘soldato tedesco’ (cfr. Trésor de la langue Française informatisé, s. vv., all’indirizzo http://atilf.atilf.fr/).

Restando all’estero, è sorprendente «la casistica delle denominazioni sintetizzate in nomi propri di persona, a disegnare personaggi immaginari in grado di assommare in sé le caratteristiche tipiche, assegnate tradizionalmente agli italiani»: vedi l’uso di gino, in Canada, per identificare «un viveur maschilista e scansafatiche», di guido, negli Stati Uniti, per individuare «un ceto sociale basso e in particolare la classe operaia italo-americana», di vito per «indicare il prepotente macho e millantatore, metafora dovuta all’elevata diffusione di questo nome personale tra le famiglie italiane provenienti dal Meridione» (Caffarelli 2019, p. 64).

La presente rassegna è, ovviamente, tutt’altro che esaustiva (e molto probabilmente i nostri lettori sapranno arricchirla attingendo alla propria esperienza di parlanti), ma quel che si può osservare, in conclusione, è che per tutti i nomi qui considerati, come spiega bene Migliorini (1927), «il substrato all’estensione di significato è dato […] da quel vago elemento concettuale, evocativo, che accompagna i nomi quando in un gruppo si osservi la loro particolare frequenza presso un altro gruppo» (p. 258).

 

Riferimenti bibliografici

Burgio 2009 = Michele Burgio, Forme ed usi dell’antroponimia popolare: tra etnici e blasoni, in Dialetto. Usi, funzioni, forma, Atti del Convegno (Sappada/Plodn, 25-29 giugno 2008), a cura di Gianna Marcato, Padova, Unipress, pp. 121-127.

Caffarelli 1996 = Enzo Caffarelli, L’onomastica personale nella città di Roma dalla fine del secolo XIX ad oggi, Tübingen, Niemeyer.

Caffarelli 2019 = Enzo Caffarelli, Che cos’è un soprannome, Roma, Carocci.

Castiglione-Burgio 2011 = Marina Castiglione-Michele Burgio, Verso un Dizionario-Atlante dei Soprannomi Etnici in Sicilia (DASES), in «Rivista Italiana di Onomastica», XVII, 1, pp. 13-33.

Díaz 1945 = Eduardo Acevedo Díaz, Voces y giros de la pampa argentina, in «Boletín de la Academia Argentina de Letras», 14, pp. 609-640.

GDLI = Grande dizionario della lingua italiana, fondato da Salvatore Battaglia, Torino, UTET, 1961-2002.

GRADIT = Grande dizionario italiano dell’uso, ideato e diretto da Tullio De Mauro, Torino, UTET, 2007.

LEI = Lessico etimologico italiano, fondato da Max Pfister, diretto da Elton Prifti e Wolfgang Schweickard, Wiesbaden, Reichert, 1979 segg.

Marcato 2009 = Carla Marcato, Nomi di persona, nomi di luogo. Introduzione all’onomastica italiana, Bologna, il Mulino.

Migliorini 1927 = Bruno Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, Ginevra, Olschki (con un supplemento, Firenze, Olschki, 1968).

Migliorini 1929 = Bruno Migliorini, Spunti di motteggio popolare. I soprannomi etnici e locali, rist. in Manlio Cortelazzo, Curiosità linguistica nella cultura popolare, Lecce, Milella, 1984, pp. 153-167.

Parenti 2019 = Alessandro Parenti, Un’altra storia per facchino, in «Lingua nostra», LXXX, 2019, pp. 65-96.

Plomteux 1975 = Hugo Plomteux, I dialetti della Liguria orientale odierna: la Val Graveglia Bologna, Pàtron.

Quattromani 1870 = Ll’Ode de Q. Arazio Fracco travestute da vasciajole de lo Mandracchio da Grabiele Quattomane, Napoli, Nobile.

Rocco 2018 = Emmanuele Rocco, Vocabolario del dialetto napolitano, a cura di Antonio Vinciguerra, Firenze, Accademia della Crusca.

Sarmiento 1900 = Obras de D. F. Sarmiento, t. XXXVI. Condicion del extranjero en America, Buenos Aires.

Toso 2010 = Fiorenzo Toso, Les Bachin à Marseille. Notes d’étymologie et d’histoire linguistique, in «La France latine», 151, pp. 4-44.

Toso 2012 = Fiorenzo Toso, Battista, Baciccia, Bacin. Appunti per la storia di un blasone popolare dei Genovesi, in «Rivista Italiana di Onomastica», XVIII, 1, pp. 75-88.

