Cristina Montagnani, Pierandrea De Lorenzo

Come lavorava d’Annunzio

Roma, Carocci editore (Bussole), 2018

È uscito per Carocci un nuovo volume della serie dedicata alla Filologia d’autore: dopo i volumi su Gadda e Manzoni (Come lavorava Gadda, di Paola Italia e Come lavorava Manzoni, di Giulia Raboni), Cristina Montagnani e Pierandrea De Lorenzo ci portano tra le carte di Gabriele d’Annunzio.

Giulia Raboni ci aveva descritto un Manzoni che scriveva di getto, e senza un bozzetto, un progetto, una struttura chiara e definita e poi tornava e ritornava sulle sue carte fino allo sfinimento; Paola Italia aveva presentato il metodo di lavoro di Carlo Emilio Gadda e il forte sentimento di autocoscienza dello scrittore, coi suoi testi divisi tra anime e schemi: il magma narrativo, l’anima e la disarmonia del mondo, da un lato; contro gli schemi, i confini, le mappe entro cui far rientrare tutto quello che c’è da raccontare, dall’altro.

Pierandrea De Lorenzo e Cristina Montagnani descrivono l’officina dell’Immaginifico. La serie della Carocci  entra direttamente nelle officine degli scrittori e le descrive minuziosamente.

Il primo passo: inquadrare la poetica dell’autore e il suo «intimo connubio dell’arte con la vita», cioè il rapporto dei suoi scritti giornalistici con le pagine dei suoi romanzi, gli epistolari (come documenti privati e, allo stesso tempo, abbozzi letterari), i taccuini (come avantesti); descrivere poi la storia (il commercio degli autografi) e la mappatura delle sue carte (gli archivi del Vittoriale, la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma) e i moltissimi libri dell’«estremo de’ bibliomani» amatissimi e indispensabili per il suo lavoro (si pensi ai vocabolari e ai lessici settoriali) e per la sua minuziosa attenzione volta a un dire bello ed esatto («I rari e squisiti dettagli di cui fa sfoggio in ogni ambito di scrittura sono infatti frutto più di letture che di esperienze dirette o di conoscenze puntuali», p. 54).

In una progressiva messa a fuoco, si arriva nel laboratorio dello scrittore, tra le sue carte, indagando, come già nei volumi precedenti, un caso di studio (il volume si chiude con un capitolo di Cristina Montagnani dedicato all’elaborazione delle Laudi e a un’indagine puntuale della progettualità dannunziana).

È una scelta utile e ben strutturata, nella sua semplicità, quella adoperata in questi volumi  che descrivono in maniera esauriente, dal punto di vista del filologo o considerando la filologia come un imprescindibile punto di partenza, le figure dei grandi della nostra letteratura: fanno il punto sullo stato dell’arte, sulle geografie delle indagini e degli studi, ma allo stesso tempo, indirizzano anche verso nuovi spunti di ricerca.

Come lavorava d’Annunzio?

La mia memoria di lettore mi fa venire in mente un passo del Piacere: Andrea Sperelli che inizia a comporre, «a trovar rime con la èsile matita su le brevi pagine bianche del taccuino», ricordando i primi versi d’una canzone del Magnifico: «Parton leggieri e pronti / dal petto i miei pensieri».

Come il suo Sperelli, d’Annunzio amava dar di sé l’immagine di un poeta che componeva in preda a una ispirazione superiore e un’immagine di scrittore molto lontana da quella tormentata e, anche, pedante, che abbiamo conosciuto nei due volumi precedenti dedicati all’Ingegnere e al Gran Lombardo. Ma neanche d’Annunzio era così leggiero e pronto, com’è facile ipotizzare, e il volume ci svela alcune delle magie dell’Immaginifico: le carte travagliate hanno lasciato il posto, è vero, in molti casi a minute che non recano segni di ripensamento né varianti importanti e hanno un aspetto calligrafico, ma calandosi sulla scrivania dello scrittore la situazione è diversa: «d’Annunzio scrive su fogli sciolti, e sulla scrivania ha poi altre carte, sempre gruppi di fogli sciolti, su cui prova e riprova un sintagma, risolve un verso o una rima inceppata, studia un giro di frase e una strofa. Carte quindi molto travagliate, sofferte, pasticciate, che il poeta, appena giunge a una redazione soddisfacente, getta nel cestino» (p. 61), tentando di liberarsi anche di una certa immagine di sé che coscientemente non vuole sia tramandata.

Carte mescolate, carte rifiutate

La costruzione di un mito passa anche nei trucioli, negli scarti, nelle carte mescolate e nascoste. Sta al filologo, con lentezza, silenziosamente, indagare i processi che hanno segnato l’evoluzione dei testi, la costruzione di un sistema, leggendo lentamente e in profondità, per parafrasare le parole di Dante Isella. I volumi della serie, che si rivolgono a studenti e studiosi, si posizionano in un filone di studi che crede, come le lezioni dei grandi filologi hanno dimostrato, che «lo sviluppo parallelo di filologia e critica possa produrre risultati di alto livello, e comporti un reale aumento di conoscenza sul mondo poetico di uno scrittore, non solo sulle modalità tecniche delle sue correzioni» (p. 85).

Correzioni e falsificazioni

Sullo scrittoio di d’Annunzio ci sono diverse tipologie di carte: copie calligrafiche di testi, carte che svolgono una funzione di servizio, appunti preliminari alla stesura dell’opera e tra le sue carte ci sono insidie e indizi fuorvianti perché d’Annunzio, così fedele a quell’«intimo connubio di arte e vita» ha un rapporto particolare coi suoi manoscritti e con l’immagine di sé stesso che ha cura di lasciare ai posteri.

D’Annunzio è un falsario della datazione e della storicizzazione (che vede come una banalizzazione): la sua magia, è in realtà una regia, ben studiata; le date che appone su alcune delle sue carte sono, spesso, false, dettate dalla «cura rituale con cui egli intende collegare le proprie opere, ma più in generale i propri gesti, a calendari sacrali e astrali» (p. 60) ed è ancora più insidioso quando annuncia in prima persona lo stato dei lavori, nelle lettere di servizio, per dare di sé «l’immagine di buon operaio della parola, di un vero stacanovista che lavora infaticabilmente per giorni interi» (p. 60).

D’Annunzio è anche e soprattutto però uno scienziato delle parole: «C’è una sola scienza al mondo, suprema: ˗ la scienza delle parole. Chi conosce questa, conosce tutto; perché tutto esiste solamente per mezzo del Verbo. Nulla è più utile delle parole. Con esse l’uomo compone tutto, abbassa tutto, distrugge tutto», come ci dicono le poche righe scelte da De Lorenzo in apertura del primo capitolo, e d’Annunzio agisce, infatti, nei suoi interventi, da scienziato delle parole che ha, come suo primo obiettivo, l’innalzamento linguistico, la cura del dettaglio, la puntualizzazione semantica, ma lavora – anche – sulla dilatazione, l’aggiunta.

Per indagare il modus operandi dell’autore, si suggerisce di guardare, ancora, alle carte del Fuoco. «Lavorare su questi manoscritti risulta particolarmente utile per affinare le tecniche di indagine più adatte ai testi dannunziani, specie quelli in prosa, a tutt’oggi meno studiati di quelli in poesia» (p. 67).