Maurizio Bettini

Il mito. Discorso autorevole o racconto screditato?

Bologna, Il Mulino, 2018

Curatore della serie einaudiana «Mythologica» e direttore per Il Mulino della collana «Antropologia del mondo antico», il classicista Maurizio Bettini compie un breve ma appassionante viaggio tra le molteplici accezioni della parola mito («entrata con tale pervasività nelle lingue e nelle culture moderne, che se per qualche motivo essa ci venisse sottratta - o se qualche ottuso tiranno ne vietasse l’uso - ci troveremmo in serio imbarazzo»), a partire dalle progressive deformazioni che l’originario senso greco ha subìto ad opera dei moderni.

Nel Medioevo e nel Rinascimento erano definiti non miti ma fabulae i racconti mitologici antichi: furono Giambattista Vico e Christian Gottlob Heyne, nella seconda metà del XVIII secolo, a riesumare il termine, e da quel momento mýthos cessa di designare un discorso o un racconto fabulosus per assumere un carattere aurorale: «la manifestazione di una cultura pre-filosofica destinata a essere superata dalla razionalità successiva». Per Vico, infatti, la mitologia rappresenta la forma espressiva dell’età fanciullesca dell’umanità, quando era piena di sapienza poetica ma priva di lógos e di categorie intellettuali. In séguito, il mito subirà una seconda trasformazione: non più espressione, soprattutto poetica, ma manifestazione della razionalità primitiva, esprimente in modo fascinosamente “mitico” la propria memoria storica o le proprie conoscenze cosmologiche e filosofiche. Infine, terza tappa, la nascita della mitologia come scienza.

Ma già all’interno della cultura greca avvengono straordinarie metamorfosi. Nell’epica arcaica mýthoi erano i discorsi e i racconti autorevoli: così definisce Omero le orazioni pronunciate dagli eroi nelle assemblee e dai guerrieri sul campo di battaglia. Il mito dell’epica rappresentava dunque una parola autorevole e assertiva che esigeva di essere eseguita, un atto illocutorio esclusivo degli uomini, in quanto titolari del krátos, ossia del potere in casa e nella società. Inoltre, l’autorevolezza e la persuasività di un mýthos dipendevano dall’età e dall’aspetto fisico del locutore: se questi era troppo giovane o brutto e deforme come Tersite, il suo discorso rischiava di essere sottovalutato e persino ignorato in un mondo in cui bellezza e giovinezza costituivano uno status.

Nei testi filosofici presocratici il mýthos si trasforma in una parola autorevole come quella divina, per poi indicare un discorso indegno di fede, un racconto dalla dubbia credibilità, una parola pronunciata dai rivali per vantare la propria superiorità, e - in quanto oscuro, inaffidabile e soprattutto poetico - né accoglibile né rifiutabile.

È con Platone che il concetto acquista un significato affine a quello moderno, perché viene considerato «uno strumento della tradizione, una pratica discorsiva, quella usata dai poeti, i quali riorganizzano nella forma della poesia alcuni contenuti di cui la comunità vuole conservare memoria. […] Si pone così un problema di estremo interesse, quello dell’autorità del mito a dispetto della sua scarsa attendibilità». Tre i metodi elaborati dalla cultura greca per risolverlo. Il primo è la manipolazione: anziché respingere il racconto mitologico, unica fonte d’informazione sul passato, lo si manipola purificandolo attraverso il filtro del lógos e tramutandolo così in una sorta di historía: «il lógos purificatore e manipolatore può rendere di nuovo nostro il racconto in cui credono o hanno creduto gli altri».

Anche il secondo indirizzo di pensiero, l’evemerismo, attua un depotenziamento del mito degradandolo a una specie di storia, ma attraverso narrazioni aventi per protagonisti le divinità. Nella sua Storia sacra, nota anche al mondo romano grazie a una traduzione di Ennio, Evemero da Messene (IV sec. a.C.), per impedire che il mito venga rifiutato a causa della sua inverosimiglianza, lo riduce a dimensione umana (per esempio, il conflitto fra Urano, Crono e Saturno mascherava a suo avviso nient’altro che una feroce faida tra i membri di una dinastia regale).

Il terzo e più importante metodo si fonda sull’allegoria: il mito diventa un discorso che parla d’altro. Teagene di Reggio (fine del VI sec. a.C.) afferma che, per rimediare all’inutilità o alla sconvenienza dei racconti mitologici, l’interprete deve concentrarsi sulla «maniera di parlare», cioè sulla struttura formale, modificandola in modo da ricavarne sensi diversi da quelli letterali. Se, quindi, per gli evemeristi le lotte fra dèi non celavano altro che ordinarî conflitti dinastici, per gli allegoristi esse acquisivano un significato cosmologico. In tal modo il racconto mitologico non solo trovava piena giustificazione, ma guadagnava un’autorità perfino maggiore.

Per restituire credibilità al mito i moderni sono spesso ricorsi a strategie sostanzialmente analoghe a quelle degli antichi. Heyne, considerato il padre della mitologia “scientifica”, ravvisa in quei racconti significati di sommo interesse e li distingue in due categorie: i miti storici, che riducevano fatti complessi a uno semplice (come la fondazione di una città simboleggiata dal mito dell’eroe eponimo) e i miti filosofici: filosofemi in forma affabulatoria (ad esempio, gli elementi costitutivi dell’universo resi narrativamente come lotta fra dèi). Ma «se per gli allegoristi antichi il velo allegorico era stato volutamente creato dai poeti per nascondere le preziose verità racchiuse nel racconto, per Heyne e i suoi successori questo velo era piuttosto di carattere inconsapevole, collettivo: esprimeva il modo specifico del pensiero antico, che non sapeva pensare se non miticamente».

All’allegoria ricorre anche la psicanalisi, per la quale i miti classici non sono che figure della psiche e delle sue costruzioni (vedi il complesso di Edipo), un enorme serbatoio delle immaginazioni e degli impulsi psichici degli uomini antichi: «È molto probabile che i miti siano i residui deformati dei desideri fantastici di popoli interi e che corrispondano ai sogni secolari della giovane umanità» (S. Freud, Il poeta e la fantasia).