 

 

Il ciclo Figli di un nome proprio. Un viaggio tra i deonimici italiani è curato da Alessandro Aresti, Luca Bellone, Francesco Crifò, Debora de Fazio, Antonio Montinaro, Rocco Luigi Nichil, Pierluigi Ortolano, Rosa Piro, Antonio Vinciguerra.

È possibile interagire con i curatori, scrivendo alla pagina Della deonomastica e di altri demoni (Facebook, Instagram) o all’indirizzo mail deonomasticaitaliana@gmail.com.

Di seguito, l’elenco degli articoli già pubblicati.

 

Wolfgang Schweickard, Che cos’è la deonomastica

 

Antonomasia

1. Rocco Luigi Nichil, Per antonomasia: deonimici per eccellenza

1.1. Alessandro Aresti, Torquemada

1.2. Francesco Crifò, Fortune e sfortune di Casamìcciola e del suo nome

1.3. Luca Bellone, Perpetua perpetua

1.4 Debora de Fazio, Un caso di deonimia biblica: Geremia

 

Immagine: Giovanni Battista nel deserto di Berner Nelkenmeister

 

Crediti immagine: Kunsthaus di Zurigo, Public domain, attraverso Wikimedia Commons

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Chi fa da sé fa per tre? Quando i proverbi “danno i numeri”

 

Questo mese la rubrica “Per modo di dire…” ha per oggetto i numeri.

Si apre con il pezzo a quattro mani di Paolo Rondinelli e Antonio Vinciguerra (Chi fa da sé fa per tre) che ci mostrerà, a cavallo fra lingua e dialetti, come anche i proverbi diano i numeri e come essi siano espressione non solo di saggezza, ma anche di ambiguità e pregiudizi.    

 

Al di là delle palesi differenze che li separano, numeri e proverbi condividono un quid ermetico tradizionalmente ritenuto sede di una delle possibili chiavi d’accesso ai segreti dell’universo. A dispetto del loro carattere bonario e popolare, i proverbi non sono bagattelle ma strumenti esoterici di cui l’uomo, da millenni, si serve per tentare di indagare l’ordine delle cose e le leggi del cosmo. Lo stesso vale per i numeri, ognuno dei quali, com’è noto, ha una simbologia (e, non a caso, si parla di numerologia in riferimento alla cabala ebraica). Si prenda ad esempio il ventotto, ricorrente in un detto didattico calendariale famosissimo, di ventotto ce n’è uno, riferito a febbraio, il ‘mese della purificazione’. Fin dai filosofi pitagorici il ventotto è perfetto per il fatto di essere un dieci mascherato, risultato della somma di decina e unità, ma anche ‘quattro volte sette’ con riferimento alle fasi lunari; e somma dei primi sette numeri. Multiplo di sette, esso possiede gli stessi significati di perfezione propri di quello che, nella Bibbia, è considerato il numero della creazione, simbolo di globalità, universalità ed equilibrio. Eppure, proprio perché multiplo (e come tutti i multipli), ha un’energia inferiore rispetto alla forma pura, non diversamente dal nove rispetto al tre, che a sua volta è il nucleo per così dire soprannaturale della perfezione del sette, inteso come somma del ternario divino e del quaternario terrestre.

 

Quel tre è una spia

 

La funzione ordinatrice del numero tre è universalmente riconosciuta a livello interculturale e interreligioso. Basti pensare, per limitarsi alla fede cristiana, alla Santa Trinità, ai regni ultramondani, alle croci del Golgota e ai molti altri segni ternari presenti nelle Sacre Scritture. Al di là del cristianesimo, in Oriente si ricordino almeno la trinità induista (Brahma, Shiva, Vishnu) e la totalità cosmica, formata da cielo, terra e uomo, nell’antica cultura cinese. Il tre è pressoché unanimemente visto come un numero dotato di completezza, mistero e bellezza.

Limite perfetto, numero di volte perfetto, simbolo del tempo opportuno che sfugge (kairòs), il tre indica un «insieme canonico, che rende un’operazione in qualche modo rituale e indiscutibile». Così osserva Lapucci (2006, p. 1184), commentando il modo di dire Il tre è il numero perfetto, usato comunemente per accreditare «come valida, sufficiente e completa una serie di tre cose, tre persone, tre prove; quindi migliore di un’altra composta da altri numeri». Ciò che conta non è l’aspetto quantitativo, ma il valore ideale e simbolico di un «numero tondo che indica una quantità indeterminata» (Lurati 2001, p. 926): tre sono le cotte (ma anche sette) che fanno sì che lo zucchero sia sopraffino e l’uomo furbo; i furfanti devono essere tre per fare una forca e, così, servono tre indizi per fare una prova; ancora tre sono i dì oltre i quali il fattore non è buono (Fattor buono, tre dì buono) e ogni meraviglia non dura (Ogni gran meraviglia non dura più che tre dì).

Ne segue una funzione di spia numerologica che di solito anticipa gli eventi: se prendiamo detti – oggi ormai in disuso – come Si dà tempo tre dì a uno che s’abbia a impiccare o Alle tre si dà il cavallo, ai quali si può aggiungere il napoletano A le tre vence lo rre (citato in quella vera e propria miniera paremiologica che è Lo cunto de li cunti del Basile), notiamo che si tratta di frasi in cui il numero indica le volte oltre le quali non si può soprassedere. Scadute quelle, accade qualcosa: un tale viene impiccato; il cavallo viene donato; chi non è riuscito in qualche cosa per due volte, ci riesce alla terza.

Va detto che la presenza così frequente del numero tre nelle espressioni idiomatiche si deve anche al fatto che «l’uso dei numeri nelle formule risulta mnemonicamente utile ai bisogni delle culture orali» (Lurati 2001, p. 926); e il tre ha da sempre svolto un ruolo particolare anche in questo senso.

 

Proverbi trimembri

 

Merita poi attenzione la struttura tripartita dei cosiddetti proverbi-indovinelli, alcuni dei quali sono talmente diffusi da costituire vere e proprie serie proverbiali: da Dio mi guardi da tre cose... a Di tre cose non ti fidare..., da Tre D rovinano l’uomo: diavolo, danaro e donna (uno dei tanti proverbi “misogini”) a Tre P vuole chi va a Roma: pane, panni e pazienza. Questa tipologia aveva attirato l’attenzione di un giovanissimo Benedetto Croce, che nel 1883 pubblicò una lista di proverbi trimembri napoletani, raccolti da uno zibaldone manoscritto di tal Luca Auriemma, «curiosi [...] perché hanno il carattere comune di contenere, non già ciascun proverbio un’idea, ma ciascuno tre idee che vanno a braccetto e s’incontrano poi in una sola» (Croce 1883); del tipo: Tre cose a li viecchie fanno guerra: catarro, caduta, cacarella; Tre P so’ patrone de lo munno: pazze, presentuse, pressarule; Tre cose non se dèvono ’mprestare: libbre, mogliere, danare.

Per non dire dei proverbi concatenati, in forma di filastrocca, come Tre anni dura un sieve, tre sieve dura un cane, tre cani dura un cavallo, tre cavalli dura un huomo, tre huomini dura un corvo, tre corvi dura un cervo, tre cervi dura un mondo, nel quale abbiamo una struttura complessa, composta da sette elementi congiunti dal tre, vero motore della catena concettuale che va da sieve (‘siepe di vimini o sterpi secchi’) a mondo. Quest’ultimo esempio è riportato nella monumentale raccolta paremiografica di Francesco Serdonati, poligrafo toscano vissuto tra il XVI e il XVII secolo. E tanto per dare un’idea quantitativa della presenza del numero tre nel repertorio serdonatiano, diciamo che questo numero è attestato oltre trecento volte su un totale di 26.018 espressioni idiomatiche e proverbiali.

 

Giochi di carte e di dadi

 

Chiaramente la galassia è tanto varia che non tutti i proverbi trimembri contengono il numero tre. I casi sopra citati sono interessanti poiché, in essi, troviamo sia il tre sia la struttura trimembre.

Tra gli ambiti d’uso prediletti troviamo quello dei giochi di carte e di dadi, a cui rimandano espressioni come Trar diciotto, per dire ‘fare un bel colpo’ (perché diciotto è il punto massimo raggiungibile con tre dadi). Andando molto indietro nel tempo, possiamo ricordare gli aliossi o astragali, che erano dadi, ricavati dal malleolo degli animali, dotati di quattro facce, ognuna delle quali associata a un valore numerico (1, 3, 4, 6). Il gioco degli aliossi era molto diffuso nella Firenze del Trecento, come prova la metafora oscena, Farla in tre pace, di cui Boccaccio si serve per commentare l’atto venereo nella novella di Paganino (II 10, 39). Come si legge nel commento di Vittore Branca, «facendo il gioco al terzo colpo non si vinceva né perdeva. Oppure si può intendere che anche dopo tre partite non si ottiene nulla, perché si rimane pari» (Boccaccio 1992, p. 313, nota 2). Il modo di dire infatti significa ‘fare patta’, cioè ‘non fare nulla’. Quest’esempio illustra bene come modi di dire e proverbi fungano spesso da collegamento tra lingua dell’uso e lingua letteraria; un rapporto che affonda le proprie radici lontano nel tempo, dalla latinità classica all’età moderna, e che riguarda anche un altro gigante della nostra storia letteraria: Dante, i cui versi sono in certi casi divenuti autentiche espressioni proverbiali.

