Luca Serianni

Il verso giusto. 100 poesie italiane

Roma-Bari, Laterza, 2020

«Cento poesie di sessantatré autori distribuite in otto secoli». È questa la prima riga dell’introduzione all’antologia Il verso giusto, e queste poche parole potrebbero essere, se volessimo assecondare la rapidità della comunicazione contemporanea (magari affidandoci all’immediatezza di un tweet), anche il riassunto del lavoro compiuto dal suo autore Luca Serianni.

Un’antologia letteraria è però un organismo molto più complesso di quanto lasci immaginare una descrizione così sintetica. Affidiamoci allora in prima battuta al commento di qualche dato quantitativo. I cinque autori più rappresentati assommano più di un quarto dei testi dell’antologia e corrispondono ai nomi che il lettore si aspetta: si tratta di Petrarca (con 8 componimenti), Dante (6), Tasso, Pascoli e Montale (4 ciascuno). Accanto a queste presenze familiari (e a Foscolo, Leopardi, D’Annunzio e altri arcinoti) sta però un intrigante gruppo di poeti meno conosciuti e generalmente esclusi dal canone scolastico, anche da quelle antologie di alta qualità che per Serianni meriterebbero di salvarsi dalla rapida obsolescenza tipica dell’editoria scolastica. Limitandoci a una panoramica dei primi secoli, si incontra dapprima il misterioso giullare, metà gatto e metà lupo, protagonista dell’anonimo ed enigmatico Detto del gatto lupesco. Oppure si finisce nel carcere della Napoli del Quattrocento, dove Giovanni Antonio de Petruciis scrive sonetti in attesa della decapitazione, lamentando l’ingratitudine e invocando la clemenza del re. Ancora: nel XVI secolo Camillo Scroffa canta i «villi» (saranno i ‘peli’ o i ‘capelli’?) di un amato discepolo, mentre, nella lontana periferia di Matera, Isabella Morra annuncia con versi delicatissimi un possibile suicidio nelle acque del fiume Sinni.

Il periodo più rappresentato è il Novecento (26 testi), poi l’Ottocento (20) e il Trecento (14, dei soli Dante e Petrarca). Nella distribuzione spicca soprattutto la prospettiva originale e molto personale adottata dal curatore per la decina di esordienti nella seconda metà del XX secolo. Le protagoniste di questa parte infatti sono un nutrito gruppo di poetesse (Elsa Morante, Patrizia Cavalli, Biancamaria Frabotta e Francesca Romana de’ Angelis) che comprovano la fioritura della lirica femminile degli ultimi decenni, dopo le prime apparizioni cinquecentesche e arcadiche. Nel gruppo c’è anche l’unica ma significativa manifestazione della poesia italiana d’oltreconfine, con il ticinese Giovanni Orelli, che in Ottativo 2 fa stridere il suo linguaggio quotidiano con una fonte preziosa, ovvero un carme latino pascoliano. Sono invece esclusi – questione di propensioni di lettore, spiega Serianni – gli sperimentali e gli avanguardisti, e c’è la rinuncia, dolorosa, ad autori amati come Bertolucci, Giudici e Sereni, anche se quest’ultimo fa comunque una fugace comparsa nell’antologia grazie ai versi della già citata de’ Angelis («E penso alle parole / che abbiamo condiviso / […] le scale di Montale / la guerra di Sereni / il mare di Gatto e di Caproni. / Si potesse spiegare la vita / come si spiegano i poeti»).

Da ultimo, nessuna sorpresa sulle forme metriche. A dominare è il sonetto (sono 28 in totale), l’ultimo dei quali è Funere mersit acerbo di Carducci, nelle Rime nuove del 1887: da qui prendono piede le diversificate esperienze metriche novecentesche. Ben attestate anche canzoni, canzonette e ballate (10 in tutto) e non mancano nemmeno ampi stralci dai poemi in ottave (5).

