Tagliamo subito la testa al toro: nel Vocabolario Treccani (dal quale trarremo le definizioni seguenti chiuse tra caporali) poteva tranquillamente essere messo a lemma anche il vocabolo prestigiazione ‘arte del prestigiatore’, visto che la famiglia semantica era rappresentata, oltre che dai sostantivi prestigiatore e prestigio e dall’aggettivo prestigioso, di alto uso oggi come oggi (non quest’ultimo, però, nell’accezione originaria di «ingannevole, simile all’illusione prodotta dai giochi di prestigio»), anche dal verbo prestigiare e dal sostantivo femminile prestigia «opera di illusione, incantesimo, raggiro, gioco di prestigio», entrambi vocaboli di basso uso – s’intende che stiamo parlando della lingua italiana dell’uso e non di lingua letteraria o lingua antica o lingua moderna ma specialistica. Il mancato inserimento non è, eventualmente, un errore, ma una lacuna. Una lacuna, tra le mille possibili in un qualsiasi buon dizionario di lingua dell’uso, può derivare da una scelta lessicografica (per esempio: in direzione di uno sfoltimento del lessico di basso uso nella lingua contemporanea) e non essere frutto di disattenzione.
Prestigiazione e prestidigitazione vengono usati oggi nella medesima accezione di ‘arte del prestigiatore’, a prescindere dal fatto che l’etimo del secondo riconduca più specificamente alla radice della manualità (le dita), che è pur sempre al centro dell’‘arte del prestigiatore’. Che poi prestigiazione sia autoctono e patriottico, mentre prestidigitazione sia allobrogo e orleanista, non fa spostare l’ago della bilancia della maggiore o minore accettabilità verso l’uno o l’altro piatto lessicale. Se no staremmo qui a dire (come durante il fascismo) mescita e non bar, oppure (per venire a tempi recenti) velopattino (come proponeva il grande storico della lingua Arrigo Castellani) e non windsurf.