 

La Commedia e la gematria

 

Ma è nota anche l’importanza del significato dei numeri nella Commedia dantesca, che è stata oggetto di letture numerologiche, come quelle di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani, incentrate sulla valenza simbolica del numero tre presente un po’ ovunque a livello strutturale nella Commedia: dal numero delle cantiche, al numero dei canti, al numero dei gironi infernali. Non è del resto una novità il legame tra la Commedia e la gematria, lo studio dei numeri che si annidano nella Tanàkh, acronimo con cui s’intende l’insieme degli scritti sacri dell’ebraismo (in altre parole la Torah scritta, distinta dal Talmud che raccoglie testi orali trasmessi di generazione in generazione tramite l’insegnamento ispirato).

 

Dal sacro al profano

 

Passando dal sacro al profano, va notato che la celebre Smorfia napoletana, o “libro dei sogni” – che al numero tre fa corrispondere un animale, la gatta, uno dei più fortunati nei proverbi e nelle frasi idiomatiche – è da sempre fonte di espressioni scaturite dai suoi significati numerologici, come Stare a quattordece che vale: «Essere ubbriaco, tale essendo il numero che all’ubbriaco è assegnato nel libro dei sogni» (Rocco 1891, s.v. quattuordece), Fare trentanove, ‘finire impiccato’, perché il trentanove indica la ‘forca’ (ivi, s.v. trentanove), La paura fa novanta.

Numeri ed espressioni idiomatiche scorrono insomma come rivoli tra le culture, a livello dotto e popolare; ed è questo un dato da tenere presente in chiave paremiologico-comparativa, quando si voglia studiare la circolazione europea di proverbi, spesso a base latina, come Tre fanno un collegio (da Tres faciunt collegium) diffusosi in varie lingue non solo romanze: dal francese (Trois font chapitre) al tedesco (Drei machen ein Collegium) all’olandese (Drie maken een collegie).

Un discorso analogo si può fare per la circolazione interna ai dialetti. Se ad esempio prendiamo uno dei proverbi sopra citati, tra quelli di Benedetto Croce, Tre cose a li viecchie fanno guerra: catarro, caduta, cacarella, possiamo notare usi analoghi, in forme più o meno simili, in regioni lontane da Napoli come l’Istria (I tre Ce per i veci: caduta, cacarela e cataro), il Veneto, l’Emilia, la Toscana, oltre che in tutta l’Italia meridionale (cfr. Schwamenthal-Straniero 1991, pp. 507-508).

Ancora si pensi alla fortuna dialettale e gergale di locuzioni furbesche come la napoletana Taverna de trellegna con cui si era soliti alludere alla ‘forca’, formata da tre legni (Rocco 1891, s.vv. taverna e trellegna); quindi l’espressione ioquare a lo tre per ‘essere impiccato’, menzionata nel «trattenemiento secunno de la iornata quarta» del Cunto in cui Parmiero, uno dei due fratelli protagonisti della novella, viene portato davanti al giudice e condannato, appunto, a «ioquare a lo tre». Per sua fortuna, Parmiero viene poi scagionato e liberato proprio quando è sul punto di «cantare no matrecale a tre sotto a le piede de lo boia» («cantare un madrigale a tre sotto i piedi del boia»), con allusione nuovamente alle tre assi della forca (Basile 2013, II, pp. 686-689).

 

La morale pratica dei proverbi

 

Guardarsi da una condotta dissoluta, come quella di Parmiero, è uno dei moniti più insistentemente ricorrenti nella morale pratica dei proverbi. Quest’ultima è rappresentata dall’altro fratello, Marcuccio, che poco sopra mette in guardia Parmiero facendo riferimento per ben due volte in altrettante righe al numero tre: «Sta’ zitto, ca non canusce la sciorte toia, perché senza dubbio tu, ch’a la primma prova hai trovato na catenella de tre parme, ne trovarrai a sta seconna quarc’autra de tre passe. Va’ puro allegramente, ca le forche te songo sore carnale e dove l’autre nce devacano la vita tu nce inchie la vorza!» («Sta’ zitto, che non conosci la tua sorte, perché senza dubbio tu, che alla prima prova hai trovato una catenella di tre palmi, ne troverai a questa seconda un’altra di tre passi. Va’ pure allegramente, che le forche ti sono sorelle carnali, e dove gli altri vi svuotano la vita tu ne riempi la borsa!»: ivi, p. 688-689). Il riferimento è alle antiche unità di misura dei parme e dei passe: la prima, il palmo, corrispondente a circa 26 cm; la seconda, il passo, più ampia (sette volte il palmo), con allusione alla corda dell’impiccato (tre passe de funa in I 7, 12) come prova il riferimento alle forche immediatamente successivo.

