Francesco Muzzioli
Le teorie della critica letteraria
Roma, Carocci, 2019
Su quali basi teoriche e istanze intellettuali poggia la prassi esegetica? È necessario spiegare il testo letterario? Se sì, in che modo? Il critico deve limitarsi a intercettare il senso dell’opera o anche sottoporla a giudizio? E da quale specola, quella dell’oggetto o del soggetto, cercando cioè di penetrare le ragioni del testo o assumendo a guida i proprî gusti e inclinazioni?
Scioglie questi e altri dubbî la terza edizione riveduta e aggiornata (19941, 20052), anche nei già amplissimi repertorî bibliografici, di questo agile e denso prontuario, utile allo studente e allo specialista non meno che al cultore della disciplina, nel quale Francesco Muzzioli - docente di Critica letteraria e Teoria della letteratura, da sempre attento alle scritture antagoniste sia come critico sia in veste di operatore culturale e di scrittore in proprio - ripercorre i momenti fondamentali dell’estetica e della riflessione critica, senza mai rinunziare, questa la forza del libro, all’esplicitazione del proprio punto di vista, dal monito che anima la Premessa («che cos’è una società che non può permettersi la critica? È ancora una società degna di questo nome? Perché là dove la critica manca c’è oscurantismo, negazione di parola, comportamento coatto; recuperarla in tutti i suoi aspetti, metodi e strumenti è perciò augurabile […] proprio in quanto la sua presenza attiva è un sintomo di corretta convivenza e di vita democratica: un segno di civiltà») all’appello finale: «‘Imparare a leggere’ vuol dire investire attenzione e concentrazione per ‘leggere tra le righe’ la posizione dell’oggetto-testo che ci sta di fronte: forse, a partire dalla considerazione del modo con cui il testo ha risposto ai colpi del suo tempo, potremo sentirci chiamati in causa e trovare in esso qualcosa che riguarda molto da vicino anche noi e gli stringenti appelli della nostra tanto problematica attualità».
Il volume è suddiviso in tre parti. La prima, Alle radici della critica, contiene un rapido excursus storico teso a gettare un ponte dialettico tra presente e passato, a partire dalla Grecia classica, con l’alternativa - in varî modi vitale sino ad oggi - fra tramandare (cómpito del critico è agevolare la trasmissione delle opere «confidando in una sorta di ‘selezione naturale’ per cui sono le opere migliori, per la propria forza costitutiva, a sopravvivere nel tempo») e valutare (è il critico a consacrare l’opera, dopo aver spiegato i motivi per i quali merita d’esser consegnata alla tradizione).
Alla prima linea appartiene la dottrina platonica della manìa e del furor poetico, madre della nozione di sublime (< sub limen ‘oltre il limite della ragione’) che ritroveremo nell’estetica settecentesca (Edmund Burke: il poeta non deve trasmettere l’«idea» ma l’«affezione», contagiando il lettore) e nel sentimentalismo romantico, col suo culto del genio, il rifiuto d’ogni mediazione tra autore e pubblico e il disprezzo per i bizantinismi della critica (Théophile Gautier: l’esegeta è uno scrittore fallito e invidioso, «un eunuco obbligato ad assistere ai sollazzi» del padrone). Critica, insomma, come letteratura di secondo grado: utilitaria, ancillare, perdutamente infeudata al talento altrui.
L’altra linea - catarsi vs manìa - nasce dal pensiero aristotelico (il lavoro esplicativo non sia disgiunto dal giudizio di valore), ripreso dai trattatisti italiani del Cinquecento (Lodovico Castelvetro: «[il poeta ha l’obbligo di pensare, di «sottigliare», di sapere] la cagione perché faccia quel che fa»). È sul finire del XIX secolo che la critica si riscatta dalla concezione comune che la vuole subalterna all’opera: Oscar Wilde, con espliciti richiami a Platone, la definisce una «creazione nella creazione» che moltiplica la bellezza intensificandone il mistero, anziché spiegarlo. All’ipotesi del critico-artista Benedetto Croce oppone la definizione del critico quale philosophus additus artifici, che ricrea l’opera in sé senza però abdicare al giudizio, in quanto riprodurre l’opera non implica totale consenso, bensì misurazione dei momenti più e meno alti della sua intuizione-espressione.
Nella seconda parte si traccia un quadro sinottico ragionato delle Grandi tendenze metodologiche del Novecento: la critica formal-strutturalista, marxista e psicoanalitica. «L’esigenza di fondare rigorosamente il metodo - scrive Muzzioli - conduce a un’espansione inusitata del discorso sulla critica; ogni passo, ogni procedura ora devono essere esplicitati e discussi, mentre prima restavano impliciti o non venivano considerati come problemi». In merito alla quarta tendenza antimetodologica novecentesca, ossia la fenomenologia della lettura o ermeneutica, per la quale il critico deve rinunziare a ogni pretesa di oggettività, così si esprime l’autore (si noti la cordialità del tono e la trasparenza del dettato, ben rara nella prosa critica contemporanea): «l’idea di abbandonare del tutto la prospettiva metodologica non sembra né utile né accettabile. Certo, noi possiamo limitarci ad accogliere quello che il critico ci dice e, inchinandoci alla sua ‘autorità’, lasciarci guidare dal suo giudizio. Senonché i critici, quasi sempre, non vanno d’accordo; dissentono fra loro e si contraddicono in più punti. A meno di non volerci affidare - con una sorta di ‘atto di fede’ - a quello che ci appare il più autorevole, se vogliamo ragionare prima di decidere da che parte stare è necessario ricostruire i passaggi delle operazioni critiche e capire come mai esse arrivino a conclusioni diverse e contrarie. […] le questioni relative al metodo restano, alla fine, l’unica cosa di cui possiamo discutere con profitto. Perché anche là dove l’interprete si muova in modo incoerente, volubile o capriccioso (cioè, apparentemente, senza metodo) è sempre possibile cercare di qualificare la natura dei passi che egli ha di volta in volta compiuto».
Temi della terza parte, dal titolo Imparare a leggere nel mondo “globale”, sono tra gli altri i gender studies, i cultural studies e la critica ispirata alle scienze cognitive e alle neuroscienze.