Vera Gheno e Bruno Mastroianni

Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello

Milano, Longanesi, 2018

Tienilo acceso. Che cosa? Il cellulare, sembrerebbe indicare la copertina di questo libro, tanto più che la frase è scritta sul display di uno smartphone. Scorrendo la pagina, si capisce che l'indicazione riguarda senz’altro il cervello. Il sottotitolo sembra poi dissipare ogni dubbio: Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello. Un’indicazione che andrebbe seguita in ogni àmbito dell’agire umano, ma Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione, e Bruno Mastroianni, filosofo della comunicazione e giornalista, con questo libro si concentrano sul mondo delle reti sociali virtuali, provando a darci indicazioni su come gestire nel miglior modo la nostra vita iperconnessa.

Quindi, sì, teniamo acceso il cervello ma anche lo strumento attraverso il quale operiamo nel web (computer, smartphone, tablet e via discorrendo), perché spegnere, chiudere porte e finestre e barricarsi in casa per evitare il “nemico”, non è la soluzione adeguata. Sempre che si tratti di un “nemico”, appunto. La rete può trasformarsi in elemento ostile se non siamo in grado di gestirla. «Spegnendo gli smartphone abbiamo la sensazione di poter controllare la dimensione online […]. Forse possiamo tenerci temporaneamente lontani dalla connessione e dai suoi pericoli, ma farlo non ci aiuterà a trovare risposte per confrontarci con ciò che accade quando siamo connessi». E ancora: «come educhiamo e ci educhiamo a stare in rete? È la risposta a questa domanda che sintetizza la vera priorità di educazione alla comunicazione di oggi: possiamo farci usare dalla tecnologia o usarla noi al meglio» (p. 41).

Oggi, più che mai, è importante sapere che cosa è la rete, quali sono i pericoli, quali le conseguenze dei nostri gesti e come si articola o potrebbe articolarsi la vita online, nostra e dei nostri figli: non bastano leggi e divieti, non ci si può affidare solo alle regole imposte o alla polizia postale, occorre conoscere e comprendere le dinamiche della rete per far sì che essa sia una risorsa e non si trasformi invece in una trappola.

Non si può continuare a rimandare: il futuro è presente. Come sottolineano gli autori: «Bisogna affrettarsi a costruire una cultura delle relazioni digitali, perché siamo in ritardo» (p. 44).

Partendo dal presupposto che la «vera alfabetizzazione digitale, di cui si parla spesso, non può ridursi […] a una serie di conoscenze tecniche, pure importanti, relative al mezzo, ma deve occuparsi del modo con cui usiamo le parole attraverso quel mezzo: le nostre competenze di comunicazione» (p. 8).

Protagoniste sono sempre loro, le parole, ciò che ci rende umani anche se talvolta ci comportiamo da somari, iene o serpi (e non se ne abbiamo a male le povere bestiole tirate in ballo). «Anche in una società sovraccarica di immagini, schermi e contenuti che stimolano e coinvolgono i cinque sensi nel loro complesso, sono ancora e sempre loro [le parole] a dare significato a tutto» (p. 7).

È fondamentale essere consapevoli della risonanza che le nostre parole possono avere quando esterniamo pensieri, concetti o riflessioni più o meno interessanti, così come è necessario comprendere sin dove possono arrivare le conseguenze dei nostri commenti a una notizia, le nostre opinioni o le nostre critiche. Viene da associare le parole alle palle di neve che, rotolando giù per un pendio, possono trasformarsi in vere e proprie valanghe.

Internet, non bisogna dimenticarlo, è un potente amplificatore delle nostre parole, soprattutto se possiamo contare solo su di esse per esprimerci e non, per esempio, su sguardi, smorfie o gesti che ci supportano quando parliamo ad una persona avendola davanti a noi. «Le parole sono il nostro biglietto da visita, spesso danno la prima impressione di ciò che siamo o vogliamo apparire. Tutto questo è ancora più vero nel contesto dei social, in cui non possiamo completare la comunicazione con le espressioni del viso, il tono di voce o la postura che assumiamo» (p. 59).

La metafora stradale che gli autori suggeriscono nelle prime pagine del libro rende perfettamente l’idea: «internet è un’automobile potentissima e la maggior parte di noi non è ancora abbastanza esperta per padroneggiarla. Siamo come neopatentati alla guida di una Ferrari. […] La combinazione di inesperienza e potenza può diventare molto pericolosa» (p. 11).

La strada che gli autori ci indicano per raggiungere una «vita felice e connessa» è fatta di quattro tappe (1. Parole al centro; 2. Parlare di me stesso; 3. Parlare di ciò che succede; 4. Parlare con gli altri): un percorso alla ricerca soprattutto di consapevolezza, competenza e conoscenza.

Per maggiore chiarezza, alla fine di ciascun capitolo, c’è uno specchietto (inscritto in uno smartphone) in cui si riassumono i punti principali esposti nelle pagine precedenti.

Ciò che colpisce di queste pagine, oltre alla qualità e quantità di informazioni (moltissimi anche gli esempi pertinenti e illuminanti, come L’effetto triceratopo – p. 125/8, e L’effetto tinello – p. 128-32), sono il modo equilibrato di esporre, spesso divertente, leggero e profondo al tempo stesso, e l’orizzontalità degli autori rispetto ai lettori: non si muovono dall’alto verso il basso, non ci sono docenti e discenti, c’è un terreno comune, c’è una grande dose di esperienza da trasmettere e l’idea che tutti noi facciamo parte e abbiamo costruito – ciascuno apportando il proprio contributo – un mondo non sempre immediatamente decifrabile, ma dal quale non è giusto né possibile fuggire.

In una recente intervista di Concetto Vecchio a Rossana Rossanda («La Repubblica», 30 ottobre 2018), viene chiesto alla giornalista e scrittrice se è presente sui social. La risposta, oltre a suscitare in chi scrive un sentimento di vicinanza e profonda tenerezza, è probabilmente comprensibile: «Li detesto. Voglio passare all’altro mondo senza aver dato un solo euro a Zuckerberg».

Forse a 94 anni si può e si deve rimanere lontani dai social, forse a 94 anni è legittimo non avere più voglia di intraprendere altre battaglie in un terreno insidioso, scivoloso e talvolta oscuro, forse a 94 anni non si ha più voglia di mettersi alla guida di una Ferrari. Forse.