Come spesso avviene, la morale dei proverbi passa per la burla e per i rimandi alla cultura materiale, chiamati a conferire realismo e veridicità all’ironia del monito. I numeri, in tal senso, sono alleati fondamentali poiché favoriscono la memorizzazione e consentono l’aggancio a un dato quantitativo in realtà simbolico. Dire le cose allusivamente, per scherzo e di taglio, è la forza tradizionale dei proverbi, micro-fatti poetici deputati a velare il messaggio attraverso una serie di esatti accorgimenti stilistico-formali. In questi casi nessun numero meglio del tre si sarebbe potuto inserire nella formazione dell’ottonario catenella de tre parme (o passe), verso – non a caso – tipico della cantilena e della filastrocca. La magia della formula è efficace grazie al numero, che completa le potenzialità espressive di un dispositivo linguistico e retorico dalle molteplici implicazioni, non più confinabile nell’angustia di una generica saggezza popolare.

 

Bibliografia

Arcangeli-Mariani 2015 = Massimo Arcangeli - Sandro Mariani, Dante Alighieri e la sua ossessione per i numeri, in Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2015 (parte I) e 15 agosto 2015 (parte II).

Basile 2013 = Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille, a cura di Carolina Stromboli, Roma, Salerno.

Boccaccio 1992 = Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi.

Croce 1883 = Benedetto Croce, Proverbi trimembri napoletani, in «Giambattista Basile», I, 9, pp. 66-67.

Lapucci 2006 = Carlo Lapucci, Dizionario dei proverbi italiani: con un saggio introduttivo sul proverbio e la sua storia, Firenze, Le Monnier.

Lurati 2001 = Ottavio Lurati, Dizionario dei modi di dire, Milano, Garzanti.

Rocco 2018 = Emmanuele Rocco, Vocabolario del dialetto napolitano [1891], a cura di Antonio Vinciguerra, Firenze, Accademia della Crusca.

Schwamenthal-Straniero 1991 = Riccardo Schwamenthal - Michele Straniero, Dizionario dei proverbi italiani: 6.000 voci e 10.000 varianti dialettali, Milano, Rizzoli.

 

 

Il ciclo Per modo di dire. Un anno di frasi fatte è curato da Alessandro Aresti, Debora de Fazio, Antonio Montinaro, Rocco Luigi Nichil, Rosa Piro, Lucilla Pizzoli. Di seguito, l’elenco degli articoli già pubblicati.

 

Per iniziare

Lucilla Pizzoli, Colorare i discorsi

Alessandro Aresti, Attaccare (un) bottone

Rosa Piro, Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare

Antonio Montinaro, Rompere il ghiaccio

Rocco Luigi Nichil, E quindi uscimmo a riveder le stelle. Sul motto latino Per aspera ad astra (e non solo)

 

Citazioni d’autore

Debora de Fazio, Elementare, Watson!

Lucilla Pizzoli, Essere un carneade

Giorgio Marrapodi, Armata Brancaleone. Dal film alla lingua comune

Rocco Luigi Nichil, C’è del marcio in Danimarca (e non solo lì)

 

Echi danteschi

Alessandro Aresti, Non ragioniam di lor, ma guarda e passa

Pierluigi Ortolano, Stai fresco!

Antonio Montinaro, Galeotto fu il libro

Debora de Fazio, Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate

 

Fiabe e favole

Rosa Piro, Fare la mosca cocchiera

Lucilla Pizzoli, Brutto anatroccolo

Giulio Vaccaro, Avere la coda di paglia

Rocco Luigi Nichil, La volpe e l’uva

Rocco Luigi Nichil, La volpe, le ciliegie e altro ancora

 

Animali

Alessandro Aresti, Menare il can per l’aia

Antonio Montinaro, Salto della quaglia

Marcello Aprile, Avere, dare, prendere la scimmia

Rosa Piro, Grilli per la testa

 

Colori

Lucilla Pizzoli, Essere al verde

Debora de Fazio, Passare una notte in bianco

Alessandro Aresti, Avere una fifa blu

 

Immagine: Santissima Trinità, di Hendrick van Balen (anni 20 del XVII secolo), Sint-Jacobskerk, Anversa

 

Crediti immagine: Hendrick van Balen the Elder, Public domain, via Wikimedia Commons