Mario Grasso, Salvatore Cangelosi

C’era una volta un certo Stefano D’Arrigo di Alì Marina

con un saggio di Stefano Lanuzza

Palermo, Torri del Vento Edizioni, 2020

A pochi mesi dal (parcamente celebrato) centenario della nascita di Stefano D’Arrigo (Alì Marina, 15 ottobre 1919 – Roma, 2 maggio 1992), critico e mercante d’arte (fu sodale di pittori come Guttuso, Vespignani, Mazzullo, Omiccioli), poeta (nel 1957 pubblica da Scheiwiller la sua unica silloge, Codice siciliano, e gli viene assegnato il Premio Crotone da una giuria composta, tra gli altri, da Giacomo Debenedetti, Giuseppe Ungaretti e Carlo Emilio Gadda) nonché autore di due romanzi, Horcynus Orca (1975) e Cima delle nobildonne (1985), il primo dei quali è unanimemente reputato un classico del Novecento e non solo (George Steiner: «Libro che in Italia rimane praticamente ignorato e all’estero sconosciuto. Alcuni episodi rimarranno tra i grandi momenti di tutta la letteratura. È senza dubbio la risposta europea a Moby Dick»), la Casa palermitana dà fuori una lunga intervista di Salvatore Cangelosi, scrittore e direttore della libreria Feltrinelli del capoluogo siciliano, all’acese Mario Grasso, classe 1932, narratore, critico, giornalista letterario, fondatore e direttore del mensile «Lunarionuovo», grande amico di D’Arrigo. Del quale narra aneddoti e svela dati biografici in gran parte inediti, più che preziosi per la conoscenza dell’uomo e dell’artista:

Non occorre un verdetto da Sibilla per convenire su certa “superbia” tipica del soggetto D’Arrigo. Orgoglio alimentato dalla moglie e dal rigore con cui lei seguiva tutto del marito, dalle amicizie alla corrispondenza. […] Forse dire superbia è eccessivo, ma vi somiglia lo spirito che caratterizzava certe tirate contro colleghi scrittori che D’Arrigo non si peritava di definire «nettaorecchi» […]. Non è proprio il caso che io ripeta i nomi (e che nomi!) cui la ferocia orale di D’Arrigo non esistava ad attribuire la qualifica di nettaorecchi. Ebbene, tra indole e mondo interiore, D’Arrigo non poteva che pensare all’ingrande per sé e per le sue opere. E a proposito della poesia, basterà far caso alla fine della sua frequentazione con il pittore siciliano Guttuso: fine di una solida intesa umana che venne segnata dall’incauta e sprezzante risposta di Mimise moglie del pittore prima amico fraterno e sodale, che si era rifiutata di passare la cornetta al marito. […] D’Arrigo era piuttosto un debole che cedeva agli istinti, era sospettoso e irascibile […], ma non sprezzante. Quasi sicuramente l’indole sospettosa gli si era incarnata a causa della impresa della madre, per la gestione che questa aveva di una casa di tolleranza a Messina. […] D’Arrigo sospettava che avversari come Moravia o Enzo Siciliano, o chiunque altro, potessero da un momento all’altro alludere al suo essere figlio della signora appaltatrice di una casa dove si esercitava per conto dello Stato il mestiere più antico del mondo.

D’Arrigo è stato grandioso anche per certa capacità di innalzare barriere definitive, tra sé e suoi cari amici, come Canonico, Mazzullo e come Guttuso per accontentare le “imposizioni” della moglie. Infatti il D’Arrigo antecedente al matrimonio non aveva mai manifestato indole scontrosa. Questa si può dire che si sia manifestata da quando Jutta ha cominciato a influenzarlo, fino a imporgli di interrompere frequentazioni pregresse. […] Ma […] è anche la fase in cui una persistente emicrania e l’insorgere del “piccolo male” stravolgevano l’umore dell’uomo costretto a trascorrere intere giornate tra letto e poltrona […]. Ed allora rifiuto di sottoscrivere […] che D’Arrigo sia stato superbo. E dico sì, indossava la maschera del superbo e sprezzante, perché indotto dalla “marchesa Jutta”.

Non pochi gli spunti critici originali. Il bisogno di allontanare il «pericolo» Verga, edificando un universo espressivo inaudito:

D’Arrigo era ben consapevole dell’ombra del gigante Verga, che poteva ben incombere in un romanzo che avrebbe avuto per protagonisti pescatori e vicende di mare di una medesima realtà isolana e “malavogliana”. D’Arrigo ne era cosciente al punto da temerla, perché quella di Verga era opera tanto definitiva quanto definitoria di certa realtà e isolana e marinaresca. […] E allora, Verga visto come modello linguistico […]. Un modello di cui non farsi epigono e da cui fuggire, a cui opporre un altro modello, quello ottenuto con anni di severa applicazione, il modello che continueremo appropriatamente a definire darrighiano.

L’assoluta estraneità di Horcynus Orca dalla temperie neorealista:

Semmai un surrealismo da fiaba, per rimettere tutto sul binario di una originalità che nel complesso del romanzo ha, a sua volta, lo stesso effetto del chimismo linguistico, protagonista anch’esso primario. […] un surrealismo realistico (mi si perdoni l’ossimoro) nella descrizione dell’effetto del maremoto, o ancora nella mirabile personificazione dello nfu nfu del ferryboat in intesa erotica con le femminote, o nella figura della disinibita traghettatrice Ciccina Circè, personaggio che da solo vale un altro intero romanzo.

La recisa negazione del presunto influsso del comico pirandelliano sul capolavoro orcinuso:

La comicità che impasta D’Arrigo non mi pare somigli a quella di Pirandello. Il cocchiere pirandelliano che divenuto “cocchiere” della impresa di pompe funebri e rimasto incline, per deformazione acquisita lungo gli anni del mestiere precedente, a invitare a salire sulla carrozza le persone in attesa di qualche mezzo pubblico, è un esempio banale ma significativo. Esso luccica di una comicità diversa dal sarcasmo che cela il “teatro comico” di D’Arrigo, che è un teatro destinato a mostrare una ingenuità primordiale, lungo tutte le scene che cominciano con la descrizione dei momenti erotici delle femminote sul traghetto. Una levità esemplare con cui tutto un teatro prende a rappresentare se stesso come per sortilegio divertente. Teatro comico, sarcastico, fino ai suoi momenti destinati a mostrare una effigie di Mussolini divenuta càntero per una giovane dolce di sale per sua natura.

Di grande interesse il saggio introduttivo di Stefano Lanuzza, uno dei più competenti e appassionati cultori dello scrittore siciliano (fondamentale il suo Scill’e Cariddi. Luoghi di «Horcynus Orca», Acireale, Lunarionuovo, 1985, contenente un glossario orcinuso, con alcuni scolî autointerpretativi darrighiani, ormai passato in leggenda).