Ciascun autore è presentato con una breve contestualizzazione e ogni testo è accompagnato da un’introduzione e da un apparato di note. In fondo al libro, un glossario chiarisce i pochi termini tecnici irrinunciabili. In molte occasioni, Serianni aggiunge alcune precise osservazioni linguistiche, indirizzate alla comprensione o a favorire il pieno godimento dei versi. Grazie a questo apparato puntuale, anche il lettore inesperto potrà saltare da un testo all’altro senza paura di perdersi, un po’ come il passero posto sulla copertina, raffigurato mentre becca tre semi a forma di asterisco (e, non per caso, nel volume i componimenti sono segnalati proprio con i tre asterischi). Non si perderà, ma incapperà comunque in qualche sorpresa: nella scelta dei testi, infatti, Serianni implicitamente ci mette in guardia dal rinchiudere i poeti nei loro temi più noti o nelle pose in cui sono stati monumentalizzati. Ed ecco allora che il tragico per eccellenza, Alfieri, è incluso con un vivace sonetto dialogico che lo vede discutere con la sua cameriera e maestra di fiorentino (dirà il personaggio Alfieri in conclusione: «Ah! son pur io la bestia: imbianco il pelo, / questa lingua scrivendo e non sapendo»). Oppure, in pieno Novecento, il maestro del nonsense e dei giochi linguistici Toti Scialoja è portato in scena con due quartine dal tono drammatico («le erratiche lacrime / raccolte adagio – sollevando il cucchiaio»).

Un altro modo per leggere il libro è seguirlo nel suo svolgimento, poesia dopo poesia, da Meravigliosamente di Giacomo da Lentini fino a Cairn di Enrico Testa. Si può così attraversare una storia in cui sono ben rappresentati, anche grazie a figure meno note, i momenti di continuità e la grande varietà tematica e geografica della poesia italiana. Prendiamo ad esempio il barocco, che Serianni ha definito nel libro intervista Il sentimento della lingua «minore per definizione: non ricordiamo neanche più il nome dei poeti, a parte quello di Marino, tant’è che si parla genericamente di “marinisti”». Dopo l’apripista Marino, incontriamo l’avventuroso diplomatico Bartolomeo Dotti con degli imprevedibili paragoni fra la sua condizione di innamorato e il lavoro del chimico-alchimista («Da mantice fabril tu spremi i fiati, / io le viscere mie sfiato in sospiri»). Segue il marchigiano Giovan Leone Sempronio, con un sonetto sulla «bella zoppa», parente della bella balbuziente e della bella pidocchiosa che, avvisa il curatore, compaiono in altri autori coevi e sono prove dell’allargamento della materia poetabile nel Seicento. A conferma di questa tendenza, l’originalissimo Ciro di Pers, friulano, è presentato tramite un componimento tutto dedicato ai calcoli renali, giocato sulla pietra e sui suoi sinonimi e derivati («Da impietrito rigor nulla s’impetra, / fatti i calcoli omai son della vita, / già mi convien saldar la mia partita / e la dura sentenza è scritta in pietra»). Conclude la serie, alla vigilia della nascita dell’Arcadia, il napoletano Giacomo Lubrano, con un sonetto incentrato su un oggetto, il microscopio, la «cristallina lente» capace come per magia di trasformare i minuscoli granelli di sabbia nell’oro del Perù.

Ci sarebbe molto altro da dire. La simpatia per i poeti non di professione, alcuni antologizzati, altri più recenti, come l’economista Tutino e il matematico Doplicher, citati nell’introduzione. L’interesse per la fortuna popolare dei versi – e sotto le finestre di Ferdinando I di Borbone, nel 1820, i napoletani in tumulto chiedevano la Costituzione facendo risuonare le parole di Metastasio «non sogno questa volta / non sogno di libertà» –. Ma questo, e tanto altro, lo lasciamo alla curiosità del lettore.

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