Come compiutamente argomenta Maurizio Dardano (in Vabbè, embè e compagnia bella), “in molti contesti, vabbè funziona come segnale discorsivo e come connettivo testuale “multiuso””, piegandosi a numerose funzioni. Prosegue Dardano: “L’univerbazione (cui si accompagnano il troncamento e il raddoppiamento sintattico) fa di vabbè un connettivo marcato e tipico del parlato [...] Nel confronto va bene appare piuttosto come un segnale discorsivo dello scritto formale [...]”. Ciò detto, il linguista nota, in tono neutro, come “vabbè sostituisca, nella maggior parte dei casi, varianti che hanno visto diminuire progressivamente il loro uso: va bè, va be’, va beh ecc.”.

Quanto alla questione sollevata, va detto, in linea generale, che l’apocope sillabica, di solito, viene segnalata dall’accento (città < cittade, piè < piede), ma vi sono importanti eccezioni, come po’ < poco o mo’ < modo, o le seconde persone dell’imperativo presente di alcuni verbi irregolari (da’, di’, fa’, sta’, va’). Vi sono, in sostanza, storiche oscillazioni, che dovrebbero indurre a una certa precauzione nella difesa a spada tratta di questa o di quella forma, specialmente se ci riferiamo a un elemento come vabbè, la cui presenza e frequenza nella lingua scritta, a scopo mimetico, espressivo, ludico, è di recente emersione, con tutto ciò che ne consegue in termini di precarietà di stabilizzazione. Le grafie vabbè e vabbe’ sembrano semplicemente riflettere usi correnti e concorrenti, entrambi ammissibili.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata